Abstract
Dopo alcuni spunti di carattere generale sul diritto costituzionale nelle chiese cristiane, specifica attenzione è portata sulla costituzione odierna della chiesa cattolica, e sulle contraddizioni in questa formazione sociale introdotte con la codificazione del diritto canonico del 1917. Se ne evince (a meno di un tranquillante, esplicito chiarimento di vertice sull’intento della Sede apostolica di rispettare, d’ora in poi, “diritti” dei fedeli pur enunciati in inutili elenchi) la insussistenza, a tutt’oggi, di qualche forma di tutela giurisdizionale adeguata ai principi generalmente osservati negli ordinamenti liberaldemocratici e nelle confessioni evangeliche e riformate, atta a rendere “giustiziabili” non solo gli interessi legittimi dei soggetti, ma anche gli stessi loro diritti subiettivi, perfino fondamentali. Davvero si direbbe, forse anche per influsso dell’ideologia infallibilista dominante nella cultura del governo ecclesiastico a far tempo dal sinodo Vaticano I, che pure in ambito canonistico compito prevalente della ricerca costituzionalistica sia quello di rafforzare al massimo la macchina del potere; piuttosto che porgere ascolto ai valori evangelici emergenti, magari allo stato inespresso e/o inadeguato, nella cultura e nelle aspirazioni del popolo cristiano.
Pur trovando frequentemente connessa l’esperienza religiosa con quella di una comunità storica, capita di rado di imbattersi in un contesto culturale, nel quale il fenomeno presenti connotati tanto marcati, come nel giudeo-cristianesimo. Qui, infatti, l’idea della guida è, sotto le forme più varie, un archetipo essenziale della soteriologia; rispetto ad esso il ruolo profetico risulta solo complementare e per molti versi equilibratore. Dal punto di vista storico-costituzionale, comunque, la successione dei fenomeni interessati dall’evoluzione di tale sistema ha principio nell’arco dei dodici secoli che precedono la Magna Charta libertatum, sottoscritta da Giovanni Senzaterra, e continua in parallelo al regno di questo ultimo sovrano teocratico della storia britannica. Prima di essa erano, comunque, trascorsi i quattro millenni della storia di Israele, alla tradizione sacra del quale pertineva la pretesa teocratica d’essere stirpe eletta, “benedetta da Dio fra i popoli”.
Sul fondale di un Israele ormai ellenizzante, integrato nel sistema imperiale romano di dominio, la figura di Gesù si presenta come quella di un ebreo rigoroso e appassionato, e al tempo stesso di un maestro dello spirito, preoccupato che il rischio del prevalere di una ricerca esasperata di condizioni di purità legale ‒ volta a differenziare gli eletti dai rifiutati – porti la sua comunità a sottovalutare l’intimità della coscienza e quella “purezza del cuore” (i pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno dei cieli) di cui i vangeli con discrezione non mancano di sottolineare la presenza in alcune figure-simbolo estranee al popolo eletto (il centurione, la cananea). Un atteggiamento, questo, che lo induce da subito a una netta relativizzazione della stessa dimensione del Tempio: “ovunque due di voi siano uniti nel mio nome, io sono in mezzo ad essi”.
Va quindi ponderatamente ripensata, per essere bene intesa, l’idea corrente secondo la quale Gesù avrebbe “fondato” la Chiesa, come corpo giuridico pubblico. Più verosimile apparendo la tesi d’una sua personale missione istituente limitata a una riforma interna all’ebraismo storico, a seguito del cui fallimento la comunità dei discepoli avrebbe poi finito per assumere alcuni principali contenuti della predicazione di Gesù come normativi per la propria esperienza, modificandoli poi nel tempo sia con l’approfondirne il significato dottrinale, sia attraverso il loro confronto con le contraddizioni concrete del “mondo”, che l’insieme delle comunità dei convertiti andava attraversando nella sua esperienza successiva. Atto, questo (o meglio, insieme progressivo di atti), decisamente costitutivo di una fase ulteriore, interamente post-pasquale, e come tale consegnata alla guida dei testimoni più affidabili; nel cui orizzonte l’anteriore scelta dei Dodici e di un Primo in un contesto di comunione e di servizio ai discepoli (che risponde al modello parenetico di una pedagogia del potere diversa da quella del mondo) assume un significato che si colora ‒ secondo un principio essenziale dell’ermeneutica generale – di connotazioni più o meno largamente integratrici di quelle originarie. In una parola, la decisione di dare la forma solidale, organizzata, societaria che conosciamo al “vi mando come pecore tra i lupi” non può non appartenere interamente alla risposta storica del gruppo apostolico, e dei discepoli in comunione con esso durante il suo progressivo scomparire (come mostra la lettera di Clemente romano ai Corinzi), alla chiamata ricevuta.
Del resto, la recente esegesi biblica legge ormai la Chiesa nella dimensione della pentecoste, nel segno cioè degli eventi operativi dopo l’avvento messianico, per conferma dello Spirito inviato da Gesù sui suoi discepoli come memoria, e annuncio “con potenza” del suo Regno. Sembra quindi che solo nella fase apostolica e subapostolica dell’esperienza cristiana venga ad essere operante nella Chiesa, per la prima volta, un potere costituente che opportunamente ne modelli il profilo organizzativo: sia pure ovviamente rifacendosi, a copertura, ad un’attenta selezione di quegli acta et dicta Christi, che se non erro una dottrina recente individua come atto-fonte dell’istituzione cristiana (così Gherro, S., Principi di diritto costituzionale canonico, Torino, 1992).
Il che oltre tutto concorre a spiegare come mai le fonti bibliche di gran lunga più pertinenti sul terreno della ricostruzione – anche sul terreno giuridico – dell’orizzonte della chiesa primitiva siano, anziché i vangeli, gli atti e le lettere degli apostoli. Elementi innegabilmente ecclesiali, cui fanno però seguito eventi inauditi, distruttivi della cristianità non meno di quelli seguiti all’inganno, con cui Alarico si era impadronito di Roma; se è vero che i crociati a guida veneziana dirottarono di sorpresa una spedizione anti-islamica verso Bisanzio (la “seconda Roma”): impadronendosi d’un tratto (con empia frode) della metropoli di Costantino e abbandonandola a un saccheggio in tutto simile a quello dei Goti in Occidente; e, nell’invadere numerose province dell’Oriente cristiano, scacciandone i vescovi ortodossi e sostituendoli nel governo delle loro diocesi con vescovi latini.
Dal suo primo intervento in poi, già in fase apostolica non è difficile individuare veicoli di decisione politica sottratti alla dimensione dottrinale, e piuttosto atti di esercizio di un potere costituente della primordiale comunità di Gerusalemme: a cominciare dalla cooptazione di Mattia (AT., I, 26) fino alla cauta, prudente accettazione degli insegnamenti di Paolo, con l’avvertenza pastorale che possono riscontrarvisi «punti difficili a intendersi» (II PT., 3, 15); per non parlare della salomonica presa di posizione del c.d. concilio di Gerusalemme sulla questione dei giudaizzanti (AT., 15, 1 ss. ).
Ma quel che interessa particolarmente sono le modalità adottate, in vista del rapido declinare dell’età apostolica, per la sopravvivenza di qualche forma di ministero gerarchico sostitutivo della missione degli Apostoli: l’istituzione, in particolare, dell’episcopato, sia pure – per tutto il tempo delle persecuzioni – destinato a convivere con altri ministeri e carismi rampollanti dall’entusiasmo spirituale delle comunità, con notevole incidenza di fatto sul governo di questa, e sul consenso delle chiese locali alle linee di governo pastorale attuatevi. Istituto, questo dell’episcopato, sicuramente rafforzato dal bisogno di identità delle chiese nei settanta anni del catastrofico infuriare delle guerre giudaiche, fino al ristabilirsi graduale di una certa armonia fra giudaismo e impero con lo stabilizzarsi della diaspora.
In questa fase, è ancora facile riscontrare una viva, e talora conflittuale dinamica tra vescovi e diaconi, o con altre figure eminenti nella chiesa, soprattutto con i confessori (quelli che avevano testimoniato la loro fede avanti ai persecutori, scampando al supplizio), a proposito della facoltà di assolvere i lapsi dal delitto di apostasia. Dai detti fenomeni ci sembra agevole evincere il configurarsi frequente, nella storia ecclesiastica, di una dialettica che ha tutti gli aspetti di un confronto pluralistico tra forze politiche (si pensi ad es. all’enorme influenza dei centri monastici d’Oriente e di Occidente), in vari modi confluenti a sostenere, spesso iuxta modum, gli indirizzi e le direttive gerarchiche, sullo sfondo di un’attenzione assidua al problema di fondo di un armonizzarsi necessario fra dissenso e comunione.
Una volta integrato l’episcopato nel sistema delle magistrature imperiali, una nuova dinamica (con note di maggiore autoritarismo) si manifesta, sullo sfondo di una generale evoluzione moltitudinista, nelle relazioni intergerarchiche: con la nascita della Pentarchia (struttura di collegamento federativo tra le grandi aree ecclesiastiche dell’impero costantiniano) e la traslazione del primato petrino in quello del vescovo di Roma, in dialettica con le pretese ecumeniche del basileus bizantino e del suo patriarca. Notevoli ne sono le conseguenze in termini di equilibrio tra le forze politiche in campo, che talvolta portano a bilanciamenti tra esse concordati, tal’altra a lente erosioni di questi per il tramite di usi costituzionali frattanto invalsi (netto il segno dell’apparire a Bisanzio del Syntagma del patriarca Fozio, importante compilazione del diritto canonico bizantino), più di rado ad interruzioni unilaterali dell’assetto di rapporti stabilito tra l’indebolirsi di Bisanzio nel Mediterraneo sotto la pressione araba e il premere in Italia, sugli insediamenti longobardi, di una regalità germanica che dichiara fedeltà al papato, quale elemento inseparabile dall’egemonia della potenza carolingia. Lo scisma d’Oriente (1054), frutto dell’aspirazione della Curia papale ad emanciparsi dal giogo bizantino-ortodosso, segna la fase di passaggio costituente di gran lunga più drammatica per l’unità cristiana, connessa all’inizio di una clamorosa fase di crescita del primato di Roma nella chiesa latina. Di questa scissione catastrofica (il principio extra ecclesiam nulla salus era stato sancito contro i Greci nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII) il concilio Tridentino può considerarsi piena ratifica e compimento dopo il consumarsi dello scisma protestante ed il suo contenimento sul limes fortificato della c.d. Controriforma. Ma nella visione di Mario Falco, che qui si condivide, l’irresponsabile abbandono unilaterale, con buona pace della conferenza missionaria mondiale di Edimburgo (1910), di quello Jus decretalium che manteneva l’unità (parziale) delle fonti canoniche di Oriente e di Occidente, lascia all’inizio del Novecento, nella storia delle chiese, un segno gravemente antiecumenico, che prende data dalla promulgazione del Codex iuris canonici, verso la fine del primo conflitto mondiale.
Vera in tesi, l’idea di sapore giusnaturalista della derivazione del diritto canonico dal diritto divino è messa particolarmente alla prova nel diritto costituzionale; dove come s’è visto incontra, da ambo le parti della rottura tra le chiese, la sfida dell’unità rifiutata. Qui l’asserita derivazione incontra una limitazione storica alla vigenza di un suo principio “supremo” (Ut unum sint), che non risulta allo stato canonizzabile nell’Occidente latino in seguito all’irrigidirsi del suo ordinamento, così come definito in quel codice Gasparri che, dal 1917 in poi, segnava la fine di ogni ipotesi alternativa, dopo la grande synodus costantiense convocata dall’imperatore Sigismondo, di uno sviluppo per recompilationes del diritto canonico moderno; per lo meno a stare nella linea di pensiero espressa in un recente saggio di Lorenzo Sinisi (Sinisi, L., Oltre il Corpus iuris canonici, Soveria Mannelli, 2009). Peccato che dal campo di ricerca di questo Autore sfugga attenzione adeguata al fenomeno del “derecho indiano”, foriero d’una proposta giurisprudenziale di reinnesto ex aequitate dello “jus gentium” romanistico nell’umanizzazione del trattamento dei popoli assoggettati all’impero castigliano a seguito della Conquista; suggerendo che la genuina ratio delle Bolle alessandrine, se interpretate iuxta fidem, escludesse ogni violenza sui vinti, cui restava il libero esercizio dei diritti goduti anteriormente alla sconfitta bellica, inclusi proprietà e possesso. Tesi sgradita tanto alla Curia quanto agli encomenderos intenti alla “destruccion de las Indias”: disdegno espresso anzi ufficialmente, con la messa all’Indice dei libri proibiti dell’Opus magnum di un giurista di universale celebrità, quale Juan Solòrzano Pereira. Di qui, di fronte ai rischi di un’irrimediabile, precisa deriva autoritaria del sistema legislativo, il tentativo di ricontestualizzarne le formule apodittiche in un ultimo sforzo organico di storicizzarne i presupposti attraverso una visione nuova, più pastorale, del principio della salus animarum: suscettibile di condurre a un adattamento equitativo nuovo della categoria dell’unità delle chiese, adeguato alle condizioni storiche di sviluppo di tale principio in un momento in cui l’idea di una loro communio tendeva ad assimilarsi alla mera, violenta annessione coloniale del più debole, da parte del più forte.
Questo movimento verso una storicizzazione parallela della teologia e del diritto canonico sta alla base della c.d. natura pastorale del concilio Vaticano II, se è vero che con tale espressione si è tentato di delineare una specifica forma ecclesiastica della politica. Non a caso, in questo secolo la preoccupazione pastorale cattolica ha assunto le forme dell’aggiornamento, ponendone l’obiettivo al centro di una strategia di riforme prefigurata, seppure in modo generico, fin dalla convocazione conciliare.
Può ben dirsi, a questo punto, che l’approccio epistemologico del nostro tempo si è spostato, negli studi di settore, da una ricostruzione sistematica dei vincoli tracciati sugli a priori del passato, alla integrazione di questi ultimi in una ermeneutica del presente, e del futuro. Né tale mutamento dell’angolo di osservazione è stato neutrale, se è vero che ha aperto una fase di destabilizzazione graduale del sistema ecclesiastico, la cui portata appare ancora tutt’altro che definita.
La convocazione del Vaticano II si iscrive, così, all’interno di una resa dei conti tra le forze culturali che il mutamento appena descritto andavano prefigurando e quelle che di alcune istituzioni di controllo centralistico della Curia romana costituivano da secoli l’essenziale supporto ideologico: una resa dei conti che, determinando il crollo e il dissolvimento delle antiche vedute, inevitabilmente dava luogo alla delegittimazione in tempi brevi di quelle istituzioni, a cominciare dal vecchio S. Uffizio.
Come è ovvio, un’operazione di queste dimensioni non avrebbe potuto avere successo, neanche iniziale, se non avesse potuto contare sull’aggregazione congiunturale di un blocco di rivendicazioni a tutto campo, tale in breve tempo da rendere possibile la creazione di un nuovo sistema di alleanze che poté contare fra l’altro, oltre che sulla neutralità di Paolo VI, sul convinto appoggio ad essa di una parte decisiva dell’episcopato riunito a concilio. Sicché, in termini di bilancio dell’evento, non sembra azzardato parlare dell’instaurarsi progressivo, in termini sovrastrutturali e strutturali, di una nuova costituzione materiale nella chiesa cattolica, tesa a purificarla dalle troppe deviazioni penetratevi attraverso le vicende della storia; per ricentrarla sul mistero trinitario e sulla preminenza rinnovata dell’idea di un popolo indigente e peccatore, redento da Dio a partire da un momento messianico, profondamente innovativo, della fede d’Israele. Qualcosa di simile, in una parola, al tentativo di introdurre in Egitto una significativa, ma precaria eclissi del politeismo, avvenuto intorno al culto del dio Aton (rappresentato come disco solare) ad opera del faraone Amenofi IV (poi Akhenaton), sposo di Nefertiti; tentativo frustrato dalla potente casta sacerdotale, il cui prevalere venne favorito alfine dall’inevitabile cedimento del loro erede fanciullo Tutankhamon, soggiogato da un consiglio di reggenza espresso dai fautori della tradizione e, insieme, protagonista di quella fase di espansione imperiale che fu detta Nuovo Regno, con capitale a Tebe.
Un tale ritorno al passato era oggi invece impensabile nella teocrazia cattolico-romana, dopo il Rinascimento, la Riforma, l’Illuminismo e la fine del potere temporale. Eppure, una reazione in forma controrivoluzionaria vi fu, nella successione ai papi del Concilio di due pontefici intrisi di devozione per l’antico stato delle cose.
Bloccato bruscamente per un trentennio sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, il rinnovamento conciliare, forse perché contrastato meno duramente dal suo successore, sembra finalmente aver ripreso vitalità sotto il papato di Francesco I; il quale incontra però, nella sua Curia e nello stesso collegio cardinalizio, tenaci difficoltà quotidiane nel metterne in pratica coerenti linee di attuazione. I profili di identificazione dell’innovazione in atto, e dunque i suoi stessi confini, risultano per lo più, al momento, tutti in corso di modellamento da parte di un potere costituente ad ogni passo inceppato dai molti (e potenti) avversari delle riforme. Fra questi profili, deciso e non scevro di conseguenze politiche, non solo sul piano simbolico, appare quello della scelta di un nome che, nella storia religiosa occidentale, rappresenta un crinale povero e non violento, aprendo scenari decisamente nuovi su una sorta di alleanza obbligata del papato con gli sfruttati e gli oppressi della storia.
Accade per la costituzione della Chiesa qualcosa di simile a quanto avvenuto per quella del Regno Unito. I materiali costruttivi vi si sono sedimentati per secoli, in occasione degli apporti più significativi del potere costituente, sia direttamente che tramite l’interpretazione dei giuristi (regola dello stare decisis); e a questi si è man mano aggiunto il contributo integrativo del potere costituito, in forma talora ufficializzata per iscritto, talora disciplinata da convenzioni tra gli organi costituzionali, man mano consolidate dall’uso. In congiunture di accelerazione storica del mutamento (come l’attuale?) è possibile rintracciare, in materiali del genere, documenti rappresentativi della costituzione ideologica dell’epoca, come accade per i Dictatus papae.
D’altronde, la prassi dei concili generali dell’età umanista propone, sullo sfondo di un papato monarchico di foggia gregoriana, il modello di convocazioni parlamentari qualificate dallo stato d’eccezione, e dunque dotate di uno spessore politico inconsueto rispetto alla normalità sinodale. È il caso del concilio di Costanza (come, d’altronde, del Lungo parlamento di Cromwell): connotato da un’assunzione a tempo di pieni poteri – incluso quello di Alta corte deputata all’impeachement – per un periodo rigorosamente circoscritto a quello indispensabile per il ripristino della funzionalità normale del vertice pontificio.
Qualcosa di simile si verificò - ma in senso inverso - al tempo del Tridentino, con quella riforma della Curia sistina che svuotò di ogni potere il concistoro, sottraendo ai cardinali un ruolo storico di partecipazione collegiale al governo della Chiesa; e, al tempo stesso, concentrando nelle Congregazioni il potere effettivo, aprì la via a quella soppressione della separazione dei poteri, che il card. Gasparri avrebbe poi compiutamente perfezionata con il can. 1601 del CIC del 1917. Quanto al tema della “rottura” della costituzione, occorre distinguere tra le illegittimità minori, destinate a riassorbirsi per adattamento e quelle avvenute su punti qualificanti l’identità del sistema, che già la dottrina medievale designava come incidenti sullo status generalis ecclesiae; in questa ipotesi solo la ratifica di maggioranze sinodali prossime all’unanimità si riteneva suscettibile di ricostruire il tessuto lacerato della communio.
Non disponendo il diritto pubblico canonico di una carta “fondamentale”, nel senso proprio delle costituzioni postbelliche, a tutt’oggi l’individuazione della materia costituzionale resta compito pressoché esclusivo della dottrina (un tale compito è stato affrontato anzitutto da Bertola, A., Corso di diritto canonico. La costituzione della Chiesa, Torino, 1958; cui seguirono dopo il concilio, con maggiore incisività, i rilievi di Hervada, J. e Lombardia, P., El derecho del pueblo de Dios, I, Pamplona, 1970, integrati per lo più da ricerche di particolare interesse in lingua spagnola. Cfr. Arrieta, J.I., El sinodo de los obispos, Pamplona, 1987; Del Portillo, A., Fieles y laicos en la Iglesia. Bases de sus respectivos estatutos juridicos, Pamplona, 1969; Viladrich P.J., Teoria de los derechos fundamentales del fiel, Pamplona, 1969; e Lariccia, S., Considerazioni sull’elemento personale nell’ordinamento giuridico canonico, Milano, 1971; per una interessante ripresa dell’utilizzo dello jus remonstrandi si veda Puza, R., La hiérarchie des normes en droit canonique, Rev. Dr. Can., 1997; utile la sintesi del Cardia, C., Il governo della Chiesa, Bologna, 1984).
Accogliendo la metafora di Romano sul diritto costituzionale come tronco d’innesto degli altri rami del diritto, Hervada sostiene che la costituzione della Chiesa (nel senso usato dal primo Schmitt, quindi come ordine ‘esistenziale’ della società) è da ritenersi integrata dal concorso degli «elementi giuridici che costituiscono l’insieme dei fedeli in una unità organicamente strutturata (…) e pertanto formano le strutture primarie e fondamentali attraverso cui il popolo di Dio come tale si forma, si configura e si organizza essenzialmente». Da tale centralità della costituzione H. deduce poi due principi tra loro legati: quello di prevalenza dell’ordine costituzionale su ogni altra norma e quello, conseguente, della necessità di armonizzare l’intero ordinamento giuridico con quello costituzionale.
Questa posizione massimalista porterebbe al superamento completo del “golpe” compiuto da Gasparri in pregiudizio della Rota, tra il 1917 e il 1923, con la soppressione della separazione dei poteri nel diritto canonico: soppressione cui la Segnatura e i giudici sottordinati (Rota compresa) fanno mostra ancora di prestare doveroso ossequio, nell’interpretazione corrente della LPSA. Una norma, quest’ultima, che si risolve senz’altro in un sistema di giustizia “negata” (perché “ritenuta” dall’esecutivo) come nel contenzioso per la Magna carta; e che per questo solo fatto, stando ad Hervada e salva l’insindacabilità degli atti politici, sarebbe palesemente incostituzionale.
A fronte dell’indeclinabile coerenza sui principi dei canonisti dell’Università di Pamplona, analoga coerenza antiautoritaria sarebbe stata desiderabile da parte della dottrina italiana. Ma la battaglia fu persa prima di cominciare, avendo quasi tutti i principali esponenti di questa scuola accettato di spostarla sul terreno dell’equivoca proposta curiale (de iure condendo) di introdurre una costituzione scritta per la chiesa: la Lex ecclesiae fundamentalis. Proposta che il più e il meglio della dottrina rifiutò, a torto o ragione sospettandovi un tranello dell’onnipotente potere esecutivo.
Così, il progetto di LEF venne ritirato, per essere a suo tempo reintrodotto tal quale nel nuovo Schema Codicis destinato a sostituire, sia pure a spezzoni, il CIC del 1917. La posizione dell’esecutivo non si era, a questo punto, spostata di un centimetro dalla soppressione (o meglio, concessione eventuale e del tutto graziosa da parte dell’autorità interessata) della tutela giurisdizionale dei diritti dell’individuo: espressione fin troppo eloquente della malafede dell’Autorità stessa. Situazione, di cui non risultano intenti di modifica da parte del legislatore, pur più volte sanzionato dalla giurisprudenza comunitaria e internazionale.
La giurisprudenza costituzionale italiana venne per la prima volta posta di fronte a questo problema a proposito della previsione, da parte dell’art. 34 del concordato del 1929, dell’adempimento di un impegno pattizio dello Stato a rendere esecutiva la pronuncia papale di divorzio di cittadini, nei confronti dei quali un’inchiesta diocesana avesse accertato il mero fatto della inconsumazione del matrimonio-sacramento. E la Corte sovrana dichiarò insussistente l’obbligo concordatario assunto, in quanto concernente una procedura, nella quale era impossibile riconoscere la sussistenza «di un giudice e di un giudizio». Garanzia questa irrinunciabile in tema di accertamenti concernenti lo stato delle persone; accertamenti, che non potevano essere delegati alla discrezionalità del potere esecutivo, come previsto dall’attuale can. 1141 del CIC.
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ebbe a sanzionare il governo italiano nel “caso Pellegrini”, per avere una sua Corte attribuito effetti civili ad una pronuncia non collegiale, con la quale un giudice ecclesiastico aveva dichiarato la nullità di un matrimonio tra cittadini italiani nella cornice processuale del peculiare processo documentale regolato dal can. 1686; sottraendo in tal modo una vertenza sullo stato delle persone alla plena cognitio propria del due process ed evitandone la celebrazione avanti al giudice naturale, in virtù dell’autorizzazione del solo vicario giudiziale.
Negli accertamenti di polizia preliminari all’esercizio dell’azione penale, il vescovo è dalla legge invitato (can. 1718) a trattare la notitia criminis al di fuori di uno stretto obbligo di mettere in atto le misure (medicinali, o vindicativae) previste dalla legge penale come commisurate alla gravità del reato commesso, nonostante la flagranza del medesimo. La punizione del reo è quindi solo eventuale, in quanto il vescovo è autorizzato a escluderla, differirla o sostituirla, nel concorso delle circostanze che seguono:
a) può escludere, allo stato, l’esercizio dell’azione penale “per gravi motivi”;
b) può ritenere, avendo esperito nei confronti dell’imputato altre misure di correzione morale e/o pastorale nel quadro del can. 1341, le misure stesse idonee a riparare lo scandalo eventualmente provocato e/o il danno eventualmente arrecato, oltre che a procurare la sincera emenda del reo;
c) può decidere di agire in via di repressione disciplinare, in alternativa al processo giudiziale;
d) in ogni caso, può mettere preventivamente il suo ufficio a disposizione delle parti, per dirimere in via sommaria ogni eventuale questione di danno, tramite arbitrato d’equità.
Variabili del genere sono senz’altro compatibili con la natura del rapporto di soggezione pastorale, ma sarebbe inammissibile che l’ipotesi di cui al punto c) potesse operare senza il consenso della parte interessata, in quanto il relativo cambio di rito comporterebbe senza dubbio una riduzione consistente delle garanzie di difesa dell’imputato.
Questo genere di facoltà alternativa del Superiore titolare del potere punitivo ha un suo precedente nella suspensio ex informata conscientia (can. 2180, CIC 1917), ma nella prassi delle Congregazioni se ne assiste, da allora, a un abusivo e sproporzionato dilagare, in pregiudizio soprattutto dei diritti della difesa.
È appena il caso di far cenno a quanto una tale divaricazione di principio dai sistemi di diritto penale dello Stato abbia nuociuto, anche senza concorso (così spesso odiosamente sospettato) di intento di omertà con l’abusante, all’immagine della Chiesa negli scandali scoppiati a seguito di fatti di pedofilia del clero.
Soprattutto, il persistere nella Chiesa di un assetto culturalmente diacronico rispetto ai valori di libertà e di partecipazione dell’individuo alla vita democratica crea difficoltà relazionali (talora di ordine pubblico e, quindi, insormontabili) nei confronti di richieste di collaborazione pattizia volte ad attribuire effetti civili agli atti autoritativi del sistema gerarchico ecclesiastico.
Fonti normative
Can. 1601 CIC 1917; Resp. 22.5.1923 Pontif. Commissio Interpres.; Can. 2180 CIC 1917; Cann. 208-221 del vigente codice 1983 per la chiesa latina; Cann. 1141, 1341, 1686, 1718 stesso codice. Ed infine LPSA-Legge propria per la Segnatura Apostolica, promulgata da Benedetto XVI col m.p. Antiqua ordinatione nel giugno 2008.
Profili giurisprudenziali
La prassi giurisprudenziale si è uniformata senza resistenze apprezzabili, dopo il CIC del 1917, al nuovo regime di subalternità all’esecutivo. Di qui la già descritta insussistenza – senza apposita deroga, magari papale – di un’autonoma facoltà d’agire del magistrato a tutela delle vigenti norme incriminatrici. La domanda di giustizia, in queste condizioni, si conforma alla superiorità degli interessi della cosa pubblica sul soggetto offeso, salvi i casi di giurisdizione commissoria affidati caso per caso al tribunale (di solito, la Rota), quando si ravvisino motivi di opportunità per rimettere la trattazione del caso a un organo “terzo”, rispetto ai dicasteri dell’esecutivo. Sotto Benedetto XVI, si è poi ricorsi alla previsione di un blocco di delicta graviora (in particolare in materia sessuale), da sottrarsi alle istanze ordinarie per deferirli a speciali istanze disciplinari e da punire con particolare severità, al di fuori delle più elementari garanzie di difesa. Quanto alla giustizia nell’amministrazione, mai è stata resa operativa l’istituzione di tribunali amministrativi decentrati (can. 1400, & 2 CIC 1983), resistendo strenuamente a questa riforma, pur sollecitata da più conferenze episcopali, il “tribunale” della Segnatura Apostolica: monstrum giuridico, questo, dotato di competenze legislative, giurisdizionali e di alta amministrazione in tema di ordinamento giudiziario.
Bibliografia essenziale
La letteratura, sterminata, copre autori, opere e intenti in una chiave di detto e non detto determinata dalle difficoltà di una censura sulla stampa durata fino al concilio Vaticano II e, in seguito, dalle opportunità incontrate dagli autori nella temperie del loro tempo e sotto il giogo di una censura “ufficiosa”, ma tuttavia fortemente condizionata dal riprendere, nel dibattito tra Chiesa e modernità, della lotta politica tra sinodalità e primato papale. Conviene quindi procedere per campioni rappresentativi di blocchi di interessi e di ideologia di riferimento.
AA.VV., El projecto de ley fundamental de la Iglesia. Texto y anàlisis crìtica, in Estudios ecclesiasticos, Pamplona, 1971; AA.VV., Storia dei concili, Cinisello Balsamo, 1995; AA.VV., Diritto “per valori” e ordinamento costituzionale della chiesa, Torino, 1996. Un giurista italiano, che seppe precorrere tempi, modi e inconciliabilità dell’antitesi tra libertà e autorità siffatte fu senz’altro Luigi De Luca; di lui meritano menzione: De Luca, L., Lo jus remonstrandi contro gli atti legislativi del pontefice, in Studi Del Giudice, Milano, 1952; De Luca, L., I diritti fondamentali dell’uomo nell’ordinamento canonico, in Acta cong. Int. Jur. Can., 1953. Posizioni incerte tenne invece il Fedele, P., Discorso generale sull’ordinamento canonico, Perugia, 1941, idee cui dopo il concilio rimase tutto sommato coerente. Diverso il caso di Lo Castro, G., Il soggetto e i suoi diritti nell’ordinamento canonico, Milano, 1985; o di Lombardia, P., Rilevanza dei carismi personali nell’ordinamento canonico, in Dir. Ecc., 1969. Antagonista consapevole degli interna corporis del sistema curiale Hasler, A.B., Come il papa divenne infallibile, Torino, 1982; sulla stessa linea, ma con più ampio respiro e determinazione critico-culturale, Lill, R., Il potere dei papi dall’età moderna a oggi, Bari, 2010: da considerarsi come un riassunto obiettivo dei termini e dei tempi della lotta politico-ideologica in atto nella Chiesa del postconcilio. Pure in tema, Zanchini di Castiglionchio, F., Chiesa e potere. Studi sul potere costituente nella Chiesa, Torino, 1992; Id. Costituzione della Chiesa, in Enc. Giur. Treccani, IX, Roma, 1998; da ultimo, con riferimento alle principali innovazioni costituenti del Novecento, Id., Dalla tirannide “benevola” del Bellarmino all’autocrazia burocratica del card. Gasparri. L’obiettivo segreto del CIC: cassare i “versetti satanici” incastonati nel diritto antico a riequilibrio dei rapporti fra centro e periferie del sistema: sì da poter osare le eversive innovazioni centralistiche attuali della costituzione della Chiesa, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2017, 42. Una posizione a parte merita, infine, la cd. “Scuola di Bologna”, nucleo di eccellenza organizzato intorno ad una ricerca storico-politica in senso forte sull’affermarsi, per poi entrare alfine in crisi (sotto il pontificato attuale), di una estesa alleanza di centri di potere curiale, eminenti nella resistenza anticonciliare alle tendenze dell’attuale pontefice, avverse senza tentennamenti alle rinnovate strategie di accentramento della Curia di oggi. Espressione monumentale della attività incessante di questa officina culturale internazionale è stata indubbiamente l’elaborazione critica di una Storia del Concilio Vaticano II, edita in cinque volumi, tra il 1965 e il 2001: uscita in doppia versione per Il Mulino a Bologna e per Peters a Lovanio, grazie all’impegno direzionale strenuo di Giuseppe Alberigo. Sul punto si veda pure, tra gli altri, Alberigo, G., Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II, Bologna, 2009. Singolare, infine, espressione di speranza ecumenica, gettata sul ponte della memoria di due millenni di storia conciliare, scritto con intelligenza politica e parole di fede militante, spes contra spem, è da ricordare il saggio di Sandri L., Da Gerusalemme I al Vaticano III. I concili nella storia tra Vangelo e potere, Trento, 2013.
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