Corte penale internazionale
Statuto
di Ornella Ferrajolo
La moderna comunità internazionale ha riconosciuto fin dalle proprie origini - convenzionalmente risalenti alla Pace di Vestfalia del 1648 - l'esistenza di crimini internazionali individuali, o delicta iuris gentium, definizione con la quale, specie a partire dalla fine del 19° sec., si sono indicate attività lesive di beni particolarmente protetti dal diritto internazionale compiute sia da semplici individui, sia da individui aventi la qualità di organi statali (N. Ronzitti, Crimini internazionali, in Enciclopedia giuridica, Istituto della Enciclopedia Italiana, 10° vol., 1995, ad vocem). Tuttavia, il rispetto della sovranità degli Stati, che esclude interferenze esterne nel rapporto con i cittadini, ha a lungo impedito l'istituzione di una giurisdizione internazionale competente per questi crimini. Tale funzione rimaneva sostanzialmente riservata ai tribunali interni, mediante il criterio della giurisdizione universale, che, per talune categorie di crimini, attribuisce a ogni Stato la facoltà di perseguire l'autore indipendentemente dagli ordinari criteri di collegamento all'ordinamento nazionale (come avviene, per es., per la pirateria nell'art. 105 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982), o mediante l'obbligo imposto allo Stato di perseguire i responsabili dinanzi ai propri tribunali o di consegnarli per essere giudicati dai tribunali di altri Stati (secondo il principio aut dedere aut iudicare, accolto, per i crimini di guerra, dalle Convenzioni di Ginevra del 1949).
Tentativi di istituire organi internazionali competenti per la repressione di crimini individuali erano presenti già nel trattato di pace di Versailles del 28 giugno 1919, il cui art. 227 prevedeva di giudicare dinanzi a un tribunale internazionale speciale l'ex imperatore tedesco Guglielmo ii Hohenzollern per il crimine di aggressione, processo che, però, non ebbe luogo (A. Cassese, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, 1984, p. 85). Un significativo progresso si ebbe nel 1945, con i Tribunali di Norimberga e di Tokyo, istituiti per giudicare i responsabili dei crimini commessi nel corso del Secondo conflitto mondiale. Questi rappresentarono le prime concrete esperienze di giurisdizioni penali ad hoc a livello internazionale e diedero impulso allo sviluppo di norme applicabili, specie in relazione alla categoria dei crimini contro l'umanità, che iniziava allora a delinearsi e si sarebbe poi consolidata, di pari passo con la protezione internazionale dei diritti umani (E. Greppi, I crimini di guerra e contro l'umanità nel diritto internazionale, 2001). A tali tribunali sono sostanzialmente assimilabili, in ragione del carattere speciale della giurisdizione, i due tribunali penali internazionali istituiti, sul finire del 20° sec., dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per giudicare le gravi violazioni del diritto umanitario commesse nella ex Iugoslavia e nel Ruanda (v. le risoluzioni nr. 827 del 1993 e nr. 955 del 1994).
Il progetto di una C. p. i. che, a differenza dei citati tribunali, fosse dotata di carattere permanente e di competenza generale per la repressione dei crimini individuali è stato perseguito dall'Assemblea generale dell'ONU fin dal 1947. Dopo una sospensione determinata dal clima politico sfavorevole della guerra fredda, esso ha avuto nuovo impulso negli anni Ottanta. I lavori preparatori si sono però protratti fino al 1994, quando la Commissione del diritto internazionale, organo sussidiario dell'Assemblea generale, ha adottato un progetto di Statuto della Corte penale internazionale che, rielaborato da un comitato preparatorio formato dai rappresentanti degli Stati membri dell'ONU, è stato infine sottoposto alla Conferenza diplomatica dei plenipotenziari riunitasi a Roma dal 15 giugno al 17 luglio 1998. Dopo un intenso negoziato, lo Statuto è stato adottato dalla Conferenza, alla mezzanotte del 17 luglio (UN doc.A/Conf.183/10, 1998, Annex ii). Esso è entrato in vigore il 1° luglio 2002 e, nel volgere di pochi anni, fino al 2005, ne sono diventati parti contraenti 100 Stati. Tra questi vi è l'Italia, che ha ratificato lo Statuto in conformità alla l. 12 luglio 1999, nr. 232.
La C. p. i., che ha sede all'Aia, è un'istituzione internazionale permanente, dotata del potere di giudicare le persone responsabili dei più gravi crimini individuali contemplati dallo Statuto. Essa gode di piena indipendenza sia rispetto agli Stati parti, sia rispetto alle Nazioni Unite. Non è stata infatti seguita la via, inizialmente prospettata, di istituirla come organo dell'ONU. Lo Statuto riconosce alla Corte la personalità giuridica di diritto internazionale, che peraltro in tale ordinamento non si acquista per effetto di una norma convenzionale, bensì mediante la partecipazione effettiva ai rapporti giuridici internazionali, su un piano di parità con gli altri soggetti. Alla C. p. i. sono altresì attribuite personalità e capacità giuridica di diritto interno negli ordinamenti degli Stati contraenti, nonché (in base all'Accordo di New York del 9 sett. 2002) le immunità e i privilegi necessari per l'esercizio delle proprie funzioni.
Dal punto di vista organizzativo, la Corte ha una struttura complessa. Sono infatti suoi organi: la Presidenza; la Sezione d'appello, composta del presidente e di 4 altri giudici; le Sezioni di prima istanza e preliminari, ciascuna composta di 6 giudici; l'Ufficio del procuratore; il cancelliere. Lo Statuto ha inoltre costituito l'Assemblea degli Stati parti, organo con funzioni prevalentemente amministrative, cui è altresì affidato il compito di eleggere i 18 giudici della Corte, assicurando un'equa rappresentanza dei principali sistemi giuridici, delle diverse aree geografiche e dei due sessi. I giudici restano in carica per il periodo di 9 anni e non sono rieleggibili. Essi eleggono il presidente e il vicepresidente, scelti tra i giudici stessi, nonché il cancelliere; inoltre, costituiscono le diverse Sezioni, in modo tale che a ciascuna di esse sia assegnato un numero adeguato di esperti in diritto e procedura penale e in diritto internazionale. Il procuratore e i procuratori aggiunti sono invece eletti dall'Assemblea degli Stati parti, anch'essi per il periodo di 9 anni, e non sono rieleggibili.
Le risorse finanziarie occorrenti per il funzionamento della Corte e dell'Assemblea delle parti provengono dai contributi obbligatori degli Stati che hanno ratificato lo Statuto e da fondi delle Nazioni Unite, questi ultimi destinati soprattutto alle spese per le indagini o i procedimenti che possono essere avviati su segnalazione del Consiglio di sicurezza.
La giurisdizione, o competenza, della C. p. i. non si sostituisce né si sovrappone a quella dei tribunali nazionali. Lo Statuto accoglie infatti il principio di complementarità, in base al quale un caso non può essere giudicato (cosiddetta irricevibilità) qualora lo Stato che ha giurisdizione stia svolgendo indagini al riguardo o stia esercitando l'azione penale, oppure abbia già svolto indagini e deciso di non perseguire le persone coinvolte. Il caso è però ricevibile se lo Stato competente non ha la volontà o la capacità di svolgere le indagini o di esercitare correttamente l'azione penale, o se la decisione di non perseguire i responsabili deriva da mancanza di volontà o di capacità dello Stato. Inoltre, per il principio ne bis in idem, un caso è irricevibile se le persone accusate sono state giudicate per lo stesso crimine da un tribunale statale, a meno che il procedimento abbia avuto lo scopo di sottrarre dette persone al giudizio della Corte, o si sia svolto in modo non indipendente e imparziale, o comunque non idoneo ad assicurare alla giustizia la persona accusata. Il complesso delle norme richiamate è chiaramente improntato al principio per il quale la C. p. i. esercita la sua competenza rispetto a un caso solo nell'ipotesi di mancata attivazione dei tribunali nazionali competenti, con il limite dell'irrilevanza dell'azione statale che non sia volta in buona fede e in modo corretto alla repressione del crimine.
La giurisdizione della C. p. i., oltre a essere complementare a quella degli Stati, non è universale; affinché un caso possa essere giudicato, è infatti necessario il consenso dello Stato che sarebbe competente a esercitare la giurisdizione rispetto a esso. Tale Stato è individuato dallo Statuto in base a due criteri di collegamento con l'ordinamento nazionale largamente utilizzati anche nella legislazione penale degli Stati. Il primo è il criterio di territorialità, che identifica lo Stato competente in base al luogo in cui il crimine è stato commesso; il secondo è il criterio di nazionalità, per il quale competente è lo Stato del quale la persona accusata è cittadino. I due criteri sono alternativi: per instaurare il giudizio dinanzi alla Corte è sufficiente che lo Stato territorialmente competente oppure lo Stato nazionale dell'accusato ne abbia accettato la giurisdizione. Tale accettazione si manifesta con carattere di generalità (ossia per tutti i casi in cui sussiste la giurisdizione dello Stato), mediante la ratifica dello Statuto. Se, quindi, uno degli Stati competenti a giudicare un caso è parte allo Statuto, ne discende automaticamente anche la competenza della Corte (nei limiti del già ricordato principio di complementarità rispetto ai tribunali nazionali). Nell'ipotesi contraria, la Corte può esercitare la propria giurisdizione solo se questa venga espressamente accettata, mediante un'apposita dichiarazione, da uno almeno degli Stati competenti a giudicare il caso di cui si tratta.
L'unica eccezione al principio del consenso dello Stato competente si ha quando la segnalazione di un crimine alla C. p. i. (referral) è fatta dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. In tale evenienza, la volontà statale non assume rilievo, poiché il Consiglio di sicurezza, in base al capitolo vii della Carta dell'ONU, ha il potere di decidere, con effetti obbligatori per gli Stati, ogni azione che esso ritenga necessaria per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, ciò che, nella prassi, comprende anche l'adozione di misure volte a reprimere gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario commesse nel corso di conflitti internazionali e interni, o nell'ambito di altre situazioni che, a giudizio del Consiglio, costituiscono una minaccia per la pace e per la sicurezza internazionali.
Per quanto riguarda i crimini che la C. p. i. è competente a giudicare (la cosiddetta competenza ratione materiae), in base allo Statuto essi sono: il genocidio, gli altri crimini contro l'umanità, i crimini di guerra, l'aggressione. Si tratta dei crimini internazionali individuali riconosciuti come tali nel diritto consuetudinario (core crimes). Restano invece escluse altre fattispecie - tra le quali il terrorismo internazionale - la cui natura di crimini, pur se affermata in alcuni trattati multilaterali, non è universalmente ammessa (treaty crimes). Consuetudinarie sono altresì le definizioni del genocidio e dei crimini di guerra accolte nello Statuto, il quale, sul punto, riproduce o rinvia alle nozioni ricavabili dalle pertinenti norme internazionali (in particolare, la Convenzione delle Nazioni Unite per la repressione del crimine di genocidio, del 1948 e, per i crimini di guerra, le Convenzioni dell'Aia del 1899 e 1907, e le Convenzioni di Ginevra del 1949, con i Protocolli addizionali del 1977). Più innovativa, nello Statuto, è l'enumerazione dei crimini contro l'umanità, che possono essere commessi in tempo sia di pace sia di guerra; essa, infatti, affianca a fattispecie consolidate (quali omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione, tortura) crimini non contemplati nel diritto tradizionale, come la segregazione razziale (apartheid), la sparizione forzata di individui (desaparecidos), lo stupro, la gravidanza forzata e altre gravi violazioni dei diritti umani attinenti alla sfera sessuale e riproduttiva.
In relazione ai crimini di guerra, lo Statuto contiene una norma transitoria che consente agli Stati di eccettuarli dalla competenza della C. p. i. per il periodo di 7 anni, se commessi sul loro territorio o da loro cittadini, mediante una dichiarazione detta di opting out, contestuale alla ratifica dello Statuto. Tale disposizione, volta a incoraggiare, soprattutto in una prima fase, la partecipazione di quegli Stati che durante il negoziato si erano mostrati poco inclini ad accettare automaticamente la giurisdizione della Corte rispetto ai crimini di guerra, ha conseguito effettivamente lo scopo in alcuni casi (come per la Francia, che ha ratificato lo Statuto esercitando la facoltà di opting out) e non in altri (così per gli Stati Uniti, che hanno deciso di non ratificarlo).
Riguardo all'aggressione, a differenza di quanto è avvenuto per gli altri crimini, non è stato possibile stabilirne la definizione; nel diritto internazionale tale nozione è infatti controversa. Alla Conferenza di Roma si è convenuto che la C. p. i. eserciterà effettivamente la propria competenza rispetto all'aggressione (affermata nello Statuto) soltanto dopo che gli Stati saranno pervenuti a una definizione condivisa e avranno altresì stabilito le condizioni per l'esercizio di tale giurisdizione. L'aggressione, quale più grave violazione del divieto dell'uso della forza nelle relazioni internazionali (V. Starace, Uso della forza nell'ordinamento internazionale, in Enciclopedia giuridica, Istituto della Enciclopedia Italiana, 32° vol., 1994, ad vocem) è, tipicamente, un crimine dello Stato, nozione che il diritto internazionale tende ad applicare ad alcuni illeciti statali di particolare gravità; allo stesso tempo, essa fa sorgere la responsabilità personale degli individui che, in qualità di organi, agiscono per conto dello Stato stesso. In questa materia vi è, quindi, sia la competenza del Consiglio di sicurezza, secondo la Carta dell'ONU, per quanto attiene alle sanzioni nei confronti dello Stato aggressore, sia la competenza della C. p. i., in base allo Statuto, relativamente alla punizione degli individui responsabili. La complessità del tema e l'esigenza di coordinare le competenze dei due organi hanno pertanto suggerito di rinviare la questione all'esame di una commissione istituita con l'Atto finale della Conferenza di Roma e incaricata di elaborare le norme in tema di aggressione, che dovranno essere introdotte nello Statuto con un emendamento adottato dalla quasi totalità (sette ottavi) degli Stati contraenti.
La giurisdizione della C. p. i. riguardo ai crimini indicati si esercita nei confronti delle persone fisiche che hanno più di 18 anni di età. Dal punto di vista temporale vi rientrano, secondo il principio dell'irretroattività dei trattati, i crimini commessi dopo l'entrata in vigore dello Statuto sul piano internazionale e, per i crimini commessi nel territorio o da cittadini di Stati che aderiscono in un momento successivo, dopo l'entrata in vigore dello Statuto nei loro confronti.
Il diritto applicabile nei giudizi è, in primo luogo, lo Statuto stesso, completato dagli Elementi costitutivi dei crimini, adottati dall'Assemblea delle parti per assistere i giudici nell'interpretazione dello Statuto, e dal Regolamento di procedura e prova della Corte. In secondo luogo, si applicano, all'occorrenza, i trattati e le norme generali del diritto internazionale, compreso il diritto consolidato dei conflitti armati. Infine, la C. p. i. può ricorrere, ove necessario, ai principi generali di diritto desumibili dalle leggi penali nazionali. Tali principi sono, del resto, in gran parte accolti espressamente nello Statuto: così il principio per il quale un comportamento non può essere considerato un crimine in assenza di una norma che lo qualifichi come tale (nullum crimen sine lege); il principio per il quale non può essere applicata una pena che non sia prevista per legge (nulla poena sine lege); il principio per il quale il trascorrere del tempo non estingue il crimine (imprescrittibilità dei crimini). Riguardo alle pene applicabili, la più grave prevista dallo Statuto è la reclusione per un periodo di 30 anni, essendo esclusa, come generalmente avviene per i tribunali penali internazionali, la comminazione della pena di morte.
Per l'instaurazione del processo è fondamentale il ruolo del procuratore; ciò costituisce uno degli aspetti più rilevanti dello Statuto sotto il profilo dell'evoluzione del diritto penale internazionale e, specificamente, dell'indipendenza della Corte dagli Stati e dall'ONU. La scelta di istituire l'Ufficio del procuratore - organo permanente, titolare dell'azione penale - non era infatti scontata, essendo astrattamente possibile affidare agli Stati contraenti o al Consiglio di sicurezza il compito di attivare la Corte in relazione ai casi concreti. Lo Statuto, confermando l'orientamento innovativo delineatosi in occasione dell'istituzione dei Tribunali penali per la ex Iugoslavia e per il Ruanda, ha invece attribuito a tali soggetti esclusivamente il potere di segnalare all'Ufficio del procuratore le situazioni in cui appare che uno o più crimini di competenza della Corte sono stati commessi. Spetta, poi, al procuratore valutare se vi sia una base ragionevole per procedere e decidere, dopo avere eventualmente svolto altre indagini, se esercitare o meno l'azione penale. Ancora più rilevante, sotto il profilo dell'indipendenza, è che il procuratore possa avviare indagini anche di propria iniziativa, in assenza di segnalazioni da parte degli Stati o del Consiglio di sicurezza, sulla base di informazioni ricevute da qualsiasi fonte, compresi individui e organizzazioni non governative. È invece sfavorevole all'indipendenza della C. p. i. la norma dello Statuto secondo la quale nessuna indagine o procedimento può essere iniziato o proseguito qualora il Consiglio di sicurezza, agendo in base al capitolo vii della Carta dell'ONU, formuli una richiesta in tal senso. La sospensione opera automaticamente (la Corte non può respingere la richiesta) per il periodo di un anno, al termine del quale la richiesta può essere rinnovata per un uguale periodo. Non è previsto alcun limite per tale reiterazione, con la conseguenza che, di fatto, il Consiglio di sicurezza può prolungare a suo piacimento la sospensione, mediante successive richieste. Tali disposizioni hanno tratto origine dal timore che le funzioni della C. p. i. nell'ambito di situazioni rientranti nella competenza del Consiglio di sicurezza possano interferire con i poteri di tale organo, al quale i membri dell'ONU hanno conferito, con l'art. 24 della Carta, la responsabilità principale nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Si è voluto quindi riservare al Consiglio la possibilità di sospendere, per tutto il tempo necessario, la repressione dei crimini, nei casi in cui essa possa ostacolare tentativi di mediazione o di pacificazione in atto. In tal modo, si è però sancito il potere di un organo politico di interferire nell'esercizio delle funzioni di un organo giurisdizionale, ciò che, dal punto di vista giuridico, non è ammissibile. Tale elemento - insieme alla necessità del consenso dello Stato competente o, in alternativa, di una decisione del Consiglio di sicurezza - conferma che il grado di sviluppo della giustizia penale internazionale, nonostante i notevoli progressi compiuti mediante lo Statuto, è ancora imperfetto.
Occorre altresì considerare che, sul piano operativo, la C. p. i. necessita della cooperazione degli Stati, delle Nazioni Unite e di altri soggetti per potere adempiere effettivamente le sue funzioni. Essa, infatti, non dispone di mezzi propri per procedere all'arresto delle persone accusate, alla raccolta delle prove e delle testimonianze e, in generale, per compiere le attività richieste dallo svolgimento del processo. Lo Statuto pone, quindi, agli Stati contraenti l'obbligo di prestare alla C. p. i., su sua richiesta, la cooperazione e l'assistenza giudiziale necessarie, in conformità con le rispettive leggi nazionali. A tale fine, la C. p. i. può altresì concludere accordi di cooperazione con gli Stati che non sono parti allo Statuto, e cui non incombe, quindi, il predetto obbligo di assistenza.
Accordi analoghi possono essere stipulati dalla C. p. i. con organizzazioni internazionali la cui azione possa concorrere ad assicurare alla giustizia i responsabili di crimini; particolarmente rilevante, in tal senso, è l'Accordo sulle relazioni con le Nazioni Unite, previsto dallo Statuto e firmato a New York il 4 ottobre 2004 (in vigore dalla stessa data), base di una reciproca cooperazione funzionale.
In linea generale, il comportamento degli Stati e delle organizzazioni competenti denota che il funzionamento effettivo della C. p. i. è un obiettivo largamente condiviso. In tal senso depongono non solo l'entrata in vigore dello Statuto a pochi anni dall'adozione e il numero elevato degli Stati che l'hanno ratificato (oltre metà dei membri dell'ONU), ma soprattutto l'avvio, nel 2005, dei primi procedimenti dinanzi alla Corte, relativi a crimini segnalati dai governi degli stessi Stati competenti. Sul piano politico permane, tuttavia, l'ostacolo dell'atteggiamento sfavorevole degli Stati Uniti, i quali, come ricordato, pur avendo partecipato alla Conferenza di Roma e firmato lo Statuto, hanno deciso successivamente di non ratificarlo, in ragione della competenza esclusiva che, secondo la legislazione e la prassi statunitense, deve essere riconosciuta ai tribunali nazionali per il giudizio dei cittadini. Si spiega in tal modo l'elevato numero di accordi bilaterali stipulati da tale Stato al fine di escludere l'eventuale consegna alla C. p. i. di cittadini statunitensi, accordi la cui legittimità è peraltro dubbia, quando essi siano conclusi con Stati parti allo Statuto e non rispettino il principio di non impunità dei crimini (tale, al riguardo, la posizione comune degli Stati membri dell'Unione europea, 2003/444/PESC del 16 giugno 2003, in GUCE, nr. l 150, 18 giugno 2003). Anche la prassi relativa al rapporto con le Nazioni Unite non è del tutto omogenea. La Corte gode infatti di pieno sostegno da parte dell'Assemblea generale e del segretario generale, mentre l'orientamento del Consiglio di sicurezza, influenzato dal potere di veto dei membri permanenti, e segnatamente degli Stati Uniti, appare meno coerente. Per un verso, infatti, il Consiglio di sicurezza ha esercitato ripetutamente, e a detta di molti impropriamente, il potere di sospendere le indagini e i procedimenti dinanzi alla C. p. i. con l'intento di escludere - non in relazione a casi specifici, ma in termini generali - che persone appartenenti alle forze di pace dell'ONU e aventi la cittadinanza di Stati non parti allo Statuto possano essere assoggettate al giudizio della Corte, se accusate di crimini di sua competenza. Per altro verso, si deve al rinvio del Consiglio di sicurezza, deciso con risoluzione nr. 1593 del 2005, l'avvio di un procedimento dinanzi alla Corte per i crimini commessi nella regione del Darfur, procedimento che, mancando il consenso dello Stato competente (il Sudan), non avrebbe potuto altrimenti essere instaurato.
bibliografia
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Procedimento
di Vittorio Fanchiotti
La fase delle indagini
Il procedimento può iniziare (art. 13 dello Statuto) con una segnalazione (referral) di uno Stato parte o del Consiglio di sicurezza dell'ONU, o attraverso l'iniziativa autonoma del procuratore (l'organo dell'accusa), sottoposta però all'autorizzazione della Camera predibattimentale (un collegio di tre giudici). In caso di referral, se il procuratore durante l'indagine non ravvisa un fondamento sufficiente per ottenere un mandato di arresto o ritiene non sia "negli interessi della giustizia" procedere, informa la Camera predibattimentale, nonché la fonte del referral, che può chiedere alla Camera di riesaminare la decisione del procuratore, cui peraltro spetta la decisione definitiva in materia. L'espressione 'interessi della giustizia', che implica situazioni consegnate alla discrezionalità difficilmente sindacabile del procuratore, deve essere considerata alla luce delle esigenze del tutto peculiari della Corte. L'esistenza di un'unica Corte non può soddisfare tutte le richieste di giustizia: è così inevitabile privilegiare le violazioni più gravi in cui gli interessi delle vittime siano particolarmente degni di tutela. Criteri analoghi sono previsti per valutare al termine delle indagini l'assenza di presupposti per esercitare l'azione penale: il procuratore, se non intende procedere, ne informa la Camera predibattimentale e l'autore del referral, il quale può chiedere il riesame della decisione, che può concludersi con l'invito al procuratore a rivedere la sua decisione.
Il ruolo del procuratore
La funzione del procuratore nelle indagini si allontana significativamente dallo schema adversary del processo di parti, per riproporre caratteri propri del juge d'instruction dei sistemi europeo-continentali, anche se le forme ibride assunte da alcuni di questi ultimi hanno avvicinato i due modelli. Analogamente l'art. 54 dello Statuto prevede che, "al fine di stabilire la verità", l'indagine del procuratore riguardi "in eguale maniera le circostanze a carico e quelle a discarico". In realtà il ruolo apparentemente neutrale del procuratore, se riflette un nuovo modello nel quale la contrapposizione accusatorio/inquisitorio viene diluita entro soluzioni di compromesso, deriva soprattutto dalla specificità della giustizia internazionale, oltre a rispondere all'esigenza di rendere maggiormente efficace la ricostruzione di fatti particolarmente complessi. L'accesso alle fonti probatorie, infatti, destinato a svolgersi prevalentemente all'interno di singoli Stati sovrani, rende quasi impraticabile la conduzione di autonome investigazioni difensive implicanti attività da compiersi su larga scala e notevoli disponibilità di risorse. Ne consegue però l'esigenza di disporre idonei controlli giurisdizionali sull'attività del procuratore, non potendo l'esercizio del diritto di difesa essere prevalentemente affidato a chi, pur tenuto a "stabilire la verità", esercita essenzialmente la funzione di accusa.
Per lo svolgimento delle indagini lo Statuto prevede che il procuratore agisca seguendo la procedura dedicata alla cooperazione e all'assistenza giudiziaria, consentendogli una maggiore autonomia qualora non sia necessaria alcuna misura coercitiva (art. 99, 4° co.) oppure si tratti dell'ispezione di un luogo pubblico che non ne comporti la modificazione. Inoltre (art. 57, 3° co.) la Camera può autorizzare il procuratore ad "assumere specifiche misure investigative" nel territorio dello Stato parte, senza assicurarsene la cooperazione qualora lo Stato non sia in grado di dar corso alla richiesta per mancanza di qualsiasi organo competente. È prevista infine l'ipotesi in cui una determinata indagine costituisca un'"eccezionale occasione investigativa" (unique investigative opportunity) per acquisire una prova non rinviabile (art. 56): la Camera può adottare misure necessarie per garantire l'efficienza e l'integrità della procedura e i diritti della difesa, anche avvisando del compimento dell'atto la persona arrestata. La richiesta di provvedere può provenire anche da quest'ultima, cui spetta inoltre la facoltà di chiedere alla Camera l'attivazione dei meccanismi di cooperazione previsti dallo Statuto, se necessari per la preparazione della difesa. La Camera può disporre anche d'ufficio le misure opportune per conservare le prove ritenute essenziali per la difesa in giudizio. Tale disciplina suscita più di una perplessità, poiché l'istituto consente al procuratore e alla Camera una discrezionalità eccessiva: si pensi, per es., che la partecipazione del difensore non è obbligatoria.
I diritti delle persone durante le indagini
A favore del soggetto coinvolto nelle indagini è prevista una serie di diritti, riecheggianti il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966: il diritto a non essere costretto ad autoincriminarsi, a non subire torture o trattamenti inumani o degradanti, all'assistenza gratuita di un interprete, a non subire arresti o detenzioni arbitrari. Prima dell'interrogatorio la persona deve essere informata degli elementi a suo carico, del diritto al silenzio, all'assistenza di un difensore e alla presenza di quest'ultimo, salvo se intenda rinunciarvi, optando per l'autodifesa.
Le misure cautelari
Spetta alla Camera predibattimentale (art. 58), su richiesta del procuratore, l'emissione del mandato d'arresto o di comparizione; lo Stato che lo esegue può disporre la liberazione provvisoria dell'arrestato, in presenza di circostanze eccezionali e urgenti, ma non gli compete la valutazione circa la corretta emissione del mandato. Alla consegna o alla comparizione presso la C. p. i. segue un'udienza nella quale la persona può chiedere la libertà provvisoria (art. 60) che, in caso di arresto, può essere concessa qualora siano venuti meno i presupposti per il mandato. La Camera predibattimentale riesamina periodicamente i provvedimenti coercitivi: non essendo previsti termini massimi per la custodia, spetta alla Camera garantire che la sua durata non si estenda irragionevolmente per un ritardo inescusabile causato dal procuratore, nel qual caso può disporre la liberazione dell'arrestato.
L'udienza di conferma e la discovery
Terminate le indagini, la Camera fissa la confirmation hearing (via di mezzo tra udienza preliminare italiana e preliminary hearing di common law) per la conferma delle imputazioni formulate dal procuratore e trasmesse alla Camera e all'imputato, insieme all'elenco delle prove che intende presentare: qui la discovery si limita alle prove sufficienti per il rinvio a giudizio, che possono essere documentali o sommarie. All'udienza partecipano il procuratore, l'accusato (salvo se vi rinunci, sia latitante o irreperibile) e il difensore. Dato il carattere sommario e "indiretto" del materiale d'accusa, è prevedibile che la funzione dell'udienza consista prevalentemente nel proteggere l'imputato da accuse prive di fondamento e da abusi persecutori, limitandosi a verificare la sufficienza degli elementi a supporto delle imputazioni, anziché dar luogo a un pieno confronto sul merito, la cui sede va individuata nel dibattimento, anche se sarà la pratica a modellare la fisionomia dell'istituto come filtro più o meno rigoroso. Se l'accusa è confermata, l'imputato è rinviato a giudizio davanti alla Camera dibattimentale, mentre la mancata conferma non preclude una nuova richiesta del procuratore, purché fondata su nuove prove. La Camera predibattimentale può inoltre rinviare l'udienza, chiedendo all'accusa di fornire ulteriori prove, svolgere ulteriori indagini o modificare l'imputazione. La conferma delle imputazioni è seguita da un'ampia discovery predibattimentale, nell'ambito della quale, tra l'altro, l'accusa fornisce alla difesa copia di ogni dichiarazione resa dai potenziali testimoni. Qualora intenda avvalersi di un alibi o di una causa di esclusione della responsabilità, la difesa ha l'obbligo di discovery relativamente alle prove su cui intende basarsi.
Caratteri del dibattimento
Il dibattimento è strutturato evitandone l'identificazione con un modello precostituito, anche se le prime battute riprendono alcuni tratti tipici di common law, in particolare l'esclusione del trial in absentia, ossia del giudizio contumaciale. Così è anche per l'apertura del giudizio, scandita dalla lettura delle imputazioni (art. 64, 8° co.), dopodiché l'imputato può ammettere la propria colpevolezza o dichiararsi non colpevole. È questo il punto che più rispecchia l'impianto di common law; il giudice, se ritiene fondata l'ammissione di colpevolezza può pronunciare la condanna dell'imputato; in caso contrario ordina la prosecuzione del giudizio. Rispetto al guilty plea di common law è stata introdotta anche una terza possibilità: se gli interessi della giustizia e delle vittime esigono una ricostruzione dei fatti più completa, il giudice chiede al procuratore di presentare ulteriori prove, oppure dispone la prosecuzione del giudizio nelle forme ordinarie. Ne risulta notevolmente ridimensionata la logica della giustizia negoziale, in ossequio all'esigenza di un pieno accertamento della verità, imposto dalla stessa natura, gravità e visibilità internazionale dei reati di competenza della Corte.
Il ruolo del giudice
Nello Statuto la struttura e l'iter del giudizio non sono delineati secondo una precisa sequenza temporale: al contrario, dalla normativa emerge solo in parte l'esistenza di uno schema precostituito, lasciando alle Regole di procedura e prova una più dettagliata scansione della materia. Il presidente del collegio è autorizzato, ma non obbligato, a impartirne le direttive: la discrezionalità attribuitagli esprime l'esigenza di evitare ogni ricostruzione di un modello precostituito di processo. In mancanza di direttive, spetta alle parti accordarsi sull'ordine e le modalità di presentazione delle prove: soltanto in caso di disaccordo il presidente è tenuto ad attivarsi. È evidente come l'impianto così delineato possa adattarsi volta per volta sia a un giudice fortemente interventista sia a uno incline ad assistere passivo alla performance gestita interamente dalle parti.
È previsto che il collegio assicuri la "fair and expeditious" conduzione del processo; per non limitare l'accertamento dei fatti, può inoltre ordinare la produzione di ulteriori prove rispetto a quelle presentate dalle parti (art. 64, 6° co.): la norma riveste una portata fondamentale nell'allontanare il giudice dallo schema adversary del processo di parti, non solo nelle sue varianti più rigide, ma anche nelle versioni più attenuate, come quella italiana, in cui l'intervento d'ufficio in materia probatoria è circoscritto ai casi di "assoluta necessità" e confinato alla chiusura dell'istruzione dibattimentale. Davanti alla Corte, invece, l'ampiezza dei poteri del giudice e l'informalità consentita nell'introdurre le prove è dovuta al timore di ogni concessione esplicita allo schema adversary, quasi per controbilanciare l'incipit in stile common law del giudizio, ma anche per non limitare l'accertamento dei fatti, come potrebbe accadere affidandosi esclusivamente all'iniziativa delle parti.
I diritti dell'imputato
Anche nel giudizio i diritti dell'imputato sono elencati (art. 67) riproducendo, con poche varianti, il modello dell'art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, con il riferimento a un'udienza pubblica, condotta imparzialmente e corredata da una serie di garanzie: essere informato prontamente e dettagliatamente della natura e del contenuto dell'imputazione; avere tempo e risorse adeguate per preparare la difesa e comunicare liberamente con il difensore; essere giudicato senza ritardo indebito; essere presente al dibattimento; difendersi in prima persona o con l'assistenza di un legale di propria scelta; avvalersi di un difensore d'ufficio, gratuitamente in caso di indigenza. Per quanto concerne le prove è sancito il diritto a interrogare i testi a carico e presentare quelli a discarico e a introdurre ogni prova ammissibile in base allo Statuto. È inoltre garantita l'assistenza dell'interprete, il diritto a non essere costretto a testimoniare né a confessare e a rimanere in silenzio, senza che se ne possano trarre inferenze sulla colpevolezza, profilo quest'ultimo non contemplato nel Patto, come anche il diritto a rendere, senza giuramento, dichiarazioni a propria difesa. La disposizione, recepita dagli ordinamenti europeo-continentali, è sconosciuta nello schema di common law in cui le dichiarazioni dell'imputato nel dibattimento possono consistere solo in una testimonianza in senso tecnico. Oltre al diritto a non subire alcuna inversione dell'onere della prova, già implicito nella presunzione d'innocenza (art. 66), ne è previsto un altro, assente nelle carte internazionali: il diritto a ottenere dall'accusa ogni prova in possesso del procuratore, che possa contribuire a dimostrare l'innocenza o a ridimensionare la responsabilità dell'imputato o a incidere sulla credibilità delle prove a carico: un corollario dell'obbligo per il procuratore di indagare anche sulle circostanze a discarico.
La partecipazione delle vittime e dei testimoni al processo
Una delle peculiarità del processo è il regime relativo a vittime e a testimoni, innovativo rispetto a quello dei due tribunali ad hoc, ove la vittima è considerata quasi esclusivamente come testimone, destinatario di misure di protezione: nell'ottica della C. p. i., invece, le viene riconosciuta anche la legittimazione a partecipare attivamente al processo per ottenere forme di riparazione. La Corte, infatti, deve consentire alle vittime di presentare osservazioni e riserve, secondo modalità non pregiudizievoli o incompatibili con i diritti dell'imputato e con l'imparzialità del processo. Il rappresentante legale delle vittime, autorizzato dal giudice, può porre domande a testimoni, periti e imputati, nonché produrre documenti. Non sussiste invece alcun limite nella partecipazione all'udienza postdibattimentale per le riparazioni.
Il regime probatorio
Lo Statuto dedica un solo articolo (art. 69) alle prove, consentendo al giudice ampi spazi di discrezionalità circa la loro ammissione e valutazione, solo in parte ridimensionati dalle Regole di procedura e prova. Spetta alla Corte decidere sulla rilevanza e sull'ammissibilità di ogni prova, considerandone la valenza probatoria e tenendo conto di ogni pregiudizio che possa causare allo svolgimento di un fair trial. Pur in assenza di regole assolute di esclusione o inutilizzabilità, è previsto (art. 69, 7° co.) che le prove raccolte in violazione dello Statuto o di diritti umani internazionalmente riconosciuti siano inammissibili qualora la violazione ponga in dubbio l'attendibilità della prova o la sua ammissione sia antitetica all'integrità del procedimento. L'ampia discrezionalità del giudice nell'applicazione di tali formule, suscettibili di valutazioni assai diversificate, rischia però di limitare la portata pratica della garanzia.
L'unica prova considerata espressamente dallo Statuto è la testimonianza, che il teste deve rendere di persona, salva l'adozione di misure stabilite a sua protezione. La Corte, inoltre, può consentire l'introduzione di testimonianze registrate per mezzo di tecnologia audio o video, nonché di documenti o di verbali, purché non rechino pregiudizio o non contrastino con i diritti dell'imputato; in tali casi si deve tenere in considerazione il diritto di quest'ultimo a esaminare i testi d'accusa. Degno di nota è il diritto a non autoincriminarsi del testimone, cui fa riscontro il potere del giudice - sulla falsariga dell'immunity di common law - di garantirgli che le dichiarazioni rese non verranno divulgate, né utilizzate contro di lui: in tal caso il teste è tenuto a rispondere. Le Regole disciplinano l'esame testimoniale con modalità tali da evitare accuratamente di ricalcare lo schema di common law, omettendo ogni riferimento alla direct e cross-examination: ne risulta un quadro nebuloso suscettibile di adattarsi alle più svariate applicazioni.
La fase decisoria e le impugnazioni. - Terminata l'assunzione delle prove ha luogo la discussione finale in cui le parti svolgono le proprie conclusioni, quindi la Corte decide sulla responsabilità dell'imputato "al di là di ogni ragionevole dubbio". La sentenza è corredata da una motivazione completa e ragionata sulla valutazione delle prove e deve riportare l'eventuale dissenso della minoranza. In caso di condanna, la pena può essere stabilita congiuntamente alla condanna, oppure, secondo lo schema bifasico di common law, al termine di un'ulteriore fase (sentencing). Le sentenze dibattimentali sono impugnabili davanti alla Camera d'appello, composta dal presidente della Corte e da altri quattro giudici. Possono appellare, in caso di assoluzione, il procuratore per errori di fatto o di diritto; in caso di condanna, l'imputato e il procuratore, nell'interesse del primo, anche relativamente alla correttezza e all'affidabilità del procedimento o della decisione, ribadendo così il suo ruolo sui generis. È infine prevista la revisione della condanna definitiva, nel caso di nuove prove, di falsità di prove decisive o di condotta di un giudice tale da giustificarne la rimozione. Possono chiedere la revisione sia il condannato sia il procuratore nell'interesse del primo.
bibliografia
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