Cosmopolitismo
Il termine 'cosmopolita' risale alla scuola cinica antica, all'interno della quale esso compare per la prima volta in Diogene di Sinope che, secondo quanto riferisce Diogene Laerzio (VI, 63), interpellato sulla sua provenienza, rispose di essere ϰοσμοπολίτηϚ. Nel periodo illuministico, che dopo l'età classica rappresenta il secondo momento di grande fioritura della cultura cosmopolitica, il termine greco si diffuse nella forma traslitterata di cosmopolite (o cosmopolitain), cosmopolitan e Kosmopolit, o nella versione germanizzata di Weltbürger. Alla metà del Settecento la sua circolazione era già tanto ampia da comparire non infrequentemente nei titoli di libri (Le cosmopolite ou le citoyen du monde, 1753, di Louis-Charles Fougeret de Monbron), di saggi satirici (The citizen of the world, or Letters of a Chinese philosopher, 1762, di Oliver Goldsmith), o di riviste ("Der Weltbürger", 1741-1742, edita da J. Friedrich Lamprecht).
Del termine 'cosmopolitismo' occorre distinguere un'accezione rigorosa, definita da un concetto peculiare e autonomo, e un significato più lato, in cui il termine viene usato in connessione con, o anche come sinonimo di, concetti viciniori al senso originario, ma diversi da esso. In senso stretto per cosmopolitismo si intende la dottrina che sostiene l'irrilevanza delle distinzioni sociopolitiche tra Stati e nazioni, e attribuisce pertanto a ciascun individuo la cittadinanza del mondo. Ciò può avere un duplice fondamento, rispettivamente negativo o positivo. Da un lato viene negata l'essenzialità del rapporto tra individuo e Stato (o nazione), riconducendo le relazioni tra gli uomini a modelli naturali, razionali o comunque indipendenti da istituzioni positive. Dall'altro - meno frequentemente - si fa appello alla possibilità che ogni uomo sia cittadino di un organismo universale, che a sua volta può essere inteso in senso reale (come repubblica o monarchia universale) o, più spesso, in forma ideale (ad esempio come repubblica delle lettere). In quest'ultimo caso l'atteggiamento cosmopolitico non è incompatibile con la conservazione di distinzioni nazionali, le quali tuttavia decadono a un livello assiologicamente inferiore rispetto alla comunità universale.
Nel significato proprio del termine il cosmopolitismo presenta i seguenti caratteri, che possono valere alternativamente come sue condizioni o sue conseguenze. Esso riflette un assunto individualistico che permette di considerare il singolo uomo nella sua autonomia rispetto ai condizionamenti sociali, politici e culturali. Di conseguenza esso si accompagna a un processo di relativizzazione delle culture nazionali, dei legami etnici, delle differenziazioni religiose e di tutto ciò che può giustificare una coesione essenziale dell'individuo al luogo e al tempo in cui vive. Al contrario esso afferma una radicale eguaglianza tra gli uomini, spesso motivata non soltanto formalmente, ma in riferimento alla condivisione di un elemento unitario fondamentale (natura umana, ragione, ecc.). Infine, dall'eguaglianza e dalla comunanza universale degli uomini discende il carattere pacifistico del cosmopolitismo, che considera la guerra come conseguenza di distinzioni e contrapposizioni fondate su pregiudizi.
Considerato invece nei suoi usi più lati, il concetto di cosmopolitismo è spesso connesso con quello di universalismo. Quest'ultimo ha in comune con il primo il riferimento a una dimensione nella quale perde importanza l'appartenenza a un determinato gruppo sociale, politico o etnico e diventa invece determinante la condivisione dei caratteri generici (di ordine soprattutto morale o razionale) che accomunano gli uomini. A differenza del cosmopolitismo, l'universalismo è tuttavia compatibile con la conservazione, e a volte anche con l'esaltazione, delle distinzioni nazionali, purché esse non infrangano l'unità fondamentale del genere umano e, eventualmente, contribuiscano a una sua poliedrica definizione. Inoltre, la polemica antiparticolaristica comune tanto al cosmopolitismo quanto all'universalismo si fonda su motivazioni opposte, rispondendo a un'esigenza individualistica nel primo, sostanzialmente antindividualistica nel secondo. Altre volte è documentata una convergenza tra cosmopolitismo e internazionalismo. Ma anche in questo caso l'istanza antilocalistica comune ai due indirizzi rivela profonde differenze: l'internazionalismo non disconosce l'importanza delle articolazioni nazionali, ma sostiene l'essenziale connessione economica, sociale, politica o culturale tra i diversi paesi, sia che essa venga riconosciuta come realtà storica fornita di una dinamica spontanea (come nell'internazionalismo marxista), sia che venga affidata al controllo di un apparato sovranazionale (come nella progettazione degli organismi internazionali). Nelle forme di cosmopolitismo in positivo, nelle quali si promuove l'instaurazione di un apparato politico universale, si verificano anche punti di contatto con il federalismo, considerato ora come mezzo per avvicinarsi allo Stato universale, ora come suo surrogato politico. Occorre infine osservare che, essendo il cosmopolitismo un generico atteggiamento culturale più che una dottrina rigorosamente argomentata, nella maggior parte delle sue manifestazioni concrete non è agevole identificare la linea di demarcazione che lo distingue dai concetti a esso affini.
Per quanto il processo di colonizzazione greca, che va dall'VIII al VI secolo a.C., avesse già comportato il superamento di una prospettiva angustamente municipalistica e avesse favorito l'elaborazione del concetto di ϰόσμοϚ, una vera e propria cultura cosmopolitica comincia ad affermarsi soltanto con le trasformazioni socioculturali della seconda metà del V secolo. Mentre sul piano sociopolitico la crisi della πόλιϚ promuove progressivamente l'autonomizzazione dell'individuo e la deresponsabilizzazione politica del cittadino, sul piano filosofico-culturale la diffusione del pensiero sofistico sancisce la separazione tra νόμοϚ e ϕύσιϚ e riconduce gli uomini a un ambito naturale che li accomuna al di là delle artificiali distinzioni politiche. Il fondamento naturale viene infatti invocato non soltanto per sottolineare l'eguaglianza biofisica degli uomini (come in Antifonte), ma anche per dimostrare una loro originaria comunanza sociopolitica: non in virtù delle istituzioni - sostiene Ippia (cfr. Platone, Repubblica, 337 c) - ma per natura (ϕύσει, οὐ νόμῳ) gli uomini 'appartengono a una stessa stirpe, a una stessa famiglia, a uno stesso Stato'.
La diffusione di tendenze cosmopolitiche nel mondo antico è tuttavia connessa con l'affermazione della filosofia stoica e con i grandi movimenti storici che la preparano o l'accompagnano. Istanze universalistiche sono presenti sia nel programma politico di Alessandro Magno, inteso ad annullare la distinzione tra Greci e 'barbari' attraverso la sottomissione della Persia, sia nella realtà culturale della ϰοινή ellenistica, che di fatto riconduceva le diverse etnie mediterranee all'unità di lingua, religione e civiltà. L'idea della civitas universalis ricorre, più o meno espressamente, nei diversi momenti dello sviluppo imperiale di Roma e trova infine la sua sanzione giuridica nella Constitutio antoniniana di Caracalla (212 d.C.), con la quale viene conferita la cittadinanza romana a tutti gli individui liberi abitanti entro i confini dell'Impero. Queste realizzazioni politiche, nonché la stessa ϰοινή ellenistica, perseguivano tuttavia soltanto riunificazioni parziali dell'umanità. Un cosmopolitismo integrale, che formulasse un concetto onnicomprensivo di società umana, trovò invece il suo veicolo fondamentale nella diffusione della filosofia stoica. L'assunto fondamentale dello stoicismo è l'esistenza di un λόγοϚ universale - cioè di un ordine razionale che costituisce la struttura logica e ontologica della realtà - il quale viene partecipato dai singoli λόγοι individuali: in questo modo è garantita l'eguaglianza e la comunanza di tutti gli esseri razionali, mentre le differenze sociopolitiche, come chiarirà Epitteto, sono ricondotte a mere accidentalità connesse con la natura corporea dell'uomo. A Zenone di Cizio risale il concetto di una πολιτεία ideale che abbraccia tutti gli uomini, sottoponendoli a un'unica legge razionale, insieme divina e immanente al mondo. Queste tesi, sostenute in termini analoghi da Crisippo, sono introdotte nel mondo romano da Panezio e si ritrovano in forma appena variata in Cicerone e Seneca, così come in Epitteto e Marco Aurelio. L'universalità della legge razionale impone agli uomini un determinato ordine giuridico-politico, sortendo effetti espressamente giusnaturalistici. Il cosmopolitismo stoico, a differenza di quello nato in ambiente sofistico, reinstaura quindi la convergenza tra νόμοϚ e ϕύσιϚ, lasciando aperta sia la possibilità di identificare la civitas universalis con l'Impero, sia quella di conciliare l'attaccamento a una nazione particolare con l'adesione ideale alla patria universale: "In quanto Antonino il mio Stato e la mia patria è Roma - scrive Marco Aurelio (VI, 44, 6) - in quanto uomo è il mondo". Tuttavia il carattere dispotico del potere imperiale costrinse alcuni intellettuali stoici, come Seneca, ad astenersi dalla vita politica e a limitare all'attività letteraria la propria partecipazione alla patria universale.
Accanto al fondamento naturale (di espressa matrice sofistica) e a quello razionale (di derivazione prevalentemente stoica), il mondo classico fornisce altre giustificazioni del cosmopolitismo, che saranno tutte riprese con le opportune varianti dalla cultura moderna. In primo luogo, l'atteggiamento cosmopolitico viene fondato su argomentazioni di tipo culturale, per cui il saggio, il dotto, è per sua natura cittadino del mondo: questa tesi, pur essendo molto vicina agli argomenti dello stoicismo, ha un'origine indipendente da esso, ritrovandosi in diversa forma in Democrito, Platone, Senofonte, Diogene il Cinico e Teodoro l'Ateo. In secondo luogo, grande diffusione ricevono le motivazioni filantropiche, sia che esse rimangano a un basso livello di concettualizzazione ( l'"homo sum, humani nil a me alienum puto" di Terenzio), sia che esse assumano più rigorose formulazioni filosofiche, come in Seneca. Non infrequente infine è l'argomento eudemonistico-utilitario, già presente in Aristofane e nei cinici, ma reso celebre soprattutto da Cicerone (Tusculanae disputationes, V, 37: "Patria est ubicumque est bene") combinando ecletticamente stoicismo ed epicureismo.Per quanto in alcuni padri della Chiesa (come Tertulliano e Origene) permangano coloriture cosmopolitiche, soprattutto a causa della persistente influenza stoica, a partire dal III secolo il cristianesimo presenta piuttosto il carattere dell'universalismo ecumenico. Non è un caso infatti che Agostino, pur contraendo grossi debiti intellettuali con la tradizione stoica, prenda le distanze dal cosmopolitismo filosofico. Un analogo carattere universalistico rivestiranno il Papato e l'Impero medievali.
Con il tramonto del mondo antico le concezioni cosmopolitiche in senso stretto scompaiono per molti secoli dalla scena culturale europea. Esse conosceranno una grande fioritura soltanto nel Settecento illuministico, anche se alcune manifestazioni di cosmopolitismo sono già presenti sin dal XVI secolo in espressioni culturali che conservano, o ritrovano, una continuità con la cultura classica, e in particolare con la filosofia stoica. A esse appartiene, ad esempio, l'umanesimo di Erasmo da Rotterdam, per il quale la comunità universale degli uomini si fonda sia sulla loro fratellanza in Cristo, sia sulla loro comune natura razionale. La correzione del cristianesimo con lo stoicismo consente a Erasmo di annettere all'universalismo del proprio pensiero un carattere espressamente cosmopolitico: rifiutando la cittadinanza zurighese offertagli da Zwingli, egli si proclamerà infatti "civis totius mundi". Un più importante anello di congiunzione tra il cosmopolitismo settecentesco e quello antico è tuttavia costituito dal filone giusnaturalistico che, attraverso Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, giunge fino alla cultura illuministica diventandone uno dei capisaldi teorici. Presupponendo un ordine etico-giuridico naturale e razionale che vale tanto per gli individui quanto per i popoli, la scuola del diritto naturale, pur non disconoscendo le distinzioni nazionali, riduce le diverse organizzazioni statali a determinazioni positive dell'unica legge inscritta nella natura e nella ragione umana. Poco importa poi se, come ritiene la maggior parte dei giusnaturalisti, la società naturale tra le gentes renda superflua la costituzione di uno Stato universale o se, come pensa Christian Wolff, sia comunque auspicabile una civitas maxima che governi il mondo.
La convergenza tra natura e ragione e l'esistenza di un ordine cosmico fondato su entrambe costituiscono anche il fondamento del cosmopolitismo illuministico. Quest'ultimo trae tuttavia alimento anche da altri movimenti di pensiero sviluppatisi nel corso del Seicento: il pirronismo e il relativismo storico, la critica libertina alla religione positiva, la difesa della tolleranza religiosa, la definizione di una ideale 'repubblica delle lettere' contribuiscono notevolmente all'universalizzazione della cultura e al superamento delle differenziazioni politiche e religiose. Erede di istanze di diversa natura, il cosmopolitismo settecentesco assume dunque molteplici forme, alcune delle quali sono legate alla tradizione cosmopolitica classica. Torna a rifiorire il cosmopolitismo culturale, che conferisce cittadinanza universale al saggio e all'erudito: "Il filosofo non è né francese né inglese né fiorentino - osserva Voltaire alla voce Cartésianisme del Dictionnaire philosophique -, egli è di tutti i paesi". Altre volte la considerazione dell'uomo come "cittadino e abitante del mondo" al di là di artificiali condizionamenti sociopolitici - così sostiene Shaftesbury in The moralists (parte I, sez. I) - è condizione di una ricerca morale sulla sua condizione e finalità naturale. Ritorna frequentemente anche il fondamento umanitario di un cosmopolitismo che dalla società naturale degli uomini si attende un atteggiamento di reciproca solidarietà e bienfaisance: ne sono esempi il Télémaque (1699) di François Fénelon e gli Entretiens de Phocion (1763) di Gabriel Bonnot de Mably.
Il carattere più specifico del cosmopolitismo illuministico è tuttavia costituito dalla polemica antipatriottica. Non è un caso che nell'Encyclopédie le più significative indicazioni in proposito non siano contenute nella voce Cosmopolitain ou cosmopolite, che dà una definizione generica del termine, bensì in quella Fanatisme du patriote. Analogamente il Dictionnaire di Voltaire non contiene una specifica voce sul cosmopolitismo, ma di esso si discute nella voce Patrie. Nel Settecento il concetto di patria è raramente connesso con il sentimento nazionale, anch'esso peraltro limitato alla consapevolezza di differenziazioni a carattere antropologico. Quando non si riferisce al luogo natio, al ristretto ambito degli affetti personali, la dimensione collettiva implicita nel concetto di patria esprime spesso la somma degli interessi individuali che accomunano un gruppo sociale. "Formulando tutti i medesimi voti - osserva Voltaire alla voce Patrie del Dictionnaire - troviamo che l'interesse particolare diviene l'interesse generale: facciamo voti per la repubblica allorché non facciamo voti che per noi stessi". Nell'accezione più elevata la patria coincide con lo Stato provvidente, che assicura felicità, benessere e libertà ai propri cittadini. Da questa prospettiva discendono due atteggiamenti cosmopolitici, spesso connessi tra loro. In primo luogo il cosmopolitismo viene inteso come indifferenza nei confronti della patria, come antidoto al fanatismo patriottico. Le motivazioni ideali con cui il patriottismo viene solitamente giustificato - osserva il barone d'Holbach - sono pregiudizi oscurantistici di cui i potenti si servono per ingannare i sudditi. Al "buon patriota" che diviene come tale "nemico del resto degli uomini" Voltaire contrappone dunque il "cittadino dell'universo" che non desidera che la sua patria diventi né più grande né più piccola, né più ricca né più povera. In secondo luogo il cosmopolitismo viene identificato con la coscienza della relatività della 'patria', l'appartenenza alla quale è determinata non già dalla nascita, bensì dalla possibilità di riconoscere in uno Stato il garante dei diritti e l'artefice della felicità dei cittadini. Il barone d'Holbach, d'Alembert, Diderot e Condorcet interpretano quindi il cosmopolitismo come diritto di ogni uomo a cambiare patria (e cittadinanza) allorché vengano meno queste condizioni. "Dove c'è libertà - così suona un epigramma di Benjamin Franklin - là è la mia patria". In alcuni casi la consapevolezza della relatività della patria fa sì che il cosmopolitismo settecentesco riveli la sua connessione con la giustificazione utilitaristica di certo cosmopolitismo classico. Parafrasando il ciceroniano "patria est ubicumque est bene", Voltaire ricorda che "abbiamo una patria sotto un buon re, non l'abbiamo sotto uno cattivo" (voce Patrie). La stessa espressione delle Tusculanae è utilizzata da Fougeret de Monbron come sottotitolo di Le cosmopolite, un diario di viaggi le cui pessimistiche conclusioni - sfogliando le pagine del libro dell'universo si apprende che tutte le patrie sono cattive - rappresentano un tentativo di reinterpretazione settecentesca del cosmopolitismo della scuola cinica antica. Ovviamente, nella cultura del Settecento non mancano le resistenze nei confronti dell'indifferenza cosmopolitica verso la patria. Così Rousseau, che, pur condividendo molte istanze illuministiche, parte da presupposti meno rigidamente razionalistici, se per un verso mostra di ammirare le "grandi anime cosmopolitiche" che cementano la fratellanza universale, polemizza d'altra parte con "i cosmopoliti, che vogliono cercare lontano, nei loro libri, quei doveri che disdegnano di compiere presso di sé" (cfr. Oeuvres complètes, Paris 1969, vol. IV, p. 24). Contro l'indifferenza cosmopolitica per i valori patriottici egli difende l'importanza di un sentimento e un'educazione nazionali (soprattutto nelle Considérations sur le gouvernement de Pologne) e deplora il tentativo compiuto da Pietro il Grande di soffocare il carattere nazionale russo imponendo costumi occidentali. In Rousseau si esprime pertanto l'esigenza, che sarà sviluppata dalla cultura tedesca a cavallo tra Sette e Ottocento, di trovare una forma di conciliazione tra l'anelito cosmopolitico (o universalistico) e il riconoscimento del valore delle culture nazionali.
Negli anni settanta del XVIII secolo il cosmopolitismo filosofico si è pienamente affermato in Francia e i termini cosmopolite e philosophe sono spesso usati come sinonimi. Nel contempo l'atteggiamento cosmopolitico si diffonde oltre le Alpi e oltre il Reno, cioè in due aree geografiche nelle quali la mancanza di uno Stato nazionale favoriva la coscienza di appartenere a una più vasta comunità internazionale. In Italia il cosmopolitismo è condiviso dai 'riformatori' - Verri, Beccaria, Genovesi, Filangieri - che se ne servono come strumento di rinnovamento sociopolitico. In Germania esso diventa una bandiera della Populärphilosophie. Lessing, che in Nathan der Weise (1779) e soprattutto nei Gespräche für Freimäurer (1780) associa l'idea cosmopolitica con la difesa della tolleranza, dichiara di rinunciare volentieri a essere un buon patriota, se con ciò si cessa di essere cittadino del mondo (lettera a Gleim del 16 dicembre 1758). Un importante contributo alla definizione della specificità del cosmopolitismo tedesco è fornito da Christoph Martin Wieland con lo scritto Das Geheimnis des Kosmopolitenordens (1796), nel quale egli ricorda che i cosmopoliti "considerano tutti i popoli della terra come rami di un'unica famiglia, e l'universo uno Stato nel quale essi si trovano insieme ad altri innumerevoli concittadini per promuovere la perfezione del tutto sotto le leggi universali della natura" (cap. I, § 3). Rispetto al modello francese si accentua in Wieland il richiamo alle radici metafisiche e alle finalità etiche del movimento. Sul piano politico, viceversa, pur riconoscendo che è compito dei cosmopoliti difendere la libertà contro la tirannide, Wieland insiste sul fatto che a tale scopo essi si affidano esclusivamente alla forza illuminante della ragione, rifiutando ogni ribellione e ogni mezzo illegale. Nel più ovattato clima politico tedesco l'indifferenza verso il patriottismo - "passione inconciliabile con i concetti fondamentali del cosmopolitismo" (cap. II, §1) - anziché condurre al rifiuto della patria ingrata, si risolve nell'accettazione dell'ordine costituito e nella difesa dell'obbedienza civile.
I titoli delle citate opere di Lessing e di Wieland sono un chiaro indizio della connessione esistente tra la cultura cosmopolitica del Settecento e la tradizione massonica. Una testimonianza ancora più precisa sarà offerta nel 1799-1800 da alcune lezioni tenute a Berlino da Fichte - non ancora nazionalista - in relazione alla sua breve esperienza di confratello massone, e poi pubblicate, anonime e manipolate da terzi, con il titolo di Philosophie der Maurerei (1802-1803). Malgrado l'estrema varietà delle sue espressioni, oscillanti tra razionalismo e misticismo, tra rivoluzione e conservazione, tra carattere aristocratico e aspirazioni liberal-democratiche, la massoneria incentrò sempre il suo programma ideologico sui valori della tolleranza e dell'universalismo. Alla sua base vi è infatti il riconoscimento di un ordine universale che dev'essere progressivamente penetrato dall'adepto in vista del perfezionamento dell'intera società umana. La stessa simbologia, parte integrante della pratica massonica, accanto alla sua funzione misterica nei confronti dei non affiliati, ha una valenza universalizzante, consentendo la comunicazione di contenuti ideali al di là delle divisioni linguistiche e nazionali. In uno dei testi fondamentali della massoneria britannica, Constitutions of the Freemasons (1722), l'"amore fraterno" tra tutti gli uomini è considerato "il fondamento e la pietra angolare" dell'intera dottrina. Più esplicitamente, nel suo discorso programmatico ai massoni francesi, André-Michel de Ramsay, promotore della diffusione dell'associazione in Francia, definisce il massone "cittadino del mondo", assumendo come modello ideale la figura del cavaliere medievale, che è libero da ogni vincolo terreno e obbedisce soltanto al proprio impegno morale. Nata in Inghilterra e subito diffusasi in Francia, la massoneria si estese, fin dalla prima metà del Settecento, in quasi tutti i paesi europei: ciò fece sì che le diverse logge aderissero sempre più alle specifiche realtà nazionali, riservando spesso un valore puramente ideale al cosmopolitismo. Nel corso dell'Ottocento la specificazione nazionale delle massonerie si accentuò ulteriormente e in taluni casi - come in Italia, dove furono massoni Cavour, Mazzini e Garibaldi - esse si fecero veicolo di aspirazioni indipendentistiche, così come, del resto, l'autonomismo aveva già caratterizzato nel Settecento la cultura massonica proto-americana - Franklin, Washington - anche se in quel caso era più trasparente la connessione tra l'affermazione locale della democrazia e la diffusione universale della libertà.
Accanto alle espressioni di cosmopolitismo in senso stretto, nel Settecento si hanno anche forme di contaminazione con concetti a esso affini, in particolare con presupposti internazionalistici. Sono soprattutto i fisiocrati - Quesnay, Mercier de la Rivière, Le Trosne - a utilizzare la dottrina della società naturale tra gli uomini, tradizionale cavallo di battaglia del cosmopolitismo, non già per concludere con l'artificialità delle distinzioni nazionali, bensì per mettere in luce la necessità dell'interdipendenza e del libero scambio tra gli Stati. Quando Mercier sostiene che il commercio e l'industria sono 'cosmopoliti' egli intende soltanto, in opposizione al mercantilismo seicentesco, che gli interessi dei commercianti e degli industriali vanno al di là di quelli nazionali, essendo comuni a tutti i paesi. (Ma il termine assume anche una coloritura leggermente negativa, se si pensa che l'agricoltura, che cosmopolita non è, perché riguarda esclusivamente la produzione nazionale, costituisce per la fisiocrazia l'attività economica fondamentale, la sola che dà un 'prodotto netto').
Una seconda connessione è quella tra cosmopolitismo e federalismo, anche se è meno diffusa, perché il cosmopolitismo settecentesco, avendo carattere prevalentemente razionale e culturale, non presenta immediati esiti politici. L'elemento di connessione tra i due termini è solitamente costituito dal programma pacifistico, come dimostra la tradizione che da Erasmo, attraverso Éméric Crucé, arriva a William Penn, a Charles-Irénée de Saint-Pierre, a Rousseau e a Kant. La convergenza delle tendenze è chiarissima nell'abate di Saint-Pierre, nel quale il progetto di una pace internazionale garantita dall'unione federale degli Stati europei si fonda sulla fiducia nell'universalità della ragione, che rende gli uomini "cittadini del mondo". Per Kant federalismo e cosmopolitismo sono due dei tre articoli fondamentali - il terzo è la costituzione repubblicana - necessari alla realizzazione della pace perpetua (Zum ewigen Frieden, 1795). Il "diritto cosmopolitico", che è tuttavia limitato alle "condizioni di un'universale ospitalità", cioè al diritto detenuto da ciascun abitante della terra di recarsi in paesi stranieri per praticarvi i propri commerci, estende infatti la conoscenza reciproca delle nazioni e prelude a legami federativi giuridicamente formalizzati. Inoltre, poiché costituzione repubblicana, confederazione dei popoli e "assetto cosmopolitico" rappresentano anche, fin dall'Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), le condizioni necessarie alla realizzazione della finalità ultima dell'uomo - l'esplicazione delle naturali disposizioni alla ragione - il cosmopolitismo si configura allo stesso tempo come un elemento determinante della filosofia kantiana della storia.
La crisi dell'illuminismo coincide in gran parte con quella del cosmopolitismo o almeno implica una sua radicale trasformazione. Nella Germania a cavallo tra Sette e Ottocento, quando l'Aufklärung si dissolve nella sua ultima manifestazione, lo Sturm und Drang, per cedere poi il passo al classicismo e al romanticismo, le aspirazioni cosmopolitiche trascolorano rapidamente in atteggiamenti universalistici. Il cosmopolitismo illuministico poggiava su un individualismo di matrice razionalistica: in quanto autonomi portatori di una ragione universale, gli individui da un lato apparivano soggetti uniformi le cui differenze ricadevano nell'ambito dell'accidentalità, dall'altro erano suscettibili di una considerazione indipendente da contesti sociali, politici o culturali. Viceversa le nuove tendenze, più o meno antirazionalistiche, pur conservando l'istanza individualistica, ne mutano radicalmente il senso. Il richiamo alla natura vivente, al carattere organico della realtà, al complesso rapporto tra ragione e sentimento, alla preminenza del momento intuitivo-estetico su quello discorsivo-razionale conduce a sottolineare per un verso la peculiarità irripetibile dell'individuo, per l'altro la connessione armonica tra uomo e uomo così come tra il singolo e la totalità. L'universalismo diventa, di conseguenza, l'altra faccia dell'individualismo.
In questo modo l'universalismo poteva essere considerato come una nuova forma di cosmopolitismo, in quanto consentiva di essere idealmente partecipi di un'unica umanità senza rinunciare alle proprie peculiarità nazionali. A ciò contribuì la diffusione di due τόποι filosofico-letterari: in primo luogo la convinzione, chiaramente espressa nelle Xenien (n. 96) da Goethe e da Schiller, che la Germania costituisse una nazione soltanto sul piano culturale; in secondo luogo la compatibilità tra sentimento nazionale e spirito cosmopolitico, favorita dalla diffusa identificazione della specificità tedesca - e, prima ancora, di quella greca - con la vocazione universalistica.
La convergenza tra individuo e totalità, e quindi la trasformazione del cosmopolitismo in universalismo, riceve piena giustificazione filosofica in Johann Gottfried Herder e in Wilhelm von Humboldt. Polemizzando con un presunto antistoricismo illuministico, nelle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-1791) Herder sostiene che ogni epoca e ogni nazione possiedono un valore autonomo e incomparabile, ma nel contempo ciascuna di esse esprime uno dei molteplici volti del genere umano. Analogamente Humboldt ritiene che le nazioni siano grandi individualità storiche, nelle quali si esprimono a loro volta idee universali, subordinate tuttavia all'unica e onnicomprensiva idea di umanità. L'antropologia comparata diventa pertanto nelle mani di Humboldt uno strumento adatto sia a cogliere le differenze peculiari a ciascun popolo, sia a garantire il carattere sovranazionale e cosmopolitico degli individui in quanto uomini.Un pensiero analogo si trova nel movimento romantico. Nella definizione datane da Novalis, il romanticismo è unità di individualità e universalità. Essere romantici significa saper vedere l'universale in ciò che è locale e nazionale, e viceversa. Ritorna quindi il tema dell'universalismo come peculiarità tedesca: "Germanicità è cosmopolitismo misto con l'individualità più spiccata". Al sentimento nazionale il romanticismo associa tuttavia spesso un senso dello Stato che era del tutto estraneo sia al classicismo weimariano sia allo storicismo herderiano e humboldtiano: lo Stato diventa ora una realtà politica che si colora di venature metafisiche, in quanto in esso si esprime quel rapporto organico tra individuo e totalità che definisce la struttura essenziale della realtà intera. Di conseguenza l'universalismo romantico assume un carattere politico-statuale, oltreché morale-culturale. Gli Stati in cui si concretano le singole nazioni devono dunque far parte di un 'organismo' politico-universale che in Die Christenheit oder Europa (1799) di Novalis assume come modello l'universalismo teocratico del corpus christianum medievale. Lo stesso modello sarà ripreso più tardi da Friedrich Schlegel: ma ormai sull'antecedente storico prevale il referente contemporaneo della Santa Alleanza, mentre il programma universalistico viene inserito in una cornice apertamente restauratrice, perdendo ogni connessione con il cosmopolitismo settecentesco, che aveva sempre avuto una funzione almeno culturalmente critica e libertaria. L'ultima conseguenza di tale allontanamento sarà il capovolgimento graduale del cosmopolitismo nel nazionalismo, che troverà una buona esemplificazione, al di fuori dell'ambito romantico, nel pensiero di Fichte. Quest'ultimo infatti, partendo dall'apologia del cosmopolitismo negli scritti giovanili, passa al riconoscimento della compatibilità tra cosmopolitismo e patriottismo in Über den Patriotismus und sein Gegenteil (1800), per concludere la sua parabola con un'autentica fondazione del nazionalismo tedesco nelle Reden an die deutsche Nation del 1807-1808.
Il XIX secolo vede il declino del cosmopolitismo o nella forma del suo rifiuto o in quella del suo impoverimento concettuale. A una completa negazione pervengono gli sviluppi ottocenteschi del romanticismo e dell'idealismo, nell'ambito dei quali la prospettiva cosmopolitica viene resa impossibile da un concetto di 'spirito del popolo' che si pone in immediato contatto con l'assoluto e in totale autonomia nei confronti degli altri 'spiriti'. Poco importa se lo 'spirito del popolo' viene connesso prioritariamente con il concetto di nazione, come avviene in Friedrich Carl von Savigny e in Leopold von Ranke, o con quello di Stato, come mostra il filone che va da Hegel a Heinrich von Treitschke e oltre.Un atteggiamento più favorevole al cosmopolitismo si ha invece nelle filosofie in cui - come nel positivismo e nel marxismo - il concetto di Stato non occupa più una posizione centrale. Positivismo e marxismo hanno infatti in comune l'asserzione della priorità dell'elemento socioeconomico - inteso come forma dell'organizzazione nel primo, come modo di produzione nel secondo - rispetto a quello politico-statuale. Nel marxismo tuttavia l'indebolimento del concetto di Stato, il quale, seppure ridotto a sovrastruttura, continua comunque a essere oggetto di una specifica teoria, fa spazio non tanto al cosmopolitismo, quanto a una duplice concezione internazionalistica della realtà socioeconomica. In primo luogo, l'internazionalismo trova la sua base materiale nelle dimensioni mondiali assunte dal mercato. "Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolitici la produzione e il consumo di tutti i paesi", si legge nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, dove il termine è usato nello stesso senso improprio in cui Mercier aveva parlato di industrie cosmopolite o in cui uno storico 'borghese' come Gustav Droysen alluderà, a proposito della circolazione delle merci, a una "incoercibile tendenza a essere cosmopolita". In secondo luogo, e di conseguenza, l'internazionalismo si riflette sull'organizzazione della lotta di classe messa in atto dal proletariato, la quale passa da un ambito locale e nazionale a una dimensione planetaria: "Gli operai non hanno una patria"; "Proletari di tutto il mondo unitevi". In ambito marxistico l'internazionalismo verrà ulteriormente sviluppato nei primi decenni del Novecento (cfr. soprattutto K. Kautsky, Patriotismus und Sozialdemokratie, 1907, e Nationalität und Internationalität, 1908) anche quando si continuerà a far ampio uso del termine cosmopolitismo (Theodor Hartwig in Der kosmopolitische Gedanke, 1924, parla di "kosmopolitische Agitation"). Più correttamente il marxismo contemporaneo rifiuta il cosmopolitismo come "espressione ideologica degli interessi di classe della nascente borghesia", "risvolto del nazionalismo e dello chauvinismo borghesi", nonché "contromossa reazionaria all'internazionalismo socialista" (G. Klaus e M. Buhr, Philosophisches Wörterbuch, Leipzig 1970⁷, voce Kosmopolitismus).
Maggiormente suscettibile di sviluppi cosmopolitici appare invece l'impianto concettuale del positivismo, nel quale lo Stato perde ogni autonomia nei confronti della società e, nella versione comtiana, si riduce a un 'completamento' di essa destinato ad assolvere compiti puramente amministrativi. Termine di riferimento della 'scienza della società' non è mai un determinato gruppo etnico-politico, ma l'umanità intera: la descrizione saint-simoniana del passaggio dal 'sistema cattolico' al 'sistema industriale', la legge dei tre stadi di Comte, i principî dell'evoluzione organica e superorganica di Spencer si applicano indifferentemente a tutto il genere umano. Tuttavia lo scarso spessore concettuale della nozione di Stato fa sì che la tendenza cosmopolitica virtualmente contenuta nel positivismo non giunga a una piena espressione, poiché essa, mancando di un adeguato referente polemico, perde la funzione espressamente critica che aveva rivestito, ad esempio, nell'illuminismo, di cui pure il positivismo costituisce la più diretta filiazione ottocentesca. Ridotto a termini così generici, il cosmopolitismo positivistico o si rafforza diventando qualcosa di diverso - com'è il caso di Saint-Simon, nel cui saggio De la réorganisation de la société européenne (1814) esso si traduce in un programma federalistico - oppure rischia di risolversi in una forma di universalismo razionalistico, come avviene nella comtiana religione dell'umanità.
A partire dall'Ottocento vengono dunque progressivamente meno le condizioni storiche e culturali del cosmopolitismo, sia perché il principio di nazionalità si radica ormai definitivamente nella coscienza dei popoli, sia perché perde sempre più vigore l'idea di una società naturale delle nazioni. Dovendo necessariamente partire dal riconoscimento delle singole realtà nazionali, l'aspirazione a superare i limiti di prospettive localistiche o angustamente patriottiche assume il carattere dell'internazionalismo, anziché quello del cosmopolitismo. Ciò non significa che, anche nel Novecento, scompaiano del tutto i riferimenti alla tradizione cosmopolitica, ma essi rispecchiano piuttosto atteggiamenti individuali, che sono difficilmente riconducibili a grandi correnti di pensiero così come a fenomeni storico-sociali a carattere generale. Nel Novecento la difesa del cosmopolitismo assume per lo più il carattere del recupero cosciente di tradizioni che appartengono al passato. Così, nella Germania dei primi decenni del secolo, Friedrich Meinecke ricostruisce in Weltbürgertum und Nationalstaat (1908) la tradizione classica tedesca che rendeva compatibili cosmopolitismo (o, forse meglio, universalismo) e spirito nazionale, mentre Hermann Cohen, appellandosi a questa stessa tradizione, alla vigilia della prima guerra mondiale poteva ancora affermare in Über das Eigentümliche des deutschen Geistes (1914): "La Germania è e rimane in continuità con il XVIII secolo e la sua umanità cosmopolita". Ma subito dopo il conflitto, in Der Untergang des Abendlandes (1918-1922), Oswald Spengler relativizzava ormai il cosmopolitismo, definendolo un fenomeno della civiltà metropolitana che si verifica al principio e alla fine di ogni 'cultura'.Altre volte il recupero del cosmopolitismo si richiama piuttosto a quel 'cosmopolitismo della cultura' che attraversa tutta la storia di questo concetto, dall'antichità al Settecento, e che viene riscoperto, soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali, come strumento per restituire alla funzione dell'intellettuale la libertà da ogni pregiudizio nazionale o nazionalistico. Si inquadrano in questa cornice gli interventi di Benedetto Croce e di Romain Rolland, ma soprattutto il discusso libro di Julien Benda, La trahison des clercs (1927), nel quale si denunciava il "tradimento" perpetrato dagli intellettuali, eredi odierni dei chierici d'altri tempi, ai danni della loro vocazione universalistica, libera da ideologie e condizionamenti patriottici. (V. anche Illuminismo; Internazionalismo).
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