CORTE PENALE INTERNAZIONALE.
– L’applicazione dello Statuto. La revisione dello Statuto. Bibliografia
Lo Statuto della Corte penale internazionale (CPI), concluso a Roma nel 1998 ed entrato in vigore nel 2002, è stato ratificato, a oggi, da 123 Stati, con una prevalenza di Paesi dell’Africa e dell’Europa – compresi tutti gli Stati membri dell’UE (Unione Europea) – rispetto ai Paesi dell’America Latina e Caraibi e dell’Asia. Ciò testimonia una diffusa accettazione da parte degli Stati della prima giurisdizione internazionale permanente competente a giudicare individui responsabili dei più gravi crimini di diritto internazionale: aggressione, genocidio e altri crimini contro l’umanità, crimini di guerra. Permane, tuttavia, l’assenza tra le parti di tre membri permanenti del Consiglio di sicurezza (CdS) dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite): Cina, Federazione Russa e Stati Uniti d’America.
L’applicazione dello Statuto. – A poco più di un decennio dal suo insediamento, la CPI ha avviato ventuno procedimenti, relativi a gravi crimini internazionali commessi su larga scala nel corso di guerre civili o di altre crisi interne. L’applicazione dello Statuto ha confermato appieno la configurazione della CPI quale giudice residuale rispetto ai tribunali interni degli Stati (principio di complementarità). Tra i diversi modi di attivazione della giurisdizione – mediante segnalazione di crimini al procuratore (referral) da parte di uno Stato o del CdS, oppure per autonoma iniziativa del procuratore stesso – la prima modalità si è affermata come prevalente. Fin dai primi procedimenti, avviati tra il 2004 e il 2007 per crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Uganda, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana, si è imposta, anzi, la pratica del self-referral, ossia l’attivazione della CPI da parte degli stessi Stati competenti a perseguire i crimini in base al criterio territoriale (locus commissi delicti) o della nazionalità degli accusati. Tale circostanza, non espressamente prevista nello Statuto, si è dimostrata utile ad assicurare la cooperazione delle autorità locali nello svolgimento delle indagini e dei processi della CPI; in alcuni casi, tuttavia, essa è sembrata andare oltre la ratio del principio di complementarità, palesando il rischio di un uso strumentale dello Statuto da parte di Stati che, contrariamente a quanto previsto per l’esercizio della competenza della CPI, non sono, a rigore, privi della volontà (unwilling) o della capacità (unable) di provvedere alla repressione dei crimini con mezzi di diritto interno.
La prassi indicata è stata seguita anche da uno Stato che non aveva ancora aderito allo Statuto, la Costa d’Avorio, che nel 2003 ha effettuato allo scopo una dichiarazione unilaterale di accettazione della giurisdizione ad hoc della CPI; alla dichiarazione, reiterata nel 2010 e nel 2011, è poi seguita la ratifica dello Statuto (2013). Un’analoga dichiarazione dell’Autorità nazionale palestinese (2009), riguardante i crimini che si ritiene siano stati commessi da membri delle forze armate di Israele nei Territori occupati della Palestina, ha sollevato inizialmente la questione di sapere se lo Statuto della CPI possa applicarsi anche nei rapporti con enti diversi dagli Stati, o di natura statuale dubbia. La questione è stata superata dopo che l’Assemblea generale (AG) dell’ONU ha qualificato la Palestina come Stato osservatore non membro, decisione cui hanno fatto seguito l’adesione della Palestina allo Statuto della CPI (2 genn. 2015) e l’avvio di un’indagine preliminare da parte del procuratore sui presunti crimini (16 genn. 2015).
Quanto al meccanismo di attivazione della CPI incentrato sui poteri coercitivi del CdS, esso è stato utilizzato in due soli casi. Il primo, verificatosi nel 2005, ha riguardato i crimini commessi in Darfur, regione di uno Stato non aderente allo Statuto (il Sudan), ove era in corso una cruenta guerra civile. Successivamente, con risoluzione nr. 1970 del 2011, il CdS ha deferito alla CPI i crimini commessi in Libia dalle autorità statali, mediante violenti e deliberati attacchi contro la popolazione civile (il referral si è inserito nel quadro delle misure coercitive dell’ONU che, di fatto, hanno posto fine al regime di Muammar Gheddafi). Per altro verso, il CdS ha continuato a escludere, nelle sue risoluzioni, che la CPI potesse giudicare membri di forze di pace multinazionali autorizzate dall’ONU, aventi la nazionalità di Stati non aderenti allo Statuto (posizione dettata soprattutto dagli Stati Uniti).È stata così reiterata un’erronea interpretazione dell’art. 16 dello Statuto, in cui il potere del CdS di sospendere per un anno indagini e procedimenti della CPI rispetto a una certa situazione (deferral) è previsto nell’interesse della pace e del la sicurezza internazionali e non al fine di esentare certe categorie di persone dalla giurisdizione della CPI.
La facoltà del procuratore di avviare inchieste di propria iniziativa, sulla base di informazioni provenienti da fonti non governative e previa autorizzazione di una Camera preliminare, è stata esercitata una prima volta rispetto ai crimini commessi in Kenia tra il 2005 e il 2009 (autorizzazione della Camera preliminare II del 31 marzo 2010) e, successivamente, per nuovi crimini nella Costa d’Avorio (autorizzazione della Camera preliminare III del 3 ott. 2011). In altri casi, alle indagini motu proprio del procuratore si è sovrapposto, in tutto o in parte, il self-referral degli Stati competenti (Mali, 2012; Repubblica Centrafricana II, 2014).
Tra gli autori di crimini, la CPI persegue soprattutto i principali responsabili, spesso individui-organi ai vertici dello Stato o leader di gruppi armati organizzati. Ciò ha dato luogo alla ripetuta applicazione di una norma tra le più innovative dello Statuto (art. 27), che sancisce l’irrilevanza ai fini della giurisdizione della CPI non solo dell’immunità funzionale (come già previsto nel diritto consuetudinario), ma anche dell’immunità personale di cui godono gli individui-organi e che, di regola, impedisce di perseguirli prima della cessazione delle funzioni. Significative, in tal senso, l’incriminazione e l’emissione di mandati d’arresto nei confronti del presidente del Sudan ῾Umar al-Bashīr (2009 e 2010), del capo di Stato della Libia Gheddafi e del presidente del Kenya Jomo Kenyatta (2011), nonché di alcuni membri di governi in carica. Tali iniziative, però, non si sono quasi mai tradotte nell’arresto degli accusati.
Nel caso dei crimini in Libia, inoltre, dopo l’estinzione del processo nei confronti di Gheddafi a seguito della morte dell’accusato, l’intenzione della CPI di perseguire altri responsabili si è scontrata con la volontà delle nuove autorità libiche di giudicarli mediante tribunali nazionali. Dette vicende hanno accentuato una crisi nelle relazioni tra la CPI e l’Unione Africana, già manifestatasi in seguito alla constatazione che la CPI ha finora esercitato la sua giurisdizione solo rispetto a crimini commessi sul territorio di Stati africani.
Per altro aspetto, alla CPI si rimprovera l’eccessiva durata dei processi: la prima sentenza emessa – la condanna di Thomas Lubanga Dyilo per l’impiego forzoso di bambini in un conflitto armato – è intervenuta, infatti, solo nel 2012. All’attività della CPI nuoce, altresì, l’insufficiente adattamento della legislazione nazionale (in Italia, la l. 20 dic. 2012 nr. 237 ha provveduto in ritardo e solo parzialmente alle necessità di attuazione interna dello Statuto).
Gli aspetti critici emersi nella prima applicazione non vanno tuttavia sopravvalutati, tenuto conto del carattere fortemente innovativo dello Statuto, il cui funzionamento costituisce pur sempre un reale progresso nella repressione internazionale dei crimini di individui.
La revisione dello Statuto. – Un’ulteriore evoluzione si è avuta con la prevista Conferenza di revisione dello Statuto, svoltasi a Kampala (Uganda) nel 2010, che ha conseguito il risultato più atteso: il completamento delle disposizioni relative al crimine di aggressione. Pur ricompreso nella competenza della CPI, detto crimine è infatti oggetto di una norma transitoria (art. 5, par. 2), che rinvia l’esercizio effettivo della giurisdizione rispetto a esso all’entrata in vigore di un emendamento volto a precisare la definizione di aggressione e a disciplinare la relativa competenza della CPI «in modo compatibile con la Carta dell’ONU». Come noto, infatti, questa attribuisce al CdS il potere di accertare l’esistenza di atti d’aggressione ai fini del sistema di sicurezza collettiva (artt. 39 segg.); l’emendamento doveva dunque provvedere al coordinamento delle funzioni rispettive della CPI e del CdS rispetto all’aggressione. Le nuove disposizioni (art. 8 bis dello Statuto) definiscono quest’ultima come «pianificazione, preparazione, inizio o esecuzione [...] di un atto d’aggressione che per carattere, natura e dimensione costituisce una violazione manifesta della Carta delle Nazioni Unite» (elemento oggettivo) e rinviano, per la definizione di atto d’aggressione, alla Dichiarazione dell’Assemblea generale (AG) dell’ONU del 1974 (ris. nr. 3314 - XXVX). Ai fini dello Statuto, inoltre, la descritta condotta criminosa rileva solo se posta in essere da «una persona che effettivamente si trova in una posizione tale da controllare o dirigere l’azione politica o militare di uno Stato» (elemento soggettivo).
L’emendamento ha altresì stabilito le condizioni per l’esercizio della giurisdizione (art. 15 bis dello Statuto), prevedendo anzitutto che il procuratore della CPI, se ritiene che vi sia una base ragionevole per procedere, debba notificare al Segretario generale dell’ONU tutte le informazioni rilevanti, onde accertare se la situazione è stata qualificata dal CdS come aggressione. In caso affermativo, non vi sono ostacoli all’attività della CPI; in caso contrario, questa resta sospesa per sei mesi, decorsi i quali, se il CdS non si è pronunciato, il procuratore può procedere, previa autorizzazione di una Camera preliminare. La soluzione adottata si iscrive nel novero delle proposte della vigilia maggiormente favorevoli all’indipendenza della CPI. Altre ipotesi prevedevano infatti l’assoluta impossibilità di procedere in caso di mancata qualificazione della situazione come aggressione da parte del CdS, o la necessità che tale qualificazione intervenisse da parte di altri organi dell’ONU (l’AG o la Corte internazionale di giustizia).
Le soluzioni di compromesso accolte nell’emendamento sono generalmente valutate in modo positivo. Non mancano, tuttavia, perplessità circa i problemi interpretativi che la nozione di aggressione ex art. 8 bis potrà sollevare, essendo stata definita mediante rinvio ad altri atti internazionali. Sotto altro profilo, si teme che la scelta di consentire alla CPI di perseguire atti d’aggressione non qualificati come tali dal CdS possa condurre, di fatto, a un più frequente ricorso al deferral da parte di quest’ultimo.
L’art. 15 bis ha altresì stabilito che, dopo l’entrata in vigore dell’emendamento (che richiede 30 ratifiche), la CPI potrà esercitare la giurisdizione rispetto a casi di aggressione solo al termine di un anno e, comunque, non prima di una decisione confermativa degli Stati parte, assunta dopo il 1° gennaio 2017. Detta norma, criticata da alcuni come inutilmente dilatoria, è ritenuta da altri opportuna, per dare tempo alla CPI di prepararsi ad affrontare una serie di questioni complesse, che si prevede sorgeranno dall’applicazione delle nuove norme statutarie.
Bibliografia: M. Politi, The ICC and the crime of aggression. A dream that came through and the reality ahead, «Journal of international criminal justice», 2012, 10, 1, pp. 267-88; C. Ragni, La condanna di Lubanga Dyilo: la questione della caratterizzazione dei crimini, «Diritti umani e diritto internazionale», 2012, 3, pp.569-79; C. Sthan, Libya, the International criminal court and complementarity, «Journal of international criminal justice», 2012,10, 2, pp. 325-49; F. Lattanzi, Un piccolo passo sulla via dell’adeguamento allo Statuto della Corte penale internazionale, «Rivista di diritto internazionale», 2013, 2, pp. 492-512; A. Zimmermann, Palestine and the International criminal court Quo vadis?, «Journal of international criminal justice», 2013, 11, 2, pp.303-29.