Costantino nel modernismo
Premesse di un discorso critico sull’era costantiniana della Chiesa
Sommario: Riferimenti: cattolici e protestanti liberali tra il razionalista Renan e l’ultramontano Guéranger ▭ La lezione di Louis Duchesne ▭ Le interpretazioni dei modernisti. In Francia – In Germania – In Italia ▭ Costantino e l’era costantiniana fra modernisti radicali e semplici novatori
Preparata già nell’ultimo trentennio del XIX secolo, la crisi modernista esplose in maniera acuta nel corso del pontificato di Pio X. La contesa fra i protagonisti sopravvissuti a quello scontro si prolungò sino agli anni Trenta del XX secolo; poi, nuove preoccupazioni e nuove sfide culturali divennero più pressanti, ma il modernismo continuò a essere, periodicamente, più o meno autorevolmente, stigmatizzato, anche perché i problemi di cui si era fatto carico cominciarono a essere seriamente presi in conto dall’autorità dottrinale cattolica solo a partire dall’inizio degli anni Quaranta e non senza suscitare resistenze e periodici arretramenti, che rimangono ancora una tentazione, pure dopo la grande svolta segnata dal concilio Vaticano II. È noto che l’enciclica Pascendi (1907) con cui Pio X intese stigmatizzare l’eresia modernista e pianificarne la repressione, formulò un modello teorico astratto del modernismo, poco aderente alla complessità delle posizioni espresse sul campo, ma utile per poter disciplinare le varie spinte al rinnovamento nella cultura e nelle pratiche ecclesiali, più o meno radicali, che a cavallo tra il XIX e il XX secolo animarono il mondo cattolico e la stessa cultura ecclesiastica, sorte in sintonia con un più generale moto di positiva valutazione delle trasformazioni in corso nelle quattro aree culturali interessate allo sviluppo del sistema industriale su base capitalistica e colonialistica: l’anglosassone, la francofona, la germanofona e l’italiana. Il rinnovamento in senso democratico o quantomeno in un senso più conforme all’organizzazione originaria delle comunità cristiane d’età apostolica, che superasse ingessature canoniche e sovrastrutture istituzionali posticce, fu certamente un’esigenza diffusa tanto fra coloro che cercavano solo un semplice riallineamento della cultura e dell’organizzazione ecclesiale allo spirito del tempo, quanto fra chi riteneva invece indispensabile anche un profondo riassetto del sistema delle credenze tramandate, tutti indiscriminatamente definiti modernisti dalla Pascendi1.
Sebbene le aspirazioni del variegato mondo di intellettuali, ma anche di attori ecclesiali, sociali e politici modernisti, comportassero ormai una serena, se non addirittura positiva, valutazione di una società pluralistica dal punto di vista religioso, esse non furono tuttavia neppure insensibili al richiamo dell’ideale di matrice intransigente di ricristianizzazione della società. Si consideri, ad esempio, che negli anni della crisi modernista, mentre a Milano un battagliero foglio antimodernista inalberava come titolo Il labaro, a Caltagirone, don Luigi Sturzo, vicino al movimento della democrazia cristiana murriana, dirigeva La croce di Costantino. Il decisivo contributo di Costantino all’affermazione storica del cristianesimo nell’antica società imperiale e alla fondazione delle sue stesse basi dogmatiche avrebbe quindi dovuto rappresentare un importante oggetto di studio e di riflessione per i modernisti. Se in effetti non mancarono, come si vedrà, significative elaborazioni e prese di posizione da parte degli esponenti delle varie tendenze e culture moderniste, tuttavia Costantino e la sua opera non costituirono per loro un polo d’interessi fondamentale2. Furono piuttosto le circostanze a spingere ad approfondire gli studi, come l’anniversario dell’editto di Milano nel 1913 e, in Italia, la preparazione e poi la firma dei Patti nel 1925.
Prima di passare a esaminare i giudizi espressi dai modernisti sulla personalità e sull’opera di Costantino, vanno considerati quelli formulati dai maggiori esponenti della cultura storico-religiosa attivi nelle quattro aree culturali già citate, che offrirono un riferimento significativo e un modello di confronto per i modernisti stessi.
Concepito durante la fase dell’adesione alla confessione anglicana dell’autore, il terzo capitolo di The Arians of the Fourth Century (1833) fu il testo dell’opera di John Henry Newman più significativo su Costantino a disposizione dei modernisti. In esso, al riconoscimento del beneficio storico offerto al cristianesimo con l’editto del 313, l’autore fece corrispondere un’altrettanto chiara valutazione critica della personalità di Costantino, interessato solo per motivi d’ordine pubblico all’unità cattolica e per questo portato a considerare e a tollerare come semplici dibattiti fra scuole filosofiche i dissensi sull’ortodossia, pronto quindi a trasformarsi in risoluto persecutore dell’eresia ove ufficialmente definita; coerente, pertanto, in tale quadro delle disposizioni spirituali dell’imperatore, pure il suo cedimento finale all’influsso e alle manovre di palazzo degli ariani.
Se è ormai assodato che sarebbe improprio accostare le idee espresse dai modernisti alle posizioni filosofiche di Antonio Rosmini Serbati, è altrettanto certo che l’esposizione Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848) rappresentò per quelli italiani un importante testo di riferimento, in cui, nel trattare del vulnus inferto dalle ingerenze del potere laicale sulla nomina dei vescovi, il Roveretano presentò il trattamento fatto subire da Costantino ad Atanasio come esemplare della perversione a cui nei secoli successivi sarebbe stata diffusamente sottoposta l’istituzione dell’autorità episcopale.
Un luogo certamente significativo del dibattito storico-religioso relativo a Costantino e al suo tempo, che precede direttamente la ricezione elaborata dai modernisti francesi, fu quello dell’accesa polemica insorta fra il duca Albert De Broglie e Prosper Guéranger, seguita alla pubblicazione nel 1856 del primo volume de L’Église et l’Empire romain, opera che Ernesto Buonaiuti avrebbe ancora positivamente segnalato nelle note bibliografiche relative alla sezione intitolata La rivoluzione costantiniana nel primo volume della sua Storia del Cristianesimo. L’abate benedettino di Solesmes attaccò ripetutamente dalle colonne del foglio intransigente di Louis Veuillot il libro del nobile cattolico-liberale perché vi scorgeva una tendenza a risolvere il sovrannaturale della storia cristiana attraverso spiegazioni inficiate da un nefasto «naturalismo»3. Redatto nell’intento di porre l’esempio dell’attitudine assunta da Costantino nei confronti della Chiesa e del paganesimo all’attenzione dei sudditi del Secondo impero napoleonico, in cui, come nel IV secolo, il cristianesimo non possedeva il monopolio della cultura, il libro di De Broglie fu fonte di una polemica sopita dall’autorevole intervento di Pio IX: un episodio in cui gli storici contemporanei Henri-Irénée Marrou ed Émile Poulat hanno scorto i primi evidenti prodromi della crisi modernista. Gli elementi della biografia costantiniana che attirarono l’attenzione di Prosper Guéranger furono naturalmente l’interpretazione in senso leggendario della visione miracolosa della croce e del sogno che avrebbero preceduto la battaglia di ponte Milvio e la negazione del battesimo dell’imperatore a Roma, attestato invece nel breviario romano. Dom Guéranger apprezzò la presentazione, fatta dal De Broglie, dell’atteggiamento di sottomissione che l’imperatore avrebbe avuto nei confronti del papa di Roma alla chiusura del concilio di Nicea. Piuttosto, il rifondatore dell’ordine benedettino in Francia imputò al duca di aver ingiustamente criticato il principio della legittimità dell’impiego della forza di coercizione statuale al servizio della missione spirituale della Chiesa, dispiegato da Costantino nell’azione di repressione del donatismo. Dom Guéranger convenne sul fatto che alla situazione storica francese non si adattava l’applicazione del principio derogato, ma biasimò il duca per la sua presa di distanza rispetto ai padri che tale principio avevano avallato.
Nel settimo volume de Les origines du christianisme (1882) Ernest Renan, il rappresentante per antonomasia del razionalismo della seconda metà del XIX secolo, presentò Costantino quale fondatore di «una nuova Roma sul Bosforo» e come il principale responsabile dell’eclissamento della superiorità acquisita nei primi secoli dalla Chiesa di Roma, recuperata solo in parte, più tardi, con Carlo Magno. Anche l’affermazione dell’autorità ecclesiale episcopale, secondo Renan, non dové nulla a Costantino. Questi, comprendendo il peso sociale ormai assunto dal cristianesimo, soprattutto nelle province orientali dell’Impero, inaugurò «la pace della Chiesa», che, però, in buona sostanza, fu solo il personale «dominio della Chiesa» da parte dell’imperatore. Pertanto, Costantino sarebbe divenuto con Teodosio una colonna della Chiesa orientale, mentre da lui Roma «ricevé il colpo più grave che le sia mai stato assestato»: la fondazione di Costantinopoli fece infatti di Costantino il «vero autore dello scisma» che si sarebbe consumato solo alcuni secoli più tardi.
Il manuale di Kirchengeschichte di Franz Xaver Kraus – esponente di rilievo del Liberalkatholizismus, morto nei primi anni della crisi modernista – fu più volte riedito e tradotto a partire dal 1872 e presentò anch’esso gli eventi del 312 decurtati della componente sovrannaturale, ignorando il presunto battesimo romano dell’imperatore e apprezzando pure la moderazione dimostrata da Costantino nei confronti dei pagani dopo l’editto di Milano. Pure Adolf von Harnack, è noto, fu un interlocutore dei modernisti d’inizio Novecento, più che diretto, anche in chiave polemica4. Nel primo dei suoi due lavori più letti dai modernisti, i Gundriβe der Dogmengeschichte (1889-1891), Harnack espresse un giudizio complesso sull’operato di Costantino: in primo luogo all’imperatore è riconosciuto il merito di aver contribuito all’affermazione dell’ortodossia nicena contro il possibile regresso nel politeismo che avrebbe potuto determinare il successo dell’arianesimo; Costantino poi è presentato da Harnack anche come colui che nell’indire il primo concilio ecumenico è all’origine dello sviluppo di una confessione dogmatica unitaria e quindi di un processo di sacralizzazione devitalizzante della primitiva religiosità cristiana. Tale visione sclerotizzante della fissazione dogmatica della fede cristiana fu esplicitata nell’undicesima lezione di Das Wesen des Christentum (1900), in cui l’azione di Costantino – appaiata a quella di Diocleziano – viene proposta come propria di un sovrano detentore di diritti e doveri illimitati in materia religiosa nei confronti dei suoi sudditi. Fattosi cristiano, l’imperatore sarebbe così divenuto un «despota orientale», tanto più intollerante quanto più pio, custode dell’ortodossia di una religione di Stato.
Per restare nell’ambito culturale del protestantesimo liberale, ma approdando all’altra sponda del Reno, non va trascurata la presa di posizione di un altro intellettuale di riferimento per i modernisti, ancora una volta spesso in senso critico, Auguste Sabatier. In Les religions d’autorité et la religion de l’esprit (1904), Sabatier ripropose, radicalizzandole, le posizioni espresse da Harnack. Costantino convertito al cristianesimo vi figura, infatti, come l’autorità capace di fare ombra a quella che si era già andata formando intorno alla cattedra del vescovo di Roma (grazie alla santità, ma pure all’assenza d’ogni remora morale propria di alcuni pontefici); fu infatti l’imperatore il promulgatore delle decisioni dottrinali di Nicea. Poi, una volta definitivamente crollata l’organizzazione politica unitaria dell’Impero, Costantino avrebbe anche offerto ai papi di Roma un modello di relazione di potere nei confronti dei popoli già incarnato dagli imperatori pagani: l’unità ecclesiale in Occidente avrebbe così ricalcato quella della monarchia dei Cesari e il vescovo di Roma ne avrebbe ereditato la sovranità imperiale.
Da tale panorama risulta quindi che nell’Ottocento, non solo il razionalista Renan, ma pure protestanti e cattolici liberali, a eccezione di Franz Xaver Kraus, porsero ai modernisti un giudizio se non completamente, certo prevalentemente negativo circa la personalità e il ruolo svolto dal primo sovrano che aveva comunque autorizzato e favorito la diffusione del cristianesimo nell’Impero; e tutto ciò mentre la figura di monarca cristiano di Costantino era stata esaltata e incorniciata da un alone sacrale da parte di un esponente di rilievo dell’ultramontanismo ottocentesco come Prosper Guéranger.
L’importanza dell’opera di Louis Duchesne per i modernisti, ma più in generale per la cultura storica in ambito cattolico è ben nota. Dalle sue lezioni all’Institut catholique de Paris furono segnati Alfred Loisy e Pierre Batiffol e il manuale in tre volumi di storia della Chiesa antica dell’abbé Duchesne fu ampiamente diffuso nei seminari, anche in Italia, prima d’essere condannato all’Indice nel 1912, quando già nel 1911 la Congregazione concistoriale aveva presto vietato l’uso della traduzione italiana – ufficialmente firmata da Nicola Turchi, ma realizzata da Ernesto Buonaiuti – per aver trascurato la dimensione sovrannaturale della storia sacra e per aver ridimensionato il fenomeno storico del martirio.
Prima di analizzare la presentazione che Duchesne offrì di Costantino e della sua opera nel secondo volume dell’Histoire ancienne de l’Église (1907), conviene dunque soffermarsi sui cenni relativi a tale soggetto contenuti nel corso che Duchesne tenne all’Institut catholique nel 18795. Incentrato sulla storia del cristianesimo dei primi tre secoli, il corso insisteva proprio sulla cesura cronologica fra il primo «periodo oscuro» e la «seconda epoca» iniziata con il IV secolo, che sarebbe stata in primo luogo segnata, oltre che dallo scontro dottrinale fra antiocheni e alessandrini, dall’alleanza fra il Vangelo e l’Impero, costretto a farsi cristiano per poter sopravvivere.
Venendo alla trattazione relativa a Costantino e alla sua azione, sviluppata nel secondo volume del manuale pubblicato nel 1907, si può dire che Duchesne vi espose tesi poi radicalizzate dai modernisti, o semplicemente riprese e sviluppate dagli innovatori progressisti nei loro lavori. Partendo dall’episodio decisivo della sconfitta di Massenzio, il direttore dell’École française diede conto dell’emozione e del fiorire rigoglioso delle fantasie religiose generati da quell’«evento straordinario», tanto fra i cristiani, quanto tra i pagani. Attenendosi però al principio di voler «lasciare al mistero quello che appartiene al mistero» e di volersi limitare «a constatare i fatti constatabili», Duchesne spiegò la scelta di campo cristiana di Costantino prima dello scontro decisivo del 312 come una «conversione per nulla suggerita da circostanze politiche», ma dettata da una sensibilità già bendisposta per ascendenze familiari nei confronti della nuova religione e dalla necessità di affidarsi a una divinità protettrice in un frangente decisivo dell’esistenza. La vittoria riportata generò in Costantino la convinzione di essersi affidato alla vera divinità, insieme con la capacità di «adattarsi alla situazione» di essere divenuto l’indiscusso Augusto d’Occidente, la parte dell’Impero in cui il paganesimo era ancora largamente maggioritario. Costantino, quindi, non perseguitò i pagani, ma nel 313 assicurò ai cristiani «la più completa libertà religiosa» e, obbedendo dunque alla «ragion di stato», come Diocleziano li aveva perseguitati, egli li favorì. Costantino fu insomma «un cristiano convinto» di rozze credenze, che per interessi politici perseguì l’unità religiosa dell’Impero, provando a realizzarla attraverso accordi e convocazioni di concili, di cui seguì da vicino lo svolgimento, quando dovette affrontare le eresie, anche se quella donatista richiese il ricorso a misure costrittive che, applicate sul campo, si rivelarono sanguinose. Un effetto derivante dall’atteggiamento dell’imperatore fu, però, che «rinunciare agli antichi dei diventava il mezzo più sicuro per attirarsi i favori del sovrano», per cui, aggiunse Duchesne: «è facile immaginare quante conversioni individuali e collettive derivarono da quel fatto». Anche la costruzione della nuova capitale dell’Impero fu giudicata dal direttore dell’École française come un evento negativo, una «minaccia per l’unità cristiana», che in seguito avrebbe effettivamente prodotto l’irrimediabile separazione fra le due Roma, «uno dei più gravi disastri subiti dalla religione del Vangelo». Duchesne non omise d’evocare omicidi ordinati da Costantino, giudicando che quelli di Massimiano e Licinio potevano essere giustificabili, ma non le orribili morti del figlio di quest’ultimo e tantomeno del primogenito dell’imperatore, Crispo, e della moglie Fausta, benché, a proposito di questi ultimi, Duchesne segnalasse la mancanza di testimonianze attendibili, lasciando comunque intendere che l’imperatore era forse potuto intervenire per eliminare memorie compromettenti.
Concentrando l’attenzione sulla cronologia della produzione nelle quattro rispettive aree culturali in cui si manifestò il fenomeno modernista, va subito osservato come Costantino e gli effetti storici prodotti dalla sua azione non costituirono un centro d’interessi per i maggiori esponenti modernisti dell’area culturale anglosassone, certamente più interessati invece allo studio del problema storico della formazione del primato del vescovo di Roma nel corso dei primi tre secoli dell’era cristiana.
Centrata sulla questione dello sviluppo ecclesiale e condotta appena prima che la prova di forza tra lo Stato francese e la Chiesa cattolica raggiungesse livelli parossistici, la riflessione di Loisy non fu sollecitata dalla figura di Costantino e dagli effetti della sua opera; i riferimenti a entrambi nei suoi scritti sono, infatti, assolutamente esigui.
Nei manoscritti degli anni 1897-1899, solo recentemente pubblicati6, da cui l’autore ricavò la base per gli articoli e per l’opera L’Évangile et l’Église, finiti al centro delle polemiche e delle condanne delle autorità dottrinali cattoliche, il riferimento a Costantino ricorre in relazione alla trattazione del «primato romano», per presentare l’imperatore come colui che solo «inintenzionalmente, aveva creato una nuova forma d’autorità ecclesiale», la forma conciliare, divenendo così un involontario «agente di contrasto dello sviluppo della gerarchia ecclesiastica» e dunque, del primato romano. Ancora solo implicitamente risulta evocata la responsabilità di Costantino quale fondatore della «Chiesa di corte» di Costantinopoli, come quella di colui che impedì l’estensione del potere del papa all’Oriente, che divenne perciò preda di contese fra «Chiese nazionali». In seguito, nel capitolo de L’Évangile et l’Église in cui espose la storia della Chiesa cattolica, riecheggiando la lezione di Renan, Loisy affermò che «la traslazione della capitale a Costantinopoli preparò lo scisma», insistendo pure sulla distinzione fra la Chiesa latina a vocazione universalistica e le Chiese orientali nazionali. Nell’edizione dell’opera del 1904, Loisy precisò pure la tesi già espressa in modo più conciso nella prima edizione del 1902, secondo cui «le forme giuridiche» e la «preminenza» assunte dalla Chiesa di Roma in Occidente non derivarono unicamente dalla ripresa di «una tradizione locale ed ereditaria di dominio universale, che sarebbe passata dall’Impero alla Chiesa, da Cesare al successore di Pietro, ma per effetto di una tendenza generale che, sin dalle origini, spinse la Chiesa a organizzarsi come un governo». Nessun riferimento al ruolo giocato da Costantino a Nicea ricorre invece nel capitolo relativo alla formazione del dogma contenuto nel volume la cui pubblicazione rappresentò la scintilla che fece esplodere la crisi modernista. Pure i riferimenti tardivi di Loisy a Costantino contenuti ne L’Église et la France (Paris 1925) risultano stringatissimi e ribadiscono soltanto le tesi già sostenute ne L’Évangile et l’Église.
Sulla personalità e sull’opera di Costantino ritornò invece più volte ed estesamente Joseph Turmel. Prete bretone, pur avendo perso sin dal 1886 ogni credenza nella verità del cristianesimo, Turmel continuò a dir messa per tutta la vita, anche quando fu definitivamente smascherato e scomunicato nel 1930, dopo che sotto la copertura di una quindicina di pseudonimi aveva ininterrottamente pubblicato su riviste cattoliche numerosi studi che, senza concedere nulla al sovrannaturale, avevano trattato soprattutto della storia dei dogmi.
Nel 1906, per conto della Revue du clergé français, Turmel si incaricò di firmare la risposta a una richiesta di chiarimenti circa l’autenticità storica della visione che precedette lo scontro di ponte Milvio7. Dopo aver presentato le varie testimonianze antiche, cristiane e pagane, relative alla questione, Turmel espose le interpretazioni che ne erano derivate. La prima, che aveva accreditato la realtà di sogni e visioni, era prevalsa sino al XVIII secolo. La seconda, sostenuta da Burckhardt e da Dury in Francia, che attribuiva a Costantino solo l’anima di un politico – capace di riscuotere l’appoggio dei cristiani –, o al massimo quella di un monolatra con simpatie ariane, era stata efficacemente confutata dal duca De Broglie, che aveva spiegato le incoerenze nelle posizioni di Costantino come il normale effetto del comportamento di un personaggio di un’età di transizione. La terza interpretazione, accreditata da Boissier, consistente nel rigetto «di ogni componente miracolistica nei racconti di Eusebio e di Lattanzio», di cui andava conservata solo «l’esperienza psicologica», faceva di Costantino un «superstizioso» alla ricerca della protezione divina nel momento decisivo della lotta contro Massenzio, in seguito confermato nella sua rozza fede dalle vittorie militari riportate, e non quindi un semplice manipolatore politico. Quest’ultima fu la tesi che Turmel presentò come verosimile. La conversione di Costantino al cristianesimo, pur superficiale, era dunque stata sincera. Il racconto di Lattanzio relativo al sogno di Costantino prima dello scontro del 312, secondo Turmel, risultava credibile, molto meno invece l’apparizione della Croce e dell’iscrizione riportata da Eusebio: era piuttosto la psicologia dei soldati impegnati in una guerra che poteva spiegare lo sviluppo di una leggenda che attribuiva anche a loro la visione in questione. Ad ogni modo, Turmel si cautelò concludendo con l’affermazione: «Va soprattutto ricordato che il miracolo rimane possibile».
L’anno successivo, sempre sulla Revue du clergé français8, Turmel si incaricò pure di rispondere a una domanda relativa all’attendibilità storica della scoperta della reliquia della croce da parte della madre di Costantino. Ancora una volta rapportando le varie fonti e testimonianze antiche, Turmel presentò il dato storico dell’elevazione della basilica da parte dell’imperatore nel luogo in cui aveva individuato il Santo Sepolcro, ma destituì d’ogni valore storico i racconti relativi alla scoperta della Santa reliquia da parte di Elena. Presentando poi il fatto come l’«invention» della croce, Turmel adombrò la possibilità che la storicità della scoperta stessa della reliquia non possedesse maggiore credibilità dell’identificazione della Santa casa di Loreto con quella di Nazareth, allora abbondantemente messa in discussione; ma anche in questo caso, Turmel si premunì contro eventuali accuse sostenendo che cotali questioni non comportavano alcuna possibile risposta documentabile.
Turmel raccolse poi due articoli su Constantin et la paupauté, pubblicati nel 1906 sulla Revue catholique des églises9, nei capitoli sesto e settimo dell’Histoire du dogme de la papauté (Paris 1908), pubblicata a nome proprio e finita all’Indice già nel 1909.
Affermando che il «grande imperatore» che aveva aperto «alla Chiesa una nuova Era», modificandone «in profondità le condizioni d’esistenza» era stato soprattutto interessato a mantenere la coesione spirituale entro i confini del suo dominio, Turmel osservò che prima di convocare il concilio di Arles, l’augusto aveva soltanto mantenuto lo statu quo, senza incidere sul prestigio già acquisito dal vescovo di Roma nei confronti delle Chiese sorelle dell’Impero. Diversa, invece, la valutazione dell’operato successivo di Costantino effettuata da Turmel in merito alle iniziative prese negli sviluppi della questione donatista e poi in quella dell’arianesimo. Come «vescovo di fuori», Costantino aveva, infatti, voluto «mettere il proprio possente braccio al servizio della religione cristiana, proteggerla contro i nemici esterni, schivare da lei ogni dissenso intestino», secondo un modello di rapporti fra sarcedozio e Impero che non avrebbe trovato il consenso di Gregorio VII o di Innocenzo III. Si era realizzata, infatti, con Costantino «l’intrusione del potere laico nel tempio»: in assenza di «una linea di demarcazione abbastanza netta fra i rappresentanti di Dio e i depositari del potere civile», l’imperatore non aveva evitato «il pericolo di trattare i vescovi come prefetti». Invece di convocare il concilio di Arles, Costantino avrebbe dovuto limitarsi a mettere il proprio potere al servizio delle decisioni già prese dai vescovi e la brutalità della sua repressione nei confronti dei donatisti sarebbe stata comunque scusata. Viceversa aveva deciso di riconsiderare la questione dottrinale, facendo sì riconfermare il giudizio dei vescovi, ma solo dopo «essersi eretto a giudice della fede». A Nicea l’imperatore sarebbe addirittura andato oltre, dettando ai «vescovi quello che dovevano credere», per cui l’accordo da essi trovato sarebbe risultato «artificiale e fragile», perché cementato sulla base della «paura dell’imperatore». In quella circostanza Costantino avrebbe così vestito i panni dell’«apostolo della dottrina cattolica» e il «vescovo di fuori» si sarebbe fatto «vescovo di dentro». Il voltafaccia successivamente compiuto nei confronti d’Atanasio non sarebbe quindi stato contraddittorio rispetto all’atteggiamento assunto a Nicea dal momento che ciò era dettato semplicemente dal fatto che Ossio si era sostituito a Eusebio nel ruolo di consigliere influente dell’imperatore. A Nicea, osservò Turmel, Costantino non si era minimamente preoccupato di trovare un’intesa con Roma e, più tardi, il concilio di Calcedonia avrebbe seguito la prassi nicena, senza cercare l’approvazione romana dei decreti conciliari. Inoltre, se ancora nel 325 era stato Ossio a guidare il concilio, ciò non era avvenuto «per la volontà di [papa] Silvestro, ma dell’imperatore». In sintesi, sostenne Turmel, «il primo imperatore cristiano» si era «più preoccupato d’imporre la legge ai vescovi che di mettere in luce le prerogative della sede apostolica», tendendo a «concepire la Chiesa come una parte annessa dell’Impero o, se si vuole, come una monarchia governata dall’imperatore».
Turmel ne dedusse così che «il papato non deve nulla all’imperatore», perché Costantino si era prodigato «ad assicurare il trionfo della religione cristiana e a schivarne ogni divisione», arricchendo la Chiesa e favorendo il clero, ma aveva ignorato le prerogative del papato. Soprattutto, «imponendo le catene ai vescovi», aveva introdotto nella Chiesa «la classe dei prelati cortigiani» e, «arrogandosi il diritto di giudicare le controversie dogmatiche», aveva inaugurato «nello Stato l’era dei principi teologi». Da un lato, quindi, per i secoli a venire, «Cesare avrebbe lavorato [...] a fare della religione uno strumento del regno» e dall’altro, «ora in un paese, ora nell’altro», l’episcopato, «abbagliato dalla munificenza reale, sarebbe divenuto l’umile e compiacente servitore del principe, da cui avrebbe ricevuto onori, potenza e ricchezze». Oltre a questo «duplice ostacolo» opposto all’esercizio delle rivendicazioni pontificie, secondo Turmel, Costantino aveva pure suscitato un «terzo avversario più pericoloso ancora: il vescovo di Costantinopoli». Questi avrebbe presto offuscato il prestigio dei patriarchi di Alessandria e di Antiochia e avrebbe poi preteso di trattare con il papa romano «da potenza a potenza», senza timore «d’imporgli la legge», offrendo un «centro di raccolta» allo «spirito d’indipendenza religiosa nei confronti di Roma», che sino al IV secolo non aveva potuto trovare centro d’aggregazione, per cui, anche secondo Turmel, «lo scisma orientale, consumato nel IX secolo» era già stato avviato con la fondazione di Costantinopoli10.
Alla fine del pontificato di Pio X, su Costantino e, più in generale, sugli effetti prodotti dalla sua azione, intervenne anche Pierre Batiffol con La Paix constantinienne et le catholicisme (Paris 1914). L’allievo di Duchesne, a cui la pubblica presa di distanze da Loisy non era bastata per porre al riparo un proprio lavoro di teologia storica sul dogma eucaristico dai rigori dell’Indice, sino a dover subire nel dicembre del 1907 la rimozione dal prestigioso incarico di rettore dell’Istituto cattolico di Tolosa, nel 1914 si stava impegnando in uno sforzo di recupero della propria reputazione d’autore ortodosso, che sarebbe stato più tardi coronato da successo, con l’ammissione alla Pontificia commissione d’archeologia sacra in qualità di membro corrispondente dall’estero.
Volendo più in generale affrontare la questione dei rapporti fra Chiesa e Stato a partire dagli eventi registrati nel IV secolo, quando il cristianesimo aveva raggiunto la condizione di «religione lecita», prima di poter godere di una «libertà privilegiata» e, infine, di subire il potere arbitrario del «principe cristiano», Batiffol intese subito precisare contro Loisy che l’autorità conciliare si era sviluppata in coerenza con l’unità dell’episcopato universale, allorché la «pace costantiniana» garantita dal principe «irenarca della Chiesa» aveva costituito un pericolo tanto per «l’ecumenicità episcopale» quanto per «il primato romano». Prendendo però più direttamente in considerazione la personalità e l’opera di Costantino e distinguendole da quelle del successore Costanzo II, Batiffol smentì la tesi di una conversione dettata da mero calcolo politico, perché nel 312, così come quella degli abitanti di Roma, la maggioranza dei soldati ai suoi ordini non poteva essere costituita da cristiani. Era stato il sogno ricordato da Lattanzio ad averlo spinto a legare le sue sorti al benvolere del dio dei cristiani. Si era così compiuta un’evoluzione iniziata quando la morte volontaria imposta al suocero Massimiano aveva spinto Costantino a ripudiarne la discendenza erculea, per eleggere invece il culto solare monoteista paterno, come desumibile dai testi tramandati dai panegiristi operanti fra il 307 e il 310. Costantino si era dunque allontanato dal politeismo, arrivando a riconoscere nel dio dei cristiani il vero dio sovrano unico. Quale risultato dell’accordo con Licinio, se l’editto di Milano aveva solo ribadito la libertà e la riconsegna dei beni alla comunità cristiana già statuite dall’editto di Galerio, messo in applicazione pure da Massenzio, esso aveva comunque permesso d’offrire un fondamento sicuro alla «pace costantiniana», a garanzia della libertà dei culti. Era piuttosto lo spirito del legislatore del 313 che era mutato rispetto a quello del 311, essendo, infatti, ormai definitivamente superato il rimpianto per la perdita di peso sociale delle antiche credenze politeiste ed eletta invece pubblicamente l’unica divinità quale legittimo referente dei vari culti religiosi. Quindi, come aveva sostenuto Lattanzio, «l’eroismo dei martiri cristiani, più eloquente delle rivendicazioni degli apologisti», era finalmente riuscito a imporre «il rispetto della coscienza religiosa, così a lungo ignoto alla brutalità di Roma». Con la legislazione seguita all’editto del 313, sotto l’influenza di Ossio e animato da una riconoscenza speciale per il dio dei cristiani, Costantino aveva quindi accordato un trattamento di favore a questi ultimi, esentando il clero dagli obblighi imposti dall’esercizio di eventuali cariche pubbliche. Costantino, anzi, aveva considerato la «Chiesa sola legittima e santissima, la santissima e cattolica Chiesa» come garanzia d’unità e d’ordine pure in ambito temporale, decidendosi perciò a dare risposta ai problemi posti dalla tendenza scismatica dei donatisti. Pertanto, se non si poteva rimproverare a Costantino d’aver voluto conservare il titolo di Pontifex maximus, Otto Seeck aveva comunque avuto ragione contro Burckhardt nel sostenere che la conversione non era stata solo motivata da interessi politici, ma almeno da una fede cristiana embrionale, priva di rinunce a una piena libertà personale, ma allo stesso tempo libera da ogni pretesa d’impadronirsi della Chiesa. «L’enigma della conversione di Costantino» consisteva piuttosto nell’aver egli mostrato di voler subordinare i propri doveri nei confronti della Chiesa a quelli contratti verso l’Impero. La scelta del labaro come vessillo dell’armata imperiale nel 317, immediatamente prima dello scontro con Licinio, aveva rappresentato «l’affermazione solenne della fiducia di Costantino nel Dio dei cristiani».
Fu la premura per l’unità ecclesiale a fargli però correre il rischio di sacrificare l’organizzazione giuridica e la dottrina cattoliche in nome di una pace religiosa eletta a ragion di Stato. Batiffol, come si vedrà, a differenza di altri, non ritenne che l’errore donatista fosse stato sostenuto dalle aspirazioni politiche separatiste dei Numidi; a suo parere erano stati invece proprio i donatisti, con il loro ricorrere all’Augusto, a «conferire al principe un ruolo ecclesiastico esorbitante». Il primo rinvio di Costantino della causa pendente a Cartagine al giudizio del vescovo di Roma era stato un atto «ineccepibile», benché già allora avesse associati al giudizio pure tre vescovi gallici. L’errore dell’Augusto venne quando questi concesse l’appello contro il giudizio già emesso a Roma: «l’assemblea» di Arles fu infatti «un espediente, una novità e ancor più una reale intrusione del principe cristiano nel dominio ecclesiastico su istigazione degli scismatici», nonostante il concilio avesse poi manifestato una significativa deferenza nei confronti di papa Silvestro. Criticando quindi esplicitamente non solo la tesi sostenuta da Turmel, secondo il quale il senso di tale deferenza si riduceva al riconoscimento della notevole entità delle diocesi controllate dal vescovo di Roma, ma anche quella di Duchesne, che aveva inteso tale deferenza nei confronti di Silvestro come dovuta a colui che di fatto era il metropolita d’Italia. Infatti, secondo Batiffol, il vescovo di Roma esercitava già una funzione primaziale «nei confronti di tutti i vescovi degli Stati al momento in mano a Costantino», dunque su tutto l’Occidente. L’ambiguità dell’atteggiamento di Costantino si sarebbe poi aggravata con l’accettazione delle rimostranze dei donatisti insoddisfatti per la decisione di ratifica presa ad Arles e quindi, a fronte di tale smacco, quando l’Augusto non esitò neppure a ricorrere alla «coercizione» con spargimento di sangue per provare a riportare l’unità nella Chiesa di Cartagine. Il suo atteggiamento nei confronti dei donatisti era stato quindi dettato dall’intenzione di voler istituire un «assolutismo monarchico», finendo così per «procedere di colpa in colpa», al fine di poter garantire la pace religiosa nei territori da lui controllati.
Seguendo l’opinione di Newman, Batiffol sostenne che anche l’arianesimo era stato soprattutto un prodotto intellettuale, adeguato a soddisfare l’esigenza monoteista che si era fatta strada nell’antichità tardo-pagana. Secondo Batiffol, però, Costantino non aveva affatto ignorato l’importanza delle polemiche cristologiche e non aveva affatto considerato il cattolicesimo alla stregua di una scuola di filosofia, al cui interno fosse tollerabile un certo pluralismo di diverse tendenze, come aveva potuto sostenere Newman. Costantino, di fronte alla questione dell’arianesimo approntò così «provvidenzialmente un concilio generale», che rappresentò l’episcopato universale per garantire la pace religiosa all’Impero, senza neppure nutrire ambizioni direttive nei confronti del consesso, come dimostrò la scelta di Nicea e non di Nicomedia quale sede di svolgimento dei lavori. La scelta decisiva dell’homoousios, che aveva liberato il campo dai tentativi mistificatori di Eusebio di Cesarea, sarebbe quindi stata il «segno dell’autorità di Ossio e più esattamente della Chiesa di Roma, di cui era il porta-parola». Costantino, presente a Nicea nelle sfolgoranti vesti di benefattore regale, avrebbe quindi solo dimostrato «deferenza» nei confronti dei vescovi, operandosi per l’unità dottrinale, rispettando le decisioni prese e intervenendo risolutivamente solo contro l’ultimo pugno d’irriducibili stretti intorno ad Ario, costringendoli all’esilio. Inoltre, l’adeguazione dell’organizzazione ecclesiale all’ordinamento amministrativo provinciale dell’Impero intervenuta a Nicea, come sostenuto da Sohm, aveva trovato applicazione solo in Oriente, mentre il vescovo d’Alessandria aveva mantenuto un ruolo primaziale rispetto a tutto l’Egitto e quello di Roma non solo sull’Italia, come ritenuto da Duchesne, ma su tutto l’Occidente.
All’«atto provvidenziale» di Nicea, durante gli ultimi dodici anni di regno, fecero però seguito, ammise Batiffol, circostanze «meno felici, per colpa del principe stesso». Certamente, pure durante tale periodo, secondo Batiffol, Costantino aveva acquisito importanti meriti, concedendo ai vescovi d’esercitare una giurisdizione civile parallela a vantaggio dei sudditi cristiani e di legittimare le manomissioni di schiavi. Soprattutto, pur sollevando il clero dall’obbligo di partecipare al culto imperiale, derivante dall’accesso – ormai a esso negato – alle magistrature, l’imperatore aveva comunque riconosciuto ai vescovi il fondamentale ruolo di garanti dell’unità della Chiesa locale, costituendoli quali referenti privilegiati dell’imperatore, allorché, forgiandosi del titolo di Pontifex maximus, egli avrebbe potuto voler estendere le sue competenze anche in materia di res sacrae cristiane, come sarebbe in seguito sciaguratamente accaduto nel corso di secoli, ad esempio con l’ancien régime, ma pure con la Chiesa rivoluzionaria costituzionale e, non esitò a dichiarare Batiffol, anche con il sistema delle «associazioni di culto» istituito dalla legge di separazione fra la Chiesa e la Repubblica francese del 1905. Pertanto, secondo Batiffol, nel rivendicare il titolo di «vescovo per gli affari esterni», l’imperatore aveva enunciato una «ingegnosa formula della libertà della Chiesa al suo interno». Pure la scelta di spostare la capitale a Costantinopoli, battezzata seconda Roma, fu sostanzialmente giusta, perché obbligata da necessità difensive militari, oltre che dalla necessità di dimenticare l’«oscura tragedia familiare» consumata in Italia, effetto di una tendenza a reagire immediatamente ai sospetti e a «sacrificare a quella che immaginava fosse la ragion di stato e il proprio dovere imperiale» anche gli affetti più cari. Del resto, sostenne il francese, Costantino trattò la Chiesa di Roma con munificenza ancor maggiore di quella che usò verso la Chiesa di Costantinopoli e di Gerusalemme. Personalmente convertito al cristianesimo, rispettoso dei vescovi, senza però rinunciare a esercitare coazione anche nei loro confronti, generoso oltremodo verso il vescovo di Roma, per Batiffol era «sbalorditivo» il ruolo secondario a questi concesso da Costantino nel quadro della «politica ecclesiastica» imperiale. Lo studioso provò a spiegare tale negativa circostanza ricordando come Costantino fosse progressivamente caduto in ostaggio dei servizi offerti dall’«oligarchia episcopale ariana», che, forte delle relazioni e del credito goduto presso la sorella Costanza e la madre Elena, dopo la morte di Ossio, era riuscita a conquistare la fiducia dell’imperatore, istigandolo a intervenire ripetutamente nella vita interna della Chiesa per rovinare subdolamente l’episcopato cattolico, sino al primo «brigantaggio» conciliare di Tiro, a cui dovette sottoporsi Atanasio, il cui fallimentare ricorso al giudizio dell’imperatore rappresentò il primo atto del «cesaropapismo nascente». Eppure, anche in tale circostanza Batiffol considerò che le colpe di Costantino fossero attenuate dal fatto che questi aveva sinceramente ritenuto Ario fedele alle decisioni di Nicea. Pertanto, il battesimo amministrato da Eusebio poco prima della morte «fu una fine molto bella per la fede e lo spirito di penitenza dimostrati dall’imperatore». Costantino, sostenne Batiffol, fu dunque «in primo luogo un generale» e «un grande statista», non certo un teologo, date le sue credenze cristologiche incerte, che pur aveva affidato al dio dei cristiani la protezione della sua persona e dell’Impero. Se quindi il cattolicesimo poteva legittimamente rimproverargli «d’aver trattato come inesistente il primato del vescovo di Roma», Costantino aveva comunque avuto il grande merito d’istituire un rapporto fra potere statale ed ecclesiale improntato a un regime di «libertà privilegiata» per la Chiesa, «il solo allora realizzabile e in grado di preparare la transizione dal mondo antico a quello nuovo». Se quindi con l’editto di Milano, conformemente alle intenzioni di Licinio, era stata affermata la «neutralità» religiosa dello Stato, Costantino era invece già nel 313 animato dall’intento d’offrire ai seguaci del dio che lo aveva protetto al ponte Milvio una «libertà privilegiata», accettando il ruolo di semplice «donatore e protettore» della Chiesa. Costantino non era stato quindi, come aveva ritenuto Eduard Schwartz, il fondatore di una «chiesa imperiale», perché il cattolicesimo aveva potuto mantenere la propria «autonomia spirituale, visibile, organizzata, gerarchizzata», senza necessità di concludere concordati con l’imperatore e ciò per volontà personale di quest’ultimo e contro «ogni tradizione di cesarismo». Certamente Costantino non aveva rinunciato a esercitare il suo potere sovrano, intervenendo talora «confusamente» nella vita ecclesiale e finendo vittima degli intrighi dell’«oligarchia eusebiana» e questa era stata la sua maggior colpa, quella che aveva permesso in seguito «l’intrusione ordinaria del “principe cristiano” nell’ambito ecclesiastico». Di Chiesa imperiale, o meglio, di Chiesa territoriale si sarebbe dunque a giusto titolo dovuto parlare a partire dal regno di Costanzo II, in presenza di una sorta di «gallicanesimo nascente», con un imperatore che stavolta avrebbe preteso d’imporre egli stesso le decisioni al concilio dei vescovi, secondo un «sistema tirannico» apertamente cesaropapista.
Completano il panorama francese le indicazioni sul ruolo svolto da Costantino fornite nella Courte histoire du christianisme (Paris 1924), pubblicata dallo storico razionalista Albert Houtin quando questi aveva ormai da tempo deposto l’abito ecclesiastico. Nel segnalare come nel IV secolo, con la conversione dell’imperatore, l’Impero era presto divenuto cristiano, Houtin tenne a precisare che l’evento si era realizzato perchè non era stata ancora sviluppata l’idea della «separazione dello Stato dai culti» e – contraddicendo così la tesi sostenuta da Batiffol, che aveva sviluppato le indicazioni fornite da Duchesne –, giusto «perché non si aveva allora l’idea della libertà di coscienza». Quindi Houtin segnalò, come effetti seguiti alla conversione dell’imperatore e dei suoi successori, il fatto che i «pagani si affollarono nel cristianesimo», con le immediate conseguenti «materializzazione del culto» e «recrudescenza della mitologia» e con l’ascesa sociale del clero a livelli mai raggiunti dal sacerdozio pagano, per cui «la Chiesa divenne sempre più mondana».
Il centenario dell’editto di Milano mobilitò gli storici tedeschi; fra loro Joseph Wittig, patrologo e storico del cristianesimo dell’Università di Breslau, che, divenuto apprezzato autore di testi letterari, sarebbe stato sospeso e scomunicato nel 1926 per non aver voluto prestare il giuramento antimodernista dopo che un suo testo, che metteva in discussione l’efficacia della pratica sacramentale della confessione ispirata alla teologia scolastica, pubblicato su Hochland nel 1922, era stato condannato all’Indice. Nel 1913 Wittig intervenne con una documentata analisi filologica delle fonti antiche per confutare la tesi sostenuta da Otto Seeck, secondo cui, dopo l’editto di tolleranza di Galerio, nessun nuovo editto imperiale sarebbe stato emesso da Costantino a Milano nel 313 e l’affermazione della sua esistenza sarebbe stata essenzialmente parto delle preoccupazioni degli antichi agiografi cristiani11.
Certamente, però, il contributo più significativo su Konstantin der Groβe und das Christentum (München 1913) venne pubblicato dal patrologo Hugo Koch, a ridosso del ciclone che colpì l’autore: uno dei pochi ecclesiastici tedeschi a dover lasciare l’incarico universitario per non aver voluto sottoscrivere il giuramento antimodernista. Koch, che era cresciuto alla lezione di Franz Xaver Kraus, abbandonò presto l’abito talare e, dopo la guerra, collaborò a lungo alle riviste di Buonaiuti.
Già noto per un lavoro su Cipriano che aveva sollevato forti polemiche (in cui vi era sostenuta la tesi di un’istituzionalizzazione tardiva del primato del vescovo di Roma, di cui quello di Cartagine non avrebbe riconosciuto pienamente la portata), in occasione del centenario della battaglia di ponte Milvio e dell’editto di Milano, Koch pubblicò un saggio esemplare sulla figura di Costantino e sul suo contributo alla storia del cristianesimo. Partendo da un’enfatica presentazione dell’enorme importanza storica assunta dalla vittoria del 312 a Saxa Rubra, Koch si districò fra le leggende degli autori antichi relative alla decisione di Costantino d’assumere i simboli cristiani come insegna del proprio esercito. Per arrivare a una spiegazione esaustiva, il tedesco volle quindi presentare Costantino come un uomo del proprio tempo, mostrando che, nel corso dei primi tre secoli dell’era cristiana, solo sotto Decio e Diocleziano, i cristiani erano stati sistematicamente perseguitati. Per circa un secolo e mezzo il cristianesimo avrebbe quindi convissuto con le culture pagane, arrivando ad assumerne alcuni elementi, quali l’idea del Logos divino, che Origene aveva ricavato dalla filosofia neoplatonica, in modo tale che l’originaria attesa dell’irrompere della novità messianica poté arrivare a figurare come un’eresia «modernista» a confronto della sapienza che si andava elaborando. Quando Costantino si trovò ad affrontare Massenzio, il cristianesimo non era così più solo una religione che aveva avuto i suoi martiri (in numero ridotto rispetto a quello vantato dall’apologetica), ma anche una rodata organizzazione sociale. La scelta di assumere le insegne cristiane fu quindi il prodotto della mentalità di un giovane soldato, già assuefatto per ascendenze familiari a un culto monolatra, spinto alla ricerca di un dio che potesse garantirgli il successo in battaglia. Per Koch, però, se Costantino non era stato il santo venerato in Oriente, neppure era stato «l’insopportabile bigotto» dei cattolici o il Tartufo opportunista (ritratto dal Burckhardt). Costantino era stato sinceramente convinto del potere numinoso che emanava dalla divinità dei cristiani e, dopo averla vista in azione12, ne aveva approfondito la conoscenza per quanto gli era stato utile e possibile, scoraggiando il paganesimo, ma rispettandolo ancora astutamente come religione maggioritaria nell’Impero. Neppure gli orrendi crimini familiari di cui si sarebbe macchiato andavano enfatizzati, perché erano stati soprattutto l’inevitabile conseguenza dell’esercizio di una delicata funzione politica e, soprattutto, si conformavano al quadro morale del tempo e di una Chiesa che aveva iniziato a riconoscere il ruolo dell’imperatore. Significativo, in tal senso, il fatto che al suo titolo pagano di pontefice massimo, il panegirista ufficiale non avesse esitato ad affiancare anche quello di «vescovo universale».
Proprio da ciò, però, sarebbero scaturite le peggiori conseguenze per la storia del cristianesimo: l’essere divenuto religione di Stato in sostituzione del paganesimo, la persecuzione violenta dell’eresia, l’irrigidimento della religione in dottrina, i dissidi fra le due Roma, in un processo culminato nel cesaropapismo in Oriente e nella monarchia papale in Occidente. Il disastro dell’affermazione dell’ecclesialità costantiniana (konstantinisches Kirchentum) era stato solo attutito dalla capacità mantenuta dal Vangelo di ispirare un’autentica spiritualità cristiana in alcune minoranze e dal benefico ruolo di «istitutrice dei popoli» svolto dalla Chiesa nel corso del Medioevo. Erano soprattutto i segni d’inadeguatezza ormai offerti dalla commistione del cristianesimo con il potere temporale, evidenti nel momento in cui gli Stati sovrani, per assicurare la pace religiosa, erano giunti a rigettare l’istituto della religione di Stato, che permisero a Koch di concludere con una nota di speranza per il futuro.
La ricorrenza dell’editto di Milano indusse anche gli italiani al confronto con la figura, l’opera e l’eredità di Costantino. Luigi Salvatorelli, studioso e corrispondente di Loisy, estimatore dei modernisti ma più ancora dell’idealismo crociano, raccolse il testo di una sua conferenza nel volume13 pubblicato per concorrere nel 1915 alla successione di Labanca sulla cattedra di Storia del cristianesimo dell’Università di Roma, che fu poi vinta da Buonaiuti. Partendo anch’egli dalla considerazione dell’enorme portata storica dello scontro al ponte Milvio e rigettando l’interpretazione machiavellica, ma pure la leggenda della purezza spirituale della conversione di Costantino al cristianesimo, Salvatorelli sottolineò l’originalità della politica religiosa dell’imperatore rispetto a quella praticata dai suoi predecessori arrivando a sostenere che, sotto questo aspetto, un taglio netto era intervenuto a separare «l’epoca precostantiniana dalla costantiniana». Anche secondo lui la conversione di Costantino andava inquadrata in un processo di trasformazioni di lungo periodo che aveva investito l’organizzazione e la religiosità dell’Impero durante i primi tre secoli dell’era cristiana, quando si erano affermati progressivamente un ordinamento improntato da cosmopolitismo e da accentramento dei poteri sull’esempio delle autocrazie orientali e una spiritualità eclettica, che aveva assunto elementi dai culti misterici orientali, con cui si sarebbe contaminato il cristianesimo stesso14. Costantino fu quindi la personalità che portò a compimento il processo con cui il cristianesimo si assimilò alla cultura pagana, attraverso un’«assimilazione» reciproca che rese il primo «omogeneo all’impero». Pertanto, la svolta di Costantino «non fu né semplice calcolo politico, né semplice entusiasmo religioso, ma convinzione profonda di tutto il suo spirito, in cui, come in ogni altro spirito del tempo, elemento politico ed elemento religioso si fondevano insieme, in unità inscindibile». L’imperatore si autoproclamò episcopus externus, «esercitò l’autorità più assoluta in tutta l’organizzazione della Chiesa», ne fu il vero «capo gerarchico»; d’altro canto, il cristianesimo divenne la «base dell’autocrazia», per cui il cesaropapismo avrebbe costituito più tardi un elemento strutturante dell’impero bizantino. Il cristianesimo finì quindi per fondersi con il paganesimo e, come aveva già fatto Koch, anche Salvatorelli portò l’esempio della sostituzione del culto delle molteplici divinità con quello dei santi, insieme con altre contaminazioni di carattere rituale tra cui persino la venerazione dell’imperatore come divus.
Salvatorelli sarebbe in seguito più volte ritornato a riflettere sulla personalità e l’azione del primo imperatore battezzato, a cui dedicò un significativo medaglione, Costantino il grande, (Roma 1928). Facendo tesoro del contributo offerto da Pierre Batiffol, Salvatorelli seguì la sua interpretazione biografica di Costantino sino al concilio di Arles, sostenendo sempre che le «preoccupazioni religiose» del primo imperatore cristiano, ampiamente condivise dagli spiriti del tempo, erano state «sincerissime perchè interessatissime». Apprezzando come il francese l’editto di Milano quale «accettazione di tutti i culti nella completa libertà religiosa», tuttavia, Salvatorelli presentò tale istituto quale un «tentativo» di politica religiosa ancora pienamente attuale, a differenza di Batiffol, che lo aveva annoverato come la semplice necessaria premessa presto superata nel migliore regime di libertà privilegiata concesso al cristianesimo. Con gli sviluppi del conflitto donatista avrebbe invece, secondo l’italiano, iniziato a «funzionare, con l’ingerenza dello Stato nella Chiesa, l’unione della chiesa e dello stato contro l’eresia». Gli atti seguiti al concilio di Arles furono quindi interpretati da Salvatorelli piuttosto nel senso indicato da Schwartz, la cui opera, come quella di Batiffol e di Seeck, risulta positivamente citata nella bibliografia finale dell’opuscolo. Infatti, dopo Arles, «dalla libertà religiosa si era passati all’ortodossia religiosa, ora tollerante, ora intollerante, ma sempre esclusiva» e, in seguito, la stessa guerra contro Licinio «per il dominio dell’impero si coloriva religiosamente». «La persona dell’Imperatore, adorata e chiamata celeste e sacra con tutto quanto da essa proveniva» avrebbe così rappresentato «un punto di passaggio fra paganesimo e cristianesimo, un punto d’incontro in cui i cristiani e i pagani mescolavano riti e credenze». Impreparato a risolvere la controversia teologica dell’arianesimo, Costantino cercò solo di procurarsi l’unità religiosa e pensò di potersi allora servire a tal scopo della «formula semplice e definitiva» dell’homoousios. Facendosi in seguito «propagandista religioso e morale, pronunciando conferenze e prediche alla gente del sacro palazzo», permise che una semplice «vernice cristiana» si stendesse sull’Impero, perché «professarsi cristiani, mostrarsi devoti serviva a far carriera». Compiuto il voltafaccia dogmatico dopo il concilio di Nicea per raccogliere le forze del «paganesimo colto [che] propendeva per l’arianesimo», l’imperatore finì battezzato dagli eretici, ma senza proclamare formalmente l’eresia, per cui legittimamente «la chiesa greca poté venerarlo come santo e proclamarlo “isapostolo”», mentre «il pensiero cristiano e laico del popolo italiano adulto disse per bocca di Dante che bene era stata la sua conversione, male il principio, da lui, della ricchezza e potenza temporale ecclesiastiche». Costantino rimaneva quindi «il fondatore della religione di stato, del cesaropapismo e dell’impero bizantino [...] che si chiamò romeo», ma che non andava confuso con l’antica Roma. Anche in seguito, come si è detto, in una temperie ormai ben lontana da quella segnata dalla crisi modernista, Salvatorelli sarebbe più volte tornato sulla figura e sull’eredità di Costantino15.
Un altro modernista italiano era intanto intervenuto nel 1914 nel dibattito su Costantino e la sua eredità: Alfonso Manaresi. Già segnalato a Roma come sospetto di modernismo nel 1907, nel 1911 Manaresi era stato costretto a lasciare l’insegnamento di Storia ecclesiastica al Seminario di Bologna dopo la messa all’indice di un suo volume su L’Impero romano e il cristianesimo nei primi tre secoli. Da Nerone a Commodo (Roma 1910), pubblicato in una collana curata da Buonaiuti, con il quale Manaresi collaborò pure alla Rivista storico-critica di scienze teologiche. Nel 1919 Manaresi avrebbe dimesso l’abito talare, ma in precedenza, sotto la tutela e l’occhio vigile del suo vescovo, Giacomo Dalla Chiesa, aveva ripreso e completato lo studio iniziato. Egli pubblicò così un volume su L’Impero romano e il cristianesimo (Torino 1914), che fu risparmiato dai fulmini della censura e che si concludeva proprio con un capitolo incentrato su Costantino, significativamente intitolato La vittoria del Cristianesimo.
Senza attribuire alcun valore storico ai racconti leggendari delle visioni, dei sogni e delle guarigioni miracolose che avrebbero segnato la vita di Costantino, se non quello di riflettere efficacemente la mentalità dei suoi contemporanei e dei cristiani medioevali, a giusto titolo sedotti dal fascino del mito emanato dal suo successo politico-militare e dalla «rivoluzione» religiosa realizzata e senza neppure negare gli aspetti più controversi della vita dell’imperatore, Manaresi presentò «la figura enigmatica» dell’«iniziatore dei tempi nuovi» in termini sostanzialmente positivi, «poiché a lui, prima che ad ogni altro, l’umanità dovette il compimento della grande rivoluzione cominciata da Cristo». Nel presentare, infatti, il senso dell’editto di Milano, capovolgendo il punto di vista di Koch e di Salvatorelli, Manaresi precisò che l’intenzione di fondo dell’atto era consistita nel voler porre a base della legge «il concetto propugnato dal cristianesimo della distinzione completa fra politica e religione». Era lì il senso della «grande rivoluzione mondiale» compiuta dall’imperatore che, rinunciando al culto dovutogli, era giunto ad «ammettere la distinzione speculativa e pratica tra religione e politica» e aveva proceduto all’ormai improcrastinabile concessione della «libertà religiosa». Con la restituzione dei beni sottratti durante le persecuzioni ai cristiani, l’editto aveva poi fatto sì che la Chiesa fosse «pubblicamente considerata come un ente riconosciuto dalla legge, ben noto allo Stato, che ne apprezza l’importanza e ne vuole quindi innanzi tutelare la proprietà e i diritti». Riconoscendo quindi nella tolleranza concessa al culto pubblico del paganesimo un tributo astutamente pagato dall’imperatore alle «ragioni della politica», Manaresi osservò che, tuttavia, il divieto di compiere sacrifici privati era stato un «atto di intolleranza religiosa» e il preannunzio del fatto che il cristianesimo si avviava «esso, il perseguitato di ieri, a divenire il persecutore del suo nemico».
A spiegare la scelta decisiva del 312, oltre al calcolo politico di chi si era visto opposto a un rivale apertamente schierato nel campo del paganesimo, anche Manaresi individuò quale movente principale della scelta di campo di Costantino la «superstizione» di un soldato già assuefatto alla monolatria.
Pur mettendo in discussione la tesi del tradimento della parola data a Licinio di concedergli la vita salva dopo averlo sconfitto, Manaresi affermò che Costantino «nel suo regno si macchiò di colpe degne del tempo di Nerone»; ma pure l’ex professore del Seminario di Bologna, come Koch (il cui studio è annoverato nella bibliografia in calce al volume di Manaresi), chiamò a discolpa la mentalità – anche ecclesiale – dell’epoca: Costantino soppresse moglie e figlio, ma con l’approvazione dei cortigiani propensi all’adulazione e del clero «affetto dalla stessa malattia». Quindi neppure Manaresi mancò di individuare nel rapporto di sudditanza imposto ai vescovi dall’imperatore un dato che avrebbe negativamente influenzato lo sviluppo storico del cristianesimo sino al tempo di Luigi XIV, incoraggiando un modello episcopale «aulico, mondano», incarnato da «politicanti, adulatori, innamorati assai più del fasto della corte che della semplice vita episcopale». Ma anche più in generale, prima di concludere in termini positivi su Costantino – egli «rimane sempre il fattore principe della prosperità politica del cristianesimo» (dove la specificazione «politica» aggiunge una dissonanza rivelatrice della difficoltà personale dell’autore a tessere insieme l’elogio del «primo imperatore cristiano [ch]e per primo fece cristiano l’impero» e a riconoscere non secondari effetti negativi che lo stesso dato storico avrebbe comportato) –, Manaresi, sia pure con una certa misurata reticenza, non rinunciò a indicare le conseguenze negative della politica religiosa costantiniana: il cristianesimo entrò nella «vita comune e anche nella moda, e in breve ora il mondo intero, bene o male, fu convertito» e così, alla fine del IV secolo, se il mondo era ormai divenuto cristiano, alla sua volta il cristianesimo era diventato mondano. Chiusasi definitivamente l’età dei martiri e degli eroi, era incominciato il tempo dei cristiani d’occasione, gente che fino a ieri non aveva mai pensato ad una fede, ed oggi, visto che la fede poteva servire, fingeva di averla ed entrava nella Chiesa16.
Nel 1929 la storia d’Italia registrò l’incontro della Chiesa con «l’uomo della provvidenza», motivo già di per sé bastante a orientare l’attenzione degli storici sulla personalità e sull’opera di Costantino, che naturalmente non poté non motivare anche Ernesto Buonaiuti, vittima notoriamente designata del Concordato. Maestro e amico di grandi specialisti di vari ambiti degli studi storici italiani (come Nicola Turchi, Bacchisio Motzo, Alberto Pincherle, Raffaello Morghen, Ambrogio Donini, Giorgio Levi Della Vida), pur essendo ormai lontano dalla radicalità delle posizioni maturate con il rigetto immediato dell’enciclica Pascendi, ma senza aver mai intimamente rinnegato il progetto modernista di voler rinnovare la Chiesa romana, Buonaiuti trattò estesamente di Costantino e delle conseguenze da questi innescate nella storia della Chiesa.
Dapprima, Buonaiuti affrontò ampiamente la questione nel primo volume consacrato a La Chiesa romana (Milano 1933), quando ormai era stato definitivamente scomunicato e rimosso dai ruoli universitari per aver rifiutato il giuramento di fedeltà al regime. In quel lavoro, il più risoluto dei modernisti italiani indicò «la situazione pubblica della società cristiana» seguita alla conversione di Costantino come «insidiosa per il suo stesso successo». Infatti, il pregresso regime persecutorio aveva alimentato «l’esigenza vitale dell’unione», rendendo impossibili nei primi tre secoli cristiani le «fatali e irreparabili lacerazioni, che contrassegnarono invece l’epoca della così detta “pace” costantiniana». La persecuzione aveva inoltre anche rinsaldato «l’autorità morale e spirituale» della Chiesa di Roma agli occhi delle Chiese sorelle. Il passaggio «dalla condizione di religione proscritta a quella di religione ufficiale» se offrì quindi alla comunità romana e ai suoi vescovi «magnifiche possibilità», fece però subire al cristianesimo «un’alterazione così profonda» che, smarrito il senso dell’originaria incompatibilità con il potere imperiale, più che di conversione di Costantino, ritenne Buonaiuti, sarebbe stato «il caso di parlare più tosto di conversione del cristianesimo». Certamente, quindi, secondo il pensatore italiano, «l’editto di Milano ha avuto nella storia della spiritualità europea conseguenze di una vastità incalcolabile». Eusebio aveva individuato nell’«azione religiosa costantiniana l’attuazione del regno di Dio» e, in effetti, «la trasformazione dello Stato romano da pagano in cristiano, con lo spostamento della capitale a Oriente [...] doveva aprire alla comunità cristiana della vecchia capitale, orbata della sua burocrazia di corte, possibilità sconfinate di magistero e di tutela spirituale». Naturale quindi, che nel Medioevo, sino a Gioacchino da Fiore, la conversione di Costantino fosse apparsa come «l’avvenimento da cui il Vangelo aveva tratto le sue più vaste e trionfali capacità di attuazione». Sarebbero stati gli spirituali francescani i primi ad abbandonare tale prospettiva, non potendo sopportare quello che la leggenda «additava come il corollario immediato del battesimo di Costantino: la pingue donazione a Silvestro e il conseguente arricchimento della chiesa romana», solennemente biasimato nella Divina Commedia. In effetti, osservò Buonaiuti, già la «comunità cristiana precostantiniana aveva trovato il modo di possedere e di far riconoscere, in più di un’occasione, giuridicamente, i suoi possessi». Pertanto, la vera «grande novità» per la civiltà mediterranea introdotta dal «passaggio di Costantino alla croce» consisté nell’associare il Regno, che era originariamente il fatto di una minoranza, all’Impero, destinando quindi il cristianesimo «a divenire la religione della maggioranza, ad identificarsi anzi con la stessa cattolicità romana e imperiale», sostituendo così un universalismo «numerico» a quello «qualitativo» di san Paolo. Le «aspirazioni totalitarie, che sono retaggio immancabile della politica realistica», erano così venute ad annullare in radice gli effetti della «disseminazione della “grazia” nel mondo della profanità e delle tenebre». Fu l’Africa cristiana, con il donatismo, che provò a «riaffermare la validità della incompatibilità fra valori religiosi evangelici e valori politici». Inversamente, invece, di fronte «alla degenerazione razionalistica del mistero trinitario» costituita dall’arianesimo, che minacciò di ridurre il cristianesimo a «una funzione e un aspetto della vita civica», fu «l’ortodossia alessandrino-romana» a ribadire i «grandi valori mistici» che potevano creare «vincoli carismatici superpolitici», federando «gli uomini in una ecumenicità spirituale e superstatale». Roma sarebbe così assurta ad «arbitra nella diuturna contesa fra la nuova capitale orientale e la vecchia metropoli egizia, mal sopportante la sudditanza ad una sede imperiale di nuova formazione e aspirante soprattutto a una posizione di predominio». Spogliata della corte e dei supremi organi burocratici dello Stato, Roma ricavò «tutti i vantaggi» della nuova situazione, potendosi dedicare «all’opera di consolidamento di quella potestà primaziale nello Spirito, che la sua privilegiata posizione aveva meritato lentamente alla propria comunità cristiana, nei secoli della persecuzione». Agostino, con la teoria dell’opposizione delle due città avrebbe offerto un contributo decisivo, permettendo la «saldatura ideale fra il mondo mistico dell’esperienza cristiana precostantiniana e il mondo uscito dal passaggio dell’Impero al Vangelo». Anche il monachesimo avrebbe offerto un’importantissima riserva carismatica, una garanzia contro «l’accaparramento malsano di potenza e di privilegi». Cosicché, quando con Pipino e Carlomagno, «Roma creò l’Impero cristiano», fu allora una contraddizione meno stridente di quella in cui la società cristiana si era impegolata il giorno in cui aveva accettato la tutela o il favore di un imperatore che, inalberando il labaro, aveva però conservato il titolo di ‘pontifex maximus’. Ormai, a mezzo millennio di distanza dalla ‘conversione’ di Costantino, le funeste ripercussioni di quella iniziale, rivoluzionaria contraddizione erano state lungamente neutralizzate e sanate dalla nuova sistemazione che attraverso la sintesi agostiniana avevano trovato gli elementi componenti l’esperienza cristiana17.
Una più ampia disamina del regno di Costantino e degli effetti che ne seguirono fu successivamente offerta da Buonaiuti nella sezione relativa all’«evo antico» della Storia del cristianesimo (Milano 1941). Anche in questo lavoro, Buonaiuti ricordò che le Chiese cristiane, già in «età precostantiniana» avevano goduto di riconoscimento giuridico e avevano potuto amministrare beni materiali. La «rivoluzione costantiniana» consistette quindi piuttosto nel fatto che giungendo a svolgere la «funzione di religione di stato», il cristianesimo corse il rischio di regredire allo Stato antico della «civiltà mediterranea», quando valori politici e religiosi erano «strettamente associati»; significativa, in tal senso, secondo Buonaiuti, l’attitudine di Eusebio, «vescovo cortigiano», nei confronti del millenarismo di Papia, giudicato dal primo «parto di spiriti ingenui e puerili». Dopo aver quindi tracciato le tappe dell’evoluzione politico-religiosa di Costantino già illustrate da Batiffol e da Salvatorelli, con il passaggio dal culto erculeo, al monoteismo solare, fino allo scontro del 312, quando Costantino era ormai «cristianeggiante», Buonaiuti non mancò di segnalare i grandi meriti politici del sovrano. Anzi, egli ritenne di poter sostenere che l’iscrizione del monogramma cristico sugli scudi dei soldati a Saxa Rubra fu una decisione calcolata e previdente. L’editto di Milano istituì il «regime dell’universale libertà di coscienza», ma «si sarebbe automaticamente trasformato nel regime del privilegio e del predominio», quando l’imperatore volle fare «del cristianesimo e delle sue forze morali quello instrumentum regni che era stato fino allora il paganesimo». Come già aveva indicato Batiffol, la data del 317, con l’elezione del labaro a stendardo ufficiale della cavalleria imperiale, nonché la testimonianza resa da una coeva coniazione di monete, avrebbero rappresentato anche per Buonaiuti «manifestazioni personali di fede cristiana compiute dall’imperatore». Del resto, la legislazione emanata successivamente, già registrata da Batiffol, avrebbe conferito ai cristiani una «magnifica posizione di privilegio», dimostrando la volontà di Costantino di «trasformare al più presto, mercé privilegi e favori, la minoranza in maggioranza». Lo scopo di tutto erano «finalità politiche immediate»: l’unificazione imperiale e l’accaparramento dell’Oriente di Licinio. Realizzato questo programma, unificato l’Impero sulla base del collante religioso cristiano, ne sarebbe seguito un permanente «conflitto fra politica e religione» che avrebbe conferito un «carattere di aspra e combattuta drammaticità alla storia del fatto cristiano» e la «storia della civiltà mediterranea sarebbe stata d’[all]ora in poi la storia del contrasto fra Cesare Augusto e i rappresentanti del Maestro galileo». I conflitti dottrinali del IV secolo furono quindi letti da Buonaiuti come scontri d’interessi politici: i donatisti espressero le aspirazioni autonomiste degli africani. Costantino poté progressivamente godere di «un certo diritto d’intervento nelle cose ecclesiastiche», cosa che riuscì «straordinariamente gradita alla sua volontà di governo totalitario», arrivando a inaugurare le persecuzioni religiose di un «partito cristiano» giudicato «sovversivo», rispetto a un altro «riconosciuto e favorito». Come già aveva fatto Salvatorelli, anche Buonaiuti, richiamò l’esigenza di dimenticare l’«oscuro dramma» familiare consumato in Italia e l’esigenza di difendere militarmente l’Impero quali motivi del trasferimento della capitale a Bisanzio. Qui il sovrano si adoperò perché la «regalità terrestre» potesse assurgere a «immagine e riflesso della regalità divina», mentre paradossalmente, «abbandonata al suo destino, spogliata della sua effettiva capacità di capitale, Roma poté prendere la sua rivincita realizzando una divisione di poteri che sarebbe stata la genesi e l’elemento connettivo del medioevo occidentale», essendo così in grado di assurgere alla «dignità di città cristiana per eccellenza». Costantinopoli ebbe però anche un importante ruolo storico positivo, perché «salvò tesori inestimabili», riconsegnandoli «più tardi in eredità alla civiltà rigenerata dell’Occidente». Anche l’arianesimo, che «laicizzava senza pietà il cristianesimo», espresse, secondo Buonaiuti, esigenze vive della società orientale e la rivalità tra l’Egitto e la nuova capitale e solo l’iniziale «scarsa familiarità di Costantino con le popolazioni orientali» determinando la vittoria dell’ortodossia alessandrina a Nicea, prescelta, sempre secondo lo storico, come sede del concilio, perché «i vescovi si sarebbero trovati sotto pressione della vicina corte imperiale». «L’impero totalitario» avrebbe successivamente rimediato, attingendo alle idee dell’arianesimo che offriva soprattutto un terreno concorde di difesa a quei ceti cristiani ai quali la conversione di Costantino offriva l’auspicato destro d’inserirsi in pieno nell’organismo statale, con tutti i vantaggi materiali e con tutti gli accomodamenti spirituali che la convivenza e la collaborazione con lo Stato importano in ogni luogo e in ogni tempo, per conseguenza infallibile18.
Rifiutando quindi tanto la lettura puramente machiavellica dell’azione di Costantino offerta da Burckhardt, quanto la leggenda cristiana eusebiana, Buonaiuti concluse sostenendo che l’imperatore era stato «un politico astuto e accorto»: aveva evitato rigide intransigenze e non aveva esitato a fare «mille concessioni al paganesimo», ma soprattutto, nella storia del cristianesimo «ha segnato una data fatale, perché ammettendo la legalità del Vangelo, che in tutto il suo contenuto sociale è separazione di valori politici dai valori religiosi, ha iniziato un ciclo di civiltà, in completa difformità della mentalità del Cristianesimo antico».
Assurta a ridosso dell’apertura del concilio Vaticano II a modello paradigmatico quale «complesso mentale e istituzionale nelle strutture e nei comportamenti e sin nella spiritualità della Chiesa e non solo di fatto, ma come un ideale»19 determinato dalle iniziative del primo imperatore battezzato, l’«era costantiniana», di cui Dominique Chenu, confortato da alcuni pronunciamenti dell’episcopato della storiografia tedeschi, ritenne di poter intravedere i segni dissolutivi20, era certamente già stata individuata come «una nuova Era» segnata da pesanti condizionamenti del potere politico e della mentalità mondana nella vita della Chiesa (Turmel), con il conseguente disastro dell’«ecclesialità costantiniana» (Koch) e l’avvio di un «ciclo di civiltà» difforme dal messaggio cristiano delle origini (Buonaiuti). È quindi possibile sostenere che i modernisti francesi, tedeschi e italiani si fecero vettori di una visione critica degli effetti prodotti dalle iniziative di Costantino, che avevano suscitato perplessità già fra i loro più diretti referenti culturali nel XIX secolo, contribuendo a preparare quell’attesa per il superamento del modello di cristianità espressa da Chenu e vissuta anche fra i vescovi, in limine al Vaticano II. Inoltre, così come relativamente a tutta una serie di questioni dibattute durante il pontificato di Pio X è stato possibile distinguere la tendenza di un modernismo radicale da un progressismo cattolico di novatori che ebbero la premura di comporre con la tradizione, senza operare drastiche rotture, le legittime esigenze proprie delle novità imposte dal rinnovamento dei saperi e dei rapporti sociali e politico-religiosi, allo stesso modo, anche limitatamente alla valutazione della persona e dell’opera di Costantino, vi furono personalità che, malgrado qualche incoerenza nelle iniziative intraprese dall’imperatore e nonostante le colpe commesse alla fine del regno, ritennero di poter assolverlo dall’accusa di aver instaurato una religione di Stato e anzi, ne apprezzarono le intenzioni e la capacità di offrire al cristianesimo un «regime di libertà privilegiata» (Batiffol), decretando così la storica «vittoria del cristianesimo» quale compimento della «grande rivoluzione cominciata da Cristo» (Manaresi), pure a dispetto dell’offuscamento della purezza della testimonianza di fede derivatane fra il popolo cristiano e la gerarchia ecclesiale.
1 Su tutto questo cfr. Cristiani d’Italia, a cura di A. Melloni, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2011: G. Losito, Il ‘modernismo’ e la sua repressione, pp. 237-245; Id., Le eredità/2: I postumi della crisi modernista (1914-1958), pp. 1295-1314.
2 Non meraviglia quindi che sulla questione oggetto del presente studio non esista ancora bibliografia critica specifica.
3 Gli articoli sono raccolti in P. Guéranger, Essais sur le naturalisme contemporain, Paris 1858.
4 Si veda il contributo di J. Wischmeyer in questa stessa opera.
5 Cfr. L. Duchesne, Les Origines chrétiennes. Leçons d’histoire ecclésiastique professées à l’École Supérieure de Théologie de Paris, Paris s.d.
6 A. Loisy, La Crise de la foi dans le temps présent (Essais d’histoire et de philosophie religieuses), éd. par R. Ciappa, F. Laplanche, Cl. Langlois et al., Turnhout 2010.
7 Cfr. J. Turmel, La vision de Constantin, in Revue du Clergé français, 48 (1906), pp. 518-526.
8 Cfr. J. Turmel, L’invention de la Sainte Croix, in Revue du clergé français, 50 (1907), pp. 525-535.
9 Cfr. J. Turmel, Constantin et la paupauté, in Revue catholique des églises, 3 (1906), pp. 65-79 e 204-217.
10 Nel terzo volume della Histoire des dogmes (relativo a La Papauté, Paris 1933), pubblicata da Turmel dopo la scomunica, riprendendo in sintesi le tesi già esposte nel 1908, lo storico bretone si limitò solo a insistere sulla sommarietà delle competenze di natura cristologica dell’imperatore quando questi si accinse ad affrontare la questione dell’arianesimo, sui motivi «d’interesse personale» che indussero il vescovo Alessandro d’Alessandria a convertirsi alla tesi dell’homoousios propostagli da Ossio e sull’iniziale diffusa ostilità dei vescovi orientali riuniti a Nicea nei confronti di questa stessa nozione cristologica. Nel secondo volume dell’opera (1932), nella sezione relativa al dogma della Trinità, Turmel aveva già esplicitamente presentato il cambiamento di statuto ecclesiale avvenuto con Costantino da federalista a monarchico. Turmel dichiarò che la scelta di campo del 312 non derivò da una reale conversione, ma fu l’effetto della credulità nel potere eminente del dio dei cristiani su quello degli dei del paganesimo; Turmel sostenne quindi che Costantino non si era lasciato assegnare un posto nella Chiesa e neppure aveva esitato a intraprendere «azioni di polizia» nel santuario per riportarvi l’ordine e rimettere i vescovi «sul sentiero della verità», identificata con lo stesso «sentimento dell’imperatore, quello che i suoi confidenti erano riusciti a mettergli in testa». Radicalizzando insomma solo l’espressione di un pensiero già da tempo delineato, Turmel si limitò, tra l’altro, a ironizzare sulla mancanza di vocazione al martirio dimostrata a Nicea da Eusebio di Cesarea.
11 J. Wittig, Das Toleranzreskript von Mailand 313, in Konstantin der Groβe und seine Zeit, hrsg. von F.J. Dölger, Freiburg im Breisgau 1913, pp. 40-65.
12 Koch seguì quindi su questo punto la lezione di Boissier e di Seeck.
13 L. Salvatorelli, La politica religiosa degl’imperatori romani e la vittoria del cristianesimo sotto Costantino, in Id., Saggi di storia e politica religiosa, Città di Castello 1914, pp. 101-124.
14 Era stata la tesi sostenuta nei volumi relativi alla storia dell’età imperiale di V. Duruy, Histoire des Romains, 7 voll., Paris 1879-1885.
15 Si veda, ad esempio, L. Salvatorelli, La Chiesa e il mondo, Roma 1948, p. 28, in cui l’autore ribadì il concetto che con Costantino si era arrivati «al pieno riconoscimento della Chiesa come ente giuridico, alla prima alleanza fra trono e altare e alla Chiesa d’Impero», precisando pure che «con ciò, era piuttosto la Chiesa ad essere inclusa nello Stato che non viceversa». Tuttavia, la lotta contro l’arianesimo, la stessa fondazione della nuova capitale Costantinopoli e, più tardi, il crollo dell’Impero d’Occidente avrebbero permesso alla Chiesa di Roma di sottrarsi all’immediato controllo del potere imperiale e di mantenere una coscienza autonoma, mentre la nascita del potere temporale, con l’assunzione della regalis potestas entro i confini del Centro-Italia da parte del pontefice, sarebbe venuta solo più tardi, nello sviluppo del corso storico compreso fra Giustiniano e Carlo Magno, quando venne pure elaborato il «famoso apocrifo» della donazione di Costantino. Salvatorelli finì quindi con l’elaborare una visione che radicalizzava l’interpretazione storicizzante di Costantino e della sua opera, ma che autorizzava pure una valutazione non troppo negativa degli effetti derivati nell’immediato sviluppo della storia del cristianesimo latino.
16 A. Manaresi, L’Impero romano e il cristianesimo, Torino 1914, p. 549.
17 E. Buonaiuti, La Chiesa romana, Milano 1933, pp. 89-90.
18 E. Buonaiuti, Storia del cristianesimo, 3 voll., Roma 2002, p. 183.
19 Cfr. M.-D. Chenu, La fin de l’ère constantinienne, in Un concile pour notre temps, Paris 1961, p. 61.
20 Cfr. G. Zamagni, La “Fine dell’era costantiniana”, in Cristianesimo nella storia, 29 (2008), pp. 113-138.