Coscienza
Dal latino conscientia, derivato di conscire, "essere consapevole" (composto di cum, "con", e scire, "sapere, conoscere"), il termine indica in generale la consapevolezza che il soggetto ha di sé e dei propri contenuti mentali, del complesso delle proprie attività interiori e degli oggetti cui queste attività si rivolgono. In questo senso, rientrano nella definizione di coscienza sia la semplice percezione sensibile di stati o condizioni interne ed esterne, sia la capacità dell'Io di organizzare e sintetizzare in un insieme organico percezioni, sentimenti e conoscenze. Nel senso più specifico di coscienza morale si tratta di un sapere che accompagna la nostra esperienza quotidiana, e grazie al quale siamo in grado di discernere il senso e il valore di azioni o di condotte, proprie e altrui. L'ampio spettro di significati che l'uso comune del termine porta con sé si riflette nella complessità delle teorie e delle interpretazioni che tentano di rendere ragione del fenomeno, indagandone le basi neurologiche, oppure privilegiando la funzione psicologica nel processo di costruzione dell'identità personale, sia che tale funzione si metta in rapporto con le capacità logiche e linguistiche, sia che la si associ piuttosto all'esperienza vissuta della corporeità.
1.
La coscienza, considerata dal punto di vista del linguaggio comune, rimanda alla consapevolezza che l'uomo ha in sé del proprio corpo e delle proprie sensazioni, delle proprie idee, fini e azioni; ma indica anche il sistema dei valori morali di una persona che le permette di approvare o disapprovare i propri atti, di apprezzare la lealtà e l'onestà e di sviluppare il senso del dovere, la sensibilità e l'interesse per una serie di problemi, specialmente sociali. Anche nel linguaggio neuroscientifico la coscienza assume diverse connotazioni ed è caratterizzata dall'ambiguità che deriva dalla coesistenza di due ottiche diverse: una di tipo medico-neurologico, che assimila la coscienza a uno stato di vigilanza, a un livello di attivazione del sistema nervoso in cui sono possibili alcuni comportamenti (le sensazioni, l'attenzione, le attività mentali superiori), mentre altri (la confusione, il sonno, il coma) sono governati da differenti stati funzionali del cervello; l'altra di tipo mentalista, che si riferisce al più vasto e tradizionale significato della coscienza. Mentre la maggior parte degli psicologi e degli studiosi della mente tiene separato il concetto di coscienza da quello di vigilanza, i neurologi, i neurofisiologi o gli anestesisti tendono invece ad assimilarli e confonderli, attenendosi a una dimensione operativa degli stati mentali. In realtà la vigilanza, anche detta crude consciousness, è una funzione del sistema nervoso che si svolge a più livelli, che si basa sull'entrata in gioco di varie strutture cerebrali (la formazione reticolare, il talamo, il sistema limbico) e che caratterizza diversi stati mentali. Il concetto di coscienza, secondo l'ottica neurofisiologica, procede di pari passo con gli studi sulla cosiddetta formazione reticolare: questa struttura nervosa, che dal midollo allungato si irradia verso la corteccia e ha i suoi nuclei di origine nelle strutture del tronco cerebrale e del mesencefalo, presiede ad attività cicliche e a stati fisiologici in cui vengono dispiegate o reintegrate le energie, come la veglia e il sonno, il riposo e l'attività. Dal punto di vista funzionale, le ricerche sull'attività reticolare sono legate ai classici studi di G. Moruzzi e H. Magoun (1949). I due ricercatori dimostrarono che se si stimola elettricamente il tronco cerebrale di un animale durante lo stato di sonno questi si risveglia, mentre il suo cervello denota un forte stato di eccitazione, cioè un'attività elettroencefalografica desincronizzata (tipica degli stati di veglia vigile).
La stimolazione dei nuclei della formazione reticolare a livello del tronco cerebrale in un animale sveglio produce uno stato di ipereccitazione, prossimo a quello che viene definito di confusione e che può essere indotto attraverso la somministrazione di farmaci eccitanti come la caffeina o l'anfetamina. Studi successivi dimostrarono che le lesioni di alcuni nuclei della formazione reticolare si traducono in stati di sonno permanente o coma, mentre l'elettroencefalogramma denota un'attività simile al sonno e caratterizzata da onde elettriche di tipo delta. Gli studi di Moruzzi e Magoun consentirono ad altri ricercatori di individuare nel ponte o tronco cerebrale alcuni nuclei nervosi, caratterizzati dalla capacità di eccitare o deprimere l'attività di tutto il cervello: a seconda dell'azione di questi nuclei si può verificare una transizione tra stati di coma profondo, coma, sonno profondo, sonno leggero, stati di confine (tra il sonno e la veglia), veglia rilassata, veglia vigile, eccitazione, confusione. Gli stessi Moruzzi e Magoun formularono l'ipotesi che a diversi stati di attivazione della formazione reticolare corrispondessero differenti stati comportamentali o di coscienza, con una transizione dall'assenza totale di coscienza (il coma) a stati di coscienza appannata, vigile, confusa. Questa concezione neurofisiologica della coscienza è stata ulteriormente rafforzata da studi di tipo psicofarmacologico, che hanno permesso di accertare gli effetti di farmaci sedativi (per es., ipnotici, tranquillanti ecc.) o eccitanti (per es., stimolanti blandi, anfetamine ecc.) sul comportamento e la coscienza di soggetti sperimentali.
La vigilanza, con i suoi vari stati che consentono diversi livelli di coscienza, è però ben differente dalla coscienza propriamente detta, che sfugge a una localizzazione cerebrale, anche se molte strutture nervose centrali possono contribuire alla sua complessa attività, e che rappresenta la capacità dell'Io di vagliare e sintetizzare le esperienze del mondo esterno e interno, integrandole in un insieme di coordinate spaziotemporali. Essere consci significa quindi dare ordine e significato ai vissuti, analizzare, sia pure con un minimo divario temporale, ciò che si è provato, ricordato, pensato. Molti sottolineano questo ritardo infinitesimale per indicare che la coscienza rappresenta una sorta di lavoro su ciò che è stato, non un'attività della mente che si verifica in tempo reale. Considerata in quest'ottica la coscienza rappresenta la capacità di far luce sul nostro mondo interno e su quello esterno, di ordinare la dispersiva molteplicità dei fenomeni, distinguendo la nostra identità da quella degli altri: eppure, questa concezione appare troppo lineare e logica, a immagine e somiglianza di un mondo ordinato e razionale in cui il 'rumore di fondo' rappresenta un insignificante accidente, qualcosa privo di significato. Il concetto di coscienza rimanda, invece, anche all'esistenza di fenomeni di turbolenza e conflittualità, che non soltanto testimoniano della fragile unitarietà dell'Io, del suo continuo oscillare tra la ricomposizione e la frammentazione, ma pure del fatto che la coscienza può emergere proprio in quanto esiste un rumore, un momento di 'turbolenza'.
2.
Questa dimensione alternativa della coscienza è in antitesi con quella classica, risalente alle teorie filosofiche degli empiristi inglesi e della scuola funzionalista, che ne sottolinea i compiti, il significato, le valenze prettamente cognitive. Secondo J. Locke, dal quale questa concezione ha preso le mosse alla fine del Seicento, la mente, con tutte le sue attività e processi, sarebbe trasparente a sé stessa, in grado di rivelare all'osservazione introspettiva l'insieme delle sue associazioni, cioè la sua 'chimica mentale'. La coscienza, insomma, altro non sarebbe che uno specchio capace di rinviare le immagini mentali, pur potendo alcune di esse risultare meno accessibili di altre. In tal modo Locke gettava le basi delle attuali concezioni computazionali della mente e, quindi, di una coscienza in grado di dare senso, ordine e coerenza alle diverse sensazioni, memorie e attività che si verificano nei circuiti nervosi: tutto ciò che è psichico sarebbe cosciente e la coscienza si identificherebbe con la mente, in particolare con la sua logica. A una concezione essenzialmente ordinatrice della mente si oppongono alcune attività e fenomeni mentali che indicano come non tutto ciò che è psichico appartenga necessariamente alla logica del conscio. Se il sogno, per es., è un fenomeno psichico, che dire del suo linguaggio, caratterizzato da quella 'doppia logica' in cui c'è posto sia per la realtà e per il linguaggio lineare della veglia, sia per quello contorto e in codice che la psicoanalisi ha tentato di decifrare a partire dalle analisi di Freud? Su questo problema si verificano spesso profonde divisioni: i neurobiologi, da un lato, i quali tendono a interpretare il mentale (diurno o notturno che sia) sulla base di un riduzionismo che associa una particolare attività della mente a un particolare stato biochimico o neurofisiologico, negando in tal modo l'esistenza di logiche e codici onirici, e gli psicoanalisti, dall'altro, che ritengono i simboli onirici derivanti da un complesso lavorio del cervello, che è necessario interpretare per comprendere il significato del sogno.
Secondo il modello neurofisiologico, la differenza tra il sonno e la veglia e tra il sonno e il sogno dipende da un complesso gioco di mediatori nervosi, dall'entrata in funzione di nuclei situati nelle profondità del cervello, che lo isolano dagli stimoli del mondo esterno e lo sottopongono a stimoli endogeni dilaganti al suo interno, raggiungono la corteccia e risvegliano frammenti di memorie, anche recenti, 'spezzoni' di immagini ai quali la corteccia cerca di dare un senso in quanto non tollera l'incongruità dei messaggi che le pervengono. Ecco quindi che il cervello tesse storie oniriche utilizzando alcuni ricordi veri, quelli che vengono 'illuminati' dagli stimoli provenienti dalla convulsa attività dei nuclei nervosi del sogno. Questo modo di interpretare la logica onirica è in netto contrasto con la psicoanalisi, in quanto nega che - come sostiene Freud - la logica del sogno faccia capo a oscuri simbolismi, considerandola al contrario come dipendente da un tentativo della corteccia di far luce nell'attività casuale che la pervade. Ma non è soltanto alla diversità della logica onirica che rimanda la psicoanalisi: essa pone anche in evidenza l'aspetto della non unitarietà o non linearità della mente, cioè il classico problema dell'inconscio. La psiche sarebbe infatti abitata da un altro sé stesso e questo, per es. l'Es, può avere segreti per l'Io, proprio come un individuo può non rivelare a un altro i segreti della sua coscienza. In tal modo non soltanto le menti e le coscienze altrui sono inaccessibili dall'esterno, ma anche alcuni ambiti delle nostre attività mentali; queste, paradossalmente, possono essere più accessibili a chi è all'esterno, lo psicoanalista, dotato degli appropriati strumenti d'accesso, che non allo stesso 'proprietario' della mente. Le concezioni freudiane hanno quindi introdotto un ulteriore motivo di complicazione nel campo delle teorie della coscienza: se, infatti, per Locke e i seguaci dell'associazionismo l'idea di un'attività mentale inconscia era inconcepibile, ora è l'attività mentale conscia a presentare dei problemi, non solo perché alla coscienza sarebbero preclusi numerosi ambiti della psiche, ma anche perché le coscienze, possono sdoppiarsi, fino a divenire multiple.
3.
Il nostro concetto di coscienza appare dunque legato a due tipi di considerazioni, che dipendono da una visione dall'interno, oppure da considerazioni effettuate dall'esterno. L'ottica dall'interno consente a ognuno di noi di sapere che cosa significhi essere sé stesso, rendersi conto di quanto avviene all'esterno e all'interno del nostro corpo; anche se siamo consapevoli dell'esistenza di dinamiche che ci sfuggono e che non riusciamo ad apprezzare pienamente, noi riteniamo che nulla potrebbe essere conosciuto più a fondo e più intimamente di quelle cose di cui siamo individualmente coscienti. In altre parole, possedere la coscienza significa avere una vita interiore e noi, con il nostro senso comune, sappiamo che gli uomini possiedono questa qualità che manca invece agli oggetti inanimati. Questa certezza è invece più difficilmente raggiungibile se utilizziamo un'ottica dall'esterno. Certamente possiamo basarci sul fatto che gli esseri in possesso di una coscienza reagiscono al mondo esterno con i loro sensi, evitano le situazioni che comportano sofferenza, imparano, ricordano, dimostrano intelligenza, progettano: questi attributi, però, formano un catalogo dai limiti incerti e la loro applicazione alle altre menti presenta trabocchetti e difficoltà logiche. Non è forse vero che una mosca sente, prova dolore, ricorda, impara e ha dei progetti, come quello di volare verso una fonte nutritiva o cercare una mosca di sesso opposto? E se la sensorialità di una mosca ci appare banale e scartiamo questo criterio per definire cosa sia la coscienza, come ci comportiamo di fronte a un robot dotato di memoria, apprendimenti, intelligenza e progetti? Per uscire da questa impasse, adottiamo spesso il criterio della somiglianza: sono dotati di una coscienza i nostri simili e sulla base di tale criterio riteniamo che una scimmia possa manifestare una qualche forma di coscienza, che invece neghiamo a una mosca o a una lumaca.
Sulla stessa base ci opponiamo alla possibilità di attribuire una coscienza a un robot, anche se esso fosse progettato in modo tale da definire e comunicarci i suoi 'stati interni', verbalizzare le sue decisioni, rendere note le sue possibili mosse in rapporto a situazioni possibili. La coscienza, in tal modo, non cessa di porci delle difficoltà, se vogliamo definirla dall'esterno. Per contro la psicoanalisi ci indica che certe attività mentali, come già detto, sono più accessibili a chi è all'esterno che a chi possiede quella mente. D'altronde esistono ormai innumerevoli esempi a favore di una dissociazione tra la coscienza e il compimento di complesse attività mentali: basti pensare, per es., alla cosiddetta visione cieca, che mostra come, anche nei casi di distruzione della corteccia visiva primaria, i soggetti colpiti da questo danno non 'vedono' la realtà che li circonda, cioè non sono consapevoli della sua esistenza, ma sono in grado di svolgere dei compiti basati sul riconoscimento visivo, pur dimostrandosi stupiti di questa loro abilità in quanto affermano di non aver visto gli stimoli. Una situazione concettualmente simile si verifica nei soggetti amnesici che, pur non ricordando un compito cui sono stati addestrati, se ne avvalgono per risolvere situazioni analoghe, anche se questa capacità è distinta dal suo apprezzamento cosciente da parte del soggetto. E infine, a livello di psicologia del senso comune, basterà pensare al fatto che gran parte delle nostre azioni quotidiane sono svolte senza una consapevolezza diretta: ci dirigiamo verso un luogo, facciamo emergere dei ricordi, adattiamo i nostri organi sensoriali, senza che ciò implichi un nostro coinvolgimento conscio, un'introspezione che proceda minuto per minuto. Ma se una parte della mia mente mi sfugge, se l'inconscio non è trasparente al conscio e se altri, come l'analista, sono forse in grado di comprendere meglio di me alcune mie azioni, alcune dinamiche della mia mente, non siamo estranei anche a noi stessi? Una parte della mia mente, di cui sono inconscio, non è altra da me? Sembra insomma riproporsi all'interno dell'Io il problema delle menti degli altri.
Nell'ambito della neurofisiologia tale questione è evidente in modo particolare nei rari casi di 'cervello diviso', cioè in quegli individui che per diversi motivi hanno subito una sezione del corpo calloso, l'insieme di fibre che associa i due emisferi cerebrali, consentendo loro di scambiarsi informazioni e di integrare le loro funzioni, essendo l'emisfero sinistro prevalentemente coinvolto nel linguaggio e nell'astrazione e il destro nell'emotività, nel riconoscimento dei volti umani e nei processi spaziotemporali. Nelle persone con un cervello diviso i due emisferi svolgono le loro funzioni in modo totalmente autonomo, cosicché gli avvenimenti che si verificano a destra sono sconosciuti al soggetto che si esprime verbalmente tramite l'emisfero sinistro; l'Io cosciente appare in rapporto solo con gli avvenimenti che coinvolgono l'emisfero sinistro e solo con questo può comunicare verbalmente con il mondo esterno. Se infatti, attraverso un particolare artificio, si inviano soltanto all'emisfero destro dei messaggi linguistici (parole scritte), questi non possono essere trasmessi all'emisfero di sinistra a causa dell'interruzione delle fibre nervose del corpo calloso: si direbbe, come ha notato R.W. Sperry (1974) che per primo ha analizzato questo tipo di pazienti, che l'emisfero destro di un soggetto con il cervello diviso sia il 'cervello di un idiota', in quanto non può vedere, leggere e scrivere ciò che in realtà arriva a percepire. Tuttavia l'emisfero destro non è sprovvisto di capacità, come può essere evidenziato da quest'altro esperimento: se si invia un messaggio visivo consistente in una parola scritta soltanto verso l'emisfero destro, il soggetto è capace di leggere la parola ma non è in grado di definire verbalmente ciò che ha visto; se però lo sperimentatore gli pone di fronte un vassoio pieno di oggetti, il soggetto è capace di riconoscere immediatamente l'oggetto di cui ha visto scritto il nome e di indicarlo.
Dall'esperimento si può, quindi, dedurre che in una persona con il cervello diviso ognuno dei due emisferi è perciò in grado di impegnarsi in quei compiti che gli competono, anche se essi agiscono in modo autonomo, senza potersi scambiare informazioni, al punto che è possibile generare sperimentalmente una conflittualità tra i due emisferi, tra due menti diverse. Ma a questo punto, è lecito affermare che entrambe le menti hanno una loro vita interna? Anche l'emisfero destro, che non è in grado di svolgere funzioni linguistiche, come l'emisfero di sinistra, ha diritto a una coscienza? E se si accorda all'emisfero destro una coscienza, perché allora non accordarla a ognuno dei tanti sottosistemi in grado di analizzare l'informazione in modo autonomo? Ancora una volta, ha diritto allo status di coscienza soltanto un'attività mentale conscia e strutturata attraverso il linguaggio? O dobbiamo invece popolare il nostro cervello di menti autonome, inconsce e capaci di esperienze indipendenti?
Per rispondere a queste domande consideriamo i risultati di un inquietante esperimento condotto dagli psicologi J.R. Lackner e M.F. Garrett (1972) su un gruppo di persone che, attraverso delle cuffie, prestavano ascolto a due diversi canali ma si sforzavano di fare attenzione a uno solo di essi, per es. ai messaggi provenienti all'orecchio di destra anziché a quelli diretti all'altro orecchio. In questa situazione la persona riferisce quanto ha udito attraverso il canale cui ha prestato attenzione, mentre non è quasi in grado di riferire sui messaggi pervenuti al canale trascurato: può, per es., dire se la voce era maschile o femminile o se parlava nella sua stessa lingua, ma non riferire le parole udite. Se ora si inviano dei messaggi ambigui al canale cui si presta attenzione, per es. "Egli levò la lanterna per segnalare l'attacco" ('levò' può significare sia 'togliere' sia 'alzare in aria'), e al canale trascurato si invia un messaggio in grado di sciogliere l'ambiguità "Egli alzò la lanterna", le persone non sono capaci di riferire il significato della frase udita tramite il canale trascurato, ma sono capaci di sciogliere l'ambiguità del messaggio udito tramite il canale cui prestavano attenzione. In altre parole, pur essendo inconsapevoli del significato della frase udita, ne hanno tratto profitto e ciò indica che frasi dotate di un significato linguistico possono essere comprese inconsciamente. In questo caso non ci troviamo di fronte alle ambigue particolarità di un cervello diviso, ma di un cervello integro e, di conseguenza, di una mente integra, se quest'ultimo termine non implica necessariamente che essa debba avere una coscienza unitaria.
Ciò significa anche che l'assimilare la coscienza all'emisfero sinistro, e di conseguenza alle capacità linguistiche, rappresenta una concezione riduttiva e semplificante della mente: altrimenti non sapremmo cosa dire della mente di un neonato in cui ha luogo una graduale acquisizione del linguaggio e, più in generale, di tutte le menti quando si verificano diverse forme di esperienza inconscia. Né della mente di quanti 'pensano' per immagini o per suoni, arrivando ad avere delle sinestesie, interpretando per es. un suono in termini di colore. La mente appare così meno trasparente e lineare di quanto ritenesse Locke, mentre si fa sempre più difficile il tentativo di rappresentare la coscienza in termini di unitarietà delle esperienze, di logica centralistica. Analogamente allo psicologo H. Gardner, che indica che non esiste una sola forma di intelligenza, ma diverse capacità intelligenti, da quelle motorie a quelle musicali e linguistiche, più o meno rappresentate nello stesso individuo, bisogna forse ammettere che anche la mente e la coscienza possono avere una dimensione non omogenea, sino a essere frantumate in un mosaico di cui, a volte, si stenta a cogliere il disegno unitario.
Un aspetto particolare della coscienza, tuttora oggetto di ricerca in psicologia, è rappresentato dal processo che K. Jaspers (1913) chiamava Ichbewußtsein e la letteratura anglosassone ha tradotto con self-awareness, cioè "esperienza di sé". Entrambe le espressioni sono difficili da rendersi in lingua italiana, dove si è continuato a preferire la locuzione 'coscienza dell'Io' (Rossi-Bucca 1993). Fondamentalmente questo concetto implica la consapevolezza dell'esistenza di una realtà personale e di una realtà esterna, come distinte tra di loro anche se entrambe inscritte in un continuum spaziotemporale. In questo senso la coscienza dell'Io, che implica la presa d'atto della propria soggettività e di una certa unitarietà e continuità dei processi psicofisici che la caratterizzano, cioè la propria identità, rappresenta il fondamento stesso dell'attività psichica. Già in Jaspers la coscienza dell'Io sottende un processo esperienziale, dotato di intenzionalità e di spinta alla conoscenza e all'esperienza, che perviene a quel livello di autoconsapevolezza su cui si declina poi la dinamica maturativa della personalità. Jaspers sottolinea come nel concetto di coscienza dell'Io sia presupposta la coscienza del corpo, ossia la capacità di percepire e unificare in un quadro di riferimento significativo una serie di sensazioni. Queste ultime, da un lato, ci forniscono una rappresentazione mentale del nostro corpo, quasi fosse un oggetto visto dall'esterno, dall'altro, evocano in noi un sentimento del nostro 'essere corporei', cioè del fatto che solo attraverso la corporeità siamo viventi. In una dinamica psicologica sana, infatti, la coscienza dell'Io non può prescindere da una percezione del corpo. Questa percezione è più avvertita nelle attività che impegnano l'apparato muscolare e producono del movimento, meno invece nel caso delle funzioni vegetative.
Già in questo primo quadro descrittivo della coscienza dell'Io corporeo, osserviamo che essa si estende al di là dei confini somatici propriamente detti, per coinvolgere anche il contesto ambientale e gli oggetti che vi sono presenti e con i quali siamo in relazione. Nell'ambito delle correnti psicologiche aperte agli influssi fenomenologici e antropologico-esistenziali (per es. la cosiddetta Dasein Analyse), è stato accentuato il ruolo della coscienza dell'Io corporeo nella comprensione degli stati d'animo e quindi della vita emotivo-affettiva, sia normale sia patologica, della persona (Cargnello 1977; Callieri 1982; Borgna 1994; Callieri 1994). Un esponente tra i più significativi della psichiatria contemporanea, R.D. Laing (1959), ha affermato che la 'sicurezza ontologica primaria', cioè la capacità di affrontare la vita e le sue difficoltà, come pure di progettare il futuro, deriva e dipende dalla coscienza dell'Io corporeo, ossia da quel modo di sentire il corpo come realtà viva, reale e concreta, da cui non è possibile separarsi senza cessare di esistere. In un'altra prospettiva, S. Freud ha fondato la propria costruzione teorica proprio sull'assunto che l'Io è innanzitutto un'entità corporea, intesa non solo come un'estensione concreta materiale, cioè una superficie, ma anche come la proiezione di questa superficie. In altri termini, Freud ritiene che l'Io derivi in definitiva dalle sensazioni corporee, soprattutto da quelle provenienti dalla 'superficie' del corpo (cioè dai recettori sensoriali), al punto di affermare che l'Io cosciente è prima di ogni altra cosa un Io-corpo. Non solo, lo stesso concetto di pulsione, basilare per il costrutto teorico-clinico psicoanalitico, si radica all'interno del corpo, si manifesta attraverso le reazioni di quest'ultimo e alimenta sia i bisogni sia le motivazioni dell'intera personalità. Il quadro dinamico pulsionale delineato non avrebbe però senso compiuto, né senso specificamente umano, se non esistesse appunto quella coscienza dell'Io-corpo che consente di percepire, valutare e, in certo modo, orientare e canalizzare le istanze pulsionali.
La teoria freudiana è stata in seguito approfondita in interpretazioni che tengono conto di dati fenomenologici, della psicologia della Gestalt e dell'approccio psicofisiologico di P. Schilder (1950), il quale ha fornito la descrizione forse più significativa dell'immagine corporea. Questa deriverebbe dall'insieme delle percezioni che danno luogo alla visione spaziale e tonicoposturale che ciascuno ha di sé stesso, ossia al modo in cui il nostro corpo ci appare come unità corporea immediatamente percepibile. L'immagine dell'Io-corporeo è soggetta a una continua ristrutturazione, che è dovuta, in parte, alle stimolazioni endogene di tipo psicobiologico e, in parte, alle relazioni sociali e quindi alle modalità di adattamento e di reazione di fronte ad altre immagini corporee, in senso sia concreto-spaziale sia fantastico-emotivo. La prevalenza della dimensione psichica dell'Io-corporeo rispetto a quella somatica fu sottolineata da P. Federn (1952), che propose il concetto di 'confini dell'Io', prospettando una sorta di organo sensoriale periferico entro il quale l'Io mantiene la coscienza della propria unitarietà e all'interno del quale si espande. I confini delimiterebbero uno spazio al di là del quale si colloca il non-Io, cioè l'inconscio, e uno spazio o confine esterno al di là del quale vi sarebbe il mondo degli oggetti. Quest'ultimo, stimolato e investito dalla libido, darebbe luogo al senso di realtà, cioè alla capacità di avvertire la distinzione tra i dati appartenenti all'Io e quelli del non-Io. Nella stessa direzione si muove la teoria di D.W. Winnicott (1948, 1960), che ritiene l'acquisizione di uno schema corporeo personale, e quindi di una coscienza del corpo adeguata, un fattore essenziale sia per la capacità di una relazione immediata e di un'analisi adeguata della realtà - ivi inclusa la potenzialità di superare le difficoltà e gli eventuali traumi dello sviluppo - sia, di conseguenza, per la costituzione di un Sé autentico.
Lo sviluppo del rapporto identità-coscienza dell'Io è stato approfondito da diversi autori contemporanei: J. Lacan (1966) ha messo in rilievo il ruolo dell'Io-corpo nel processo di riunificazione percettiva dell'originario sentimento di frammentazione del corpo, in quella fase di sviluppo che egli ha chiamato 'fase dello specchio'. Secondo E. Gaddini (1968) l'organizzazione mentale di base si costituisce in modo coordinato verso il 6° mese di vita. In questa fase il bambino riuscirebbe a realizzare una rappresentazione mentale del proprio Sé-corporeo, che è la base indispensabile per la costruzione di un'immagine compiuta del proprio corpo (collocabile verso il 5°-6° anno di vita), e la premessa per la formazione del Sé in quanto tale e quindi dell'identità personale matura. Questa dinamica tuttavia si realizza in stretta dipendenza e in modo contestuale alla capacità di acquisire un senso del Sé, a sua volta dipendente dalle sensazioni somatiche.
Da quanto detto si comprende l'importanza della coscienza dell'Io anche come indicatore più generale dell'equilibrio psichico: le alterazioni della coscienza dell'Io-corporeo sono, infatti, costitutive di differenti e talora gravi quadri psicopatologici, quali per es. la depersonalizzazione e il cosiddetto arto fantasma. La depersonalizzazione è una delle forme di alterazione della coscienza dell'Io, caratterizzata dalla sensazione che il proprio corpo, e contestualmente anche la propria mente, vanno modificandosi fino a divenire una realtà estranea, quasi meccanica e devitalizzata. Il fenomeno dell'arto fantasma consiste nella sensazione di possedere ancora l'arto dopo che esso è stato amputato o anche gravemente menomato.
La ricerca fenomenologica appare molto più fruttuosa nella psicopatologia che nella psicologia 'normale': la ragione di ciò è che le condizioni di possibilità dell'essere-uomo come essere-al-mondo appaiono a nudo solo presso il malato mentale, cioè solo là dove vengono a mancare. Ciò vale sia per la psicopatologia delle psicosi sia per le alterazioni della coscienza: la perdita del senso comune, nello schizofrenico, della 'qualità di essere-noto', o le modificazioni della spazialità e della temporalità nei disturbi dello stato di coscienza fanno venire alla luce le condizioni di possibilità dell'ordine della realtà e dei suoi valori. Sul piano neurologico lo studio analitico della coscienza implica ancora oggi l'ipotesi dell'esistenza di diversi livelli gerarchicamente strutturati, e quindi anche l'esistenza di diversi tipi e gradi di coscienza, sia sincronici (il 'campo' e il 'fuoco' di coscienza), sia diacronici (l'Io o la personalità).
Ci si è sempre più staccati infatti dalla convinzione che alla coscienza sana sono date solo due possibilità, star sveglio o dormire, privilegiando appunto l'idea che la vigilanza, la crude consciousness, sia una funzione del sistema nervoso che si esplica a più livelli e caratterizza diversi stati mentali (v. sopra: Tra neurofisiologia e psicoanalisi). La vigilanza chiarissima e prontissima del giocatore di tennis, del tutto diversa da quella del ricercatore immerso nella speculazione o del chirurgo in sala operatoria, del giocatore di scacchi o del cacciatore appostato, la vigilanza così labile dell'assonnato, quella dell'annoiato, quella del distratto, costituiscono altrettanti esempi della modificazione della coscienza sana, la cui descrizione appare inesauribile. Noi possiamo, entro certi limiti, modificare con la volontà il nostro stato di coscienza, indipendentemente dalla situazione in cui ci troviamo, per es. facendo fluttuare l'attenzione oppure raccogliendoci, concentrandoci (pensiamo alla meditazione trascendentale, allo yoga e al training autogeno); come dobbiamo ammettere anche una spontanea capacità di trasformazione della coscienza, di passaggio da uno stadio all'altro non condizionato dall'ambiente. Perché vi sia chiarezza o lucidità di coscienza (si intende qui per coscienza la globalità della vita psichica del momento), si esige che il soggetto abbia chiaramente presente che è 'lui' a pensare, a sapere, a volere, a fare, che senta che la sua esperienza del momento è legata al proprio Io. È quanto manca negli stati di derealizzazione o di depersonalizzazione autopsichica e somatopsichica, o nel 'sentimento della mancanza di sentimento', proprio dei melanconici.
Tornando allo stato di coscienza, si è parlato figuratamente di 'scena' su cui si svolgono i fenomeni psichici e di 'medium' in cui si muovono: ecco allora i concetti di restringimento del campo della coscienza, di obnubilamento, di stati crepuscolari ecc. I disturbi dell'attenzione (le 'eclissi mentali' di P. Janet, il piccolo male), gli obnubilamenti emozionali della coscienza ('accecato dall'ira', 'pietrificato dal dolore', 'intontito dallo stupore', 'annebbiato dai fumi dell'alcol') ostacolano il giudizio. Le iperchiarezze di coscienza degli encefalitici e degli epilettici, le alterazioni psicotiche organiche della coscienza e quelle psicogene, per es. gli stati crepuscolari isterici o quelli indotti da uno spavento improvviso o da disastri (bombardamenti, terremoti, alluvioni ecc.) costituiscono esempi classici di alterazione dello stato di coscienza e del suo campo. L'interpretazione dei disturbi della coscienza come deficitaria sintonia con la situazione ambientale riporta i disturbi della capacità polare di 'trasformazione' a quelli della coscienza strutturata polarmente. In tal modo ci si offre anche la possibilità di comprendere il tipo dei processi fisiologico-somatici che caratterizzano un disturbo di questo genere, nonché l'opportunità di distinguere anche elettrofisiologicamente e con parametri neurochimici i diversi stadi della coscienza di veglia.
La coscienza è capace di questi passaggi (trasformazioni) tra i poli normali della chiara vigilanza e del sonno profondo e, nell'ambito patologico, tra l'eccitamento ipersveglio e la profonda incoscienza. Intesa in questo senso ampio, la coscienza è un contenuto sempre perdurante, continuo, un modo della nostra vita vissuta, più esattamente, del nostro corpo-mondano-vissuto; è qui individuabile la 'funzione tetica' della coscienza, cioè la capacità dell'Io di vagliare e sintetizzare le esperienze dall'esterno e dall'interno, integrandole in un sistema spaziotemporale. Nella mondanità della vita vissuta somatica si fondano la sintonia della coscienza, il suo ordinamento e la sua adattabilità alle singole situazioni ambientali, la sua capacità di annottare nel sonno e di far giorno nella veglia, il suo emergere da un rumore di fondo. Anche negli animali troviamo stati di coscienza trasformabile, veglia e sonno, sogni, attenzione tesa, eccitamento irrequieto, secondo le situazioni nelle quali essi vengono a trovarsi. Anche negli animali c'è la sintonia della coscienza, quella stessa sintonia che si sviluppa nel neonato.
Dunque, la fenomenologia subiettiva dell'attualità vissuta riposa certamente sulla nozione di 'campo', cioè di una totalità organizzata e limitata. Questo risponde alla necessità stessa, per l'esperienza vissuta, di circoscriversi nel suo significato, nelle sue dimensioni, come una struttura momentanea, transitoria e sincronica. Lo psichiatra H. Ey (1963), riferendosi a H. Bergson, a E. Husserl e alla Gestaltpsychologie, ha proposto una concezione della 'struttura formale del campo della coscienza', che soddisfa appieno le esigenze cliniche di comprensione. Il campo di coscienza, secondo Ey, ha una storia, una stratificazione, una genealogia, un 'fondale' (Untergrund), che si rivolge all'altro, dinamicamente e secondo un determinato ordinarsi. A questa 'coscienza costituita', a questa infrastruttura che è come l'invariante formale, lo zoccolo della relazione dell'Io con il suo mondo, corrisponde una triplice trasformazione funzionale: la possibilità di aprirsi al mondo o di orientarvisi; la capacità di distribuire lo spazio vissuto secondo quel che appartiene al soggetto o al mondo degli oggetti; infine la facoltà di arrestare (e di riempire) il tempo in quanto 'spazio di tempo' che costituisce il presente tra la retentio e la protensio. Lungi dall'essere considerata come un'astrazione, questa coscienza è da intendersi nella sua intenzionalità.
La descrizione fenomenologica del campo della coscienza ci mostra la costituzione di essa a partire da una proto-esperienza, nascente dall'ostacolo interposto tra la pulsione (o il delirio) e l'oggetto. In tal modo il soggetto si apre al mondo con un orientamento e un significato che marcano questa relazione intenzionale; ma il campo della coscienza è anche presenza, cioè il 'qui e ora' vissuto in ogni avvenimento, in perenne dialogo con l'altro. La funzione tetica della coscienza può così svilupparsi pienamente: la possibilità di vivere un presente organizzato, di integrare le pulsioni, le emozioni e le esigenze istintive, tutto questo si organizza in una struttura temporale che esige la presenza del soggetto.
Nell'accezione morale del termine coscienza si conservano importanti sfumature semantiche derivanti dall'origine etimologica nel latino conscientia, che a sua volta traduce il greco συνείδησις. Si tratta di un sapere che accompagna il nostro proprio vissuto e nel quale il senso e il valore di una condotta, sia propria sia di altri, ci sono immediatamente noti. Nella storia del pensiero, l'origine di questa ineludibile consapevolezza è stata riposta in fonti anche molto diverse, ma il significato di non poter mentire a sé stessi su ciò che è bene o male si può dire che si conservi inalterato.
L'identificazione della natura e della provenienza della norma che nella coscienza morale si annuncia e si impone segue percorsi che non mettono in discussione l'idea di un'innata facoltà di distinguere il giusto dall'ingiusto, connaturata alla natura umana. Questa voce interiore che non può essere costretta al silenzio ingenera stati psicologici tipici, come vergogna, pudore, rimorso, rispetto. Nel Simposio, Platone fa dire ad Alcibiade che la coscienza che egli avverte dentro di sé di non poter opporre nulla a quanto Socrate gli presenta come bene è la fonte di quel sentimento di vergogna che solo Socrate è in grado di ispirargli, una vergogna non lontana da quel rispetto per la legge morale che I. Kant dirà ingenerare umiliazione, presentandoci severamente la nostra indegnità. Più volte Cicerone, parlando del 'foro interiore' dove regna la legge innata e non scritta, fa ricorso all'immagine del rimordere, perché la retta coscienza, fondata sulla retta ragione, non può mai essere costretta al silenzio. Con il cristianesimo la buona coscienza è la testimonianza di una condotta conforme alla santità e alla purezza di Dio, mentre tutto ciò che non procede da essa è peccato, anzi, dice Abelardo, è solo nei confronti della coscienza che si pecca.
Con l'approfondirsi della riflessione su questo tema, si configura il problema se la coscienza morale abbia essenzialmente una funzione decisionale o invece di controllo, se essa basti cioè a valutare ciò che è bene, o sia invece essenzialmente la prova della qualità morale dell'azione già compiuta. Quando prevale questa seconda accezione, la coscienza morale si presenta anzitutto come rimorso, pentimento, o, come dicono Cartesio e B. Spinoza, come una 'tristezza' che è fondamentalmente connessa al fatto che le cose siano andate in modo diverso da come ci si attendeva che andassero, siano accadute contro la nostra speranza. Nell'illuminismo inglese e tedesco prevale invece l'altro significato, e la coscienza viene assumendo il valore di una facoltà dell'animo. È l''istinto divino', la 'voce immortale e celeste', guida sicura d'un essere ignorante e limitato, 'che rende l'uomo simile a Dio' nell'Emilio di J.J. Rousseau, la 'meravigliosa facoltà' di Kant, la facoltà di giudicare della qualità morale delle azioni che stiamo per compiere e che non può mai trarci in inganno. Rispetto alla natura umana, con le sue passioni, i suoi impulsi, le sue affezioni e i suoi appetiti, la parte della nostra natura che la coscienza morale rappresenta funge da senso naturale che ci rende ripugnante il male e l'ingiustizia.
La separazione tra filosofia e teologia, soprattutto in Francia e in Inghilterra, rescinde peraltro la naturale unione tra legge innata non scritta e coscienza morale. A essa T. Hobbes sostituisce la norma emanata ad arbitrio della potenza assoluta e J. Locke la fa scaturire dall'educazione e dall'ambiente. Al posto degli istinti ereditati si sottolinea il peso dei comportamenti acquisiti. Non vi è più un sistema di istinti che canalizza i bisogni umani, e il comportamento risulta plasmabile: la coscienza morale, come già aveva detto Montaigne, è un prodotto dell'educazione. Diventa così costante la valutazione della coscienza morale ora come un giudizio su di sé, necessariamente chiuso nel proprio intimo, senza alcuna possibilità, dirà K. Jaspers, di oltrepassare il proprio sé, ora invece come reazione emozionale al giudizio degli altri, con il quale A. Smith la identifica senz'altro. G.W. F. Hegel coglie entrambe le facce del problema, riconoscendo a questa coscienza il sapere, entro di sé e muovendo da sé stesso, di che cos'è diritto e dovere, e, in questo senso la chiama 'un santuario', violare il quale sarebbe sacrilegio, ma proprio per questa soggettività alla quale è ancora estraneo il sistema oggettivo dei principi e dei doveri, essa è sempre esposta al rischio di 'rovesciarsi nel male'.
A partire dalla seconda metà dell'Ottocento si fa sempre più forte la tendenza a considerare la coscienza morale come un fenomeno secondario, derivato, cioè, dagli stati psicologici, o quanto meno intrecciato strettamente con essi. La psicologia e la sociologia sono le nuove scienze che interrogandosi sul complesso fenomeno della volontà pongono l'accento sulla genesi della coscienza morale nel complesso della natura psichica e sociale dell'uomo. Non si ha più un organo bell'e fatto, con un suo determinato contenuto, ma una struttura che viene formandosi nelle relazioni e nelle esperienze vissute individuali, senza per questo essere riconducibile ad altro che non sia questa peculiare e ineliminabile facoltà dell'uomo. Se la coscienza morale nasce e diviene, si può allora anche smascherare la sua vera origine. Già A. Schopenhauer la considera composta di circa 1/5 di rispetto umano, 1/5 di 'deisidaimonia', 1/5 di pregiudizio, 1/5 di vanità e 1/5 di consuetudine, mentre per C. Darwin essa consisterebbe solo nel rimorso per le azioni che sappiamo dettate dai nostri desideri anziché dagli impulsi sociali. F. Nietzsche attribuisce la nascita della cattiva coscienza, che chiama una 'malattia', al momento in cui l'uomo vede svalutati e divelti i suoi istinti, i quali, per natura inconsciamente infallibili, vengono soffocati; l'uomo, allora, costretto a pensare, a dedurre, e soprattutto a ricordare, costretto cioè alla coscienza, deve ripiegarsi su sé stesso. È la nascita dell'anima, ma l'istinto della libertà, la volontà di potenza, non potendo più esteriorizzarsi, incarcerate nell'intimo, si disfrenano scaricandosi su sé stesse.
La coscienza morale può così assumere, per S. Freud, un valore anche autodistruttivo: la nascita della coscienza morale è messa in parallelo con la nascita della nevrosi. Freud nega che la rinuncia alle pulsioni sia una conseguenza di un'originaria coscienza morale; al contrario, è questa rinuncia, originariamente imposta da autorità e potenze esterne, a dare origine al senso morale. L'aggressività così introiettata è elevata dall'Io a istanza superegoica per controllare le pulsioni, sino a poter ingenerare il bisogno dell'autodistruzione. Il discrimine tra innato e acquisito presenta tuttavia intrecci più sottili, e già C.G. Jung riconosceva invece nella coscienza morale un fattore psichico autonomo. Se persino recentissime ricerche di etologi sembrano accennare alla presenza di un orientamento in senso morale nel comportamento di alcuni primati, lo studio dei rapporti tra volontà e intelletto mostra come il senso del dovere sia una voce razionale, inscritta però in quella che la sociologia del Novecento ha chiamato volontà essenziale, l'unità psicofisica dell'organismo umano. Per quanto relative e storicamente condizionate siano le norme il cui inconscio riconoscimento dà luogo al sentimento del dovere, nella volontà arbitraria e razionale dell'uomo rimane inscritta una componente del sentire che diversifica immediatamente il bene dal male.
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