DONATI, Corso
Nato verosimilmente a Firenze verso il 1250, figlio del cavaliere Simone e di Contessa (Tessa) di cui non si conosce il casato, il D. fu per più di venticinque anni uno dei maggiori protagonisti della scena politica fiorentina, e, pur non godendo di buona stampa nelle pagine dei cronisti popolani a lui contemporanei, la sua figura ci è stata tramandata come la più nitida ed emblematica tra quelle degli esponenti della classe magnatizia fiorentina.
Ancor giovane doveva aver ricevuto l'investitura cavalleresca, giacché col titolo di dominus compare come membro di un Consiglio del Comune nel novembre 1278 (Delizie degli eruditi toscani, IX, p. 53) e quindi negli elenchi dei sottoscrittori e fideiussori per la pacificazione cittadina tra guelfi e ghibellini compiutasi nel 1280, dove accanto al nome del D. il notaio - a riprova della sua ancor giovane età - giudicava opportuno aggiungere "asserens se emancipatum. esse" (I. Lori Sanfilippo, La pace..., p. 254).
Già in quegli anni comunque doveva aver acquisito una certa notorietà consolidando quelle caratteristiche che lo resero personaggio eminente, in positivo e in negativo. Risalgono infatti a questo periodo gli atti di forza del D. nei confronti delle sue due sorelle Piccarda e Ravenna. La prima fu sottratta alla pace del chiostro di Monticelli, dove pare si fosse volontariamente reclusa, perché nella strategia delle alleanze familiari il D. aveva deciso che andasse sposa a Rossellino Della Tosa. L'episodio fece tanto scalpore nella Firenze del tempo da essere ricordato da Dante, che contrappone la pia figura di Piccarda alla violenza senza scrupoli dei suoi familiari (Paradiso, IV, vv. 103-109). La seconda, Ravenna, diventò involontaria causa di una lunga e accesa querelle giudiziaria che fece ancor più sensazione. La donna, vedova del mercante Bello Ferrantini, aveva scelto di ritirarsi come conversa nel convento di S. Iacopo a Ripoli, portando con sé i figli ed affidando all'amministrazione del convento tutti i beni ereditati. La decisione, per ben comprensibili motivi d'interesse, fu duramente avversata dal D. che reclamava il proprio diritto ad essere designato tutore della vedova e dei pupilli e dunque amministratore dei loro beni: convinta la sorella ad abbandonare il convento, intentò causa alle monache di Ripoli - difese in giudizio da Iacopino Adimari, esponente di quella grande famiglia guelfa fiorentina la cui insanabile rivalità coi Donati si faceva in questi anni sempre più palese - e la diatriba si protrasse per due anni (1280-1282), provocando anche l'intervento del pontefice. La sentenza finale stabilì che il D. e il convento si sarebbero dovuti equanimamente spartire la ricca eredità.
Ma, a parte queste beghe patrimoniali poco edificanti, il D. si segnalava per la sua attività politico-amministrativa, acceso oratore nei Consigli cittadini e di frequente eletto podestà o capitano in varie città guelfe dell'Italia centrosettentrionale. Questo prestigioso e lucroso cursus honorum, tipico dei membri delle più potenti schiatte aristocratiche, doveva aver avuto inizio già sul finire degli anni '70, ma si intensificò nel decennio successivo: nel 1283 ricopri la carica di podestà a Bologna, dove ritornò come capitano del Popolo nell'aprile del 1285; nel 1287 fu Podestà a Padova, nel 1288 (luglio-dicembre) ancora a Bologna, nel 1289 capitano a Pistoia. Quando non era rettore nei Comuni esteri, non mancava di assumere negli arenghi cittadini posizioni di intransigente guelfismo, perorando l'effettuazione di spedizioni militari. Con questo atteggiamento certo dispiacque a larga parte di quei governanti popolani che paventavano le guerre sia per le spese che imponevano all'Erario pubblico e per i danni che arrecavano ai loro commerci, sia perché nello stato di belligeranza maggior rilievo assumevano quegli esponenti di casate nobiliari ai quali era tradizionalmente affidato il comando dell'esercito. Ecco dunque il D. chiedere nel gennaio e nel febbraio 1285 che si stringessero i tempi dell'alleanza con Lucca e Genova contro la ghibellina Pisa (ma sull'argomento non ebbe poi più occasione di ritornare e a Firenze circolò la diceria che egli stesso, con altrì fra i principali cittadini, fosse stato ammansito da una cospicua somma di fiorini fattagli pervenire all'interno di fiaschi di malvasia dal conte Ugolino Della Gherardesca), e ancora insistere che Firenze si dovesse impadronire di tutte le località appartenenti all'Impero confinanti con lo Stato fiorentino. Voleva anche che si facesse sapere a quei Comuni della Tuscia (e anche a tutti quelli che si trovavano sulla strada da Roma a Pisa) che imponevano pedaggi ai mercanti fiorentini in transito che era ora di finirla: se avessero obbedito, bene; altrimenti "exbanniatur ipse terre, et contra ipsas fiat viva guerra" (Consulte, I, p. 169).
Non c'è dubbio che con tali discorsi il D. facesse opinione nei Consigli e in città - anche se quasi mai era l'opinione della maggioranza - e si conquistasse demagogicamente un crescente seguito; peraltro non mancava di compiere ogni volta che gli si presentava l'opportunità azioni conseguenti alla propria aggressività verbale. Sul finire del 1285 fu a capo di un gruppo di guelfi fiorentini che si univano a Guido di Monfort e ai suoi cavalieri assoldati dalla lega toscana per espugnare il castello di Poggio Santa Cecilia nei pressi di Rapolano, divenuto roccaforte dei fuorusciti ghibellini toscani. Nell'ottobre 1286 arrivò a sfidare clamorosamente - per la prima volta, ma molte altre ne seguiranno - il potere costituito all'interno di Firenze, cercando di sottrarre con le armi in pugno agli sbirri dei podestà il magnate Totto dei Mazzinghi che, condannato per omicidio, era avviato al patibolo. Il colpo di mano fallì per l'immediata mobilitazione del popolo, ma il D. se la cavò, incredibilmente, solo con una pena pecuniaria.
La definitiva consacrazione del suo mito di cavaliere tanto ribelle quanto audace e valoroso avvenne comunque nel giugno 1289 sul campo di battaglia di Campaldino. A questo decisivo scontro tra la guelfa Firenze e la ghibellina Arezzo il D. partecipò alla testa della cavalleria alleata pistoiese e lucchese, essendo in quel tempo capitano del Popolo a Pistoia. Secondo i piani strategici stabiliti dai capi dell'esercito guelfo il D. doveva restare in posizione d'attesa e intervenire solo dietro specifico ordine, quando i tempi fossero stati giudicati opportuni. Ma di fronte all'infuriare della battaglia, vedendo gravi sbandamenti nelle file dei Fiorentini e pur sapendo che per questa sua insubordinazione rischiava la condanna a morte, "disse come valente uomo: "Se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia co' miei cittadini; e se noi vinciamo, chi vuole vegna a noi a Pistoia per la condannagione"; e francamente mosse sua schiera, e fedì i nemici per costa, e fu grande cagione della loro rotta" (Villani, VII, 131).
Il ruolo decisivo svolto dal D. nella battaglia e la popolarità che gliene derivò sconsigliarono al governo popolano di intraprendere un'azione di forza contro di lui, malgrado il pericolo che la sua scomodissima presenza in città costituiva per l'assetto borghese dello Stato. Gli si permise quindi di tuonare di nuovo in Consiglio contro Pisa (marzo 1290), ma non solo. Nel marzo 1291 fu messo a capo di una delicata ambasceria inviata a Genova per cercare di appianare le gravi liti sorte tra mercanti fiorentini e genovesi in Francia, una scelta d'altronde certamente sagace, perché a Genova ben si doveva sapere che il D. era il loro più accanito fautore in Firenze contro i nemici pisani. Quando poi poco dopo i Bolognesi designarono il D. alla carica di capitano, il Comune fiorentino nel luglio comunicò loro che non era possibile dargli il nulla osta, dato che la presenza del valoroso cavaliere era indispensabile in patria nell'imminenza dello scontro decisivo con Pisa.
I mesi seguenti furono invece tutto sommato inconcludenti sul piano della guerra, ma forieri di grandi novità nella vita politica cittadina. In questo periodo il popolo fiorentino, guìdato da Giano Della Bella, riuscì ad affermare in pieno la sua autorità, ad emarginare progressivamente dal potere i grandi e l'organismo che costituiva il loro fulcro, la Parte guelfa, fino a promulgare nel gennaio 1293 quegli ordinamenti di giustizia che rappresentano una legislazione straordinaria di dura repressione antimagnatizia. La mobilitazìone popolare deve essere stata tanto larga e così ben agevolata da una serie di favorevoli circostanze interne ed esterne che i grandi fiorentini sul momento paiono essere stati capaci di opporre solo mugugni: e facile è supporre che fra i pìù rancorosi vi fosse il D., il nome della cui famiglia naturalmente compare nella lista di quelle considerate magnatizie e come tale discriminata politicamente e giudiziariamente.
Giunse quasi nello stesso tempo una nuova richiesta da parte del Comune di Bologna di avere il D. come capitano del Popolo, alla quale non si oppose più il governo fiorentino, che anzi l'avrà gìudicata provvidenziale, giacché permetteva di tenere lontano dalla città il più illustre dei suoi avversari. Di buon grado, in attesa del tempo della rivalsa, anche il D. accettò l'incarico, ma in una lettera datata 19 febbr. 1293 chiese ai Bolognesi due deroghe dalle regole del loro statuto: la situazione in cui si trovava nella sua città gli impediva di costituirsi il tradizionale seguito di cavalieri, giudici e sbirri (la cosiddetta "famiglia") con persone esclusivamente fiorentine (affermazione assai sintomatica per capire in quale stato di isolamento si trovassero i magnati fiorentini in quel particolare frangente); e soprattutto chiese il permesso di Poter condurre con sé i propri familiari perché il clima di guerra civile in Firenze era tale che "non possim. natos et fratres meos tutos relinquere sine magno personarum risìgo ..." (P. Papa, Due lettere di C. D., p. 373).
Accordate le deroghe il D. si recò a Bologna dove esercitò la carica di capitano dal 1º aprile al 30 sett. 1293. Nel primo semestre del 1294 andò podestà a Parma. Per buona parte del primo periodo del biennio "rivoluzionario" di Giano Della Bella il D. fu quindi lontano dalla città. Questa assenza, se lo poneva in un certo senso al sicuro e poteva permetterglì di riflettere sullo stato delle cose e sui modi per opporvisi, dette però anche agio al governo popolano di escogitare mosse contro di lui. E così il D. venne trascinato in due procedimenti giudiziari. Egli infatti - come del resto avevano fatto altri magnati ed anche enti religiosi - si era appropriato da tempo di un tratto delle mura cittadine del secondo cerchio, vicino alle proprie case in Por S. Piero, allargandole di qualche metro con impalcature di legno ed intrecciandovi pergolati e i], Comune pretendeva ora da lui il risarcimento per questa usurpazione, almeno nella forma di un canone annuo. La seconda accusa - più pesante e singolare - nasceva dalla riesumazione dell'anfica lite sorta a proposito dell'eredità di sua sorella Ravenna, vedova di Bello Ferrantini. Nove giorni prima che scadesse il suo mandato di podestà a Parma il Consiglio dei cento accolse in pieno le rivendicazioni dei Ferrantini circa il loro diritto a rientrare in possesso dei beni del congiunto (che consistevano in terre, case e un mulino nella campagna fiesolana, per il valore di 500 libre: Arch. di Stato di Firenze, Diplomatico, Adespote, Fine sec. XIII, 5).
A queste noie giudiziarie il D., tornato in Firenze, trovò comunque il modo di aggiungerne una terza, ben più clamorosa : Da tempo, per motivi che non conosciamo, erano sorte ostìlità anche all'interno della sua consorteria; e sul finire del 1294 in una zuffa scoppiata tra il D. e il cugino Simone Galastrone Donati il primo ferì il secondo e uccise un suo servo (reato gravissimo per gli ordinamenti di giustizia). Citati in giudizio il 23 genn. 1295, il D. negò, accusando dell'omicidio il cugino. Malgrado l'evidenza dei fatti, probabilmente perché era riuscito a corrompere il giudice che aveva istruito il processo, fu condannato alla pena pecuniaria (certo assai rilevante) di 5.000 libre e ricevette l'interdizione a ricoprire la carica podestarile per cinque anni in qualsiasi città, mentre Simone fu condannato alla pena capitale. Alla notizia della scandalosa sentenza il popolo minuto insorse e riversò il suo furore soprattutto contro il podestà, giudicato reo di connivenza e corrotto, con un vero e proprio assalto al palazzo. Alla sommossa cercò di opporsi il trìbuno dei popolo Giano Della Bella preoccupato di sventare questo genere di giustizia sommaria contro il massimo esponente delle istituzioni. Ma mal gliene incolse, perché la cieca rabbia della folla si rivolse anche contro di lui, e di lì a poche settimane fu costretto a lasciare segretamente la città per un esilio senza ritorno. Cosicché, per un incredibile concatenarsi di circostanze, il D. poté vantarsi di essere stato anche la causa della caduta del più temibile avversario dei magnati.
Stemperata di molto, con la caduta di Giano, la politica radicalmente antimagnatizia dei governantì fiorentini, il D. ebbe modo di riprendere in città la sua vita di sempre, che i cronisti ci descrivono arrogante e violenta, ma anche piena di atteggiamenti di grandigia cavalleresca che ammaliavano la plebe. Del resto il bersaglio dell'odio del D. non era più il popolo, ma l'altra grande famiglia magnatizia dei Cerchi, anch'essi abitanti nel sesto di Por S. Pierio, "possenti e di grandi parentadi e ricchissimi mercatanti", sebbene di una certa rozzezza "siccome genti venuti di piccolo tempo in grande stato e potere" (Villani, VIII, 39).
La rivalità tra il D. e i Cerchi finì col coinvolgere in poco tempo gran parte degli strati superiori della cittadinanza fiorentina e da lotta tra famiglie diventò lotta tra partiti. L'origine scatenante del conflitto era probabilmente connessa ad un'altra bega di carattere matrimonialepatrimoniale. Il D. (che pare in prime nozze si fosse unito con una Cerchi, morta in circostanze oscure) decise ora di sposare Tessa degli Ubertini, discendente di una delle più potenti schiatte feudali del Valdamo superiore, tradizionalmente ghibellina e nemica di Firenze, pecche secondarie in questo caso per il D., troppo attratto dalla ricthissima dote della fanciulla, che tra proprietà mobili e immobili ammontava a 6.000 fiorini d'oro. Al matrimonio cercarono di opporsi i Cerchi, anch'essi parenti degli Ubertini, adducendo impedimenti connessi col diritto canonico e riuscendo ad ottenere un breve da Bonifacio VIII che vietava le nozze, celebrate invece nonostante il divieto, cosicché il papa si vide costretto, per ragioni di opportunità politica, a concedere una dispensa posticipata.
Al di là di questo episodio è facile comunque scorgere alla base del dissidio tra le due famiglie un'accanita lotta per la leadership politica nel mondo magnatizio fiorentino, di cui, emblematicamente, i due contendenti incarnavano le divergenti anime: il D., cavaliere d'antica schiatta, quella aristocratica, Vieri dei Cerchi, ricchissimo mercante, quella mercantile, anche se gli schieramenti che si formarono alle loro spalle e divisero la città nelle due fazioni dei neri e dei bianchi annoveravano indifferentemente nell'una e nell'altra parte cavalieri, ricchi mercanti ed esponenti delle maggiori famiglie popolane. Così tra i neri guidati dal D. vediamo i potentissimi Spini, banchieri del papa e altri importanti proprietari di compagnie bancarie e mercantili come i Pazzi, i Bardi, i Franzesi, insieme con famiglie dell'antica aristocrazia cittadina come i Buondelmonti, i Visdomini, gran parte dei Della Tosa, i Rossi, ma anche famiglie di grassi popolani dalla recente ascesa sociale, spesso presenti nei priorati, come i Velluti e i Bordoni, i Medici, gli Alberti del Giudice e gli Altoviti.
Alla polemica verbale (il D. pare usasse dileggiare il Cerchi chiamandolo "l'asino di Porta") seguirono ben presto scontri cruenti. Tra i primi di questi, uno nel 1296 ebbe per protagonisti lo stesso D. e il poeta Guido Cavalcanti, il quale era convinto che un'imboscata da lui subita qualche tempo prima in terra di Francia avesse avuto come mandante il diabolico Donati. Trovandoselo un giorno di fronte in Firenze e credendosi spalleggiato da un gruppo di Cerchi che erano con lui, cercò di trafiggerlo con un dardo. Ma il colpo andò a vuoto e il Cavalcanti dovette fuggire precipitosamente. Di un altro losco evento, che portò alla morte alcuni giovani di casa Cerchi intossicati dal cibo, secondo la voce popolare fu di nuovo ritenuto colpevole il D. (dicembre 1298). Fondate o malevole che fossero queste accuse, il D. di fatto spadroneggiò in città, temuto da tutti e blandito da molti, e nel novero di questi sembra vadano messi anche i due podestà Cante dei Gabrielli da Gubbio e Monfiorito di Coderta di Treviso, in carica a Firenze rispettivamente nel secondo semestre del 1298 e nel primo semestre del 1299.
Certo è che il D., smanioso di rinsanguare il suo patrimonio, nel marzo 1299 intentò un processo alla suocera Giovanna degli Ubertini, accusandola di avere mal gestito il patrimonio della figlia e di aver sottratto tutte le carte relative all'amministrazione. Malgrado l'infondatezza dell'accusa il podestà Monfiorito condannò la ricca vedova a versare 3.000 fiorini d'oro al D. e 2.000 a sua moglie, e la fece incarcerare. Anche questa sentenza provocò però un'insurrezione popolare: non per le sorti della nobile Ubertini, ma perché lo strapotere e la patente d'impunità del "gran Barone" erano giudicate ormai insopportabili da larga parte della popolazione, che andava dagli artigiani minori quasi del tutto emarginati dal potere fino a quel numerosi esponenti dell'élite che parteggiavano per la fazione cerchiesca o che comunque ad essa guardavano con maggior simpatia. La sommossa provocò l'imprigionamento e poi la fuga del Monfiorito, la riapertura del processo e la condanna del D., che in giudizio sfrontatamente confermò di aver corrotto il podestà. Condannato a 1.000 libre di multa, si rifiutò però di pagarle e fu allora bandito dalla città (maggio 1299). Fu per il D. un grave colpo, ma non la rovina. Gli porse immediato aiuto Bonifacio VIII, che lo nominò podestà di Orvieto per il secondo semestre del 1299, e subito dopo rettore del distretto pontificio di Massa Trabaria.
Intanto a Firenze, mentre nel governo si susseguivano priori a schiacciante maggioranza di fede bianca, continuarono le tensioni e gli scontri di piazza tra bianchi e neri fino al calendimaggio di sangue del 1300 e al convegno dei principali esponenti della fazione nera tenutosi nel convento di S.Trinita, dove si concertò sui tempi e sui modi per abbattere la dirigenza cittadina bianca e popolana, atto quest'ultimo giudicato ovviamente intollerabile anche dai più concilianti e pacifici cittadini. Nell'individuazione dei colpevoli si pensò che, per quanto lontano, il D. avesse ancora l'occulta regia della sedizione. Egli fu dunque condannato a morte in contumacia, vennero rase al suolo le sue case in Por S. Piero e confiscati i suoi terreni (e per ciò in seguito chiederà al Comune un indennizzo di 10.500 lire). In quel periodo il D. sembra aver soggiornato a lungo a Roma, protetto ed ascoltato ospite di Bonifacio VIII, che probabilmente lo considerava un prezioso strumento per i suoi piani di assoggettamento della Toscana. Non a caso la politica pontificia verso Firenze mostrò sempre più spiccate simpatie verso la fazione nera e conseguentemente si comportò Carlo di Valois, il paciere papale giunto a Firenze il 1º nov. 1301.
Appena cinque giorni dopo l'ingresso del Valois il D., con un piccolo gruppo di seguaci, riuscì a penetrare in città e immediatamente accorsero ad ingrossare le sue fila molti partigiani neri. Si accese la battaglia e ben presto l'esito volse a favore dei donateschi che, trionfanti, si dedicarono per cinque giorni al saccheggio, alle estorsioni e alle vendette sugli avversari inermi e annichiliti. Poi, ristabilito l'ordine, il D. con l'assenso del Valois divenne l'incontrastato padrone di Firenze, anche se il quadro istituzionale formalmente non cambiò e con altisonanti parole si proclamò il tempo della riconciliazione. Il già sperimentato Cante dei Gabrielli venne chiamato a far da podestà, e nel gennaio 1302 fu emanata un'amnistia che annullò tutte le condanne ricevute dal D. e dai suoi seguaci. Quando nell'aprile seguente il Valois lasciò Firenze, la città restò saldamente in mano ad un gruppo di oligarchi tra i quali primeggiò il D., mentre continuò ad allungarsi la lista dei condannati e dei proscritti fra gli esponenti di parte bianca.
L'incontrastato predominio si incrinò a metà del 1303, perché il partito dei neri si divise a sua volta in gruppi avversi: da una parte il vescovo Lottieri Della Tosa e il D., dall'altra Rosso Della Tosa e molti di quei popolani grassi egemoni nel priorato. Contro di loro in particolare si scagliò il D. accusandoli di essere non solo gli affossatori dei magnati, ma anche gli affamatori del popolo minuto e della plebe. Di nuovo scoppiò la guerra civile in città nel febbraio 1304. Allora il D. guidò l'assalto al palazzo dei priori, che però non ebbe successo. Dopo giorni di furenti battaglie cittadinesche si riuscì faticosamente a ricomporre la pace coll'aiuto delle città alleate, particolarmente di Lucca che inviò un contingente armato con il compito di ristabilire l'ordine. Ordine precario comunque perché, se gli avversari mantenevano il controllo del governo, il D., eletto capitano di Parte guelfa, poteva annoverare tra i suoi seguaci non solo la maggioranza dei magnati, ma anche influenti e rissose famiglie popolane come i Medici e i Bordoni. Di altrettanto breve durata e di effimeri risultati fu perciò anche l'ennesima missione di pacificazione cittadina svolta dai cardinale d'Ostia Niccolò; il D. fu naturalmente ancora tra coloro che tramarono con successo per farla fallire.
Malgrado l'età non più giovanile e la gotta che lo angustiava, non rinunciò ancora ad architettare piani e a mostrarsi in prima fila. Nel maggio 1304 chiese la cittadinanza di Prato per poter meglio organizzare una congiura che portasse al potere l'amica famiglia pratese dei Guazzalotti e l'anno seguente fu eletto podestà e capitano della parte nera pistoiese, che, in esilio, cercò di riconquistare il Comune con l'aiuto dei Fiorentini. Ma molti gli erano ormai nemici anche fra i magnati, e contro di lui si strinse una sorta di quadrumvirato di grandi guelfi che quanto a potenza di casato e legami influenti potevano considerarsi quasi suoi pari: Rosso Della Tosa, Geri Spini, Pazzino de' Pazzi e Betto Brunelleschi. Cominciò a vacillare inoltre la sua immagine di guelfo di provatissima fede quando decise di sposarsi di nuovo, questa volta con la figlia del più potente capo ghibellino toscano, Uguccione Della Faggiuola. Evidentemente l'irriducibile capoparte macchinava alleanze strategiche con un ibrido coacervo di forze, perché si sentiva progressivamente esautorato negli ambienti che prima gli erano fedeli. Verso la fine del 1307 fece parte del collegio dei Dodici capitani di guerra fiorentini ed è questo l'ultimo incarico che rivestì in patria. Chiamato come podestà a Treviso per il primo semestre del 1308, gli venne volentieri concesso il permesso, giacché la prospettiva di liberarsi della sua presenza per qualche tempo "placuit omnibus quasi" (Consigli della Repubblica, p. 352).
Al ritorno l'aspettava l'epilogo: Pazzino de' Pazzi lo citò in giudizio come debitore insolvente. L'onta lo fece infuriare a tal modo da spingerlo allo scontro finale con tutti i suoi nemici, evento al quale comunque doveva essersi preparato da tempo. Barricò l'accesso alle sue case, si circondò di armati e inviò richieste d'aiuto a tutti i suoi segreti alleati, a Prato, a Pistoia, ai conti Guidi, ai bianchi fuorusciti, al suocero ghibellino Uguccione Della Faggiuola, e naturalmente in città a quanti, magnati o popolani, gli avevano promesso appoggio.
Presumendo l'ampiezza e la pericolosità dei soccorsi esterni, i suoi nemici affrettarono i tempi. La mattina del 6 ott. 1308 al suono della campana a stormo corsero alle armi le compagnie del popolo, i mercenari catalani, i magnati nemici e si celebrò davanti al palazzo dei priori un sommario processo che si concluse con la condanna a morte del D., giudicato colpevole di alto tradimento per aver tramato con Uguccione. Subito dopo gli armati si diressero verso le sue case. Molti che il D. credeva fedeli si ritrassero (ad eccezione di Gherardo Bordoni, che gli resterà a fianco fino in fondo), ma nonostante ciò l'accanita resistenza agli assalitori durò per ore e l'esito apparve incerto finché con uno stratagemma non si allontanarono le truppe di Uguccione, giunto in soccorso al genero e ormai in prossimità delle porte di Firenze. Al D. non restò che tentare la fuga, ma venne raggiunto da un drappello di soldati catalani, catturato e poi ucciso nei pressi del convento di S. Salvi.
L'epitaffio più bello glielo scrisse un accanito avversario politico, Dino Compagni, che già aveva avuto modo di paragonarlo a "Catellina romano"; prima di notare che certo fu "pieno di maliziosi pensieri, reo e astuto", si dilungò in una serie di elogi che valgono a far capire la fortuna e l'importanza del personaggio: cavaliere di grande valore, d'illustre famiglia, di bellissimo aspetto, saggio e forbito oratore, teso sempre a progetti grandiosi, amico dei principali potenti, famoso in tutta Italia (Compagni, III, p. 21). Il suo fascino di guerriero e di uomo fu grande, come testimoniano anche Guittone d'Arezzo che a lui inneggiò nelle sue Rime (E Monaci, Crestomazia, p. 183) e l'illustre medico Taddeo Alderotti che al D. dedicò il trattatello De conservanda sanitate. A distanza di due secoli il Machiavelli, dopo aver in breve narrato le vicende della sua vita, concludeva: "S'egli avessi avuto lo animo più quieto, sarebbe più felice la memoria sua; non di meno merita di essere numerato intra i rari cittadini che ebbi avuti la nostra città" (Istoriefiorentine, II, 23). In effetti nei suoi continui e trasparenti tentativi di conquistare lo Stato per farsene signore fu probabilmente troppo poco duttile per riuscire nell'intento; ma la sua figura - che assai singolarmente ci appare per certi versi anacronistica e per altri precorritrice - vale soprattutto a dimostrare come nella Firenze del suo tempo si vivesse, pur tra continue tensioni, in una cosi larga e complessa congerie di contrapposti ed equilibrati poteri che era impresa pressoché impossibile per un solo uomo venirne a capo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Diplomatico, S. Domenico, 26 maggio 1277-23 dic. 1282; Ibid., Diplomatico, S. Maria degli Angioli, 7 ag. 1286; Ibid., Diplomatico, Adespote, Fine sec. XIII, (5); Ibid., Provvisioni. Registri, 14, c. 32r (9 ag- 1308); ibid., 15, c. 91r (16 sett. 1317); ibid., 18, c. 16 (29 Sett. 1321); Ibid., Manoscritti, 285, cc. 49, 87, 180, 245; D. Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., IX, 2, a cura di I. Del Lungo, ad Indicem; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, ibid., XXX, 1, a cura di N. Rodolico, pp. 63, 72 s., 82-85, 89 s., 100 s.; Delizie degli eruditi toscani, IX (1777), XXIV (1786), ad Ind. (in XXV [1789]); G. Villani, Cronica, a cura di L. Magheri, Firenze 1823, locc. citt.; P. Pieri, Cronica, a cura di A. F. Adami, Roma 1755, pp. 58, 61 s., 68-71, 80; Le Consulte della Repubblica fiorentina dall'anno MCCLXXX al MCCXCVIII, a cura di A. Gherardi, I-II, Firenze 1896-1898, ad Indices; P. Papa, Due lettere di C. D. capitano a Bologna nel 1293, in Raccolta di studi critici dedicata ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 367-374; R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, III, Berlin 1901, pp. 264-270, 284; IV, ibid. 1908, pp. 259-265, 565 s., 568, 571; Cronichetta inedita della prima metà del sec. XIV, in P. Santini, Quesiti e ricerche di storiografia fiorentina, Firenze 1903, pp. 121 s., 124, 126-129; IConsigli della Repubblica fiorentina, a cura di B. Barbadoro, I, 2, Bologna 1930, pp. 102 s., 110, 192, 248, 352; Pseudo Brunetto Latini, Cronica fiorentina, in Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, a cura di A. Schiaffini, Firenze 1954, pp. 147 s.; E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, a cura di F. Arese, Roma-Napoli-Città di Castello 1955, p. 220; I. Lori Sanfilippo, La pace del cardinale Latino a Firenze nel 1280. La sentenza e gli atti complementari, in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medio Evo, LXXXIX (1980-81), p. 254; N. Machiavelli, Istorie fiorentine, a cura di V. Fiorini, Firenze 1962, pp. 200-205; F. Puccinotti, Storia della medicina, Livorno 1850, II, p. XLIV; G. Levi, Bonifazio VIII e le sue relazioni col Comune di Firenze, in Arch. della Soc. romana di storia patria, V (1882), pp. 375-474; R. Caggese, Firenze dalla decadenza di Roma al Risorgimento d'Italia, II, Firenze 1913, pp. 8-20, 28, 46-67; I. Del Lungo, IBianchi e i Neri, Milano 1921, passim; P. Villari, Iprimi due secoli della storia di Firenze, Firenze 1950, ad Indicem; R. Davidsolm, Storia di Firenze, III-VII, Firenze 1957-1965, ad Indicem; N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Torino 1962, ad Indicem; G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Milano 1966, ad Indicem; M. B. Becker, Florence in transition, I, Baltimore 1967, pp. 82, 136; H. L. Oerter, Campaldino 1289, in Speculum, XLIII (1969), pp. 429-50; E. Sestan, C. D., in Enc. Dantesca, I, Roma 1970, pp. 558 ss.; G. Salvemini, La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze e altri scritti, Milano 1972, pp. 253.256, 377 s.; Ghibellini, guelfi e popolo grasso, Firenze 1978, ad Indicem.