corruzione
Il tema della c., inteso come indagine delle cause che provocano il declino e la disgregazione della compagine politica, sostanzialmente assente nel Principe, occupa invece una posizione di rilievo nei Discorsi, al punto che si potrebbe dire che costituisca una delle più proficue chiavi di lettura del commento liviano. Come in altri casi – si pensi solo all’uso di «umore» per indicare le classi sociali – M. mutua il termine dal linguaggio medico-biologico rinascimentale di ascendenza ippocratico-galenica, lasciando intendere che i principi che regolano l’evoluzione dei corpi politici siano i medesimi che presiedono al decorso di quelli naturali. Ne consegue che egli considera il tramonto degli organismi sociali, in analogia con quanto avviene per ogni organismo vivente, come un destino cui non è consentito sottrarsi. Ciò, tuttavia, non implica per M. che ci si debba rassegnare ad attendere con fatalistica disposizione il momento della fine. È infatti possibile, con opportune «alterazioni», ristabilire la salute degli Stati e rinviarne, quindi, a un futuro il più remoto immaginabile il declino. Proprio questo, anzi, è l’ufficio specifico della politica. Alla quale, pur non essendo dato un campo d’azione illimitato, è comunque concesso un margine operativo tutt’altro che trascurabile. L’uomo politico virtuoso, che cioè sappia vedere «discosto gl’inconvenienti», può e deve sapere predisporre efficaci «ripari e argini» per attutire l’impatto degli agenti della c. al fine di, quantomeno, ridimensionarne la potenza distruttiva. In apertura di Discorsi I iii, nel § 2, M. avverte:
è necessario a chi dispone una republica e ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione.
Chi agisse senza questa consapevolezza non avrebbe alcuna possibilità di fare cosa che duri. Non adeguatamente contrastata, la «malignità», il movente profondo delle azioni umane, anche quando «sta occulta un tempo», impedirebbe ogni stabile e fruttuosa convivenza civile. Per M., la «malignità» è dovuta alla più potente e prepotente tra le passioni, l’ambizione: motivo precoce nella riflessione del Segretario fiorentino, se si pensa che già negli anni passati al servizio della Repubblica fiorentina vi aveva dedicato un capitolo in terza rima (1509). Essa è una passione radicata nella stessa struttura antropologica dell’individuo e nasce dalla sproporzione tra l’illimitata capacità del desiderio e la limitata possibilità di soddisfarlo:
La natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa; talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca soddisfazione di esso (I xxxvii 4).
Di qui, l’impossibilità per l’uomo di acquietarsi in uno stato di pacifica e concorde esistenza con i suoi simili. Tornando infatti sempre di nuovo a tormentarlo, il suo sconfinato e inappagabile «desiderio» lo spingerà a mettersi in una competizione conflittuale, e perciò socialmente distruttiva, con gli altri.
Cosa si può fare per impedire che la forza dell’ambizione dispieghi i suoi nefasti effetti? La risposta di M. è che si deve comprimere il campo della libertà d’agire degli uomini, poiché «dove la elezione abonda» ci sono poche speranze d’instaurare forme stabili di socialità, dal momento che «gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità» (I iii 5). Ciò, in concreto, significa che «la elezione» va contrastata per mezzo della «necessità», cioè con l’imposizione di un vincolo esterno, di una forza obbligante che impedisca all’uomo di seguire il suo impulso naturale dominante. Deve essere chiaro che la distinzione posta da M. non è in realtà tra un agire libero e uno coatto. In entrambi i casi, infatti, si tratta di comportamenti necessitati, seppure di ordine diverso. Nell’un caso – l’«elezione» – la necessità è di ordine naturale, nell’altro, invece, è di ordine artificiale, essendo frutto di un atto consapevole dell’uomo. Stando così le cose, la politica si presenta come quella necessità artificiale che disciplina e sottomette a sé la necessità naturale. Come, in linea di principio, l’uomo, ente naturale, possa retroagire sulla propria natura, controllandola, è però questione di cui M. non giunge ad aver piena consapevolezza.
Gli strumenti della «necessità» artificiale della politica sono costituiti essenzialmente da «leggi e ordini». Tuttavia, M. accorda una grande rilevanza nel tenere a freno gli appetiti umani anche alla religione e ai costumi. Roma rimase una repubblica sana e prospera finché i suoi costumi e la sua religione si mantennero integri. Analogamente, nella generale c. della modernità, se i popoli della «provincia della Magna» rappresentano una luminosa eccezione è solo per la «bontà» della loro religione e perché «non hanno possuto pigliare i costumi né franciosi né spagnuoli né italiani, le quali nazioni tutte insieme sono la corruttela del mondo» (I lv 16). L’efficacia del vincolo dei costumi e della religione soffre però di un grave limite, a causa della loro debole forza obbligante, per l’indeterminatezza del momento sanzionatorio, nella seconda, e addirittura per la sua assenza, nei primi. È per questo che da soli non bastano a contenere l’ambizione e si rende «subito la legge necessaria» (I iii 7).
La possibilità per uno Stato di durare nel tempo sta, pertanto, tutta nella sua dotazione istituzionale e legislativa. Ma nemmeno quel formidabile strumento rappresentato dalla costituzione mista avrebbe, da solo, fatto di Roma quella che fu, se il suo apparato istituzionale non fosse stato sottoposto a un costante aggiornamento, dovuto alle sempre nuove e imprevedibili esigenze poste dal mutare della realtà:
Quanto sia difficile, nello ordinare una republica, pro-vedere a tutte quelle leggi che la mantengono libera, lo dimostra assai bene il processo della Republica romana; dove, non ostante che fussono ordinate di molte leggi […] nondimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivono nuove necessità, ed era necessario creare nuovi ordini (I xlix 2).
E non si tratta solo di aggiungere nuove leggi e ordinamenti a quelli già esistenti. Il punto è che occorre fare un lavoro periodico di revisione anche di quelli già in vigore, per quanto abbiano dato buona prova di sé. Per M., non c’è modo che le istituzioni possano mantenere inalterata la loro virtù nel tempo e sottrarsi all’inesorabile logorio cui la natura sottopone ogni cosa. La questione trova ampio svolgimento in III i. Qui, dopo avere ricordato come «è cosa verissima come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro» (§ 2), M. afferma che è tuttavia possibile prolungare la vita «de’ corpi misti, come sono le repubbliche e le sètte», con «alterazioni» che li «riducano inverso i principii loro» (§ 3). Questo perché «tutti e principii delle sètte e delle republiche e de’ regni conviene che abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglino la prima riputazione e il primo augumento loro» (§ 7). Al di là delle modalità attraverso cui ciò avviene – ovvero per «accidente estrinseco o per prudenza intrinseca» (§ 10) – quanto va messo a fuoco è il senso da attribuire al ritorno dello Stato al suo momento fondativo. Per M., ritorno alle origini significa riportare gli uomini alla medesima disposizione psicologica del momento della fondazione delle istituzioni. Col tempo, la memoria della violenza, che sempre accompagna la genesi dello Stato, tende a svanire dalla mente degli uomini, rendendoli così meno timorosi e, quindi, più propensi a ritenere di poter violare impunemente le leggi. Ridurre allora ai princìpi consisterà non tanto nel riportare le leggi e istituzioni di uno Stato alla loro condizione originaria, quanto piuttosto nel ristabilire il sentimento di timore che era a essi connesso e da cui solo possono derivare comportamenti socialmente costruttivi. Per chiarire il suo pensiero, M. si serve di una massima spesso ripetuta dai Medici:
Dicevano a questo proposito quegli che hanno governato lo stato di Firenze dal 1434 infino al 1494, come e’ gli era necessario ripigliare ogni cinque anni lo stato, altrimenti era difficile mantenerlo; e chiamavano ripigliare lo stato mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo in quel tempo battuti quegli cha avevano, secondo quel modo del vivere, male operato. Ma, come di quella battitura la memoria si spegne, gli uomini prendono ardire di tentare cose nuove e di dire male, e però è necessario provvedervi ritirando quello verso i suoi principii (§§ 25-26).
Non vi è dunque, per M., una tendenza naturale alla socialità. Questa può essere imposta solamente dalla forza obbligante della legge che, suscitando «terrore» e «paura», impedisca all’uomo di dare espressione alle sue inclinazioni naturali. Ne consegue che la c. politica coincide con il venire meno della capacità coercitiva delle norme; o, che è lo stesso, con il venir meno della propensione alla loro osservanza e obbedienza da parte degli uomini. Solo se ogni ambito della vita sociale è regolato da precise, quasi ferree norme è possibile evitare che l’«elezione» ambiziosa degli uomini generi corruzione. Non meraviglia allora scoprire che una delle distinzioni che più ricorrono nei Discorsi sia quella tra «modi ordinari» e «modi straordinari». Con i primi M. indica i comportamenti disciplinati dalla legge, con i secondi, definiti anche «privati», quelli che si collocano al di fuori della legge. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto per non uscire mai dai modi ordinari. Infatti, ogni volta che i modi ordinari si rivelano inadeguati a regolare la vita dello Stato, e si deve ricorrere ai modi straordinari, la convivenza civile viene messa a rischio. In I vi è la questione delle «accuse» che fornisce a M. l’opportunità di spiegare, attraverso il confronto tra Roma e Firenze, la differenza che corre tra una repubblica che possiede buoni modi ordinari e una che non ne dispone. Mentre a Roma la rabbia popolare contro Coriolano, che tramava per ridimensionare il grande potere che a giudizio della nobiltà aveva acquisito la plebe, trovò istituzioni atte a incanalare nelle forme della legalità la protesta, a Firenze, in una situazione non molto diversa, le cose andarono altrimenti. Qui, la mancanza di strumenti istituzionali idonei a contrastare l’audace e ambizioso Francesco Valori, divenuto «come principe della città» per il potere che aveva accumulato, portò all’uso di modi straordinari, cioè «alle armi» private. Ne derivarono gravi disordini che, «quando per l’ordinario si fusse potuto opporsegli, sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; avendosi a spegnere per lo straordinario, seguì con danno non solamente suo ma di molti altri nobili cittadini» (§ 13).
Soggetti ‘portatori’ dell’ambizione sono sia i singoli sia quelle che, con espressione modernizzante, potremmo chiamare classi sociali. M. si sofferma sugli uni e sulle altre per cogliere il loro diverso ruolo nella dialettica sociale e per suggerire i provvedimenti da adottare per neutralizzarne le spinte eversive sulla convivenza civile. Su di essi dobbiamo ora soffermarci, non senza però avere prima fermato un punto di grande rilevanza. Per M. la c. politica sembra riguardare la sola repubblica. Infatti, la costellazione di significati inerenti alla c. si attiva unicamente allorché entrano in gioco processi che riguardano l’ordinamento repubblicano, la cui fine è immancabilmente intesa come decadimento in una forma di governo ‘cattiva’.
M. ritiene che «ogni republica» sia costituita da «due umori», quello dei grandi e quello del popolo, che intrattengono un inevitabile rapporto conflittuale per le opposte passioni che li contraddistinguono. Tale conflittualità non si traduce però immedia tamente in instabilità politica. Anzi, esaminando la storia di Roma, M. trova che lo scontro tra grandi e popolo fu la «prima causa» della sua grandezza, poiché produsse «leggi e ordini in beneficio della publica libertà» (I iv 7). Ciò in quanto l’ambizione dell’uno «umore» servì per tenere a freno quella dell’altro, impedendo che si uscisse dai modi ordinari. Eppure, poi, in I xxxvii, si legge che furono proprio le lotte sociali che rovinarono «al tutto la libertà romana», per il «tanto odio intra la plebe e il senato» (§ 16).
Di fronte alla perentorietà di questa affermazione, occorre però avvertire che in I xxxvii non si legge una condanna indiscriminata del conflitto. Non è il conflitto in quanto tale che per M. reca danno a una repubblica, ma solo quello che, per l’esasperazione delle passioni degli «umori», porta a trascendere i modi ordinari e a ricorrere «ai rimedi privati». E a questa condizione si arriva solo allorché, divenuto il divario economico fra grandi e popolo abnorme, si tenta una ridistribuzione più equa della ricchezza. La lezione che viene dalla storia di Roma lo mostra con chiarezza. Fu solo quando i Gracchi, «de’ quali si debbe laudare più la intenzione che la prudenzia» (§ 26), vollero promuovere una riforma agraria, dopo che secoli di conquiste avevano dato così tanto alla nobiltà e così poco alla plebe, che le cose precipitarono. Fu solo con il passaggio della contesa dagli «onori», su cui la nobiltà aveva sempre ceduto senza eccessive resistenze alle pretese del popolo, alla «roba» che lo scontro si fece senza quartiere, tanto che
si venne nelle armi e al sangue, fuori d’ogni modo e costume civile. Talché non potendo i publici magistrati rimediarvi, né sperando più alcuna delle fazioni in quegli, si ricorse ai rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di farsi uno capo che la difendesse (§§ 16-17). [La plebe allora] volse la sua reputazione a Mario, contro alla quale peste, [la nobiltà] non avendo […] alcuno rimedio, si volse a favorire Silla (§ 18).
Il temporaneo prevalere della nobiltà nella guerra civile non fu decisivo, poiché ormai la miccia era stata accesa sotto le polveri. Non passò quindi molto tempo che
risuscitarono poi questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio, perché, fattosi Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di quella di Silla, venendo alle mani rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno di Roma, talché mai fu poi libera quella città (§ 20).
Nondimeno, M. intravede misure atte a impedire che le opposte ambizioni di grandi e popolo, sovreccitate dal movente economico, producano un’irreparabile lacerazione del tessuto sociale. Il primo rimedio che egli suggerisce è di non imitare l’incauto comportamento dei Gracchi, perché «volere levar via uno disordine cresciuto in una republica, e per questo fare una legge che riguardi assai indietro […] è partito male considerato». Molto meglio invece temporeggiare. Così facendo, si ottiene almeno che «o il male viene più tardo, o per se medesimo, col tempo, avanti che venga al fine suo, si spegne» (§ 27). Ma, come s’intuisce, questa prima misura è tutt’altro che risolutiva perché il problema rischia di venire solamente allontanato nel tempo. Veramente efficace è allora per M. solo il secondo rimedio, consistente nel «tenere ricco il publico e gli loro cittadini poveri». Si tratta di una misura che ogni repubblica dovrebbe inscrivere nel suo stesso atto fondativo. C’è da credere, quindi, che se Roma lo avesse fatto, se cioè sin dall’inizio della sua storia repubblicana avesse esercitato un più stretto controllo sulla distribuzione della ricchezza, si sarebbe evitato che le lotte sociali raggiungessero quell’incandescenza che alla fine mise «sottosopra tutta quella città» (§ 8).
A giudicare tuttavia dall’insistenza con cui vi torna su e dall’attenzione che vi presta, più che quella degli «umori», sembra che sia l’ambizione individuale a rappresentare per M. il maggiore fattore di c. dei regimi repubblicani. Egli non perde occasione per riprendere la questione, tanto che non si crede di errare dicendo che essa costituisce il nucleo tematico più corposo dei Discorsi, quella che davvero li attraversa tutti. Le repubbliche devono esercitare una continua vigilanza per evitare che un singolo individuo accumuli un grande potere personale, poiché immancabilmente poi lo userà per prevaricare le istituzioni. Questo fa dire a M. che non si può invero «chiamare libera» quella città dove un privato ha conseguito una posizione tale da essere «temuto dai magistrati» (I xxix 24). Non è affatto da escludere che sulla rilevanza accordata all’ambizione individuale nel generare c. politica abbia agito su M. l’esperienza vissuta da Firenze, che proprio a opera di privati cittadini, quali appunto i Medici, aveva visto il progressivo esautoramento delle sue istituzioni repubblicane. In effetti, è quanto mai significativo che in più occasioni sia ricordato come Cosimo, grazie alla sua «virtù straordinaria» e alla sua ricchezza personale, avesse legato a sé una parte considerevole della popolazione al punto che «ei cominciò a fare paura allo stato» (I xxxiii 10). Ma è poi pur sempre dalla storia di Roma che M. trae la più cospicua materia per corroborare la sua convinzione. Tutta una galleria di personaggi, quali Manlio Capitolino, Spurio Melio e Spurio Cassio, viene evocata per dimostrare senza possibilità d’appello i pericoli che una repubblica corre quando consente di «pigliare a uno cittadino più forze che non è ragionevole» (I xxxiii 6).
M. giunge perfino ad affermare che si deve diffidare della posizione di preminenza acquisita da uomini valenti e virtuosi, che abbiano alle spalle una storia di onorata dedizione al bene pubblico. È fuor di dubbio che una repubblica non possa fare a meno della virtù dei suoi cittadini e poca strada farebbe qualora ne fosse priva. E, tuttavia, si deve essere ben avvertiti che proprio «la riputazione de’ cittadini è cagione della tirannide delle republiche» (III xxviii 6). Questa consapevolezza aiuta a capire la ragione per cui spesso le repubbliche bene ordinate sono ingrate nei riguardi dei loro cittadini migliori. La loro ingratitudine nasce infatti dal timore che i meriti con-seguiti nella promozione del bene comune possano essere poi spesi per coltivare ambiziosi disegni personali. Per questo non è insolito che, per difendere la loro libertà, le repubbliche bene ordinate finiscano per «offendere quegli cittadini che la doverrebbe premiare» e «avere sospetto di quegli in cui la si doverrebbe confidare» (I xxix 18). Come accadde a Roma, la cui ingratitudine verso Scipione, al quale pure doveva tanto, va pienamente giustificata
da uno sospetto che i cittadini cominciarono avere di lui […]: il quale nacque dalla grandezza del nimico che […] aveva vinto, dalla riputazione che gli aveva data la vittoria di sì lunga e pericolosa guerra, dalla celerità di essa, dai favori che la gioventù, la prudenza e le altre sue memorabili virtudi gli acquistavano (I xxxix 22).
Molti altri esempi si potrebbero ancora fare per illustrare la forza di c. politica che promana dall’ambizione individuale. Basti qui menzionare la «prolungazione degli imperii» – oggetto di III xxiv – e che M. vede come concausa, insieme alla già ricordata virulenza assunta dalle lotte sociali al tempo dei Gracchi, della fine della Repubblica romana. Se alla scelta di Roma di prolungare la durata dei comandi militari M. riserva un giudizio assai severo non è per altro motivo che per avere fornito l’«occasione» a uomini ambiziosi come Mario e Silla, prima, per «trovare soldati che contro al bene publico gli seguitassono» e come Cesare, poi, per addirittura «occupare la patria» (§ 12).
Rimane una questione da affrontare: si può ancora rimediare allorché la c. sia penetrata in ogni fibra della società? Al tema, M. dedica i capitoli xvii e xviii del libro I. Nel xvii si considera la possibilità d’instaurare o restaurare una repubblica a partire da un regime monarchico – ma forse più esatto sarebbe dire tirannico – in cui licenza, arbitrio e violenza siano la norma. In verità M. ritiene scarsissime le possibilità di successo di una tale impresa, per l’intrinseca incompatibilità del «vivere libero» con una c. radicata e generalizzata. Certo, se si guarda alla storia di Roma, si deve riconoscere che essa non ebbe alcuna difficoltà a darsi un ordinamento repubblicano alla cacciata dei Tarquini; ma, osserva M., questo fu possibile solo perché all’epoca la città non era stata ancora toccata dalla c., rimasta tutta circoscritta alla famiglia reale. Cosa sarebbe successo invece se la c. dei Tarquini avesse fatto breccia anche nel popolo, se, insomma, «quella corruzione che era in loro si fosse cominciata a distendere per le membra» (§ 2)? La risposta di M. è che in questo caso vi sarebbe stato ben poco da fare. Fu quindi fortuna grande che Roma perdesse «il capo quando il busto era intero» (§ 3), poiché altrimenti sarebbe stato «impossibile mai più riformarla» (§ 2) al «vivere libero». Ma proprio questo però poi le accadde, qualche secolo dopo, quando la libertà repubblicana era solo un ricordo e i connotati dello scenario politico-sociale erano mutati profondamente. Infatti, divenuto nel frattempo il popolo romano «corrottissimo» – «per quella corruzione che le parti mariane avevano messo nel popolo» (§ 8) – «morto Cesare, morto Gaio Gallicola, morto Nerone, spenta tutta la stirpe cesarea, non poté mai non solamente mantenere, ma pure dar principio alla libertà» (§ 5). All’esempio romano M. aggiunge quelli moderni di Milano e Napoli. Egli è reciso nell’affermare che né Milano né Napoli, a causa delle loro «membra tutte corrotte», avrebbero mai potuto darsi per «nessuno accidente, benché grave e violento» (§ 10), forma di repubblica. Basta considerare, per rendersene conto, quanto accadde alla morte di Filippo Maria Visconti. Da sempre divisa in fazioni che si combattevano senza alcun rispetto della legalità e del bene comune, Milano «volendosi ridurre […] alla libertà, non potette e non seppe mantenerla» (§ 11). Detto ciò, si deve però aggiungere che M. non esclude del tutto la possibilità che da uno stato di c. estrema si possa edificare una repubblica. Tuttavia, deve essere chiaro che si tratta di un’impresa che può riuscire solo per «la virtù d’uno uomo» e non certo «per la virtù dello universale», poiché, dove «la materia» sociale è corrotta, «le leggi bene ordinate non giovano, se già le non sono mosse da uno che con una estrema forza le faccia osservare tanto che la materia diventi buona». Eppure, nello stesso momento in cui lascia aperto uno spiraglio, M. non può fare a meno di ribadire quanto sia pesante l’ipoteca che la c. getta sulla vita politica. È quasi certo infatti che, scomparso l’uomo virtuoso che «con una estrema forza» aveva imposto al popolo l’obbedienza alle leggi, la c. torni a dilagare, come accadde appunto a Tebe che, finché rimase in vita Epaminonda, «potette tenere forma di republica e imperio; ma morto quello, la si ritornò ne’ primi disordini suoi» (§ 13).
Al mantenimento degli ordinamenti repubblicani in una «città corrottissima» è invece dedicato il cap. xviii. Anche questo caso per M. presenta difficoltà quasi insormontabili, dovute essenzialmente alle modalità con cui andrà effettuato l’intervento riformatore. Vediamo perché. Si può intervenire sugli ordinamenti in due soli modi: «o e’ si hanno a rinnovare tutti a un tratto, scoperti che sono non essere più buoni, o a poco a poco in prima che si conoschino per ciascuno». E, tuttavia, M. ritiene che «l’una e l’altra di queste due cose è quasi impossibile» (§ 23). Le difficoltà di procedere nel secondo modo risiedono nel fatto che esso richiede che «uno prudente» scorga l’inconveniente quando è ancora «assai discosto». Ma non è detto che un uomo con una così spiccata capacità di diagnosi precoce dei mali politici «surga mai» in una città. E anche qualora sorgesse, avrebbe poi un bel da fare a convincere i suoi concittadini sulla necessità di riformare le istituzioni, in quanto «gli uomini usi a vivere in un modo non lo vogliono variare; e tanto più non veggendo il male in viso, ma avendo a essere loro mostro per coniettura»(§ 25). È quasi inevitabile, allora, che ci si debba rassegnare a intervenire quando la c. abbia già invaso l’intera vita pubblica e si debba, quindi, rinnovare in blocco e «a un tratto» tutti gli «ordini». Una sì radicale operazione è però impensabile che possa avvenire per vie legali, cioè attraverso «modi ordinari». In presenza di una c. dilagante, non si può infatti evitare che il riformatore venga allo «straordinario, come è alla violenza e all’armi» e, assunto tutto il potere nelle sue mani, diventi «innanzi a ogni altra cosa principe di quella città», per «poterne disporre a suo modo» (§ 26). Ma davvero si può pensare che chi venga a trovarsi in una tale posizione e sia capace di una violenza spietata non ne approfitti poi per affossare le istituzioni repubblicane e stabilire la propria tirannide? È proprio questo il timore di Machiavelli:
E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo, per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene che gli ha male acquistata (§ 27).
Il rischio è dunque che una repubblica «corrottissima» tramonti prima ancora che il tentativo riformatore sia stato intrapreso. E il paradosso è che la sua fine avvenga per mano proprio di chi dovrebbe invece risanarla. A ogni modo, anche in questo caso e malgrado le enormi difficoltà, M. non esclude in linea di principio la riuscita dell’impresa. Accadrà pure qualche volta infatti «che uno buono, per vie cattive […] voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene». Quando allora ciò si verifichi, quali «ordini» nuovi si dovranno introdurre che siano adatti a un tempo di generale c., ma che siano anche capaci di invertire le tendenze degenerative in essere? L’indicazione di M. è quella di ridurre una repubblica corrotta «più verso lo stato regio che verso lo stato popolare, acciocché quegli uomini i quali dalle leggi per la loro insolenzia non possono essere corretti, fussero da una podestà quasi regia in qualche modo frenati» (§ 29).
Sarà bene chiarire, a scanso di fraintendimenti, che con queste parole M. non sta suggerendo il trapasso di una repubblica «corrottissima» in una monarchia, seppure dimidiata. Ciò a cui pensa è, piuttosto, a un riequilibrio dei poteri costituzionali, con un rafforzamento di quel che oggi chiameremmo potere esecutivo. D’altronde, sarebbe ben strano che, essendo la posta in gioco la conservazione delle istituzioni repubblicane, egli proponesse il passaggio alla monarchia. E che sia proprio quello qui avanzato il senso da dare alla locuzione «podestà quasi regia», trova conferma nell’espressione ancora più netta – «regia potestà» – con cui M. designa la dittatura (I xxxiv 19) e il consolato (I ii 3) romano, istituzioni proprie dell’ordinamento repubblicano e non certo di quello monarchico.
Evidente è la convergenza che si registra tra i capp. xvii e xviii sulle misure che vanno adottate per aggredire situazioni di c. estrema. Ferma restando la difficoltà di riuscire a istituire o conservare una repubblica dove la propensione al rispetto dei modi ordinari sia del tutto assente, non c’è per M. che una via da tentare: operare una concentrazione del potere che, comprimendo almeno parzialmente, gli spazi di libertà, riabitui con la forza gli uomini al rispetto delle leggi che erano ormai usi trasgredire sistematicamente. I due capitoli presentano però anche una non trascurabile differenza: laddove la repubblica non c’è ancora o non c’è più, il supplemento di potere deve essere gestito da un individuo che, con la sua virtù straordinaria, sostenga per così dire dall’esterno le appena nate, e perciò gracili e malferme, istituzioni del «vivere libero»; mentre invece, dove la repubblica già c’è, è sull’apparato istituzionale che si deve intervenire, con un potenziamento dei meccanismi impersonali di potere, al fine di evitare i rischi che l’uscire dai modi ordinari sempre comporta.
Bibliografia: N. Badaloni, Natura e società in Machiavelli, «Studi storici», 1969, 10, pp. 675-708; A. Bonadeo, Corruption, conflict, and power in the works and times of Niccolò Machiavelli, Berkeley-Los Angeles-London 1973; G. Sasso, Principato civile e tirannide, «La cultura», 1982-1983, 20-21, poi in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 351-490; R. Breschi, Il concetto di corruzione nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, «Studi storici», 1988, 29, pp. 707-35; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello Stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 109-49.