Abstract
Vengono esaminate la struttura e le competenze della Corte internazionale di giustizia, organo giudiziario principale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. La Corte ha innanzitutto una competenza generale a risolvere in base al diritto internazionale controversie tra Stati; l’esercizio di tale funzione presuppone l’esistenza di un accordo delle parti volto ad attribuire competenza alla Corte. Su richiesta di organi delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni internazionali autorizzate dalle Nazioni Unite, la Corte può inoltre rendere pareri non vincolanti su questioni giuridiche.
Lo Statuto della Corte internazionale di giustizia, adottato a San Francisco nel 1945, ha un contenuto che ricalca in gran parte quello dello Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale, adottato nel 1920. Solo poche modifiche furono apportate alle disposizioni relative all’organizzazione della Corte e alla procedura davanti ad essa. Le funzioni assegnate alla nuova Corte sono rimaste le stesse di quella precedente: risolvere in base al diritto internazionale le controversie sottoposte dagli Stati (art. 38, par. 1) e rendere pareri su questioni giuridiche (art. 65). L’intenzione di assicurare una sostanziale continuità tra le due Corti trova riscontro in alcune disposizioni dello Statuto che trasferiscono alla nuova Corte la competenza riconosciuta alla Corte permanente in base a dichiarazioni unilaterali o trattati (artt. 36, par. 5, e 37). Una differenza significativa attiene invece al rapporto esistente tra le due Corti e, rispettivamente, la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite. Mentre, ai sensi dell’art. 1 dello Statuto del 1920, la Corte permanente era istituita «in conformità con l’art. 14 del Patto della Società delle Nazioni», la corrispondente disposizione adottata nel 1945 stabilisce che, in forza della Carta delle Nazioni Unite, la Corte internazionale di giustizia opera come «organo giudiziario principale» dell’Organizzazione (così anche l’art. 92 della Carta).
L’esistenza di questo «legame organico» si riflette nel ruolo assegnato all’Organizzazione in relazione a vari aspetti dell’attività della Corte: la procedura di elezione dei giudici (artt. 4-12 dello Statuto), le spese di funzionamento (art. 33), la determinazione dei criteri per l’esercizio della giurisdizione rispetto a Stati che non sono membri dell’Organizzazione (art. 35), l’indicazione dei soggetti abilitati a chiedere pareri (art. 65), la procedura per la modifica dello Statuto (art. 69) e l’esecuzione delle sentenze (art. 94 della Carta). Peraltro, la natura «giudiziaria» della funzione assegnata alla Corte giustifica il fatto che, nell’esercizio di tale funzione, essa goda di una notevole autonomia nei confronti dell’Organizzazione. A differenza degli altri organi, la Corte è istituita e funziona sulla base di un trattato – lo Statuto – che è distinto dalla Carta e del quale, a certe condizioni, possono divenire parti Stati che non sono membri delle Nazioni Unite. Nella sua giurisprudenza, essa si è frequentemente richiamata all’esigenza di «proteggere l’integrità della funzione giudiziaria della Corte e la sua natura di organo giudiziario principale delle Nazioni Unite», per esempio per giustificare la possibilità di non rendere un parere (da ultimo, parere del 22.7.2010, in ICJ Reports 2010, p. 416). Inoltre, a differenza di quanto è previsto per altri organi dell’Organizzazione (per esempio, nei rapporti tra Assemblea generale e Consiglio di sicurezza: art. 12 della Carta), nessuna disposizione della Carta o dello Statuto limita l’attività della Corte rispetto a controversie o situazioni sulle quali altri organi politici hanno esercitato o stiano esercitando le proprie funzioni. Al contrario, la Corte ha più volte rivendicato la propria competenza a risolvere questioni giuridiche che siano oggetto di una controversia tra le parti anche qualora un altro organo stia parallelamente esercitando le sue funzioni in relazione alla stessa controversia (es. sentenza del 24.5.1980, in ICJ Reports 1980, p. 21).
Le regole fondamentali che disciplinano l’organizzazione e l’attività della Corte sono contenute nello Statuto. Trattandosi di un trattato internazionale tra Stati, è sostanzialmente lasciata a questi ogni decisione circa la sua modifica (art. 69 dello Statuto). Rispetto allo Statuto, la Corte ha soltanto il potere di fare proposte di modifica (art. 70). Ben più rilevante è il potere assegnato alla Corte dall’art. 30 dello Statuto, in forza del quale essa può adottare regole per disciplinare l’esercizio delle sue funzioni. Tale potere è stato esercitato attraverso l’adozione di un regolamento di procedura (quello attualmente in vigore è del 1978, modificato da ultimo nel 2005). Nell’esercizio di questo potere regolamentare, la Corte è tenuta a rispettare quanto previsto dallo Statuto. Nella prassi è stata sollevata talora, anche da parte di alcuni giudici, la questione della effettiva conformità allo Statuto di alcune disposizioni del regolamento (con riguardo alla disciplina relativa alla durata del mandato dei giudici che compongono una camera ad hoc, v. l’opinione dissidente del giudice Shahabudden annessa all’ordinanza del 28.2.1990, in ICJ Reports 1990, p. 416). Con riguardo al regolamento, se è vero che la Corte ha il potere di modificarlo, essa è tuttavia tenuta a conformarvisi quando esercita le proprie funzioni in relazione ad un caso specifico. Il regolamento stesso fornisce un’indicazione in questo senso laddove prevede che la possibilità di applicare ad un procedimento contenzioso regole diverse da quelle contenute nel regolamento sia subordinata al consenso di tutte le parti al procedimento (art. 101). Non mancano peraltro casi nei quali la Corte è sembrata discostarsi dal proprio regolamento al fine di adeguarne la disciplina alle particolari circostanze del caso (con riguardo al potere della Corte di indicare proprio motu misure cautelari in presenza della richiesta di una parte e senza dare all’altra parte la possibilità di replica, v. l’opinione separata del Presidente Schwebel allegata all’ordinanza del 3.3.1999, ICJ Reports 1999, p. 21). Sempre nell’esercizio del proprio potere regolamentare, la Corte ha adottato, a partire dal 2001, «Istruzioni procedurali» (Practice directions). Queste sono state utilizzate principalmente per assicurare una maggiore cooperazione degli Stati nello svolgimento dei procedimenti. Tale esigenza è particolarmente avvertita dalla Corte da quando, a partire dagli ultimi due decenni, il carico di lavoro ha cominciato a farsi più consistente. La prassi giudiziaria interna della Corte è poi regolata, in conformità a quanto previsto dall’art. 19 del regolamento, da un’apposita risoluzione (quella attualmente in vigore è stata adottata il 12.4.1976). Infine, soprattutto al fine di risolvere questioni interpretative riguardanti la disciplina contenuta nel regolamento, la Corte fa ricorso a principi generali in materia di procedura. Tra quelli spesso richiamati si possono menzionare il principio di eguaglianza delle parti e il principio di buona amministrazione della giustizia.
I giudici della Corte sono eletti dal Consiglio di sicurezza e dall’Assemblea generale tra persone che, indipendentemente dalla nazionalità, possiedano i requisiti per la nomina, nei rispettivi Stati, alle più alte cariche giudiziarie o siano giuristi di riconosciuta competenza nel campo del diritto internazionale (art. 2 dello Statuto). Si tratta, per lo più, di persone che provengono dalla carriera accademica o diplomatica, o di ex consiglieri giuridici di uno Stato. Può essere interessante rilevare come più di un terzo delle persone elette come giudice della Corte fossero in precedenza membri della Commissione di diritto internazionale – un dato, questo, che contribuisce alla presa in considerazione dei lavori della Commissione in seno alla Corte. Nella elezione dei giudici della Corte, l’art. 9 dello Statuto chiede che si tenga conto dell’esigenza che siano rappresentate le principali forme di civiltà e i principali sistemi giuridici del mondo. Nella prassi, la composizione della Corte riflette i cinque gruppi geografici presenti in seno alle Nazioni Unite (Europa occidentale e altri, Europa orientale, Asia, Africa, America latina e Caraibi); inoltre i membri della Corte comprendono generalmente cinque giudici aventi la nazionalità di ciascuno degli Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
I giudici sono eletti per un periodo di nove anni e sono rieleggibili. Lo Statuto regola l’ipotesi della cessazione della funzione prima della scadenza del mandato (artt. 14 e 15) e prevede la possibilità della rimozione (art. 18). Stabilisce inoltre alcune incompatibilità e divieti (artt. 16 e 17). L’art. 24 prevede che, «for some special reasons», un giudice possa scegliere di non prendere parte alla decisione su una causa; stabilisce altresì che il Presidente, o in ultima istanza la Corte, possa chiedere ad un giudice di non partecipare a una decisione. Le «special reasons» in questione sono motivi, ulteriori rispetto a quelli indicati dagli articoli 16 e 17, in presenza dei quali un giudice, pur non essendo tenuto a farlo, può ritenere opportuno auto-ricusarsi.
I giudici nominano al proprio interno un Presidente, che dura in carica per tre anni. Le principali funzioni del Presidente sono indicate all’art. 12 del regolamento. Spetta altresì alla Corte il compito di nominare il Cancelliere (per le funzioni del Cancelliere, si veda l’art. 26 del regolamento).
L’art. 31 dello Statuto prevede che ciascuna delle parti abbia il potere di nominare un giudice se la Corte già non comprende un giudice avente la nazionalità di tale Stato. Tale giudice, che il regolamento qualifica come «giudice ad hoc», non necessariamente deve avere la nazionalità dello Stato che lo indica. Il giudice ad hoc è sottoposto agli stessi obblighi di imparzialità e di indipendenza degli altri giudici. La sua funzione è essenzialmente quella di assicurare che gli argomenti presentati dalla parte che lo ha indicato siano adeguatamente presi in considerazione dalla Corte (si veda a questo riguardo l’opinione separata del giudice ad hoc Lauterpacht annessa all’ordinanza del 13.9.1993, in ICJ Reports 1993, p. 409). La presenza di giudici nominati dalle parti costituisce un dato che può apparire non pienamente coerente con la natura di giurisdizione permanente propria della Corte. Tuttavia questo istituto non è stato mai messo in discussione e continua ad essere pienamente utilizzato dagli Stati. Solo recentemente, in una dichiarazione all’Assemblea generale, il Presidente della Corte ha invitato gli Stati a considerare la possibilità di non nominare giudici ad hoc; tale invito è stato giustificato sulla base del considerevole onere finanziario che ricade sulla Corte a seguito della nomina di tali giudici (si veda la dichiarazione del Presidente Higgins del 30.10.2008).
A differenza di altri tribunali internazionali che organizzano la propria attività attraverso l’assegnazione delle cause a diverse sezioni, la Corte, come regola generale, esercita le proprie funzioni in composizione plenaria (art. 25 dello Statuto). Al momento il carico di lavoro è tale da consentire di rispettare senza troppa difficoltà tale indicazione. Se il numero di cause dovesse aumentare in modo considerevole, una più efficiente organizzazione in sezioni sarebbe possibile solo a seguito di una modifica dello Statuto. Questo, infatti, contempla la possibilità di assegnare una causa a formazioni più ristrette – le camere. Tuttavia, in base allo Statuto, il ricorso ad una camera è sempre subordinato all’esistenza di un accordo tra le parti in lite.
Lo Statuto fa riferimento a tre diversi tipi di camere. In base all’art. 29, la Corte istituisce annualmente una camera composta da cinque giudici, la quale, attraverso l’applicazione di una procedura sommaria, permetta la rapida trattazione di una causa. Gli Stati non si sono mai avvalsi di questo strumento, mostrando di non attribuire un grande peso, nelle scelta di ricorrere alla Corte, alla possibilità di ottenere un giudizio in tempi rapidi.
In base all’art. 26, par. 1, la Corte può istituire una o più camere, di tre o più giudici, per decidere particolari categorie di controversie. L’idea è di offrire agli Stati la possibilità di ricorrere ad un organo più ristretto ma avente un maggior grado di specializzazione in certe materie. La prima ed unica camera di questo tipo creata dalla Corte è la camera per le questioni ambientali, istituita nel 1993 e più volte ricostituita. Tuttavia, nel 2006, prendendo atto del fatto che gli Stati hanno comunque preferito attribuire alla Corte in composizione plenaria controversie in materia ambientale, la Corte ha deciso di non ricostituirla.
Infine, l’art. 26, par. 2, prevede che in ogni momento possa essere istituita una camera per la trattazione di una determinata causa (denominata anche «camera ad hoc»). Si tratta di uno strumento che ha avuto un certo successo presso gli Stati. In particolare, nel periodo tra il 1981 e il 1987, quattro casi, ossia quasi la metà di quelli attribuiti alla Corte in quel periodo, sono stati affidati a camere ad hoc. Il motivo di tale successo va ricercato nella modifica introdotta nel 1978 nel regolamento, grazie alla quale è data alle parti la possibilità di esprimere indicazioni circa i giudici che vorrebbero vedere eletti tra i componenti della camera (art. 17, par. 2). Questa disposizione è stata talora criticata in quanto attribuirebbe un ruolo eccessivo alle parti, conferendo così un carattere arbitrale alla procedura davanti alla Corte. Il dibattito su questo punto appare oggi sopito, anche per effetto del fatto che, dal 1987 ad oggi, solo un caso è stato deciso da una camera ad hoc.
Solo gli Stati possono essere parti di un processo davanti alla Corte (art. 34 dello Statuto). Condizione per l’esercizio della funzione contenziosa è che vi sia una controversia e che le parti abbiano accettato la giurisdizione della Corte a risolverla. Come osservato dalla Corte, «la giurisdizione della Corte si fonda sul consenso delle parti. Tuttavia né lo Statuto né il regolamento della Corte richiedono che il consenso mediante il quale le parti conferiscono giurisdizione alla Corte si esprima in una forma particolare» (sentenza del 4.6.2008, ICJ Reports 2008, p. 203). Ai sensi dell’art. 36, par. 1, dello Statuto, la giurisdizione della Corte si estende a tutti i casi che le parti le attribuiscono sulla base di «trattati e convenzioni in vigore». Ciò comprende innanzitutto il «compromesso», ossia l’accordo concluso dalle parti dopo l’insorgere della controversia al fine di investire la Corte della competenza a risolverla. Accordi di questo tipo sono spesso conclusi al fine di risolvere controversie in materia di delimitazione territoriale. Un altro strumento attraverso il quale si può manifestare l’accordo delle parti è costituito dalle clausole compromissorie, ossia clausole di un trattato che stabiliscono la competenza della Corte rispetto a tutte le future controversie tra le parti al trattato aventi ad oggetto l’interpretazione e l’applicazione di questo. Clausole di questo tipo sono contenute in un numero considerevole di trattati bilaterali o multilaterali (ad esempio, nell’art. IX della Convenzione del 1948 sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio), al punto che in più della metà delle cause sottoposte alla Corte nell’ultimo decennio la giurisdizione si è fondata su una clausola compromissoria. L’accordo delle parti può poi prendere la forma di un trattato generale di regolamento giudiziario, ossia un trattato il cui oggetto principale è di impegnare le parti a riconoscere la competenza della Corte in relazione a varie categorie di controversie ivi indicate. Tra questi possono essere menzionati il Trattato americano per la soluzione pacifica delle controversie (o Patto di Bogotà), del 1948, e l’analoga Convenzione europea del 1957. Infine, è possibile che l’accordo delle parti si manifesti attraverso comportamenti concludenti delle parti. Come osservato dalla Corte, l’art. 36, par. 1, dello Statuto può essere interpretato nel senso di ammettere la possibilità del forum prorogatum, che si realizza «allorquando lo Stato convenuto, attraverso la sua condotta davanti alla Corte o nelle sue relazioni con lo Stato attore, agisce in modo tale da manifestare la propria accettazione della competenza della Corte» (sentenza del 4.6.2008, ICJ Reports 2008, p. 203).
Un ultimo mezzo per attribuire giurisdizione alla Corte è previsto all’art. 36, par. 2, dello Statuto. Si tratta della dichiarazione unilaterale con la quale uno Stato accetta la giurisdizione della Corte nei rapporti con altri Stati che abbiano fatto identica dichiarazione. In questo caso, l’accordo delle parti si manifesta attraverso l’incontro tra le rispettive dichiarazioni unilaterali. La Corte, che pure ha spesso valorizzato il carattere unilaterale della dichiarazione, ha definito questo meccanismo di accettazione della giurisdizione come «una serie di impegni bilaterali con altri Stati che accettano lo stesso obbligo» (sentenza del 27.6.1986, ICJ Reports 1986, p. 418). Attualmente sono 69 gli Stati che hanno fatto tale dichiarazione; tra questi la gran parte dei paesi membri dell’Unione europea (ma non l’Italia). In genere, nel formulare la dichiarazione, gli Stati ne limitano la portata ponendo una serie di condizioni (definite in genere come «riserve»). Queste riserve possono introdurre limiti ratione temporis (per es., escludendo controversie sorte prima di una certa data) o ratione materiae (per es. escludendo controversie in materia di sovranità territoriale) alla competenza della Corte. Tra quelle più ricorrenti si possono menzionare le riserve riguardanti controversie rispetto alle quali le parti avevano accettato di ricorrere ad un altro meccanismo di soluzione o relative a controversie che si ritengono rientrare nella competenza interna degli Stati.
Anche se la Corte ha giurisdizione, possono sussistere motivi che portano la Corte a considerare irricevibile il ricorso e conseguentemente a non pronunciarsi sulla controversia. A questi motivi di irricevibilità fa riferimento l’art. 79 del regolamento, senza tuttavia meglio precisare quali questi siano. Come ha osservato la Corte, i motivi di irricevibilità hanno un contenuto estremamente vario; inoltre, non sempre è facile distinguere un motivo di irricevibilità da uno di competenza (sentenza 18.11.2008, ICJ Reports 2008, p. 456). Obiezioni alla ricevibilità sono state formulate sulla base, tra gli altri motivi, del carattere politico della controversia, dell’assenza di un interesse ad agire in capo al ricorrente, o dell’assenza di una parte «indispensabile».
Il procedimento si instaura attraverso la notifica del compromesso o il deposito di un ricorso unilaterale (art. 40 dello Statuto). Se, al momento della presentazione del ricorso, lo Stato attore non indica un titolo di giurisdizione, la causa sarà iscritta al ruolo solo se lo Stato convenuto, con la sua condotta, manifesterà di accettare tale giurisdizione (art. 35, par. 5, del regolamento). Le parti sono rappresentate da agenti, i quali, non appena nominati, sono convocati dal Presidente per definire il numero di atti difensivi e i tempi per la loro presentazione (art. 31). Il processo si articola in una fase scritta ed in una successiva fase orale. Quest’ultima si chiude con la lettura da parte degli Stati in lite delle conclusioni presentate alla Corte. Gli atti processuali sono pubblici. Sentite le parti, la Corte può decidere di rendere accessibili le memorie scritte già al momento dell’apertura della fase orale (art. 53). Memorie scritte e verbali delle sedute orali di ciascuna causa sono disponibili al sito internet della Corte.
Poiché, per giurisprudenza costante, «spetta alla parte che allega un fatto l’onere di provarlo» (da ultimo, sentenza del 20.4.2010, ICJ Reports 2010, p. 71), una componente importante dell’attività processuale delle parti è costituita dalla presentazione di elementi di prova. Lo strumento più utilizzato è la prova documentale. Documenti possono essere presentati fino alla chiusura della fase scritta. Dopo tale momento una parte può presentare nuovi documenti solo col consenso dell’altra parte, a meno che questo non faccia parte di una «pubblicazione facilmente accessibile» (art. 56 del regolamento). Quest’ultima nozione si presta a non pochi dubbi interpretativi. Le parti possono poi chiedere l’audizione di testimoni ed esperti. Anche la Corte può avvalersi di esperti (art. 51 dello Statuto). Si tratta di uno strumento al quale la Corte ha fatto ricorso solo raramente. La scarsa disponibilità mostrata dalla Corte rispetto all’uso di esperti appare poco giustificata quando la controversia sulla quale è chiamata a pronunciarsi solleva complesse questioni di carattere tecnico-scientifico (si veda in questo senso le critiche mosse dai giudici Simma e Al-Khasawneh nella opinione dissidente congiunta annessa alla sentenza del 20.4.2010, ICJ Reports 2010, p. 1008 ss.).
Nel corso del procedimento principale la Corte può essere chiamata a pronunciarsi su altre questioni che richiedono l’apertura di procedimenti incidentali. Tali procedimenti possono avere ad oggetto le eccezioni preliminari sulla giurisdizione della Corte e la ricevibilità delle domande (art. 79 del regolamento), le domande riconvenzionali (art. 80), il rinvio speciale alla Corte (art. 87) e la rinuncia a proseguire il processo (art. 88). Anche il giudizio sulla richiesta di misure cautelari e quello sulla ammissibilità dell’intervento di Stati terzi comportano l’apertura di una fase incidentale.
a) L’art. 41 dello Statuto prevede che la Corte «ha il potere di indicare, se considera che le circostanze lo richiedano, ogni misura provvisoria che deve essere presa per la protezione dei diritti rispettivi di ciascuna delle parti». Come la Corte ha chiarito attraverso una giurisprudenza ormai consolidata, le condizioni necessarie per l’indicazione di misure cautelari sono: l’esistenza prima facie della giurisdizione della Corte, un legame tra il diritto che si vuole proteggere e la misura richiesta, un grave rischio di un pregiudizio irreparabile e l’urgenza. Un altro punto che la Corte ha provveduto a chiarire riguarda gli effetti delle misure cautelari da essa adottate. Interpretando l’art. 41 alla luce dell’oggetto e dello scopo dello Statuto, la Corte è giunta alla conclusione che tali misure hanno effetto obbligatorio per la parte che ne è destinataria (sentenza 27.6.2001, ICJ Reports 2001, p. 504). Peraltro, in più di un caso la Corte ha provveduto ad accertare la violazione di obblighi imposti da misure cautelari e a pronunciarsi sulle conseguenze giuridiche derivanti da tale illecito. Il riconoscimento della natura obbligatoria delle misure cautelari sembra aver comportato una maggiore cautela da parte della Corte nell’accedere alle richieste delle parti. Un’indicazione in questo senso può essere rinvenuta nel fatto che, nella giurisprudenza più recente, la Corte richiede, come condizione per l’indicazione di tali misure, che l’esistenza dei diritti allegati dalla parte richiedente sia «plausibile» (es. ordinanza del 28.5.2009, ICJ Reports 2009, p. 151).
b) Lo Statuto contempla due diverse forme di intervento. In base all’art. 63, qualora una controversia sollevi una questione di interpretazione di un trattato, qualunque Stato parte di tale trattato ha il diritto ad intervenire. Scopo dell’intervento è quello di consentire agli Stati parti del trattato di partecipare al procedimento al fine di presentare osservazioni circa l’interpretazione da dare a questo. L’art. 63 precisa che l’interpretazione resa dalla Corte sarà egualmente vincolante nei confronti dello Stato interveniente. Il sorgere di tale vincolo spiega probabilmente perché tale strumento sia stato poco utilizzato: solo 4 dichiarazioni di intervento sono state ad oggi presentate; di queste, solo due sono state dichiarate ammissibili. Da segnalare che, a seguito di una modifica introdotta nel 2005, in situazioni analoghe a quelle previste dall’art. 63, l’art. 43 del regolamento consente ad organizzazioni internazionali che siano parti di un trattato di inviare osservazioni scritte circa l’interpretazione da dare a questo. L’interpretazione della Corte non vincolerà l’organizzazione.
L’altra forma di intervento è prevista dall’art. 62 dello Statuto, in forza del quale la Corte può permettere di intervenire ad uno Stato titolare di «un interesse di natura giuridica che può subire un pregiudizio dalla sentenza della Corte». Le condizioni che giustificano questo tipo di intervento sono state nel tempo definite dalla Corte attraverso una giurisprudenza che appare nel complesso poco coerente. La Corte ha innanzitutto chiarito che l’intervento in base all’art. 62 può avere due oggetti distinti: uno Stato può chiedere di intervenire come parte al fine di vedersi riconosciuto dalla Corte un proprio diritto in causa; oppure esso può domandare di intervenire come «non parte» allo scopo di informare la Corte dell’esistenza di un proprio diritto e di ottenere così una protezione del diritto in questione. La distinzione è rilevante soprattutto perché solo nel primo caso lo Stato che chiede di intervenire dovrà avere un «legame giurisdizionale» con le altre parti tale da giustificare l’accertamento dei suoi diritti da parte della Corte. L’altro aspetto sul quale si è soffermata la giurisprudenza della Corte riguarda la nozione di «interesse che rischia di essere pregiudicato dalla sentenza». La Corte ha dato una interpretazione restrittiva di tale nozione, in particolare in alcune recenti richieste di intervento relative ad un ambito, quello delle delimitazioni marittime, dove il problema della tutela delle posizioni di Stati terzi è particolarmente avvertito. Ciò spiega perché, delle 9 richieste di intervento in base all’art. 62 sulle quali la Corte si è ad oggi pronunciata, solo 3 sono state dichiarate ammissibili.
Le sentenze della Corte presentano due parti: motivazione e dispositivo. I singoli giudici possono inoltre allegare alla sentenza dichiarazioni e opinioni separate o dissidenti. L’art. 59 dello Statuto stabilisce che «le decisioni della Corte non hanno effetti vincolanti se non per le parti in lite e in relazione al caso in questione». L’effetto vincolante riguarda solo il dispositivo e non le motivazioni, anche se quest’ultime rilevano al fine di stabilire la portata del dispositivo. La sentenza ha forza di cosa giudicata; essa è «definitiva e senza appello» (art. 60). Le parti possono unilateralmente rivolgersi alla Corte per ottenere l’interpretazione di tale sentenza (art. 60). Non è necessario uno specifico accordo delle parti che attribuisca competenza alla Corte a risolvere la controversia sull’interpretazione (ordinanza del 16.7.2008, ICJ Reports 2008, p. 323). Una parte può presentare anche domanda di revisione nel caso in cui, dopo la sentenza, sia scoperto un nuovo fatto non noto in precedenza (art. 61). Anche le sentenze aventi ad oggetto la giurisdizione della Corte o l’ammissibilità di una domanda hanno forza di cosa giudicata relativamente alla questione sulla quale la Corte si sia pronunciata «espressamente o per necessaria implicazione» (sentenza del 27.2.2007, ICJ Reports 2007, p. 95). Non è previsto un meccanismo che permetta alla Corte di monitorare l’effettiva esecuzione della sentenza. Tuttavia, l’art. 94, par. 2, della Carta stabilisce che, in caso di mancata esecuzione, una parte possa rivolgersi al Consiglio di sicurezza il quale, «se lo riterrà necessario, può fare raccomandazioni o decidere le misure da prendere per dare effetto alla sentenza». Tale possibilità è stata utilizzata solo una volta, peraltro senza che il Consiglio di sicurezza adottasse alcun provvedimento.
L’art. 96 della Carta stabilisce che «l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza possono chiedere alla Corte internazionale di giustizia di rendere un parere su qualsiasi questione giuridica. Altri organi delle Nazioni Unite e istituti specializzati, che siano stati a tal fine autorizzati dall’Assemblea generale, possono chiedere un parere alla Corte su questioni giuridiche che sorgono nell’ambito della loro attività». Ad oggi, tra organi delle Nazioni Unite e istituti specializzati, sono 21 i soggetti abilitati a chiedere un parere. Di fatto, la maggior parte delle richieste di parere è giunta dall’Assemblea generale. Tra gli organi principali delle Nazioni Unite, solo il Segretario Generale non è stato autorizzato ai sensi dell’art. 96. Si è così preferito evitare di attribuire un potere significativo ad un organo che non è sottoposto ad un controllo diretto da parte degli Stati.
Nell’accertare la propria competenza a rendere un parere la Corte verifica se la richiesta ha ad oggetto una «questione giuridica», se questa proviene da un organo o organizzazione abilitata a chiederla, e, nel caso di una richiesta da parte di organi autorizzati delle Nazioni Unite o di istituti specializzati, se la questione ricade «nell’ambito della attività» dell’organo o organizzazione (su questo ultimo punto, si veda il parere dell’8.7.1996, ICJ Reports 1996, p. 66 ss., con il quale la Corte ha ritenuto che una richiesta di parere proveniente dall’Organizzazione mondiale della sanità non rispettasse tale condizione). Come la Corte ha più volte ribadito, l’art. 65 dello Statuto non impone alla Corte di rendere un parere. Peraltro, ad avviso della Corte, poiché la risposta ad una richiesta di parere rappresenta una forma di partecipazione all’attività delle Nazioni Unite, tale richiesta può essere rifiutata solo in presenza di «ragioni stringenti». Tra le ragioni che possono giustificare un tale rifiuto, la Corte ha fatto riferimento a questioni che attengono al riparto di funzioni tra organi delle Nazioni Uniti o al fatto che il parere richiesto verta su una questione che è oggetto di una controversia tra Stati che non abbiano accettato la giurisdizione contenziosa delle Corte. A differenza della Corte Permanente, l’attuale Corte non ha mai ravvisato l’esistenza di «ragioni stringenti» che le imponessero di rifiutare un parere.
Come il processo contenzioso, anche il processo consultivo è diviso in una fase scritta e in una fase orale. Peraltro, se la Corte le ritiene applicabili, le disposizioni che regolano il processo contenzioso si estendono anche al processo consultivo (art. 68 dello Statuto). Rispetto alla procedura contenziosa la principale differenza riguarda i soggetti abilitati a partecipare al procedimento. L’art. 66 dello Statuto prevede che, a seguito di notifica da parte del Cancelliere o di una richiesta presentata alla Corte, possano presentare memorie scritte e partecipare alle udienze orali tutti gli Stati o le organizzazioni internazionali che la Corte abbia ritenuto idonee «a fornire informazioni sulla questione» oggetto della richiesta di parere. Lo scopo è evidentemente quello di permettere alla Corte di rendere un parere sulla base di un ampio contraddittorio tra tutti i soggetti interessati. La Corte ha talora autorizzato anche la partecipazione al procedimento di attori non statali, quali l’Autorità palestinese o gli autori della dichiarazione di indipendenza del Kosovo, che avevano un interesse specifico sulla questione oggetto del parere. Non è chiaro se in tale caso la partecipazione di tali soggetti si fondasse sull’art. 66 dello Statuto.
Il parere reso dalla Corte non produce effetti vincolanti, neppure per l’organo o l’istituto specializzato che lo ha richiesto. Si tratta comunque di pronunce dotate di forte autorevolezza e non è un caso che queste abbiano spesso avuto un notevole impatto sullo sviluppo e il consolidamento di regole di diritto internazionale. È poi possibile che un accordo internazionale imponga alle parti di riconoscere come vincolante il parere della Corte. Un obbligo di questo tipo è contenuto in alcuni accordi internazionali tra un’organizzazione e i suoi Stati membri (ad es., la Convenzione sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite del 1946). In forza di questi accordi, in caso di controversia tra l’organizzazione e lo Stato membro sull’interpretazione e l’applicazione di questo, l’organizzazione si impegna a chiedere alla Corte un parere e le parti alla Convenzione si considereranno vincolati da tale parere. Questo meccanismo sopperisce alla impossibilità per l’organizzazione di attivare la funzione contenziosa della Corte ma solleva non pochi problemi sotto il profilo dell’eguaglianza delle parti, dal momento che, in principio, spetta all’organizzazione decidere su quando chiedere il parere e sul contenuto della questione da sottoporre alla Corte.
Carta delle Nazioni Unite e Statuto della Corte internazionale di giustizia (San Francisco, 26.1.1945, resi esecutivi in Italia con l. 17.8.1957, n. 848); Regolamento della Corte (adottato il 14.7.1978, ultimo emendamento del 14.4.2005). Tutti i documenti indicati sono disponibili al sito internet della Corte: www.icj-cij.org. Ivi possono anche essere trovate le Practice directions, la Risoluzione della Corte relativa alla prassi giudiziaria interna, tutte le sentenze, i pareri e le ordinanze della Corte, nonché le dichiarazioni unilaterali presentate dagli Stati ai sensi dell’art. 36, par. 2, dello Statuto.
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