Abstract
Si distingue una nozione ristretta e una nozione ampia di corti e tribunali internazionali, a seconda che dirimano controversie tra soggetti di diritto internazionale o no. Si esaminano i caratteri salienti e le somiglianze e differenze tra le varie corti e tribunali sotto i profili della composizione, dell’accesso, della giurisdizione, del procedimento, delle decisioni e ci si sofferma sulle reciproche influenze ed i conflitti.
Non vi è una differenza giuridica tra una “corte” e un “tribunale” internazionale. Gli atti con cui questi organi giudicanti vengono istituiti possono utilizzare l’uno o l’altro termine trasmettendo, con la denominazione “corte”, un’idea di maggiore importanza rispetto a “tribunale” senza che questo abbia alcuna conseguenza sul piano giuridico, che resta disciplinato dalle norme applicabili a ciascun organo.
Nel definire la portata dell’espressione “corti e tribunali internazionali” si può, in particolare, muovere da diverse nozioni di “internazionale”. Così, si può sottolineare che devono essere internazionali le regole che istituiscono la corte o il tribunale; o che deve essere internazionale la composizione dell’organo (nel senso che ne devono far parte persone di diversa nazionalità); o che devono essere internazionali le controversie che vi si possono sottoporre, o che deve essere internazionale il diritto applicabile. La natura delle parti ha anche un rilievo: essa può comprendere solo Stati, Stati e organizzazioni internazionali, Stati e privati.
Questi vari elementi sono presenti in varie combinazioni negli enti che si suole denominare “corti o tribunali internazionali”. Giova identificare due distinte nozioni, una ampia e una ristretta. La nozione ampia, utile anche per scartare peculiari fenomeni che, pur rilevanti nel diritto internazionale, si trovano al margine della nebulosa delle corti e tribunali internazionali, si riferisce a organi, aventi natura precostituita rispetto al sorgere della controversia e struttura permanente, composti di individui di diverse nazionalità e cui si riconosce l’indipendenza, la cui funzione è di provvedere alla soluzione di controversie, che sono costituiti in base a un atto di natura internazionale (trattato, risoluzione vincolante di un’organizzazione internazionale), e che applicano il diritto internazionale. La nozione ristretta si riferisce a organi giudiziali che, oltre a presentare le caratteristiche ora ricordate, hanno per specifico fine la risoluzione di controversie internazionali e cioè tra Stati e altri soggetti di diritto internazionale, quali le organizzazioni internazionali.
Distinzioni rilevanti sono poi quella tra corti e tribunali a vocazione universale (e cioè potenzialmente aperti a tutti gli Stati) e corti e tribunali a carattere regionale e quella tra corti e tribunali specializzati e corti e tribunali a giurisdizione per materia generale.
Corti e tribunali internazionali sono un fenomeno in espansione, soprattutto per il moltiplicarsi di corti e tribunali specializzati, tanto che si parla di un fenomeno di “moltiplicazione” o “proliferazione”. Per quanto riguarda le corti e tribunali internazionali che rientrano nella nozione più ristretta, si tratta soprattutto della Corte internazionale di giustizia (CIG), unico organo a competenza universale, il cui statuto è annesso e parte integrante della Carta delle Nazioni Unite. Vi si affiancano principalmente il Tribunale internazionale del diritto del mare (TIDM, istituito in base alla Convenzione delle Nazioni Unite su diritto del mare del 1982, il cui annesso VI ne costituisce lo Statuto) e l’Organo d’appello della Organizzazione mondiale del commercio (istituito in base alla Intesa sulla soluzione delle controversie compresa negli accordi di Marrakesh del 1994), organi a competenza specializzata per materia, ma basati su trattati a partecipazione potenzialmente universale, e di fatto già ora estremamente ampia. Viceversa, rientrano solo nella nozione ampia organi, quali le Corti sui diritti umani nell’esercizio della loro competenza a conoscere di ricorsi individuali o i Tribunali e la Corte penali internazionali, che vedono la partecipazione di individui in quanto, rispettivamente, ricorrenti contrapposti a Stati ovvero imputati cui si contrappone l’interesse collettivo degli Stati. Rientrano invece nella nozione ristretta le Corti dei diritti umani laddove siano chiamate a dirimere controversie tra Stati.
I membri sono in generale in numero dispari e devono avere nazionalità diverse. Essi sono eletti con vari procedimenti. In particolare, nel caso della CIG essi devono ottenere la maggioranza dei voti sia nell’Assemblea Generale che nel Consiglio di Sicurezza delle NU, mentre i membri del TIDM devono raccogliere il suffragio di due terzi degli Stati parte alla Convenzione delle NU sul diritto del mare. I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, come quelli della maggioranza delle Corti e Tribunali a carattere regionale, sono in numero pari a quello degli Stati membri.
La designazione dei candidati avviene ad opera dei governi. Espedienti più o meno efficaci sono stati introdotti per salvaguardare l’indipendenza e la competenza dei candidati. Nel sistema della CIG la designazione dei candidati avviene ad opera del gruppo nazionale della Corte permanente di arbitrato. I membri di tali gruppi sono peraltro di nomina governativa. In mancanza di un tale gruppo (come avviene in molti paesi in via di sviluppo) i candidati sono designati dai governi. In alcuni paesi, come il Regno Unito, si dà pubblicità alla apertura del processo di candidatura, in modo che gli interessati possano manifestare il loro interesse. Gli organi che procedono le elezioni non esercitano, in generale, un controllo di competenza, ma diversamente avviene per l’elezione alla Corte europea dei diritti dell’uomo per cui l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, prima di procedere al voto, conduce esami dei curricula ed audizioni dei candidati. In tempi recenti l’obiettivo di assicurare un equilibrio di genere ha avuto un peso nelle elezioni, ma solo per la Corte penale internazionale apposite regole assicurano l’adeguata rappresentanza del gentil sesso.
Le elezioni dei giudici sono spesso fortemente politicizzate e gli Stati che appoggiano un candidato si impegnano in vere e proprie campagne elettorali in cui spesso si concludono accordi in base ai quali il voto per un determinato candidato è promesso in cambio di un voto per un’altra elezione. Ciò porta in non pochi casi a perdere di vista l’obiettivo di ottenere l’elezione dei candidati più competenti. La rielezione è spesso ammessa (in particolare alla CIG e al TIDM) e largamente praticata. Anche se può assicurare alla corte o tribunale il permanere in carica di giudici esperti e competenti, essa crea, nei giudici che aspirano alla rielezione, una delicata situazione, nei confronti sia dello Stato dal quale aspirano a essere ricandidati che degli altri Stati il cui voto essi desiderano ottenere. È probabilmente in considerazione di ciò che nella corte di portata universale più recentemente istituita, la Corte penale internazionale, la rieleggibilità dei giudici (al di fuori di un regime transitorio ormai concluso) è stata esclusa.
Presso la CIG e il TIDM vige il principio (connesso al modello arbitrale avuto presente dai fondatori della Corte) che, ove non vi sia, nella composizione che deve giudicare una determinata controversia, un giudice avente la nazionalità di una delle parti in causa, tale parte possa designare un giudice ad hoc. Tale principio non è peraltro accolto nell’Organo d’appello della Organizzazione mondiale del commercio. Nelle corti dei diritti umani si assicura sempre la presenza nel collegio di un giudice della nazionalità dello Stato contro il quale è proposto il ricorso.
Davanti alle “corti” e ai “tribunali” rientranti nella nozione ristretta possono dirimersi solo controversie internazionali, cioè tra soggetti di diritto internazionale e quindi, in primo luogo, gli Stati. Essi sono i soli enti che possano essere parte a controversie davanti alla CIG (art. 34 dello Statuto, disposizione che è spesso vista come anacronistica). Possono essere parte a controversie davanti agli organi di soluzione delle controversie della Organizzazione mondiale del commercio e davanti al TIDM anche organizzazioni internazionali che siano parte, rispettivamente, degli accordi sul commercio internazionale e della Convenzione delle NU sul diritto del mare. Si tratta, in pratica, della sola Unione Europea. Peraltro, di fronte alla Camera delle controversie sui fondi marini del TIDM possono essere parti, oltre che gli Stati e l’Autorità internazionale dei fondi marini, anche imprese e individui (art. 189 della Convenzione delle NU sul diritto del mare, ove sono elencati i tipi di controversia sottoponibili alla Camera).
L’accesso a corti e ai tribunali che corrispondono alla sola nozione “ampia”, in altre parole le Corti dei diritti umani e la Corte e i Tribunali penali internazionali, è definito dagli strumenti istitutivi. Per quanto attiene alle Corti dei diritti umani l’iniziativa processuale spetta in generale all’individuo e la controparte è sempre lo Stato cui si attribuisce la violazione. Prima dell’entrata in vigore del Protocollo n. 11, l’accesso alla Corte europea dei diritti umani per violazioni di diritti individuali spettava alla Commissione europea dei diritti umani, davanti alla quale, ma solo se ciò era stato accettato dallo Stato contro cui l’azione era presentata, avevano accesso gli individui. Tale complesso meccanismo tuttora vige rispetto alla Corte interamericana dei diritti umani.
Il procedimento di fronte alla Corte e ai Tribunali penali internazionali si svolge nei confronti di un individuo accusato della commissione di un crimine internazionale. La controparte che sostiene l’accusa è una figura di organo indipendente della Corte e dei Tribunali penali, il procuratore, anche se, nel caso della Corte penale internazionale, la sua azione è sottoposta al vaglio di una camera “preliminare” della Corte e l’impulso può provenire dal Consiglio di sicurezza delle NU.
L’accesso a corti e tribunali internazionali di Organizzazioni non governative e di individui a titolo di “amici curiae” è escluso (nonostante qualche espediente adottato per i procedimenti consultivi) di fronte alla CIG e al TIDM, e incontra resistenze, pur non essendo escluso, nel meccanismo di soluzione delle controversie dell’OMC. Più aperte a tale partecipazione sono le Corti dei diritti umani e la Corte e i Tribunali penali internazionali.
La giurisdizione delle corti e dei tribunali internazionali appartenenti alla nozione “ristretta” dipende dal consenso delle parti in causa. Mentre tale consenso può essere dato con un accordo di compromesso successivamente al sorgere della controversia, esso può essere dato anche precedentemente attraverso il mero fatto che le parti alla controversia si siano vincolate a un accordo che preveda che, ove sorga una controversia tra Stati parte, o, in molti casi, una controversia relativa alla applicazione e alla interpretazione di tale accordo internazionale, una parte alla controversia possa mettere in moto, nei confronti dell’altra parte, il cui consenso non è pertanto necessario in quanto già contenuto nell’accordo, un procedimento davanti a una corte o tribunale internazionale. Si può parlare in questi casi di “giurisdizione obbligatoria” della corte o tribunale che queste clausole convenzionali consentono di adire unilateralmente. Le clausole contenenti tale consenso si trovano in numerose convenzioni bilaterali e anche multilaterali. In particolare, il cosiddetto Patto di Bogotà (Trattato americano sulla soluzione delle controversie del 1948) obbligatorio per un certo numero di Stati dell’America del Sud, e la Convezione europea per la soluzione pacifica delle controversie del 1957, che vincola vari Stati europei tra cui l’Italia, prevedono per ciascuno Stato parte il diritto di adire la CIG nei confronti di ognuno degli altri Stati parte. Tra gli accordi multilaterali specializzati di più ampia portata, la Convenzione delle NU sul diritto del mare prevede (nella sua parte XV), sia pure con limitazioni e qualche eccezione facoltativa, un sistema di giurisdizione obbligatoria, che può essere esercitata dalla CIG, dal TIDM e da Tribunali arbitrali. Anche il sistema di soluzione delle controversie della OMC può considerarsi basato sulla giurisdizione obbligatoria. La necessità che un organo politico (l’Organo di soluzione delle controversie) approvi le decisioni (chiamate “rapporti”) può vedersi come una finzione mirante a non esplicitare il carattere arbitrale e giudiziale del sistema, posto che è previsto un meccanismo di approvazione mediante “consenso rovesciato” per cui i “rapporti” sono approvati a meno che non vi sia un consenso per respingerli.
Va sottolineato che il sistema della CIG non prevede che gli Stati, per il solo fatto di essere parte allo Statuto, siano sottoposti alla giurisdizione obbligatoria della Corte. A tal fine occorre il consenso delle parti che può manifestarsi in un apposito accordo di compromesso, o in una clausola compromissoria contenuta in un accordo in vigore tra le parti. Lo Statuto, con la “clausola facoltativa di giurisdizione obbligatoria” dell’articolo 36, par. 2, consente di rendere obbligatoria la giurisdizione della CIG per controversie sorgenti tra Stati che abbiano presentato una apposita dichiarazione. Il meccanismo, più volte applicato dalla CIG, vincola solo circa un terzo degli Stati parte allo Statuto, e la sua portata è limitata dalle “riserve” apposte da non pochi Stati.
Anche la giurisdizione delle Corti dei diritti umani dipende dal consenso degli Stati contraenti degli strumenti internazionali rilevanti. Ciò può avvenire, per ciascuno Stato parte, automaticamente per il fatto di essere parte allo strumento rilevante (questo è il caso per i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa per effetto del loro essere parte del Protocollo n. 11 alla Convenzione europea dei diritti umani, in base agli articoli 33 e 34 di questa come emendati) o mediante apposite dichiarazioni di accettazione, come nel sistema inter-americano e nel sistema della Convenzione europea prima del Protocollo n. 11. La giurisdizione è poi definita per materia con riferimento ad asserite violazioni da parte di uno Stato contraente della Convenzione istitutiva.
Per quanto attiene ai tribunali e della Corte penale internazionali, il carattere ad hoc dei tribunali per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda, e la obbligatorietà generale dovuta alla loro istituzione alla stregua del cap. VII della Carta delle NU, fanno sì che loro giurisdizione sia definita in termini abbastanza semplici, con la specificazione del periodo di tempo in cui i crimini debbono essere stati commessi e del luogo della loro commissione.
Più complessa è la disciplina dell’ambito di giurisdizione della Corte penale internazionale, sia per il carattere generale della sua giurisdizione, sia perché la sua istituzione per mezzo di un trattato rende rilevante la distinzione tra Stati parte e Stati non parte. Oltre che nel caso in cui la giurisdizione sia basata sull’iniziativa del Consiglio di sicurezza che agisca nel quadro del capitolo VII della Carta delle NU, la giurisdizione della Corte è basata sul consenso degli Stati. Essa può esercitarsi qualora il crimine di cui si tratti sia stato commesso sul territorio di uno Stato parte o da un cittadino di uno Stato parte (artt. 12, parr. 1 e 2 e 13) o anche sul territorio di uno Stato non parte o da un cittadino di uno Stato non parte, purché tale Stato abbia accettato la giurisdizione della Corte per il crimine di cui trattisi (art. 12, par. 3). Ne segue che i crimini commessi sul territorio di uno Stato parte dal cittadino di uno Stato non parte rientrano nella giurisdizione della Corte. Questa previsione ha sollevato preoccupazione per la possibile incriminazione di militari esercitanti attività di peacekeeping da parte di Stati contrari alla istituzione della Corte e comunque non parti allo Statuto, e in particolare degli Stati Uniti. Per venire incontro a tali preoccupazione sono state introdotte nello Statuto elaborate regole relative alla messa in funzione dei procedimenti (triggering mechanisms) che possono tra l’altro consentire al Consiglio di sicurezza di bloccare per 12 mesi « l’inizio o la continuazione di procedimenti» (art. 16). Ciononostante, gli Stati Uniti, che non hanno ratificato lo Statuto, invocando l’art. 98 dello Statuto della Corte, hanno stipulato con una ottantina di Stati accordi bilaterali per escludere il deferimento alla Corte di militari degli Stati Uniti accusati di crimini commessi nel territorio di uno Stato parte.
Negli atti istitutivi di corti e tribunali internazionali è in generale previsto il potere di decidere sulle questioni attinenti alla giurisdizione, la cosiddetta competenza della competenza. Così nell’art. 36, par. 6, dello Statuto della CIG, nell’art. 288, par. 3, della Convenzione delle NU sul diritto del mare, nell’art. 32, par. 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nell’art. 19 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale. È probabilmente corretta l’opinione che sostiene che, anche in mancanza di una espressa previsione, il principio della competenza della competenza abbia valore consuetudinario.
Negli atti istitutivi di varie corti e di vari tribunali internazionali è previsto il potere di emanare misure cautelari, «per preservare i rispettivi diritti dell’una o dell’altra parte». Così l’articolo 41 dello Statuto della CIG. L’art. 290, par. 1, della Convenzione delle NU sul diritto del mare aggiunge la possibilità di ottenere misure cautelari “al fine di preservare l’ambiente marino da un danno grave”. Le misure cautelari previste a norma della Convenzione delle NU sul diritto del mare sono “prescritte” e hanno carattere obbligatorio. I dubbi su tale carattere delle misure “indicate” dalla CIG alla stregua dell’art. 41 dello Statuto sono stati dissipati dalla sentenza sul caso Lagrand (Germania c. Stati Uniti) del 2001 che ha affermato il carattere vincolante delle misure cautelari della Corte. Tale sentenza ha influenzato anche altri organi giudicanti quali la Corte europea dei diritti umani.
Si discute se il potere di emanare misure cautelari debba trovare fondamento nell’accordo istitutivo della corte o tribunale o se possa vedersi come implicito nella istituzione di una corte o tribunale internazionale.
La possibilità di intervento di terzi alla controversia è prevista ad esempio negli articoli 62 e 63 dello Statuto della CIG e in altri atti istitutivi di corti e tribunali internazionali. Le corti e i tribunali interpretano con maggiore o minore larghezza i criteri previsti. La CIG, di fronte alla severità dei criteri previsti dallo Statuto e dal Regolamento di procedura per la forma di intervento che rende parte alla controversia lo Stato ammesso ad intervenire, ha dato vita nella sua giurisprudenza a una forma di intervento “non a titolo di parte” che non rende la sentenza vincolante per l’interveniente ed è possibile anche in mancanza del vincolo giurisdizionale previsto dal Regolamento, che resta necessario solo per l’intervento a titolo di parte. Meno severe sono le condizioni per l’intervento di terzi nei procedimenti di soluzione delle controversie dell’Organizzazione mondiale del commercio, ove basta che uno Stato parte abbia un interesse “sostanziale” su una questione sottoposta a giudizio per potere essere sentito (art. 10 dell’Intesa sulla soluzione delle controversie). La giurisprudenza ha applicato con larghezza questa disposizione e quelle corrispondenti per il procedimento d’appello.
È probabilmente fondata l’opinione che esclude che la possibilità di intervento sia implicita nella nozione stessa di corte e tribunale internazionale. A ciò sembrerebbe fare ostacolo il principio del consenso.
Il procedimento davanti a corti e tribunali internazionali è normalmente descritto nelle sue regole fondamentali nell’atto istitutivo dell’organo giudicante e in dettaglio nei regolamenti di procedura. L’adozione di tali regolamenti è affidata in certi casi dagli atti istitutivi alla stessa corte o tribunale (art. 30 dello Statuto della CIG, art. 16 dello Statuto del TIDM, art. 17 dell’Intesa sulla soluzione delle controversie dell’OMC). In altri casi essa è riservata a un organo politico: così l’art. 51 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale riserva l’adozione delle Regole di procedura e sulle prove alla Riunione degli Stati contraenti con la maggioranza dei due terzi.
Normalmente la procedura si divide in due fasi, scritta ed orale. La fase orale, salvo eccezioni, è aperta al pubblico. Gli atti della fase scritta sono invece normalmente disponibili agli altri Stati e al pubblico dopo che la fase scritta è conclusa, con differenze, ad esempio, tra la CIG ove il principio di partenza è quello della confidenzialità e il TIDM ove tale principio è quello della trasparenza. Le eccezioni previste in entrambi i casi li rendono, in pratica, più simili di quanto appaia a prima vista. L’ampia utilizzazione di internet per la pubblicazione in tempi brevissimi dei processi verbali delle udienze e delle memorie scritte (da quando aperte al pubblico) e anche la disponibilità in rete di riprese delle udienze hanno reso accessibile quasi immediatamente ogni fase del procedimento agli Stati e al pubblico in generale.
Un aspetto che accomuna le corti e i tribunali internazionali rientranti nella nozione ampia è il carattere obbligatorio delle loro sentenze sul merito. La sentenza crea obblighi internazionali per le parti e la sua violazione da parte di uno Stato genera responsabilità internazionale. Mentre come si è visto hanno carattere vincolante le ordinanze che prescrivono misure cautelari, tale carattere non hanno (salvo quando vi sia stato in impegno pattizio in senso opposto) i pareri emanati nell’esercizio della giurisdizione consultiva di corti e tribunali.
Per quanto attiene a controversie tra Stati, l’inappellabilità della sentenza è la regola nei sistemi della CIG e del TIDM, mentre costituisce l’eccezione il sistema dell’Organizzazione mondiale del commercio, che prevede un primo grado di giudizio davanti a panels di natura arbitrale e una fase d’appello presso un Organo d’appello a natura permanente. In organi giudicanti ove sono coinvolti individui (corti dei diritti umani, corti e tribunali penali internazionali) meccanismi d’appello o simili (come la sottoponibilità di talune controversie alla Grande Camera della Corte europea dei diritti umani) sono previsti nella struttura delle corti e tribunali.
Il diritto applicabile è oggetto di apposite norme degli atti istitutivi delle varie corti e tribunali. Ben noto è l’art. 38 dello Statuto della CIG che viene spesso letto come un catalogo delle fonti del diritto internazionale. Gli atti istitutivi di Corti e tribunali specializzati menzionano sempre il trattato, la convenzione o il gruppo di atti internazionali che costituisce, oltre che l’indicazione della loro competenza ratione materiae, anche quella del diritto applicabile.
Inevitabilmente i tribunali specializzati applicano anche il diritto internazionale generale. Ciò può essere specificamente previsto, come nell’art. 293 della Convenzione delle NU sul diritto del mare e nell’art. 21 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Quando manchi un’apposita previsione, come nella Convenzione europea dei diritti umani per quanto riguarda la Corte europea dei diritti umani, o quando una previsione vi sia ma solo limitatamente alle norme sull’interpretazione, come nell’Intesa sulla soluzione delle controversie dell’Organizzazione mondiale del commercio, la giurisprudenza ha ammesso una larga applicabilità delle norme di diritto internazionale generale.
Vi sono enti che svolgono un’attività che può per molti versi vedersi come rientrante nella nozione di corti e tribunali internazionali ma che mancano di qualche elemento essenziale, rendendo problematica la loro classificazione. Ci si limiterà a due esempi. Il primo riguarda la competenza del Consiglio dell’ICAO (International Civil Aviation Organization) a dirimere controversie sorgenti tra Stati parte relative alla applicazione della Convenzione di Chicago sulla navigazione aerea. L’aspetto che fa sorgere dubbi non è né la funzione né il diritto applicabile, ma la composizione dell’organo che è un organo politico formato da rappresentanti di Stati che non danno garanzia né di indipendenza né di competenza giuridica. Il secondo riguarda i cosiddetti tribunali penali “misti”, istituiti normalmente in base a un accordo tra le Nazioni Unite e un determinato Stato e composti da giudici dello Stato in cui svolgono le loro funzioni e da giudici designati in base a un procedimento internazionale. Mentre ad esempio il Tribunale per la Sierra Leone si è pronunciato – nonostante la partecipazione di giudici locali – nel senso della propria assimilazione a tribunali internazionali, ciò risulta più difficile fare per le Camere speciali per la Cambogia, in cui il radicamento dell’organo giudicante, che pure comprende giudici di nomina internazionale, nel sistema giudiziario interno appare più pronunciato. I meccanismi cosiddetti di non-compliance, istituiti in seno soprattutto ad accordi multilaterali di protezione dell’ambiente e che mirano a prevenire le controversie con procedimenti collaborativi che presentano non poche analogie con procedimenti giudiziari, sembrano chiaramente al di fuori della nozione per quanto ampiamente intesa di corti e tribunali internazionali.
È dato riscontrare reciproche influenze tra le corti e i tribunali internazionali. Esse riguardano sia i testi che li disciplinano, sia la loro interpretazione giurisprudenziale, sia le stesse decisioni. Anche tra organi giudiziali rientranti nella nozione più ampia i confronti possono essere utili sotto profili quali la loro composizione, l’indipendenza dei giudici, le strutture organizzative e il finanziamento; mentre, ovviamente, questioni attinenti alla giurisdizione e in buona parte anche alla procedura si prestano meno alla ricerca di tali influenze. Il fatto che tutti i tribunali e le corti applichino norme di diritto internazionale giustifica l’interesse che la giurisprudenza dell’insieme delle corti e tribunali internazionali riveste nell’ottica dello sviluppo del diritto internazionale.
L’esistenza di una pluralità di tribunali internazionali potenzialmente competenti a giudicare delle medesime controversie o di controversie simili porta a prospettarsi, accanto alla problematica sorgente da possibili conflitti di giurisprudenza, una problematica di conflitti di giurisdizioni. Norme specifiche per evitare tali conflitti sono contenute in convenzioni recenti, come, ad esempio, quella sul diritto del mare del 1982 (artt. 281 e 282). Non sempre, peraltro, tali disposizioni coprono tutti i casi che si possono presentare e vi sono ipotesi per le quali mancano norme specifiche applicabili. Ci si chiede, pertanto, se stiano emergendo regole internazionali non scritte in materia di conflitti di giurisdizione, litispendenza, cosa giudicata o se possano soccorrere criteri di cortesia (comity) tra tribunali, o di economia di attività giudiziaria, che potrebbero svilupparsi in base alla nozione stessa della funzione del giudice e forse divenire oggetto di nuove norme. Del ricorso a siffatti criteri si trova del resto traccia nella prassi giudiziaria internazionale recente.
Il sussistere di competenze di diversi tribunali internazionali a proposito di un unico conflitto di interessi può inoltre dar luogo a controversie diverse. In tal caso, se di vero conflitto di giurisdizioni è difficile parlare, possono sorgere difficoltà pratiche e giuridiche quando di tali controversie siano investiti tribunali diversi. Un caso siffatto si è profilato nel 2000, quando il Cile ravvisò in attività di pescherecci della Comunità europea nell’alto mare al largo della zona economica cilena una violazione della Convenzione sul diritto del mare ed investì di essa gli organi di soluzione delle controversie previsti da detta convenzione. La Comunità vide, per parte sua, nel divieto cileno alle navi comunitarie di scaricare il pescato nei porti cileni, una violazione del GATT e ne investì un panel da costituire nel quadro dell’OMC. Le parti hanno trovato un accordo prima provvisorio e poi definitivo, che ha fatto sì che, dopo vari anni, le controversie sono state cancellate dal ruolo a richiesta delle parti.
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