Corporativismo
In linea generale, corporazione sta a indicare qualsiasi ‘società parziale’, detta anche ‘corpo intermedio’, che si costituisce attorno a interessi particolari, contrastando così il riferimento e l’integrazione comune allo Stato inteso come unico titolare dell’interesse generale. Le corporazioni hanno caratterizzato molti contesti sociopolitici europei medievali. Nel 1791, nel corso della Rivoluzione francese, la legge Le Chapelier abolì le associazioni professionali e di mestieri decretando con ciò la fine di una lunga fase di storia delle corporazioni il cui declino era già iniziato dal 17° secolo. L’abrogazione del 1791 non impedì però che di corporazioni si continuasse a trattare in sede politica ed economica lungo il 19° sec. e poi soprattutto nel periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Questa permanenza delle corporazioni deriva dal fatto che ordine statale e ordine politico non possono mai «identificarsi completamente e senza residui» ed è per questo che tra le finalità dello Stato e gli interessi di chi governa si sono sempre inserite le corporazioni, che sono espressioni della naturale socievolezza umana, della società civile (Ornaghi 1993).
La società comunale è caratterizzata da un proliferare di associazioni: qualsiasi gruppo emergente si aggrega in ‘corpi’ che aspirano a essere riconosciuti in modo formale e a svolgere un ruolo nel reggimento della città, soppiantando in molti casi il potere della nobiltà. La modalità con cui si organizzano questi gruppi è ‘corporativa’ e con ciò si intende che ogni gruppo si impegna per la tutela degli interessi propri in opposizione a quelli altrui, aspira a imporsi non solo sulla nobiltà ma anche sugli altri ‘corpi’, non disdegnando, per prevalere, anche l’uso della violenza. Le corporazioni controllano innanzitutto i propri membri, che in genere sono tecnici di un mestiere o sono religiosi; dettano le condizioni per la possibilità di entrare a far parte del corpo e per rimanerne membro. Ogni diverso ‘corpo’ ha un proprio statuto che vincola strettamente i suoi membri a regole e tradizioni, come del resto anche chi appartiene a un ordine religioso aderisce a una ‘regola’.
Solo così sono in grado di mantenere la compattezza per esercitare anche potere politico nella città. Particolarmente evidente è il legame tra potere politico e mercato nel caso delle corporazioni di mestieri, chiamate Arti; queste infatti gestiscono il mercato nelle città e controllano i rapporti tra le classi sociali (Le Goff 1977).
Dunque gli interessi più rilevanti per la vita politica della città sono espressi dalle Arti (fuori d’Italia chiamate Gilde), dalle società ‘delle Torri’ che raccolgono i nobili che vanno sempre più armandosi per difendersi dal popolo; dalle ‘compagnie delle armi’ che riuniscono i popolani delle contrade, dalle confraternite e dalle associazioni pie, promosse soprattutto da domenicani e francescani – in funzione antiereticale – e di orientamento guelfo che si rivolgono alla formazione dei ceti ‘medi’. A questi ‘corpi’ si affiancano minori forme di aggregazione per l’organizzazione dei giochi, dei banchetti, dei tornei, delle feste.
Le Arti o Mestieri a cui qui si fa riferimento sono quelli nobili e quelli leciti, ben distinti da quelli vili e da quelli illeciti e disprezzati. Bisogna però considerare che i mestieri disprezzati nell’11° sec. possono con il tempo in molti casi trasformarsi in occupazioni di rango più elevato. Da un lato, i locandieri, i macellai, gli alchimisti, i protettori, i mugnai, i cuochi, i soldati e molte altre categorie sono mestieri messi all’indice all’inizio del nuovo millennio, perché hanno a che fare con tabù legati a mentalità risalenti alle società primitive, quali il sangue e il denaro, oppure perché riferentesi a peccati capitali, quali la lussuria, l’avarizia e la gola. Dall’altro lato, con il 13° sec., opere servili si trasformano in arti dignitose e degne di dare vita a vere e proprie categorie professionali. Ciò avviene perché diventano mestieri stimati, svolti da persone considerate ‘perbene’ che lavorano duramente per il vantaggio proprio e della comunità.
L’esempio più interessante è quello del mercante, dapprima screditato, gradualmente scusato, poi giustificato, e infine, in epoca rinascimentale, pienamente stimato.
Questo profondo mutamento della mentalità deriva dal passaggio lento da una società rurale e militare dominata dall’aristocrazia terriera, militare e dal clero, padrone di vasti possedimenti terrieri, all’affacciarsi di attività legate al commercio di lungo corso e al decollo urbano in seguito a cui nascono nuovi ceti (artigiani, mercanti, tecnici) che con fatica acquistano prestigio e riescono a superare e a vincere i pregiudizi della tradizione.
In una società così configurata, ognuno apparteneva innanzitutto – per discendenza di sangue – a una famiglia che costituiva un compatto centro di solidarietà attorno agli interessi della ‘casata’. Ma ognuno apparteneva almeno anche a una consorteria data dall’ubicazione della propria abitazione in una contrada, e anche facilmente a un’Arte data dal mestiere caratterizzante l’attività della propria famiglia, e magari a una congregazione religiosa e a una congrega con cui organizzava il torneo in una data significativa per la sua Arte o per la sua contrada o congregazione religiosa.
Non bisogna trascurare la conflittualità che produceva tutta questa serie di appartenenze strette e regolate; questa conflittualità originava anche alleanze tra casate maggiori e gruppi più deboli che cercavano alleanza con chi potesse proteggerli in cambio di lealtà in pace e in guerra. Queste alleanze generavano vere e proprie fazioni all’interno della città per la gestione del potere politico. Una ‘fazione’ finiva per prevalere sulle altre, diventando l’élite politica che soppiantava la precedente e a sua volta era destinata spesso a essere soppiantata non necessariamente da un gruppo della stessa città ma anche da élites di altre città, come conseguenza di guerre, sommosse, alleanze e tradimenti.
È importante rilevare che la Chiesa si adeguò ai cambiamenti, accettando, favorendo e anche proteggendo nuovi strati della popolazione e inserendosi nei rapporti tra nobiltà e mercanti.
Dopo l’abolizione delle corporazioni nel 1791, nel secondo Ottocento espressioni storicamente rilevanti si formano all’interno dei filoni socialisti e del movimento sociale cattolico. Per quanto riguarda le Gilde socialiste, lo storico che se ne è occupato più estesamente, Georges D.H. Cole, riconosce la difficoltà di darne una definizione univoca e quindi i limiti del proprio pur molto esteso lavoro: tutte le Gilde socialiste – agricole e industriali – si organizzano attorno alla domanda di libertà e «for the control of industry» (Guild socialism re-stated, 1920, p. 9).
Nuovamente con il nome specifico di corporativismo, all’interno dei filoni di matrice cattolica, il solidarismo sperimenta concreti strumenti di elaborazione e di attuazione.
Corporativismo e solidarismo sono stati elementi strettamente coesi nella storia del pensiero sociale della Chiesa fin da quando, nel 1878, Leone XIII nell’enciclica Quod apostolici muneris aveva sottolineato la necessità di favorire le «società artigiane e operaie». Ma fu soprattutto nella Rerum novarum, esattamente un secolo dopo la legge Le Chapelier, che lo stesso Leone XIII, richiamandosi ai vantaggi che nel passato le corporazioni delle arti e dei mestieri avevano apportato alle condizioni di vita dei lavoratori, aveva difeso la presenza di queste associazioni private all’interno del sistema contemporaneo che tante questioni sociali andava creando a danno dei lavoratori: ciò equivaleva ad affermare che lo Stato non poteva proibirne la formazione (Rerum novarum, 36-38).
Nel 1931, Pio XI riprese questo stesso tema nella Quadragesimo anno confermando la liceità della formazione di associazioni di mestiere. L’enciclica segnala anche il pericolo che «lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all’avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale». Le associazioni di mestiere quindi sono considerate un indispensabile contributo alla cooperazione per il bene comune, cioè per la «salvezza e prosperità pubblica della nazione» (Quadragesimo anno, 86 e 95).
Una forma che può essere definita di neocorporativismo riemerge nuovamente negli anni Settanta del 20° sec. nel pensiero sociale della Chiesa: alcuni scienziati sociali rilevano infatti che se la sfera dei compiti dello Sato va ampliandosi e, oltre a ciò, le associazioni di categoria sempre di più intervengono nell’attività di regolazione politica dell’economia, ciò tende a indebolire la democraticità dei sistemi politici (Ornaghi 1993). Nella Laborem exercens (1981) papa Giovanni Paolo II esprime i rischi insiti nel diritto ad associarsi che può trasformarsi in espressione degli egoismi di gruppo o di classe, in abusivismi che assolutamente contrastano con le esigenze del bene comune (Laborem exercens, 20).
Attorno alle encicliche e agli appelli della Chiesa che richiamano al solidarismo inizia un vero e proprio dibattito sui ‘corpi intermedi’ che fanno salire dalla società interessi di cui il potere politico non può fare a meno di tener conto, a meno che non ci si rassegni allo sfaldamento della nazione in interessi autonomi che non trovano forme di cooperazione tra loro.
Tra queste due fasi di corporativismo di matrice cattolica si inserisce un’importante interpretazione del corporativismo stesso nel periodo tra le due guerre mondiali. I cattolici hanno in questo periodo un ruolo non di secondo piano, com’è evidente dai contenuti del prossimo paragrafo, soprattutto perché qui si entra nel vivo del dibattito nel campo della scienza economica.
Finora, in questa sede, il discorso sulle corporazioni è stato circoscritto soprattutto al campo della storia sociale dei sistemi europei e delle riflessioni socioeconomiche legate alle attività civili e di carattere etico. Se si vuole trattare specificatamente di corporativismo e letteratura economica bisogna focalizzare l’attenzione sui primi decenni del 20° sec. e, in particolare, sugli anni tra le due guerre mondiali: da allora il corporativismo fa parte a pieno titolo della storiografia economica.
Ciò avvenne per le condizioni in cui la teoria economica si trovava e per le condizioni in cui i sistemi occidentali vennero a sperimentare nuove strutture di produzione e soprattutto una crisi profonda, ampia e lunga come mai era stata vissuta prima.
Per quanto riguarda il primo punto, quello inerente la storia dell’analisi economica, s’intensificò il dibattito sul mercato concorrenziale, dibattito che, iniziato da alcuni decenni, lentamente ma inesorabilmente aveva portato ad abbandonare o almeno a ridimensionare la concezione di libero mercato come allocatore ottimo e spontaneo delle risorse date. Si trattava di una visione ottimistica: si assumeva questa concezione di mercato come ipotesi di base del lavoro teorico degli economisti perché si era convinti che i risultati ottimi sotto il profilo economico si raggiungessero solo in un sistema in cui nessun soggetto individuale, nemmeno lo Stato, intervenisse a turbare il libero gioco della competizione (M. Alacevich, D. Parisi, Economia politica. Un’introduzione storica, 2009, capp. VI e VII).
In realtà la storia del pensiero economico è più complessa e gli storici del pensiero economico sono molto meno semplificatori: numerosi economisti, fin dai tempi di Thomas Robert Malthus e poi ancora di più di John Stuart Mill, avevano avanzato dubbi su questa automaticità/spontaneità/positività del liberismo. La realtà economica ha mostrato che questa ipotesi è irrealistica, che le dimensioni delle imprese sono varie e perciò vario il loro potere di mercato, che il mercato è luogo di frizioni e attriti, che nel sistema gli egoismi e gli edonismi individuali si scontrano e che alle istituzioni non private si richiede di intervenire per sanare ciò che i privati non hanno interesse a perseguire, cioè il bene comune, di tutti e di ognuno.
Del resto già Adam Smith aveva messo in luce nella sua Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776) – opera che, non a caso, viene spesso etichettata come la ‘Bibbia del capitalismo’ – che le società erano il crogiolo di tutto ciò che rendeva complicato il loro spontaneo funzionamento. Ma il sistema economico non può essere interpretato – come nel 18° e 19° sec. si ipotizzava – come il meccanismo della volta celeste o di un orologio meccanico o come la fisica dei fluidi; e analogamente semplificazioni estreme non potevano essere applicate ai caratteri del comportamento degli agenti economici. Per comprendere un sistema economico occorre tenere conto della complessità sia del contesto sia dei moventi del comportamento degli agenti in società.
In Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento vi furono economisti – di cui la storiografia internazionale non ha tenuto conto nel modo dovuto – che avevano espresso molti dubbi sulla fondatezza del liberismo teorico, anche perché il sistema economico concreto non ne rispecchiava le ipotesi.
Negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale l’Italia fu investita da una forte campagna antistatalista e antisocialista: gli economisti più in vista in questa campagna teorica e di politica economica furono Luigi Einaudi, Giuseppe Prato (1873-1928) e Umberto Ricci (1879-1946). Il primo si espresse con durezza contro i funzionari statali, si schierò per l’abolizione delle «bardature di guerra» e contro le politiche sociali dei governi liberali del periodo prebellico e postbellico, fino a scrivere sul «Corriere della Sera» che il programma del fascismo era «nettamente quello liberale della tradizione classica» (Faucci 1981, pp. 135-37). Prato si schierò contro i progetti di concessione di terre ai contadini. Ricci si espresse contro la creazione dell’Istituto nazionale cambi e contro tutto ciò che dalla sua esistenza sarebbe derivato in termini di regolamentazione del commercio internazionale. Anche Benito Mussolini nel 1921 si dichiarò contro lo statalismo: lo Stato – a suo avviso – aveva cento braccia, delle quali almeno novantacinque andavano amputate; la guerra aveva lasciato in eredità un modello di Stato collettivista e si rendeva necessario tornare al modello di Stato manchesteriano.
Pochi mesi dopo Einaudi gli augurò di saper resistere alle pressioni dei ceti e dei settori economici tradizionalmente privilegiati (Faucci 1981, p. 136) e, in effetti, i provvedimenti adottati nel primo biennio dal nuovo governo sembravano rispecchiare una linea politica liberista. Ben presto però il sistema, con Alberto De Stefani – ministro delle Finanze nel 1922 e poi anche del Tesoro nel 1923 –, scivolò verso metodi e tendenze progressivamente sempre più autoritarie, tanto è vero che si può senza dubbio affermare che nel 1925 gli economisti di impronta liberale si staccarono definitivamente tanto dalle linee quanto dai metodi della politica fascista. La frattura di cui già un anno prima Einaudi aveva previsto l’ineluttabilità stava concretandosi: lo Stato sindacale fascista infatti stava cristallizzando il potere nelle mani di chi si stava impossessando degli organismi corporativi (Faucci 1981, pp. 139-40). Lo stesso Ricci, economista di indubbio rilievo, nel 1925 prese le distanze dal sindacalismo fascista. Il netto mutamento delle loro posizioni stava a indicare che entrambi coglievano il significato dell’istituzionalizzazione dei conflitti sociali, i quali stavano perdendo la modalità del confronto diretto fra le parti.
Si tralascia qui di considerare l’opposizione da parte di gruppi o di singoli dell’alta cultura italiana – per es., Benedetto Croce e Antonio Gramsci – che poco spazio ebbero entro i confini nazionali o dai luoghi di confino; non si nega affatto l’importanza della netta opposizione al corporativismo ma porterebbe il nostro discorso troppo lontano (per approfondire si rimanda a Faucci 2000).
Le posizioni e il dibattito sul corporativismo non riguardavano il rapporto tra Stato e gruppi socioeconomici emergenti legati a nuovi mestieri e professioni come era accaduto nel Medioevo; semmai fu espressione del radicale cambiamento del capitalismo e – sotto il profilo del pensiero economico – della ricerca da parte degli economisti di strumenti teorici adatti ad analizzare la nuova struttura economica. Insomma, «ogni atteggiamento sbrigativamente liquidatorio nei confronti del pensiero economico italiano fra le due guerre va assolutamente respinto» (Faucci 1990, p. 186) proprio perché le contrastanti posizioni avevano a che fare non necessariamente con presupposti ideologici legati all’adesione o meno al regime ma erano legate a interrogativi teorici impegnativi sotto il profilo del dibattito internazionale.
Il corporativismo attorno a cui si concentrò – in un modo o in un altro – la riflessione degli economisti italiani del ventennio fascista non assunse sempre il significato di adesione o affiancamento al fascismo ma, piuttosto, quello di una radicale opposizione al pensiero economico tradizionale; in questo senso gli economisti italiani furono in linea con l’evoluzione dei tempi e con la riflessione economica dei loro colleghi stranieri (Finoia 1983). Come tanti furono i filoni corrosivi del marginalismo, così anche la cosiddetta economia corporativa non fu una corrente di pensiero omogenea (Duchini 1994, § 3).
Tanto è vero che Francesco D. Perillo ed Eugenio Zagari, che hanno pubblicato una raccolta di scritti di economisti italiani di quegli anni, hanno dovuto limitare la propria scelta a soli venti personaggi (Luigi Amoroso, Celestino Arena, Gino Arias, Rodolfo Benini, Alberto Breglia, Filippo Carli, Vincenzo Consiglio, Alberto De Stefani, Luigi Einaudi, Carlo Emilio Ferri, Massimo Fovel, Amedeo Gambino, Ulisse Gobbi, Pasquale Jannaccone, Agostino Lanzillo, Guglielmo Masci, Gaetano Napolitano, Giuseppe Ugo Papi, Arrigo Serpieri, Ugo Spirito) e completare la propria antologia con un’ampia bibliografia (curata da Ombretta Mancini). Hanno dovuto adottare questa soluzione che desse conto della dissonanza del pensiero economico del ventennio ma, nonostante la ricchezza e la varietà della loro antologia, non pochi sono i nomi rimasti esclusi dai due volumi che la compongono.
Il dibattito economico sul corporativismo prese le mosse in Italia dopo il ‘patto di Palazzo Vidoni’ del 2 ottobre 1925 che prevedeva appunto la creazione di un sistema politico-giuridico nazionale fondato sulle corporazioni, sebbene la legge non indicasse con precisione in cosa dovessero consistere e quale scopo dovessero perseguire. Le corporazioni erano in realtà come ‘scatole vuote’ che ogni politico o economista poteva riempire di significati e azioni diverse a secondo dello scopo che a esse assegnava (Duchini 1994, p. 216).
Cosicché le posizioni degli economisti circa il corporativismo possono essere classificate proprio in base allo scopo, agli obiettivi, che essi attribuivano alle corporazioni: «Al limite della semplificazione si può dire che tutti gli economisti italiani del ventennio sono ‘corporativisti’, ma ciascuno ha una propria idea di ‘corporazione’» (Duchini 1994, p. 188). Su questo aspetto le divergenze tra gli economisti sono rilevanti e, proprio su queste divergenze in relazione agli scopi, è stata tentata una classificazione in tre diversi filoni che a mio parere può essere accettata e che qui di seguito viene esposta.
Un primo filone comprende quegli economisti vicini al regime che vedevano nelle corporazioni gli strumenti a servizio della potenza dello Stato. Giuseppe Bottai (1895-1959), per es., nel fascicolo che inaugura la pubblicazione dell’«Archivio di studi corporativi» (Bottai 1930, p. 15), tratta di disciplina unitaria dello Stato, e con ciò nega qualunque autonomia alla sfera economica, facendone una branca della politica. In questo primo gruppo si collocano alcuni economisti come Gino Arias (1879-1940) il teorizzatore dell’homo corporativus, l’uomo che ha una «coscienza corporativa» (spontaneamente assunta dagli individui o imposta dallo Stato, fino a diventare un habitus mentale) e orienta le scelte in funzione di un non ben definito «interesse unitario della Nazione» (Dinamica economica ed economia corporativa, 1930, in Mancini, Perillo, Zagari 1982, p. 71). Filippo Carli (1876-1938), Nino (Natale) Massimo Fovel (1880-1941), Carlo Emilio Ferri (1859-1961) e il filosofo Ugo Spirito (1896-1979) sono tutti autori che ricercano i fondamenti epistemologici di una ‘nuova’ scienza economica. Pensavano con questa impostazione di costruire e diffondere una ‘cultura corporativa’ fondata sulla convinzione della possibilità della realizzazione dello Stato coincidente con la società fascista.
Questi economisti non avevano l’ambizione di costruire una nuova scienza; essi si limitavano a pensare a come guidare il sistema capitalistico verso quella efficienza che non era più in grado di realizzare spontaneamente.
Sia Arias sia Carli ammettono che con il passare dal libero mercato al corporativismo si modificano atteggiamenti mentali e criteri di condotta degli operatori; è una posizione che sembra stranamente riproporre un’applicazione del materialismo dialettico, secondo cui le coscienze si modificano al mutare delle strutture.
Anche lo schema teorico di Fovel (L’individuo e lo Stato nell’economia corporativa, 1930) come quello di Carli parte dalla definizione di homo corporativus, soggetto capace di scelte razionali attraverso cui si massimizza l’interesse della nazione concepita (con un implicito rimando alla posizione di Friedrich List, 1789-1846) come insieme unitario delle generazioni presenti e delle generazioni future. In realtà, pur partendo i due autori dalla stessa definizione di operatore economico, il tentativo di Fovel è quello di spiegare come l’azione economica porti alla massima soddisfazione dei singoli e insieme a quella della società, che non si configura come la somma degli individui. Il suo in realtà è un tentativo confuso, incapace di diventare il fondamento di quella «scienza economica rinnovata su premesse nuove e diverse da quelle edonistiche» che Bottai aveva chiesto agli economisti (Bruguier 1937, p. 78).
In sostanza, ciò che Fovel sembra voler dimostrare è che in un «monopolio tutorio perfetto» (L’individuo e lo Stato nell’economia corporativa, 1930, in Mancini, Perillo, Zagari 1982, p. 142), in un sistema cioè in cui un gruppo – lo Stato – fa le scelte per conto degli individui, vi è coincidenza formale fra il risultato di tali scelte e quelle che gli individui avrebbero fatto in un’ipotetica ma irrealizzabile situazione di concorrenza perfetta. Egli finisce così per costruire un modello nel quale la libertà individuale, grazie alla quale l’individuo potrebbe impegnarsi per ottenere il proprio interesse, è completamente annullata: né libertà né interesse individuale hanno spazio in un sistema in cui il decisore, il protagonista delle attività e l’unico destinatario di queste è lo Stato.
Per Carlo Emilio Ferri la «collettività nazionale» è, analogamente alla posizione di Fovel, quella «collettività organizzata, con una sua personalità, una sua volontà, una sua coscienza che ha per l’appunto la sua espressione nello Stato» (Giudizio edonistico e giudizio corporativo, in Mancini, Perillo, Zagari 1982, p. 129). Egli però si rende conto realisticamente della «quotidianità» dei contrasti fra individuo e collettività e indica nelle corporazioni lo strumento per superarli. Opta per l’ipotesi dell’esistenza del «giudizio corporativo» (p. 130), anche se in realtà nei suoi scritti prevale sempre il primato dell’interesse della nazione.
L’espressione più articolata di questo primo filone è quella del filosofo economista Ugo Spirito, docente di economia politica corporativa a Pisa e di filosofia a Roma. Francesca Duchini lo definisce come «l’economista che meglio esprime l’ideologia della fase rivoluzionaria del fascismo, la forza critica e insieme l’incapacità costruttiva della nuova scienza» (Duchini 1994, pp. 220-22).
Per Spirito il soggetto dell’agire economico è un individuo sociale che riconosce il fine della propria vita nella prosperità dello Stato: in questo modo egli non considera individuo e Stato due realtà opposte ma esattamente identiche (I fondamenti dell’economia corporativa, 1930, in Mancini, Perillo, Zagari 1982, pp. 107-08). Di conseguenza, interesse pubblico e privato sono coincidenti e questa immedesimazione si realizza attraverso l’istituzione corporativa, in primo luogo la «corporazione proprietaria» (Duchini 1994, p. 243). Questa sua posizione fu accusata di bolscevismo e tacciata di utopismo e ben presto scomparve dal dibattito (Perri, Pesciarelli 1990, p. 454).
Gli autori che abbiamo riunito in un unico gruppo tentarono di imboccare la strada di una nuova definizione di scienza economica, svincolandola dunque dalle premesse individualistiche ed edonistiche del marginalismo. Fecero ciò, convinti di poter costruire e diffondere una cultura corporativa radicata sulla convinzione della positività dello statalismo fascista.
Il secondo filone di pensatori corporativisti è formato da studiosi che non ambirono a costruire una nuova scienza, ma si impegnarono nell’escogitare strumenti che potessero guidare il sistema capitalistico verso quell’efficienza che spontaneamente non era in grado di realizzare. Si tratta di molti autori, certamente più di quelli dei quali qui si riportano i tratti teorici fondamentali.
Luigi Amoroso (1886-1965) e Alberto De Stefani (1879-1969) sono gli esponenti più emblematici di questo filone. Nel loro saggio La logica del sistema corporativo (1934) si proposero di dimostrare che «l’economia corporativa supera, non rinnega l’economia classica» (in Mancini, Perillo, Zagari 1982, p. 247). Perseguirono questo obiettivo mettendo in luce che il sistema economico è determinato da tre ordini di forze: le «forze vive» che rappresentano l’azione presente e quindi sono analizzabili utilizzando il modello statico dell’equilibrio economico generale; le «forze d’inerzia» che rappresentano i legami con il passato, e quindi sono rappresentabili attraverso le categorie della scuola storica tedesca e dell’istituzionalismo americano; infine, le «forze direttrici» che rappresentano l’incidenza sul sistema economico delle aspettative, del rischio, delle probabilità e dell’azione politica. Allo Stato – che si fa giudice dell’interesse generale – viene a questo punto assegnato il compito di coordinare queste tre forze: se, infatti, gli individui nel presente perseguono il loro interesse personale agendo secondo il proprio tornaconto in un ambiente culturale e istituzionale ereditato dal passato, allora solo lo Stato può stabilire un collegamento tra tutto ciò e l’interesse generale, cioè il rapporto fra presente e futuro. È un’operazione che ci pare di poter giudicare almeno ardua e complessa, perché allo Stato si pensa possa venire al massimo attribuita la funzione più limitata della correzione delle distorsioni generate dal mercato concorrenziale che danneggiano le generazioni future. Il sistema corporativo in questo senso sarebbe da intendersi non come un’alternativa al sistema di mercato ma, semmai, come un suo sostegno.
Analoga posizione ebbero Celestino Arena e Guglielmo Masci quando si occuparono di mercato del lavoro e di ruolo delle corporazioni.
Per Arena le corporazioni sono, infatti, soprattutto uno strumento di razionalizzazione del mercato del lavoro. La contrattazione collettiva prevista dalla Carta del lavoro (azione del sindacato, opera conciliativa della corporazione, sentenza della Magistratura del lavoro) ridurrebbe, infatti, la zona di indeterminatezza del salario; questo sarebbe un risultato essenziale per la permanenza del capitalismo e rientrerebbe nell’economia teorica ortodossa con le correzioni che la dinamica impone (Le basi teoriche dell’organizzazione italiana del lavoro, 1930). Anche Masci (Crisi economica ed economia corporativa, 1934) intende dimostrare che l’organizzazione corporativa garantisce che attraverso il contratto collettivo di lavoro si risolvano i casi particolari non previsti dall’economia marginalista.
Molti altri nomi di notevole prestigio si collocano lungo questa stessa linea di pensiero per cui la corporazione è uno strumento che si può far rientrare nella teoria neoclassica, obbligata ad abbandonare l’ipotesi della concorrenza perfetta e a comprendere nei propri modelli i cambiamenti di configurazione della struttura produttiva imposti dagli elementi dinamici.
A questo proposito ci si deve necessariamente soffermare su Marco Fanno e su Rodolfo Benini (1862-1956). Il primo, nella complessiva visione dinamica del sistema, vede le corporazioni come uno strumento di politica anticiclica, capace di realizzare un preventivo tendenziale equilibrio fra risparmi e investimenti e fra produzione e consumo (Introduzione allo studio della teoria economica del corporativismo, 1935); Benini individua, invece, come elemento perturbatore dell’equilibrio del sistema la diversa forza contrattuale delle parti che si confrontano sul mercato del lavoro e perciò vede la legislazione sociale e l’ordinamento corporativo come gli strumenti di attenuazione di questa disparità che possono favorire l’equilibrio.
Con approccio diverso arrivano a conclusioni analoghe Giuseppe Ugo Papi (1893-1989) e Costantino Bresciani Turroni. Papi considera la politica economica corporativa come un insieme di interventi coordinati al fine di razionalizzare il mercato, «restituendogli quella elasticità, che il diffondersi delle coalizioni e degli interventi particolaristici avevano oltremodo ridotta» (Economia per piani ed economia corporativa, 1936, in Mancini, Perillo, Zagari 1982, p. 288).
Richiamandosi a Mill, Bresciani assegna alle corporazioni lo scopo di modificare la distribuzione del reddito prodotto con un sistema organico di imposte, tasse, sovvenzioni o altre misure volte a realizzare una maggiore giustizia sociale (Introduzione alla politica economica, 1942).
Si pensi che perfino Einaudi propose il modello di una «corporazione aperta» come uno strumento teso non a dirigere l’economia in funzione di obiettivi prestabiliti, ma a superare accordi collusivi sui prezzi, protezionismo ecc. che gli imprenditori tentano di imporre per non ubbidire «al re prezzo». La corporazione, quindi, anche per Einaudi consentirebbe al mercato di funzionare meglio (Trincee economiche e corporativismo, 1933; La Corporazione aperta, 1934), pur se egli specifica con estrema chiarezza che non deve essere un gruppo ristretto, ma deve essere aperta a tutti, «semenza di nuove energie» utile a frantumare le «posizioni economiche acquisite».
In sostanza, la struttura giuridico-politica corporativa non viene rifiutata in blocco, ma le sue funzioni sfumano in un insieme più o meno sistematico di interventi di politica economica, ‘conformi’ al mercato, nell’ipotesi esplicita o implicita che il fine da realizzare sia la massimizzazione del prodotto e/o della soddisfazione del consumatore, ostacolata – nelle condizioni concrete dei sistemi economici sviluppati – da una serie di attriti e frizioni.
È stato individuato anche un terzo filone al quale appartengono economisti di ispirazione cristiana. In genere essi accolsero con favore l’idea di un’organizzazione corporativa della società propria di tutta la tradizione di pensiero sociale cattolico e opposta all’idea di base del socialismo di radice marxiana, cioè alla ‘naturalità’, e quindi necessità, della lotta di classe.
Anche in questo terzo caso, come nei precedenti, le posizioni sono diversificate. Due autori come Angelo Mauri (1873-1936) e Francesco Maria Vito sono espressione esemplare di una linea certamente ‘minoritaria’ nella letteratura economica del periodo che stiamo considerando, ma in grado poi di influire notevolmente (e questo influsso è ancora in gran parte da studiare) sul pensiero e sulla politica economica del secondo dopoguerra (Pensare l’Italia nuova, 1997).
Per Mauri, direttore dell’Istituto di Scienze economiche dell’Università Cattolica dalla fondazione al 1933, il fascismo ha adottato un’ottima concezione, quella originariamente cattolica delle corporazioni intese come organismi di base, corpi intermedi fra lo Stato e il cittadino di cui difendono la libertà di iniziativa, istituzionalizzandola nell’interesse comune. L’ha però deformata nella sua realizzazione. Il concetto di corporazione di Mauri si differenzia dunque radicalmente da quello fascista così come anche da quello medievale a cui la parte più tradizionalista del pensiero cattolico era ancora molto legata. Le sue ‘corporazioni’ cercano di adattarsi alla struttura capitalistica di produzione, di realizzare la democrazia economica e il solidarismo cristiano al loro interno. Egli si pone insomma come erede del movimento e delle idee del cattolicesimo di fine Ottocento (per il quale v. supra).
Un’altra posizione tipica degli economisti di ispirazione cristiana è quella espressa in modo più articolato e approfondito da Vito. Tutta la sua attività scientifica, prima e dopo il secondo conflitto mondiale, è volta a giustificare razionalmente – utilizzando gli strumenti analitici del marginalismo, ma non la sua visione utilitaristica ed individualistica – la regolamentazione sistematica dell’attività economica, realizzando una forma democratica di programmazione economica.
Negli anni Trenta il suo cammino di ricerca procede lungo due vie: la definizione dei fini dell’attività economica individuale e sociale e la dimostrazione dell’insufficienza del mercato a realizzare l’efficienza, non solo economica, ma in relazione a fini più ampi definiti in sede filosofica, con criteri morali, derivabili dalla concezione dell’uomo e della società propria dell’economista. Vito cioè sostiene che la scienza economica non può essere ‘neutrale’ perché i risultati della ricerca scientifica e le loro implicazioni normative alla fine saranno o non saranno eticamente accettabili.
Vito ha più volte affermato di essere un ‘cristiano’ economista ed è dunque dalla filosofia morale cristiana che egli deriva l’indicazione delle finalità dell’attività economica. E queste finalità consistono nel realizzare le condizioni più favorevoli per il perfezionamento e lo sviluppo della persona umana considerata nella sua interezza nelle diverse situazioni storiche.
Se fino a quel momento – scrive Vito nel 1935 – era stato l’automatismo della concorrenza a disciplinare la produzione e il mercato, ora invece la disciplina viene attuata consapevolmente dalle imprese coalizzate, i sindacati industriali. In un mondo siffatto, costituito di monopoli, la difesa degli interessi delle imprese prende il sopravvento rispetto alla difesa degli interessi generali. Le corporazioni sono o possono diventare lo strumento per coordinare sistematicamente gli interessi settoriali in funzione dell’interesse generale per mezzo della ‘programmazione economica’. In questa visione, le corporazioni sono per Vito il luogo in cui si definiscono – e si vivono – storicamente i fini dell’attività economica e sono nel contempo anche gli strumenti per regolarla e dirigerla verso gli obiettivi voluti.
Vito era quindi convinto di poter vivificare dall’interno le corporazioni, considerandole non soltanto il portato di una riforma economica ma soprattutto uno strumento di attuazione di una nuova gerarchia di valori etici come principio informatore della vita nazionale.
Sotto questo profilo, è indispensabile ricordare che queste riflessioni sono, nelle opere di Vito, il frutto della sua formazione all’Università di Napoli e a Milano, ma soprattutto all’estero. Tra il materiale che egli portò in Italia dagli Stati Uniti, in particolare dalla Columbia university, vi sono le interessanti Lectures on types of economic theory delivered by Professor Wesley C. Mitchell at Columbia University (2 voll., 1931) in cui sono comprese le lezioni che trattano dell’economia dall’epoca di William S. Jevons fino alla contemporaneità, con considerazioni su A conception of economics and its application to future work che riguardano Thorstein B. Veblen, la rilevanza del rapporto tra economia, psicologia e in genere le scienze sociali e l’importanza del «factual knowledge of a great variety of processes» (p. 550).
I termini corporativismo, corporazioni, corpi, utilizzati in epoche diverse hanno ovviamente assunto significati e contenuti diversi; ma anche quando impiegati nello stesso periodo storico sono stati gravidi di contenuti tra loro fortemente contrastanti.
La corporazione medievale nasce come necessità da parte delle nuove attività emergenti nella società che stanno dandosi una configurazione mercantile, di trovare una propria organizzazione autonoma, con regole e limiti posti per segnare i confini tra il proprio stile di fare mestieri e mercato e quello della tradizionale società gerarchica feudale. Il fine dei ‘corpi’ era lo sviluppo delle attività esercitate e la garanzia del rispetto da parte della società di queste regole, comprese quelle monastiche. Il corporativismo, quindi, sorge dal ‘basso’, come concreta espressione delle esigenze di chi organizza attività produttive o di svago e finisce per connotare la città come una rete di gruppi che diventano istituzioni in opposizione alla nobiltà e spesso anche alla Chiesa. Nobiltà e Chiesa – proprietari della terra, ricchezza originaria – continuano a rappresentare il potere ‘principe’ nella società mercantile; le corporazioni sempre più numerose finiscono però alla lunga per dare luogo a ‘oligopoli’, a gruppi fortemente elitari, arrivando a indebolire il meccanismo del mercato libero.
Molti scienziati e intellettuali del tempo ci hanno lasciato riflessioni puntali e molto acute su aspetti di questi fenomeni, senza elaborare teorizzazioni nel senso proprio del termine.
Durante la Rivoluzione francese le corporazioni, in nome dell’égalité, vennero sciolte per legge.
Permane però nella società ottocentesca la percezione della necessità di ‘accorpare’ in forme sindacali, quindi di iniziativa popolare, i bisogni e i diritti del lavoro operaio in aumento. Oltre a ciò, ‘corpi intermedi’ si sviluppano anche per garantire risposta a bisogni ritenuti indispensabili nella società moderna e che vengono prodotti e/o distribuiti da imprese municipalizzate.
Questa visione della corporazione, in particolare quella di matrice cattolica, non scompare nel Novecento, neanche nel periodo tra le due guerre in cui è sicuramente minoritaria di fronte al corporativismo di marca fortemente fascista e al corporativismo degli economisti che vogliono teorizzare un sistema economico nuovo, per abbandonare le rigide ipotesi dell’ortodossia liberista precedente e per comprendere all’interno dei propri sistemi teorici la considerazione sia degli elementi dinamici del sistema sia dei caratteri nuovi della struttura industriale e del ruolo imprenditoriale. Nei filoni del pensiero corporativista ci sono economisti che seppero contribuire alla correzione del sistema precedente e alla formulazione di nuovi schemi teorici e sono quindi da considerare parte integrante della storia del pensiero economico: superano la visione teoricamente carente e non rispondente ai caratteri della realtà socioeconomica e lasciano eredità importanti agli economisti del secondo dopoguerra.
Molte delle opere citate sono raccolte nel volume O. Mancini, F. Perillo, E. Zagari, La teoria economica del corporativismo, 2 voll., Napoli 1982 (poi sempre citato TEC).
In particolare:
C. Arena, Le basi teoriche dell’organizzazione italiana del lavoro, Città di Castello 1930, ora in TEC, pp. 389-405.
G. Arias, Dinamica economica ed economia corporativa, 1930, ora in TEC, pp. 61-71.
G. Arias, L’ordinamento corporativo e l’economia nazionale, 1930, ora in TEC, pp. 73-85.
R. Benini, L’ordinamento corporativo della nazione e l’insegnamento della economia politica (Lettera aperta al professor Ugo Spirito), Roma 1930, ora in TEC, pp. 161-66.
C.E. Ferri, Giudizio edonistico e giudizio corporativo, Milano 1930, ora in TEC, pp. 115-34.
M. Fovel, L’individuo e lo Stato nell’economia corporativa, 1930, ora in TEC, pp. 135-59.
L. Amoroso, A. De Stefani, La logica del sistema corporativo, «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 1933, 41, pp. 393-411, ora in TEC, pp. 247-62.
L. Einaudi, Trincee economiche e corporativismo, «La riforma sociale», 1933, pp. 633-736, ora in TEC, pp. 449-75.
L. Einaudi, La Corporazione aperta, «La riforma sociale», 1934, 41, 2, pp. 13-27, ora in TEC, pp. 483-506.
G. Masci, Crisi economica ed economia corporativa, «Rivista internazionale di scienze sociali», 1934, 3, ora in TEC, pp. 555-77.
G.U. Papi, Economia per piani ed economia corporativa, Città di Castello 1936, ora in TEC, pp. 263-90.
Si vedano inoltre:
G. Bottai, La concezione corporativa dello Stato, «Archivio di studi corporativi», 1930, I, pp. 7-15.
W.C. Mitchell, Lecture notes on types of economic theory, 1931 (York University Libraries, Clara Thomas Archives and Special Collections, William Jaffé fonds, 1983-009/019 and 20).
M. Fanno, Introduzione allo studio della teoria economica del corporativismo, Padova 1935.
F.M. Vito, Sui fini dell’economia corporativa, in «Giornale degli economisti e Rivista di statistica», 1935, 1, pp. 429-37.
G. Bruguier, Dieci anni di dottrina economica corporativa, «Archivio di studi corporativi», 1937, pp. 65-96.
G.U. Papi, Correnti attuali nella scienza economica italiana (1942), in P. Bini, Gli scritti in tedesco di Costantino Bresciani Turroni, Firenze 1986, pp. 89-123.
Si vedano anche le Encicliche:
Leone XIII, Quod apostolici muneris, 1878 [1]
Leone XIII, Rerum novarum, 1891 [2]
Pio XI, Quadragesimo anno, 1931 [3]
Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 1981 [4]
J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977.
R. Faucci, La scienza economica in Italia (1850-1943): da Francesco Ferrara a Luigi Einaudi, Napoli 1981.
La società neo-corporativa, a cura di M. Maraffi, Bologna 1981.
O. Mancini, F. Perillo, E. Zagari, La teoria economica del corporativismo, 2 voll., Napoli 1982.
Patterns of corporatist policy-making, ed. G. Lehmbruch, P.C. Schmitter, London 1982 (trad. it. La politica degli interessi nei paesi industrializzati, Bologna 1984).
M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni ’30, «Rassegna economica», 1983, 3, pp. 565-91.
P. Bini, Gli scritti in tedesco di Costantino Bresciani Turroni. Contributo per una biografia scientifica, Firenze 1986.
R. Faucci, Materiali e ipotesi sulla cultura economica italiana fra le due guerre mondiali, in Il pensiero economico: temi, problemi e scuole, a cura di G. Becattini, Torino 1990, pp. 183-231.
S. Perri, E. Pesciarelli, Il carattere della scienza economica secondo Ugo Spirito, in Il pensiero economico italiano tra le due guerre, a cura di R. Faucci, «Quaderni di storia dell’economia politica», 1990, 2-3, p. 415-58.
L. Ornaghi, Corporazione, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1993, ad vocem.
F. Duchini, Aspetti e problemi della cultura economica italiana fra le due guerre, in Benessere, equilibrio e sviluppo. Studi in onore di Siro Lombardini, a cura di T. Cozzi, 2° vol., Milano 1994, pp. 185-240.
Pensare l’Italia nuova: la cultura economica milanese tra corporativismo e ricostruzione, Atti del Convegno, Milano (11-12 dicembre 1995), a cura di G. De Luca, Milano 1997.
R. Faucci, L’economia politica in Italia. Dal Cinquecento ai nostri giorni, Torino 2000, cap. VII.
L. Ornaghi, Corporativismo, in Dizionario di Dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, a cura del Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2004, pp. 221-24.
D. Parisi, Capitalismo, in Dizionario di Dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, a cura del Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2004, pp. 177-83.