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Crisi economica e democrazia

di Vivien A. Schmidt - ATLANTE GEOPOLITICO (2012)
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Vivien A. Schmidt

Uno sviluppo economico equilibrato è generalmente considerato, nel lungo periodo, un fattore che facilita il consolidamento di un sistema politico democratico. Al contrario, le crisi economiche – così come una crescita troppo rapida – sono state spesso associate all’indebolimento dei regimi autoritari. Meno studiato appare invece l’impatto delle crisi economiche sul funzionamento delle democrazie mature.

La crisi economica che ha perturbato l’economia mondiale tra il 2007 e il 2010 ha non soltanto avuto effetti negativi sulla vita economica dei cittadini, ma anche sulla loro vita democratica. I paesi che sono caduti sotto il controllo delle istituzioni economiche internazionali a causa di debiti insolubili, in cambio di prestiti per salvare la loro economia hanno accettato una diminuzione nella libertà di scelta delle loro politiche pubbliche economiche e nell’autonomia della loro gestione dell’economia. Per gli stati dell’Unione Europea (Eu), questo si è verificato non solo per i paesi che hanno chiesto aiuto al Fondo europeo di stabilità finanziaria (European Financial Stability Facility, Efsf), ma per tutti i membri della zona euro. Ed è qui che i problemi per la democrazia si moltiplicano.

Per molti paesi, la prima fase della crisi (2007-08) ha imposto ai governi la necessità di salvare le banche in pericolo a causa dei debiti insolubili legati ai prestiti immobiliari. Per certi paesi, quali Islanda, Lettonia, Romania e Ungheria, il crollo delle banche è stato troppo ingente perché i governi fossero in grado di gestirlo, e hanno dovuto richiedere l’aiuto del Fondo monetario internazionale (Imf), dopo essersi visti rifiutati dall’Unione Europea (che poi ha raggiunto l’Imf come junior partner). In paesi come questi, che si sottomettono all’autorità sovranazionale, la democrazia soffre perché le decisioni sulle politiche pubbliche sono dettate da un’autorità esterna che mette dei diktat sui governi, che questi devono accettare se vogliono ottenere i prestiti necessari per far funzionare il paese ed evitarne il fallimento. Qui, anche se la libertà di scelta diminuisce, la democrazia non è tuttavia a grande rischio, perché il governo eletto deve fare votare il pacchetto di misure dal parlamento, e i cittadini nelle seguenti elezioni possono votare per, o contro, il governo che ha negoziato il prestito e portato avanti una linea di austerità fiscale.

Nella seconda fase della crisi (2008-09), i governi sono dovuti intervenire per salvare l’economia ‘reale’ con un pacchetto di ‘stimoli’ pubblici per far ripartire l’attività privata. In questo caso la democrazia era pienamente in funzione, poiché i governi nazionali mantenevano il controllo e le istituzioni sovranazionali svolgevano semplicemente un ruolo di consulenza e di supporto nel coordinamento delle attività.

L’ultima fase della crisi, quella iniziata nel 2010 e relativa ai debiti sovrani, quando i mercati hanno attaccato le economie con i maggiori debiti e/o deficit pubblici, ha colpito più duramente i paesi della zona euro, e in particolare quelli nella periferia meridionale dell’Unione Europea, cominciando dalla Grecia nel maggio 2010, seguita dall’Irlanda nel dicembre 2010, e dal Portogallo nel maggio 2011. La risposta dei governi alla crisi della Grecia, anche se è avvenuta all’ultimo momento - in maggio invece di febbraio 2010, a causa delle reticenze tedesche - è stata un grande passo in avanti per l’idea di solidarietà economica e di ‘gouvernance economique’ del tipo invocato già da tempo dai francesi. Il grande prestito per la Grecia - gestito dall’Unione Europea con l’Imf come junior partner - è stato seguito rapidamente dalla creazione del Efsf, che doveva proteggere gli altri paesi del sud dal contagio greco e l’euro da un colpo fatale, e poi dall’accordo sul fondo permanente, il Meccanismo europeo di stabilità (Esm), che dovrebbe entrare in funzione nel 2013. Intanto, tutti i paesi della zona euro, seguendo la leadership della Germania e della Commissione, si sono messi d’accordo su una politica fiscale di austerità e su una gestione tecnocratica dei bilanci degli stati membri della zona euro - detto il Semestre europeo.

Per quanto riguarda la Grecia e l’Irlanda, lo scambio prestiti contro libertà di politiche economiche, come già avvenuto per i paesi dell’Europa dell’Est o l’Islanda, lascia la democrazia più o meno indenne. Il rischio verrà piuttosto da cause interne, in particolare dall’instabilità politica se la situazione non migliorerà a breve, e dal fatto che restare nella zona euro con questa politica di austerità potrebbe rallentare la crescita dell’economia. Ma per tutti i paesi della zona euro, questi ultimi inclusi, c’è un altro punto interrogativo: il nuovo Semestre europeo.

Se il Semestre europeo diventa un processo tecnocratico, con dei criteri macroeconomici abbastanza automatici come nel Patto di stabilità e crescita, applicati autonomamente dalla Commissione, e se è utilizzato come bastone per forzare i paesi ‘recalcitranti’ a seguire le indicazioni anche se contro la volontà del parlamento nazionale o del popolo, il Semestre sarà antidemocratico e, alla fine, inapplicabile. Se invece il Semestre europeo diventerà un processo più aperto, con dibattiti nel Consiglio europeo e nel Parlamento europeo su proposte della Commissione che tengano conto delle differenze tra i paesi in termini di profilo economico e dell’interazione economica tra i paesi europei, e se le raccomandazioni saranno discusse e votate - pro o contro - dai parlamenti nazionali nel quadro dei rispettivi dibattiti finanziari, allora la democrazia sarà assicurata al livello nazionale e accresciuta a livello europeo.

Questo tipo di governo economico – suggerito in maniera vaga nelle proposte della Commissione europea e del Consiglio –potrebbe assicurare maggiore democrazia nei processi istituzionali e nei dibattiti pubblici, creando più legittimità per l’Unione Europea come governo sovranazionale e forse, anche, un vero senso di solidarietà economica promosso da un controllo flessibile, che incoraggerebbe spese pubbliche più responsabili e meglio indirizzate verso una crescita sostenibile.

Vedi anche
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