coscienza e autocoscienza
La coscienza corrisponde a un’enorme e complessa varietà di eventi neurobiologici, fenomenologici e psicologici che, sin dalle prime fasi dello sviluppo, preparano il terreno all’emergere del Sé. Sebbene sia determinata da attività cerebrali al più alto livello, essa è indissociabile dal contenuto mentale. Si tratta di un complesso di caratteri materiali e immateriali tra loro distinti – infrastrutture neurali, consapevolezza, temporalità, soggettività qualitativa, intenzionalità – a tal punto saldati da sembrare facce di uno stesso prisma. La coscienza non può essere considerata una semplice funzione della mente, ma la sua stessa organizzazione. In quanto espressione di processi neurali distribuiti, il suo ordinamento non è rigidamente gerarchico, ma sostenuto da molteplici livelli orizzontali, ognuno dei quali in un continuum strutturale e funzionale con le diverse sopravvenienze fenomeniche. [➔ cervello, modelli per l’attività su larga scala; cervello, struttura e funzione; funzioni cerebrali superiori; intelligenza artificiale; mente, filosofia della]
Da un punto di vista etimologico il termine (dal latino conscientia, derivata di conscire, ossia conoscere insieme) rinvia a una relazione con un altro essere o con il mondo esterno, in assenza della quale parlare di coscienza diviene improprio. Nel corso dei secoli, aspre controversie filosofiche, religiose e scientifiche hanno ostacolato un’elaborazione teorica condivisa, con la conseguente sedimentazione di significati che ne hanno dilatato l’orizzonte semantico, rendendo il termine tanto polisemico quanto confuso. L’ampiezza del campo semantico è tale che, con lo stesso vocabolo, si designa uno spettro di fenomeni che va dalle più raffinate attività di pensiero dell’uomo alla semplice condizione di veglia. Una prima accezione del termine è quella adottata in neurologia e in clinica medica. In quest’ambito, l’uso del termine coscienza richiede che siano soddisfatte precise condizioni: un efficiente stato di vigilanza, un efficace funzionamento della memoria e dell’attenzione, una buona capacità di giudizio e di scelta, un corretto orientamento temporo-spaziale. Una seconda accezione considera la coscienza come il punto unificante della consapevolezza della propria identità e della propria soggettività qualitativa. Una terza accezione è quella morale: nel linguaggio comune non è infrequente ascoltare frasi come «ho la coscienza pulita», «la voce della coscienza» e così via. Allo stesso modo, nell’esperienza religiosa il termine allude a uno spazio interiore, un luogo ultimo in cui l’uomo si ritrova, da solo, faccia a faccia con il trascendente. In quest’accezione, come in quella soggettivo-qualitativa, la coscienza riveste caratteri di ineffabilità. Un quarta accezione è quella che identifica la coscienza con qualsiasi stato mentale intenzionale: pensieri, decisioni, desideri, speranze, ricordi.
In poco più di mezzo secolo abbiamo imparato più cose sul cervello di quante non ne avessimo imparato nei cinquemila anni precedenti. Fino alla metà del secolo scorso, l’idea che la ricerca biologica potesse svelare i più reconditi segreti della natura non sarebbe stata nemmeno considerata. Oggi, il rapido sviluppo delle neuroscienze, con l’introduzione di metodiche di indagine non invasive e multiparametriche delle funzioni cerebrali (➔ imaging cerebrale funzionale), sta alimentando speranze non solo sulla possibilità di comprendere molte malattie neurologiche e psichiatriche, ma anche su quella di chiarire aspetti sin qui ritenuti oltre la portata della scienza, come le preferenze estetiche, il libero arbitrio, le decisioni e altro ancora. Sul problema della coscienza, invece, resta fitto il mistero.
I primi studi scientifici. Dopo una stagione aurea tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento – a opera di studiosi come John Hughlings Jackson, William James, Charles Sherrington, Henry Ey, Wilder Penfield, Giuseppe Moruzzi, John C. Eccles – il dibattito si è focalizzato da un lato, sull’individuazione di un modello esplicativo dei modi in cui l’organizzazione psicologica genera la consapevolezza cosciente; dall’altro, sulla comprensione della relazione tra i processi neurobiologici, cognitivi e la qualità soggettiva dell’esperienza. Una posizione rilevante è quella di coloro che – pur senza concedere nulla agli argomenti dei dualisti, degli scettici o dei sostenitori di un’ontologia materialistica del ‘mentale’ − credono nella irriducibilità dell’esperienza soggettiva. I nostri limiti cognitivi, essi sostengono, ostacolano una chiara comprensione della coscienza. In più, se anche scoprissimo i correlati biologici delle nostre esperienze mentali, la nostra soggettività resterebbe comunque inattingibile. Vi è, inoltre, la posizione di chi unifica cognizione e stati funzionali corrispondenti, collocando sullo stesso piano esperienza e comportamento cognitivo. Secondo i funzionalisti la mente è una funzione del cervello e i fenomeni mentali (dolore, fame, ecc.) devono essere considerati solo dal punto di vista quantitativo e non qualitativo. In questo senso, è necessario analizzare le strutture modulari verticali che mediano gli scambi informativi tra gli organi sensopercettivi e i sistemi centrali deputati alle elaborazioni più complesse. Questi moduli, ognuno responsabile di uno specifico dominio, sarebbero geneticamente determinati e localizzati in precise regioni cerebrali. Nei modelli più radicali, questi non scambierebbero informazioni né tra loro, né con le strutture centrali, ma perseguirebbero strategie di calcolo prefissate e immodificabili. In ambito funzionalistico, il cervello è stato rappresentato anche come una moltitudine di microprocessori specializzati, distribuiti e in competizione tra loro per l’accesso a un global workspace, ove avverrebbero il coordinamento e il controllo delle informazioni. Come in una scena teatrale scandita da azioni parallele, a determinare la soggettività consapevole sarebbe il lavoro di un’enorme quantità di informazioni sotto la soglia della coscienza. A fondamento di tale sistema vi sarebbe il circuito talamocorticale che, con le sue proiezioni ascendenti e discendenti, trasformerebbe i distinti contenuti in espressioni di senso.
Il contributo della neurobiologia. Nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, sulla base di evidenze derivate da esperimenti sul sistema visivo dei primati, si è affermata l’idea che all’origine della coscienza vi sia un sistema mediato da oscillazioni talamocorticali analogo all’attivazione dei neuroni di alcuni strati della corteccia visiva. Secondo Francis H.C. Crick, la coscienza si formerebbe secondo il modello di attività neurale delle aree visive alte che si proietterebbero direttamente sulle aree prefrontali, creando uno spazio rappresentativo intermedio tra un piano inferiore delle sensazioni e un piano superiore del pensiero. Questa duplice dimensione è presente anche nell’ipotesi neodarwiniana di Gerald M. Edelman di una coscienza primaria e una coscienza superiore che consentirebbe al Sé di rievocare e narrare i propri vissuti, liberando il soggetto dai vincoli biologici del ‘qui e ora’. In questo schema, la coscienza primaria connetterebbe la memoria assiologico-categoriale all’organizzazione percettiva attuale, mentre la coscienza superiore opererebbe una sintesi tra la memoria valoriale e la memoria categoriale distribuite nelle aree temporali, frontali e parietali. Dalla competizione-collaborazione tra questi due tipi di organizzazione neurale − il non-Sé, che intrattiene relazioni sensoriali con il mondo attraverso l’esperienza attuale, e il Sé, che acquisisce dalle relazioni sociali una semantica e una memoria sintattica per i concetti − emergerebbero la creazione artistica, i sistemi etici e la visione scientifica del mondo. Il modello di una struttura gerarchica della coscienza diviene più marcato nella visione di Antonio Damasio, secondo il quale la coscienza è indistinguibile dall’emozione poiché nasce come un particolare sentimento corporeo ed è costituita da vari elementi: un proto-sé − fondato su istanze biologiche come paura, fame, sesso, rabbia e così via − che l’uomo condivide con gli animali superiori; una coscienza nucleare, che dà all’organismo il senso di sé, ‘qui e ora’, senza rappresentazioni del futuro; infine, una coscienza estesa, che attraverso il linguaggio dà origine al Sé autobiografico. In realtà, i modelli gerarchicamente strutturati lasciano irrisolti alcuni gap esplicativi. Come potrebbero infatti, in uno schema di questo tipo, dispiegarsi quegli equilibri dinamici tra organizzazioni antagoniste (visive, uditive, tattili, propriocettive e altro ancora) che si influenzano reciprocamente sul piano intrasensoriale e intersensoriale per codeterminare i contenuti della coscienza consapevole? Appare più plausibile un modello di reclutamento dinamico, con caratteristiche di unità, diversità, variabilità, che si integra in uno spazio neurale ampio. In questa ipotesi è il lavoro di un insieme di neuroni collegati tra loro a breve distanza (ma con un certo grado di autonomia) a dar luogo ai fenomeni visivi, semantici, motori e così via. Qui, un ruolo critico sarebbe svolto dai lobi frontali e da un aggregato distribuito di neuroni del sistema talamocorticale che opera alla velocità di ca. 0,1 s. Al confine tra queste strutture e le altre aree cerebrali avverrebbero quei fenomeni di composizione mutevole, a distribuzione spaziale variabile e dinamica, decisivi per l’integrazione cerebrale: integrazione unificata e differenziata, variabile da momento a momento, in uno stesso individuo e da un individuo all’altro.
Sebbene la coscienza abbia origine nello spazio cortico-sottocorticale, solo nella corteccia si realizza l’esperienza del tempo, quel vissuto inconfondibilmente individuale e privo di discontinuità che salda le esperienze passate alle aspettative future. Ed è sempre la corteccia a unificare il tempo dei circuiti nervosi con la nostra esperienza consapevole, alla quale possiamo accedere mediante l’introspezione e i resoconti in prima persona. Le nostre esigue nozioni sul tempo ruotano intorno alle categorie di successione e durata: la successione implica la distinzione, eminentemente cognitiva, tra simultaneità e sequenza di più eventi (anche se non in senso assoluto, perché quando sono in gioco scale temporali di decine di millisecondi l’affidabilità del giudizio si affievolisce); la durata implica, invece, la capacità di cogliere eventi percettivi sequenziali come fossero simultanei, di percepire cioè l’intervallo di tempo senza discontinuità. Henri Bergson individuò due dimensioni della vita cosciente: un Io superficiale, che si costituisce a partire da istanze cognitive, e un Io fondamentale, che muove dalla sintesi della coscienza e si costituisce come sentimento del tempo. Prima di Bergson, furono i filosofi eleatici e, più tardi, Sant’Agostino da Ippona a gettar luce sulla problematicità del concetto di presente e a mettere in questione il tempo come successione di momenti presenti. Ma quanto breve può essere un momento, quell’intervallo che non è un punto ma un incessante fluire dal presente verso il futuro e viceversa? Secondo James, la nostra coscienza del tempo ha origine da velocità differenti, che dipendono dai cambiamenti che sperimentiamo in un determinato intervallo: un tempo minimo necessario per l’emergere degli eventi neurali correlati a un evento cognitivo. In realtà, non vi è accordo sulla natura dei processi cerebrali che sottendono la nostra percezione di successione e durata. L’ipotesi più accreditata è che questa si organizzi intorno ai seguenti ordini di grandezza: al di sotto dei 100 ms è impossibile distinguere il principio e la fine di un evento istantaneo; oltre i 5 s, la percezione della durata sembra essere dimezzata per la memoria. I momenti di questo ‘presente ingannevole’ oscillerebbero, dunque, tra i 100 ms e i 5 s. Altre ipotesi mettono a fondamento della coscienza un meccanismo di unificazione temporale delle attività neurali che sincronizzerebbe gli impulsi in oscillazioni medie di ca. 40 Hz e che unificherebbero reversibilmente parte dell’informazione esistente in una percezione coerente. Se tali ipotesi fossero fondate, la nostra coscienza sarebbe determinata non già dall’attivazione di una zona specifica del cervello, ma dall’attivazione concomitante di una serie di neuroni distribuiti nel cervello, di modo che le scariche neurali corrispondenti a uno stesso oggetto diano luogo alla sincronia. Tali oscillazioni, tuttavia, rappresentano una condizione necessaria, ma non sufficiente, a produrre un’esperienza cosciente. Almeno a certi livelli, infatti, la coscienza esige livelli esplicativi dei modelli di connessione ricorrenti di ben più forte complessità. I fenomeni dell’attività neurale generale, evidenziabili all’EEG, nascono dall’attivazione, dall’inibizione parallela e dalla sincronizzazione di circuiti neurali multipli. Si tratta di un equilibrio dinamico, in cui ogni evento, della durata da 100 a 200 ms, riflette l’attivazione stabilizzata di una rete neurale in un procedimento distribuito e in parallelo che si traduce in un contenuto di coscienza, come un pensiero astratto o un’immagine visiva. In determinate condizioni, vi sono aree in cui le oscillazioni neurali giocano un ruolo cruciale. Inoltre, certi stati di coscienza (vigilanza, addormentamento, veglia, ecc.) e patologie come la depressione, l’epilessia, il Parkinson, fanno registrare differenti ritmi talamocorticali, la cui durata varia al variare delle popolazioni cliniche. Per es., negli schizofrenici paranoidei sono più brevi, nei pazienti maniacali mostrano cambiamenti continui e così via. Queste armonie e disarmonie neurali accompagnano il costituirsi della forma e del contenuto del pensiero, l’apparire delle emozioni e, dunque, l’emergenza dell’autocoscienza. Qui, l’esigenza teorica di un’entità metafisica che presieda all’apparire della coscienza diviene inessenziale. In questo modello, l’Io emergerebbe dall’organizzazione neurale e la soggettività dal cervello fisico, secondo evoluzioni e variazioni che, come in una sinfonia, accompagnano l’orchestra pur senza identificarvisi. Il concetto di temporalità invita a riconsiderare taluni aspetti apparentemente ovvi della coscienza. In primo luogo, l’unità dell’esperienza cosciente, che svanisce appena si considerano gli eventi in base a scale temporali di millisecondi; in secondo luogo, l’immediatezza, aspetto troppo spesso attribuito alla coscienza. Abbiamo già visto come la trasmissione dell’informazione visiva sia dovuta a processi che richiedono determinati intervalli temporali. Le frazioni di tempo impiegate da questi processi sono irrilevanti e nessuna informazione può accedere alla coscienza fino a che non siano trascorsi almeno 500 ms dal suo arrivo alla corteccia cerebrale: evidenza che ha indotto Benjamin Libet a osservare che i fenomeni della coscienza sono differiti rispetto alla consapevolezza dell’azione. Sino a oggi (2010) la ricerca sperimentale non ha proposto soluzioni convincenti al problema dell’esperienza del tempo. In quanto origine e struttura della coscienza, questo sconcertante problema, così diverso da tutti gli altri che possiamo studiare con metodiche di neuroimaging, continua a custodire in sé il mistero più autenticamente umano.
Il termine autocoscienza designa la capacità della coscienza di indagare su sé stessa, sulle proprie decisioni, sulle proprie azioni. Si tratta di una capacità riflessiva che distingue categorialmente la coscienza dell’uomo da quella degli animali ed è indissolubilmente connessa al linguaggio umano. Infatti, sia sul piano filogenetico sia su quello ontogenetico, pensiero e linguaggio sono fortemente connessi, in un processo in cui il pensiero è condizione di possibilità del linguaggio. Se la coscienza neurobiologica può manifestarsi in diversi modi, i contenuti di coscienza possono essere comunicati linguisticamente solo se essa percepisce sapendo di percepire; se sa di essere in un punto qualsiasi, sapendo di questo ‘dove’ geografico; se sa di vivere ‘qui e ora’, trasformando questo ‘adesso’ cronologico in ‘tempo vissuto’. L’affievolirsi o la perdita di questa possibilità è il tratto caratteristico dei pazienti con demenza cerebrale. Il pensiero fenomenologico ha mostrato come l’autocoscienza, nella sua intenzionalità, si espliciti storicamente, assiologicamente e verbalmente. Il concetto di campo di coscienza aiuta a individuare le dinamiche del suo costituirsi come protoesperienza, come apertura del soggetto al mondo attraverso un orientamento e un significato che segnano questa relazione intenzionale. Il campo di coscienza è, dunque, presenza, possibilità di vivere in un orizzonte temporale che è vissuto e non misura del cambiamento, che è temporalità incarnata e non un misuratore aritmetico. In piena attività, e a un livello normale di vigilanza, come ricorda Bruno Callieri, la coscienza diviene capacità costituente e ordinatrice, in un cambiamento continuo di prospettive, che presuppone una struttura facoltativa e una disponibilità del soggetto. Qui anche il concetto eminentemente neurofisiologico di vigilanza si trasfigura in quell’attitudine tipicamente umana di porsi di fronte a sé stessi, nella perfetta consapevolezza della situazione, come pure nella percezione critica della propria malattia. È così che la struttura della coscienza può accedere all’autonomia organizzativa per divenire corpo vissuto. Questa modalità dell’essere cosciente si articola nel campo della coscienza, ma lo oltrepassa per divenire Io nella sua storicità. Non l’Io spettatore di un immaginifico teatro filosofico, ma l’Io attore dei diversi gradi costitutivi della coscienza, che ascende fino al suo ordinamento più elevato: meta dell’apertura al mondo, di un orizzonte categoriale nuovo, costituito da valori e gerarchie di valori, da norme e decisioni, da libertà e necessità. Nelson Mauro Maldonato