Cristianesimo e Chiese cristiane
Il termine 'cristianesimo' designa l'insieme delle conseguenze storiche derivate dal sorgere del movimento cristiano in Palestina e dalla sua prima diffusione nel mondo mediterraneo: conseguenze che hanno influito in modo determinante sia sulle forme culturali della vita quotidiana, dell'arte e del sapere, sia sulle strutture fondamentali delle istituzioni politiche e della prassi economica. La molteplice azione del cristianesimo come modello orientativo per l'interpretazione del mondo e per la vita pratica ha inizio con la formazione della Chiesa cristiana, nata dalle comunità locali che veneravano il predicatore errante ebreo, Gesù di Nazareth, creduto il Messia per essere miracolosamente risorto dopo la crocifissione. Nell'impostazione organizzativa della Chiesa cristiana si manifesta il convincimento di un'autonomia di principio di tale credenza rispetto alla transitorietà del mondo terreno. L'idea di quest'autonomia ha segnato tutti i rapporti che il cristianesimo ha stabilito col mondo circostante nel corso della sua storia, come pure le sintesi di elementi della tradizione ebraica e di quella greco-ellenistica incorporate fin dagli inizi nella sua teoria e nella sua prassi. Nonostante le analogie con altre religioni e altri orientamenti culturali basati anch'essi sull'idea della trascendenza rispetto al mondo terreno, il patrimonio di credenze della fede cristiana ha creato, attraverso la formazione e la strutturazione della Chiesa, un centro d'azione del tutto peculiare sul piano sia storico che sociale.
Dalla distinzione tra 'Chiesa' e 'mondo' sono scaturite significative differenziazioni in tutti i campi della vita politica, economica, culturale e quotidiana con cui la Chiesa è venuta a contatto. Questa dinamica ha agito anche in seno alla stessa Chiesa, la cui storia sociale non ha mai presentato un'immagine semplice e unitaria, ma è stata caratterizzata da notevoli diversificazioni interne, gravide di conflitti e di conseguenze. Nell'ampia e fondamentale trattazione di Ernst Troeltsch (v., 1912) la tensione fra 'Chiesa' e 'sette' è considerata, con valide motivazioni storiche e sociologiche, come un carattere strutturale di fondo della storia sociale del cristianesimo. Il fatto che Troeltsch sia stato indotto ad affiancare ai due tipi fondamentali - la 'Chiesa' e la 'setta' - un terzo tipo, la 'mistica', sta a dimostrare che i primi due non arrivano a coprire la totalità della storia della fortuna del movimento cristiano.
Nel 1985 i cristiani erano un miliardo e mezzo, pari a circa il 32% della popolazione mondiale, di cui circa 880 milioni di cattolici, 360 di protestanti (inclusi gli anglicani) e 130 di ortodossi.La 'Chiesa' e le 'sette' in concorrenza con essa non coincidono con il 'cristianesimo' né sul piano storico-sociale, né su quello dei contenuti di fede. Del resto il concetto di cristianesimo ha assunto un valore autonomo solo nel XVII e nel XVIII secolo: sono stati i processi di modernizzazione e di differenziazione tipici dell'età moderna ad avviare la ricerca di una 'essenza del cristianesimo' che andasse al di là delle forme di organizzazione sociale della Chiesa e delle sette. In tal senso la distinzione fra 'cristianesimo' e 'Chiesa' appartiene alla storia moderna del movimento cristiano, in cui emerge in primo piano l'attenzione verso quegli elementi del cristianesimo che trascendono le sue forme di organizzazione specificamente ecclesiastiche, sia nella sfera personale e privata degli individui, sia sul piano della cultura nel senso più ampio. Pertanto la storia dell'azione svolta dal cristianesimo non coincide con la storia sociale delle Chiese e dei gruppi cristiani, ma va al di là di queste istituzioni e può anche rendersi indipendente da esse, conferendo così un nuovo e diverso peso all'autonomia di principio della fede cristiana nel contesto delle sue conseguenze storiche e sociali.
La differenza tra 'Chiesa' e 'mondo', d'importanza decisiva per la nascita delle Chiese cristiane, conserva un valore esplicativo limitato per il cristianesimo dell'età moderna: il mondo, ormai improntato al cristianesimo in una misura che oltrepassa di molto l'azione guidata dalla Chiesa, si è reso autonomo da essa allentando la propria dipendenza dal suo influsso in molti campi della cultura. Ciò vale in particolare per le dottrine sociali cristiane, che incidono ora solo indirettamente sul mutamento della cultura politica e sulla trasformazione della civiltà tecnico-scientifica dell'Occidente. Su questo sfondo va visto il fatto che la nascita del moderno mondo occidentale ha portato alla divisione della Chiesa in una pluralità di Chiese, cosicché alle differenziazioni interne, ricche di conflitti, ha fatto seguito una differenziazione tra Chiese separate. Il loro rapporto con un'essenza unitaria del cristianesimo non può essere individuato soltanto nelle origini storiche di quest'ultimo (il che porterebbe a una riduzione a dato scientifico del suo patrimonio essenziale di credenze), né soltanto nelle fratture e nelle differenziazioni presenti nella storia dell'azione culturale cristiana al di fuori delle Chiese. Nel rapporto tra cristianesimo e Chiese va accertata una complessità di processi storico-sociali che si è riflessa sia nella ricerca e nella teorizzazione sociologica, sia nelle contrastanti interpretazioni con cui le Chiese cristiane cercano di comprendere, sul piano teorico e pratico, il mondo e i processi di modernizzazione in atto nel loro stesso seno.
In questo capitolo il rapporto fra cristianesimo e mondo moderno sarà esaminato alla luce di varie problematiche. Proprio nella sociologia della religione si è affermata l'idea che le scienze sociali debbano essere strettamente collegate con la sociologia della conoscenza, in quanto hanno per oggetto, più che dati e contesti fattuali empirici, interpretazioni di sistemi dotati di senso e modelli orientativi di tipo culturale. L'interpretazione sociologica del cristianesimo e delle Chiese cristiane si basa in gran parte su una determinata visione della società moderna; lo stesso però può dirsi del modo in cui la teologia e le Chiese concepiscono se stesse in rapporto alla modernità. Bisognerà verificare quali mutamenti siano osservabili a questo riguardo nel campo delle interpretazioni sociologiche globali e in che senso si vada oggi evolvendo il dibattito sul rapporto tra cristianesimo e mondo moderno.
Da lungo tempo si è andata formando una visione antagonistica del rapporto fra cristianesimo e società moderna. L'idea di una contrapposizione tra religione e modernità è ormai condivisa anche dal senso comune, ed è profondamente radicata nella coscienza ecclesiastica, che attribuisce agli sviluppi della società moderna le difficoltà incontrate nel trasmettere le tradizioni cristiane ed è portata a spiegare con la perdita dei vincoli religiosi i problemi del mondo moderno che sperimenta grandi conflitti politici e un deteriorarsi dei costumi.
La contrapposizione fra cristianesimo ed età moderna è un prodotto dell'illuminismo occidentale e si è irrigidita in una contrapposizione filosofica di principio nell'ala radicale dell'illuminismo francese, assumendo particolare risalto nella critica della religione. La critica della religione da parte dell'illuminismo occidentale ha coinciso con la nascita della sociologia della religione, da cui ha preso l'avvio la sociologia in generale (v. Matthes, 1967). Uno dei fatti più notevoli della storia delle scienze sociali è che esse hanno elaborato i loro concetti-guida più importanti proprio trattando il tema della religione (con questo termine ci riferiamo qui alle conseguenze politiche e culturali del cristianesimo).
La critica della religione del XVII e del XVIII secolo è in primo luogo una critica contro l'autorità: suo oggetto è la religione cristiana nella forma cattolica romana, vista come strumento di potere politico. Tipica della critica radicale è la cosiddetta teoria dell'impostura dei preti, secondo cui la Chiesa promette ingannevolmente ai suoi sudditi il conseguimento della salute eterna in cambio della sottomissione alla sua autorità. L'idea che la religione non sia al servizio di una verità eterna, ma venga razionalmente adoperata dai detentori del potere ecclesiastico per dominare le masse incolte è il punto di partenza di una teoria funzionale della religione. D'altra parte, l'individuazione di un ruolo politico e sociale della religione si è dimostrata fruttuosa, al di là della critica radicale, in quanto nella prospettiva aperta dall'interpretazione funzionale i compiti assolti dall'organizzazione ecclesiastica possono essere svolti anche da altre istituzioni; ciò induce a cercare dei sostituti che possano subentrare alle Chiese storiche nell'adempimento delle loro funzioni. A questo proposito vanno messi in risalto tre aspetti.
I. L'analisi delle funzioni sociali della religione cristiana esamina (e trasvaluta) la complessa realtà dell'azione culturale del cristianesimo. Gli effetti esercitati sulla società globale dalla cultura unitaria del Medioevo cristiano vengono spiegati funzionalmente, ossia senza far ricorso a interpretazioni teologico-ecclesiastiche dei contenuti di fede. Poiché secondo la critica della religione l'azione del cristianesimo non è più connessa a una verità vincolante, questa funzione può essere assolta anche da altre istituzioni. Nella critica della religione lo sviluppo della società civile è visto come emancipazione dei cittadini dall'autorità della Chiesa e la libertà civile viene contrapposta ai vincoli ecclesiastici. In questo quadro rientra la tendenza - nata dall'esperienza delle guerre di religione del Seicento - alla separazione tra Stato e Chiesa, che consente all'individuo di seguire liberamente una condotta di vita. La funzione di fondamento dell'ordine e dell'autorità esercitata dalla religione viene riportata alla cristianità interiore del singolo, intesa come autocontrollo etico, e si arriva anche ad ammettere la possibilità di una condotta formalmente irreligiosa.
II. Nell'analisi funzionale della religione come sistema di autorità la promessa cristiana di una salvezza futura e di una felicità eterna viene svincolata dalla dottrina della Chiesa, dalla sua formulazione dogmatica e dalla sua mediazione per essere trasferita nell'aspirazione dell'individuo capace di pensare autonomamente a una felicità immanente, avente in sé la propria giustificazione; le promesse trascendenti vengono convertite in programmi sociali e politici, per attuare i quali l'attività economica indica la strada di una realizzazione immanente della felicità.
III. Nell'autointerpretazione del mondo moderno la definizione funzionale del cristianesimo storico porta alla conseguenza che la nuova epoca potrà realizzare se stessa solo superando la dipendenza dalla religione, dal cristianesimo e dalla Chiesa. Il tema del superamento del cristianesimo nell'immanenza mondana ha avuto la sua formulazione più efficace nell'interpretazione ideologica delle nuove scienze naturali e della storia, come pure nella scienza della società; le filosofie e le teorie dell'età illuministica hanno contribuito, ognuna a suo modo, a costruire questo modello alternativo. Quando Marx negli Scritti giovanili definisce la critica della religione il presupposto di ogni critica, quest'idea del dissidio tra religione e società moderna non è che il risultato di un'autointerpretazione della nuova epoca elaborata già da tempo. La trasformazione di tale contrapposizione in una previsione storico-sociale ha influito notevolmente sulla concezione della Chiesa e del cristianesimo propria delle scienze sociali. Il declino della prassi religiosa e dell'influsso ecclesiastico appare una logica conseguenza della modernizzazione in generale, e si arriva addirittura a prevedere un'imminente fine della religione.
L'approccio 'genealogico' al rapporto fra cristianesimo e società moderna è stato sviluppato soprattutto da Max Weber, le cui tesi sulla nascita del mondo moderno dal cristianesimo hanno modificato sostanzialmente le prospettive della sociologia della religione. Tuttavia un influsso in questo senso era stato già esercitato da altre tradizioni culturali. Ad esempio gli illuministi cristiani del Settecento erano convinti - a differenza degli illuministi radicali francesi e dei deisti inglesi - che il progresso culturale e scientifico fosse un prodotto del cristianesimo, e in primo luogo della Riforma protestante. Nella filosofia della storia di Hegel il nesso evolutivo tra il cristianesimo e la nascita della moderna cultura della libertà e della soggettività emancipata era considerato come un momento della storia dello spirito assoluto.Ma già prima di questa interpretazione idealistica alcuni teologi e pubblicisti del tardo Settecento avevano osservato empiricamente che vi era una differenza significativa tra lo sviluppo sociale ed economico dei paesi protestanti e quello dei paesi cattolici. Nel dibattito sulle cause della Rivoluzione francese gli autori cattolici e quelli protestanti avevano fornito spiegazioni contrapposte delle motivazioni d'ordine religioso ed ecclesiastico che avevano determinato la Rivoluzione: mentre i primi ne avevano attribuito la responsabilità allo spirito illuministico, favorito dalla rottura dell'unità della Chiesa per opera del protestantesimo, i secondi avevano insistito sulle resistenze opposte dalla Chiesa cattolica a una serie di riforme pacifiche per le quali i tempi erano ormai maturi. Pertanto l'idea secondo cui i processi politici e sociali del mondo moderno sono conseguenze storiche del cristianesimo ha, in filosofia come nelle controversie tra le varie confessioni cristiane, una lunga tradizione prima di Max Weber.
Su queste basi il sociologo tedesco ha riproposto il problema dei motivi per i quali solo nell'Occidente si sia sviluppata una cultura in gran parte nuova, il cui carattere dominante viene definito da Weber mediante il concetto di 'razionalizzazione'. La ricerca storico-sociologica delle origini cristiane della società moderna si contrappone a una coscienza contemporanea improntata all'antagonismo tra cristianesimo e modernità, per cui "l'uomo moderno in generale non è in grado, con tutta la buona volontà, di figurarsi nelle sue reali dimensioni l'importanza che i contenuti di coscienza religiosi hanno avuto per la condotta di vita, per la cultura e per il carattere dei popoli" (v. Weber, 1922, p. 205). Lo sviluppo della moderna economia capitalistica è ricondotto da Weber allo "spirito del capitalismo", o meglio a certi "principî a sfondo etico che determinano la condotta di vita": da essi è nata quella particolare mentalità economica che è alla base del fenomeno, unico nella storia universale, dello straordinario sviluppo dell'Occidente rispetto all'Oriente. Elemento costitutivo di tutta la cultura moderna è la "condotta di vita razionale, nata dallo spirito dell'ascesi cristiana" (ibid., p. 262).
Anche in questo caso all'origine di questa tesi sociologica sul rapporto tra modernità e cristianesimo - estremamente feconda, e perciò accompagnata da un continuo rinnovarsi del dibattito - vi è un confronto tra due confessioni. Un allievo di Weber, Martin Offenbacher (Konfession und soziale Schichtung, 1901), studiando una regione della Germania meridionale aveva rilevato il prevalere della confessione protestante tra imprenditori, operai specializzati e tecnici. Estendendo questa osservazione alla cultura nel suo complesso, Weber elaborò una teoria secondo cui il cristianesimo, con la sua diversificazione in più Chiese seguita allo scisma del Cinquecento, ha liberato delle energie etico-religiose che, operando al di fuori delle Chiese in direzione di una condotta di vita intramondana orientata a uno scopo, hanno avviato un processo che ha preparato la strada alla nascita dell'economia moderna.
La tesi weberiana fornisce un'interpretazione sociologica della distinzione tra Chiese e cultura cristiana (v. cap. 1): perché si potesse arrivare a una trasformazione dell'ascesi cristiana nella moderna condotta di vita razionale era necessario che lo spirito del cristianesimo si rendesse prima indipendente, come mentalità religiosa e come ἔθοϚ, dal sistema teologico-religioso delle Chiese. Da questo punto di vista non la Chiesa, ma il cristianesimo ha preparato la strada alla società moderna e ha potuto trasformarsi, sul piano della condotta di vita, in una nuova cultura; per le Chiese non è possibile fare un discorso analogo. Ad ogni modo, nell'analizzare la situazione contemporanea Weber perviene alla conclusione che "l'appropriazione soggettiva di questa norma etica" - la condotta di vita razionale - non è più una condizione di esistenza del capitalismo. L'aporia etica della cultura razionale moderna consiste nel fatto che lo 'spirito' dal quale essa è nata si è dileguato dal suo 'involucro'. Secondo Weber questa perdita riguarda il campo dei valori e delle credenze, che esulano dall'ambito della scienza.
La teoria della nascita della cultura moderna dallo spirito dell'ascesi cristiana non basta a spiegare la funzione sociale delle Chiese nella società moderna. A differenza di Weber, Ernst Troeltsch volge la sua attenzione a questo problema, chiedendosi quali siano i presupposti perché le Chiese cristiane possano improntare delle loro dottrine sociali la cultura moderna, come già avvenne per la formazione della cultura unitaria del corpus Christianum. In questa impostazione emerge in primo piano l'importanza della Chiesa come istituzione sociale e come organizzazione religiosa. La storia della Chiesa come istituzione privilegiata dallo Stato ha suscitato, fin dai suoi inizi costantiniani, il rammarico per il dileguarsi dell'autentico spirito cristiano dall'involucro delle istituzioni ecclesiastiche, con le loro forme giuridiche, i loro rituali e i loro apparati di controllo e di educazione. La critica moderna delle Chiese ha alle spalle una lunga tradizione di obiezioni di natura religiosa e spirituale. Alla critica delle Chiese, quale emerge anche nello spiritualismo sociologico, Troeltsch contrappone l'idea che senza forme istituzionali il cristianesimo non potrebbe esistere, o almeno non in modo duraturo, né potrebbe tramandarsi esercitando il suo influsso sulla società. In tal modo Troeltsch, a differenza di Weber, ha visto nella capacità di istituzionalizzazione sociale della dottrina cristiana mediante le Chiese il punto chiave delle sue ricerche sull'avvenire del cristianesimo nel mondo moderno. Perché si realizzi questa ipotesi di una dottrina sociale della Chiesa in grado di influenzare la società occorrono determinati presupposti sociali. Un'analisi del mondo moderno nella prospettiva della fine del XX secolo ci consentirà di individuare tali presupposti.
Dall'illuminismo fino al Novecento avanzato l'età moderna è stata vista come un processo inarrestabile di modernizzazione che ha trasformato e adattato a sé l'intero patrimonio delle tradizioni culturali, a cominciare da quelle religiose. Alla fine del XX secolo questa visione lineare del progresso della modernità presta il fianco a gravi critiche. Contrariamente a quanto per lungo tempo si è ritenuto ovvio, le scienze moderne, soprattutto quelle della natura, non hanno più un ruolo dominante sul piano ideologico (v. Lübbe, 1986); l'aspettativa che la tecnica e l'economia in quanto tali definissero e inglobassero l'intero patrimonio culturale dell'umanità ha incontrato limiti evidenti; né le scienze sociali sono riuscite a produrre una nuova teoria della società, universalmente valida. Al contrario la modernizzazione, intesa sia in senso ristretto che in senso ampio, è divenuta un processo di differenziazione alla luce del quale l'attualità dell'inattuale e la coesistenza di differenti tradizioni e orientamenti culturali appaiono più plausibili che non l'idea di una nuova cultura unitaria, capace di soppiantarne un'altra condannata all'estinzione. Una delle grandi previsioni errate dell'età moderna è stata quella della scomparsa apparentemente ineluttabile della religione, che Paul Johnson (v., 1984) ha definita "il più grande non-evento della storia moderna". L'analisi di queste esperienze pone una nuova sfida anche all'interpretazione sociologica del cristianesimo e delle Chiese. La "demitizzazione del mondo moderno" (v. Kaufmann, 1989, p. 34) vale in primo luogo per l'idea che la modernità sia uno stato finale esemplare. Le Chiese tramandano la convinzione che col cristianesimo si sia manifestata una verità assoluta e non superabile, che trascende e quindi relativizza ogni stato empiricamente raggiungibile dal mondo plasmato dagli uomini.
L'esperienza storica del mondo moderno indica che i rapporti sociali sono 'moderni' in quanto hanno il carattere della mutevolezza: la modernità implica anche la caducità di determinati aspetti del suo stesso progetto. Le esperienze ambivalenti del mondo moderno determinano quindi un risveglio dell'interesse sociologico per la religione. Il sociologo americano Daniel Bell ha parlato in proposito di un "ritorno del sacro", affermando che oggi, quando sembra che il tema della modernità si esprima nel concetto di 'al di là' ("al di là della natura, della cultura, della tragedia"), s'impone la ricerca dei limiti: "limiti allo sviluppo, alla spoliazione dell'ambiente, alla ὓβϱιϚ" (v. Bell, 1978, p. 207).La considerazione di questi limiti non deve ricondurci a una concezione mitologica della religione, tale da sacralizzare tutta la realtà: in questo modo verrebbero soppressi proprio quegli elementi del cristianesimo che sono stati decisivi per la genesi del mondo moderno. Il concetto generale di 'religione' è una invenzione europea del post-illuminismo, che porta a identificare la religione con la funzione donatrice di senso della 'società' in generale (v. Durkheim, 1912). In effetti la sopravvivenza delle Chiese, nella pluralità delle loro forme istituzionali sia dogmatiche che organizzative, è innegabilmente una caratteristica delle società moderne: sebbene le Chiese siano segnate da profondi mutamenti, non è possibile inquadrarle in una visione univocamente e definitivamente post-cristiana della modernità. La questione dell'importanza e dell'efficacia delle dottrine sociali delle Chiese dev'essere vista oggi alla luce della diversificazione e della molteplicità della società moderna, inconciliabile sia con una concezione unitaria e indifferenziata della modernità, sia con la nostalgia romanticheggiante di una cultura cristiana altrettanto unitaria, sottomessa all'autorità della Chiesa. La distinzione tra cristianesimo e Chiesa sarà utile per delineare questa situazione dal punto di vista sociologico.
"Gesù annunziò la venuta del regno di Dio, e venne la Chiesa": in questo celebre detto del modernista francese Alfred Loisy è riassunto con pregnante brevità il problema di fondo della dottrina sociale della Chiesa cristiana. Il passaggio dalla formazione del gruppo dei seguaci di Gesù - uniti dalla fede nella sua resurrezione dopo la crocifissione - alla costituzione di comunità locali nell'area culturale ellenistica e nei territori dell'Impero romano, e infine all'istituzione di un'organizzazione ecclesiastica sotto il primato del vescovo di Roma, successore di Pietro (Matteo, 16, 18), è il passaggio dalla confraternita dei discepoli alla Chiesa dell'episcopato. Il compito principale che la cristianità dovette affrontare nel corso di quest'evoluzione fu quello di 'detemporalizzare' l'attesa dell'imminente venuta del regno di Dio. La dottrina sociale delle prime comunità cristiane si concentrava interamente sui problemi interni: alla vigilia di una nuova creazione, in un mondo prossimo a scomparire, la vita comunitaria era dedicata alla preparazione al secondo avvento di Cristo.
D'importanza decisiva per la storia sociale del cristianesimo fu l'attività dell'apostolo Paolo. La sua missione sciolse il legame che vincolava la comunità dei discepoli al modello religioso ed etico-sociale della legge rituale ebraica; a questa legge, e alla circoncisione prescritta come segno di appartenenza al popolo eletto, Paolo sostituì il culto di Cristo. Rinnovando il ricordo dell'opera del Risorto, questo culto portò alla decisiva detemporalizzazione dell'attesa del Regno; si comprende allora come il cristianesimo non solo sia sopravvissuto al mancato ritorno di Gesù nel corso della prima generazione di cristiani, ma sia riuscito a propagarsi tra le genti. Alla dinamica dell'individualizzazione spirituale della condotta di vita, nata dall'affrancamento dalla legge giudaica, Paolo oppose come nuovo modello ordinatore l'idea della comunità come "Corpo di Cristo" (Romani, 12), in cui una molteplicità di doni dello Spirito veniva integrata in un'unità mistica attraverso il riferimento a Cristo come capo del Corpo. Questa unità ebbe la sua espressione primaria nell'agape, celebrata in memoria del sacrificio di Gesù, che garantiva la futura resurrezione.
Nel costituirsi del cristianesimo in Chiesa le svolte determinanti si ebbero, già agli inizi e sempre in seguito, allorché si trattò di stabilire chi dovesse presiedere l'assemblea della comunità e quale fosse l'autorità competente a decidere nelle questioni dottrinali e di comportamento. Alla detemporalizzazione dell'attesa del Regno corrispose un processo di istituzionalizzazione dello Spirito: con la formazione di un episcopato autonomo nacque un'autorità capace di guidare l'interpretazione (in un primo tempo libera) della predicazione e dell'opera di Gesù, nonché di dirimere le eventuali controversie. Momenti decisivi nell'edificazione di una struttura sociale permanente della Chiesa furono la definizione del canone dei testi, tratti dalla tradizione orale, su cui dovevano fondarsi la predicazione e il catecumenato, e l'elaborazione, sulla base di quei testi, dei principî della fede (regula fidei) come mezzo di ordinamento interno della Chiesa. Parallelamente alle strutture ecclesiastiche si sviluppò così una forma di società specificamente cristiana, una sorta di società interna a quella secolare, che la Chiesa considerò come societas perfecta.
In concomitanza e in stretta connessione con l'evolversi di una specifica struttura comunitaria ed ecclesiastica, la detemporalizzazione dell'attesa del Regno e la sopravvivenza dei cristiani nel mondo anche dopo la scomparsa della prima generazione di fedeli portarono alla necessità di stabilire relazioni con il mondo non cristiano. Secondo quali criteri ciò dovesse avvenire è un problema che la sociologia del cristianesimo e della Chiesa non ha mai risolto in modo definitivo, e ai cui tentativi di soluzione sono stati associati mutamenti e fratture importanti. Dopo che la prima comunità cristiana si fu dissociata dall'unità politico-religiosa del popolo ebraico, vennero meno come criterio sociale primario le barriere e le divisioni nazionali tra Ebrei e gentili, e assunsero invece un'importanza preminente i rapporti con l'ambiente greco-romano. Le prime questioni che richiesero una presa di posizione concreta furono quelle riguardanti la condotta di vita individuale dei membri della comunità: i matrimoni misti, l'ordinamento familiare, le controversie giudiziarie fra cristiani. Particolare rilievo ebbe ben presto il rapporto con l'Impero romano, le cui pretese di dominio si manifestavano quotidianamente nelle pratiche del culto ufficiale del sovrano. Molti cristiani, per esempio, si trovarono di fronte al problema di coscienza se il consumo di carni acquistate al mercato pubblico dopo che erano state consacrate al culto dell'imperatore fosse compatibile con la fede in Cristo signore (Romani, 14; Corinzi, I, 8).
Su problemi di questo genere si strutturò la tensione interna tra i due atteggiamenti che lungo tutta la storia della Chiesa hanno dato al cristianesimo una duplice impronta dal punto di vista sociologico: da un lato l'atteggiamento di totale separazione dal 'mondo', dall'altro quello di accettazione consapevole e selettiva della sua morale e dei suoi comportamenti. Fin dai primi tempi Paolo favorì un'integrazione selettiva del mondo, dei suoi criteri morali e delle sue convinzioni etiche nella prassi di vita cristiana: in conformità del principio "Esaminate ogni cosa e conservate ciò che è buono" (Tessalonicesi, I, 5), la scelta e l'appropriazione dovevano avvenire secondo criteri di tollerabilità sociale per la comunità cristiana, sulla base dell'autonomia dal mondo, che consentiva un libero uso di tutto ciò che era utile alla vita comunitaria. A un atteggiamento sostanzialmente aperto nei confronti del mondo circostante Paolo associava l'esigenza della tolleranza interna: per riguardo alle coscienze di altri membri della comunità bisognava accettare come forma di vita cristiana anche una scelta di rigorosa separazione dal mondo.
Nella Chiesa in via di formazione coesistono dunque il motivo della separazione escatologica e ascetica dal mondo, con caratteri tendenzialmente settari, e il motivo dell'integrazione con il mondo, improntata allo spirito della libertà cristiana, con caratteri religiosi popolari. In questa differenziazione e tensione interna sono presenti gli elementi fondamentali della distinzione sociologica tra il 'tipo-Chiesa' e il 'tipo-setta'; tuttavia questi elementi non sono mai stati chiaramente distinti fra loro sul piano organizzativo. Piuttosto le cosiddette 'grandi Chiese' hanno sempre associato in sé separazione e integrazione, sia nella teoria (cioè nella formazione della dottrina, del dogma e della teologia), sia nella prassi dell'ordinamento ecclesiastico e della condotta di vita. Da parte loro, le sette possono essere caratterizzate da un'assoluta preminenza della tendenza alla separazione dal mondo, oppure dalla volontà di una specifica e altrettanto marcata integrazione con l'ambiente.
La tensione tra la tendenza alla separazione e quella all'integrazione si è profilata in modo assai netto, dal punto di vista sia storico che sociale, nel rapporto con lo Stato romano. Già per l'influsso dell'attesa ebraica del Messia, l'interpretazione teologica del culto di Cristo è legata al concetto di autorità: alla fine dei tempi Cristo avrebbe deposto ogni signoria e ogni potere davanti al trono di Dio (Corinzi, I, 15). In riferimento al concetto greco di πόλιϚ, ciò significa che i cristiani non hanno in questo mondo nessun sistema politico durevole, ma vivono in attesa della futura città celeste (Ebrei, 1; Efesini, 2). L'attesa del regno di Dio è concepita nei termini dell'autorità che Dio esercita sull'universo per mezzo di Cristo; tuttavia, finché la Chiesa resta una piccola minoranza che vive ai margini della società, la dottrina sociale cristiana non è orientata verso il modello della πόλιϚ, ma verso quello dell'οίϰοϚ, ossia della casa e della famiglia; la corrispondente etica si presenta come οἰϰοδομή, come edificazione della casa comunitaria, in cui anziché l'autorità e la subordinazione, dominano l'amore e la comunione tra gli "uguali nella fede". La contrapposizione allo Stato romano riguarda in primo luogo l'imposizione politica della religione ufficiale: l'obbedienza esteriore all'ἐξουσία, all'autorità (Romani, 13) non esclude il rifiuto della prescritta adorazione dell'imperatore divinizzato.
Nonostante la condizione privilegiata acquisita dalla Chiesa con la cosiddetta 'svolta costantiniana', in seguito alla quale il cristianesimo assunse la funzione di una religione di Stato, il motivo della separazione fra l'autorità spirituale e quella temporale non è stato mai accantonato. Mentre Agostino con la sua contrapposizione tra civitas Dei e civitas terrena difese il cristianesimo dall'accusa di aver causato la caduta di Roma affermando in una visione escatologica della storia l'assoluta autonomia spirituale della Chiesa rispetto alle sorti del mondo, nei secoli seguenti il motivo della separazione fu trasposto nella teoria politica e giuspubblicistica delle 'due spade', quella spirituale e quella temporale. La questione più importante, che diede origine a un conflitto destinato a durare a lungo, riguardò la designazione dell'autorità competente a conferire le insegne del potere ai relativi titolari. Dall'idea iniziale secondo cui Dio attraverso Cristo avrebbe investito il papa e l'imperatore, indipendentemente l'uno dall'altro, del potere spirituale e di quello temporale, si passò alla rivendicazione da parte del pontefice romano del diritto di assegnare ai vescovi e a quanti avevano il potere temporale le loro cariche. La conseguente necessità di stabilire un equilibrio tra Chiesa e Stato produsse nella storia dell'Occidente medievale una complessa situazione di tensione; all'idea di una cultura religiosa del Medioevo unitaria e compatta fa riscontro una storia di profondi conflitti. Da ciò deriva anche la sostanziale diversità storico-politica delle Chiese occidentali rispetto a quella ortodossa, che con il suo allineamento e la sua subordinazione all'autorità temporale ha dato un'impronta diversa, ancora fino ai giorni nostri, alle società e alle culture politiche sviluppatesi nella sfera della sua influenza.
In questo contesto va vista anche la sociologia delle grandi dottrine dogmatiche. In seguito alla progressiva integrazione fra 'Chiesa' e 'mondo' e alla detemporalizzazione dell'attesa del Regno mediante l'istituzionalizzazione della Chiesa, la consapevolezza dell'assoluta autonomia e specificità del cristianesimo, rilevante dal punto di vista religioso e fondamentale per la missione della Chiesa, assunse una nuova forma teorica con l'elaborazione del dogma cristologico e trinitario. Dal punto di vista della sociologia della conoscenza, la cristologia e la conseguente dottrina della Trinità hanno la funzione di esprimere l'assoluta autonomia della Chiesa cristiana nella forma trascendente e divina della sua storia costitutiva, in modo da assicurare al 'sacro mistero' della sua origine un fondamento ontologico, trascendente la storia empirica. L'esistenza sacramentale della Chiesa, dedotta dal mistero presentato come dogma, vincolò il rapporto con l'onnipotente Trinità divina, superiore a ogni autorità mondana, all'amministrazione dei sacramenti da parte del ceto sacerdotale: la gerarchia ecclesiastica divenne così il vero baluardo dell'indipendenza della Chiesa dalle forme di autorità temporali. La giustificazione della gerarchia mediante la teologia trinitaria tracciò una frontiera definitiva rispetto al 'mondo'; e questa frontiera, con le connesse sanzioni giuridiche e sociali, poté valere anche nei riguardi dei laici. Il principio ermeneutico extra ecclesiam nulla salus fu usato anche come strumento d'influenza politica e sociale, nella misura in cui anche i ceti dominanti si riconobbero esistenzialmente coinvolti nel progetto salvifico del cristianesimo.
I tentativi di sfuggire alla gerarchizzazione e alla strutturazione politica del cristianesimo non sono certamente rimasti senza esito, ma in generale vennero inglobati nell'ordinamento ecclesiastico come processi di differenziazione interna del cristianesimo. L'esempio più notevole è costituito dalla nascita e dalla storia del monachesimo. Dall'anacoresi degli eremiti, che affermava l'indipendenza della fede cristiana dal mondo, al ritiro nel monastero come forma di vita alternativa a quella secolare, fino all'impegno spirituale e sociale degli ordini e delle congregazioni nell'età moderna, la storia sociale del cristianesimo è stata accompagnata dalla ricerca di una 'via particolare'. L'Homo religiosus, come modello ideale di condotta cristiana segnata da una specifica vocatio divina, rappresenta un modo di vita in cui per alcuni eletti - all'interno del sistema sacramentale e gerarchico di mediazione della salvezza - si è tramandata in forme sociali mutevoli l'immediatezza del rapporto col Cristo trascendente. Da qui hanno avuto più volte origine, nella Chiesa e nel più ampio contesto della cultura cristiana, movimenti riformatori di straordinaria efficacia. Alla istituzionalizzazione del cristianesimo nella Chiesa, per lungo tempo dominante, si è contrapposta così l'individualizzazione della religiosità; anche quando si assoggetta a regole e ordinamenti, il sentimento religioso del singolo non può essere sostituito da nessuna istituzionalizzazione della prassi religiosa. Si può dire che sia questa l'eredità più importante lasciata dalla tradizione cattolica romana al cristianesimo dell'età moderna.
La Riforma luterana ha dato un nuovo indirizzo al contenuto spirituale della vocatio, trasferendolo alle attività laiche e alla condizione sociale nella vita civile. La chiamata di Dio si manifesta al cristiano nei compiti che la vita quotidiana gli pone, e in tal modo l'idea di vocazione acquista una concretezza etico-sociale per cui l'attività secolare si presenta come forma sociale dell'amore per il prossimo. La critica protestante si oppone all'idea di privilegiare i religiosi rispetto ai cristiani laici e fa invece appello al contenuto spirituale della vocazione per affrontare i doveri e i compiti della vita attiva; in questo senso Max Weber ha giustamente definito l'etica protestante della professione una forma di "ascesi intramondana". Strettamente connessa con tale nozione è l'idea, che emerge nell'età moderna, secondo la quale a ciascuno spetta una 'funzione': questa dignità, che nella società feudale e gerarchica del Medioevo era una prerogativa del clero e dei ceti dominanti, viene ora riconosciuta a qualsiasi garzone e a qualsiasi domestica. Nella vita laica ogni attività a vantaggio del prossimo si realizza nell'ambito di una professione o di un lavoro. La sede privilegiata della condotta di vita cristiana non è più costituita da particolari forme di prassi religiosa atte a esprimere il distacco dal mondo, bensì dall'ἒθοϚ della vita quotidiana, nella famiglia e nel lavoro; è qui che va vissuta la religiosità individuale. Poiché in questo modo anche la 'gente comune' viene innalzata a una dignità etico-sociale fin allora riservata agli strati superiori, comincia a manifestarsi nella dottrina sociale cristiana quell'interesse per il cittadino e per l'uomo comune da cui il mondo moderno ha tratto gli stimoli più potenti per la ristrutturazione della società e dello Stato. La tendenza a ridurre nella Chiesa l'importanza della gerarchia e a rivalutare invece, sul piano della spiritualità e dell'etica sociale, i doveri e i modi di vita secolari corrisponde senza dubbio a un processo di mondanizzazione della religiosità: non però nel senso moderno di una secolarizzazione, bensì come un intensificarsi dell'impegno religioso individuale nelle forme della socialità quotidiana.Nonostante questo mutamento d'indirizzo della vocazione spirituale, nell'età moderna non scompaiono affatto le forme di vita religiosa basate sulla separazione dal mondo e su un impegno particolare: si arriva piuttosto alla compresenza di vari modi di concepire la dottrina sociale della Chiesa e la prassi cristiana. Nel Cinquecento la confessionalizzazione del cristianesimo rende più complesse le sue forme sociali e con la Riforma aumenta notevolmente il loro grado di differenziazione.
Fin dai primi tempi l'assistenza ai poveri e ai malati è stata, a tutti i livelli dell'orientamento spirituale cristiano e della prassi ecclesiale, un elemento peculiare di strutturazione sociale: nonostante i mutamenti nelle sue forme organizzative, la diaconia può essere considerata un tratto distintivo costante e specifico del cristianesimo. Le guarigioni operate da Gesù di cui narrano i Vangeli e il precetto dell'amore del prossimo, illustrato soprattutto dalla parabola del buon samaritano (Luca, 10), fornirono il modello in base al quale cominciarono a svilupparsi i rapporti sociali tra la comunità cristiana e l'ambiente pagano. A differenza di certe chiusure nei confronti del mondo, destinate a sollevare gravi problemi nel campo della sessualità, del matrimonio, del servizio militare o del profitto economico, l'assistenza ai poveri e ai malati e la formazione delle relative istituzioni sociali non suscitarono mai timori di compromissioni col mondo, né furono specificamente legate alla regolare appartenenza degli assistiti alla Chiesa.
È probabile che questa fondamentale natura caritativa del cristianesimo e la sua spontanea messa in pratica in un ambiente pagano non abituato a una simile mentalità siano state fra le cause principali del diffondersi della nuova religione. La diaconia cristiana rappresentava, al di là di ogni teoria e di ogni dogma, la forma concreta di socialità del cristianesimo, che proprio negli umili e negli emarginati scopre la dignità dell'uomo creato da Dio a sua immagine, e vede nell'impegno a soccorrere i poveri e i malati un'espressione del trasmettersi della grazia divina.
Il tradursi della dottrina teologica secondo cui l'uomo è salvato dalla grazia divina, indipendentemente dai propri meriti, nella pratica disinteressata delle buone opere a favore dei bisognosi costituisce pertanto la forma primaria della dottrina sociale cristiana. Per quanto non fosse ancora definito il rapporto di integrazione o separazione rispetto alle istituzioni statali e alle strutture sociali, la Chiesa nelle sue attività assistenziali ha considerato come creature di Dio gli individui bisognosi, a prescindere dalla loro situazione sociostrutturale, e ha rivalutato mediante la dedizione cristiana la povertà e la malattia, in una misura che è ancora oggi determinante per il mondo improntato al cristianesimo. Come l'ascesi intramondana è stata importante per la genesi della moderna società del profitto, così il valore che le forme di comportamento sociale caritativo hanno attribuito alla dignità individuale dei poveri, dei malati e degli anziani ha avuto un'importanza decisiva per la moderna concezione dello Stato del benessere nella sua versione secolarizzata ed egualitaria.
Dopo lo scisma dell'XI secolo tra la Chiesa orientale e quella occidentale, il movimento riformatore che ebbe inizio nel Cinquecento in Germania e in Svizzera avviò un processo destinato a disgregare l'unità religiosa, politica e culturale del corpus Christianum. Mentre nel cristianesimo ortodosso di origine bizantina l'integrazione fra Stato e Chiesa si è mantenuta stabile fino allo scoppio della Rivoluzione comunista in Russia, in Occidente l'identità di Chiesa e cultura cristiana si è progressivamente dissolta in una complessità piena di tensioni, che si è concretata in nuove Chiese confessionali e in tentativi di emancipazione delle tradizioni cristiane dal controllo ecclesiastico.
Tenendo presenti i problemi d'interpretazione relativi al rapporto tra cristianesimo e mondo moderno esaminati nel cap. 2, bisognerà descrivere ora il modo in cui il cristianesimo, pur rimanendo legato alle tradizioni delle Chiese, è pervenuto a forme di attuazione autonome, che costituiscono dal punto di vista della sociologia della cultura un cristianesimo con strutture secolari al di fuori delle Chiese. Non si tratta di un processo regolare e inarrestabile di secolarizzazione del cristianesimo e di contemporaneo regresso delle forme ecclesiastiche. Alla confessionalizzazione del cristianesimo, cominciata nel XVII secolo, corrisponde un mutamento della cultura politica monarchico-feudale, con la tendenza a una democratizzazione accelerata dell'Occidente: le dottrine sociali delle Chiese cristiane, con i loro ordinamenti sociali statici, vengono adattate alla nascente società borghese. Le energie della Chiesa, libere da gravi compiti politici e sociali, assunti ora dallo Stato e dalla società, si organizzano in nuove attività missionarie, estese anche al campo sociale, che nei processi di modernizzazione tecnico-scientifica attualmente in corso potrebbero costituire un punto d'avvio per un nuovo orientamento generale della civiltà. Nei prossimi paragrafi esamineremo con alcuni esempi l'importanza di questo nuovo cristianesimo all'interno e al di fuori delle Chiese.
Con l'affermarsi della Riforma nell'Europa centrale, la mappa sociologica del cristianesimo occidentale subì nel XVI secolo un notevole mutamento. Lo scisma dimostrò che il tentativo dei riformatori di attuare un rinnovamento di tutta la Chiesa non poteva essere realizzato con il consenso delle istituzioni ecclesiastiche; la rottura del consenso portò all'autonomizzazione dei vari movimenti rinnovatori, che diedero origine a proprie Chiese organizzate su base territoriale. Si deve parlare a questo proposito di confessionalizzazione, perché a fondamento delle nuove Chiese protestanti vi fu di solito un'esplicita professione di fede in cui veniva formulato, dopo ardui dibattiti teologici, un consenso vincolante per tutti gli adepti: questo nuovo obbligo confessionale esplicito sostituiva l'ordinamento liturgico-sacramentale della Chiesa cattolica.
Per lo più le formule confessionali contenevano anche i motivi del ripudio della Chiesa cattolica romana, considerati esplicitamente come parte integrante e quindi vincolante della professione di fede; definivano inoltre le divergenze dottrinali tra le confessioni luterane e quelle calviniste. In tal modo la confessionalizzazione del cristianesimo fu stabilmente ufficializzata nelle due forme del consenso interno e della separazione rispetto alle altre Chiese. Solo in senso traslato la Chiesa cattolica romana può essere inclusa tra le moderne Chiese confessionali: essa si attenne esclusivamente alle dottrine dogmatiche della Chiesa primitiva che in quanto tali non erano oggetto di dissenso, ma erano accettate appieno anche dalle Chiese protestanti. Soltanto dopo l'età dell'illuminismo, a seguito dei processi di modernizzazione promossi dal papato, vennero elaborati nuovi dogmi corrispondenti alla confessione vincolante.In generale, tuttavia, la confessionalizzazione del cristianesimo pose le premesse necessarie perché le strutture politiche e sociali si svincolassero dall'ambito delle competenze e dell'autorità decisionale ecclesiastica. Dopo gli inutili tentativi di superare lo scisma religioso con mezzi militari nelle guerre di religione del Seicento, l'impegno dei governanti di stabilire una pace politica al di là delle Chiese confessionalizzate rappresentò il passo decisivo verso l'affrancamento della cultura cristiana da un legame diretto con la Chiesa e dall'identificazione con essa. In Europa fu fissata per secoli la divisione territoriale tra il Nord protestante e il Sud cattolico; l'iniziativa politica e sociale passò dalle Chiese alle forze dominanti dello Stato secolare e della società civile. In Gran Bretagna, accanto alla Chiesa anglicana - rimasta simile nella sua struttura fondamentale a quella romana, a parte il disconoscimento del primato pontificio - si formarono, per influsso di movimenti originari della Svizzera e dei Paesi Bassi, le Chiese calviniste, fondate sull'impegno spirituale della religiosità individuale e della professione di fede personale. Ricca di conseguenze dal punto di vista storico-sociale fu la decisione di questi gruppi riformati di sottrarsi alle coercizioni imposte dalla Chiesa di Stato emigrando nel Nordamerica, dove nacque il nuovo tipo della denominazione protestante. Queste comunità, formatesi attraverso scissioni e nuove fondazioni, sceglievano liberamente il nome della propria organizzazione ecclesiastica, senza tener conto dell'unità superiore delle Chiese. Da ciò, appunto, deriva il termine 'denominazione'. La caratteristica più importante di questo nuovo tipo di associazione, dal punto di vista religioso come da quello politico e sociale, è la forma tipicamente moderna della libera scelta del legame di appartenenza a una Chiesa. Trova qui espressione un elemento specifico della cultura politica nordamericana, quello per cui la libertà dell'individuo rappresenta il cardine e il criterio normativo di ogni obbligo istituzionale, statale e sociale. Nel Nordamerica anche il cattolicesimo - grazie alla sua crescente integrazione nel contesto culturale locale e all'attenuarsi della sua condizione di minoranza isolata - ha accettato il ruolo di una denominazione nella pluralità delle Chiese.
È logico quindi che proprio da qui abbiano preso il via, ai primi del Novecento, lo spirito e la prassi dell'ecumenismo. Il fatto che nel nostro secolo sia regredita la confessionalizzazione del cristianesimo, con le sue forme spesso aggressive, e a essa sia subentrato un orientamento ecumenico è dovuto a vari fattori, ma in primo luogo all'azione della cultura cristiana al di fuori delle Chiese. Il nuovo consenso, dottrinalmente non ben definito ma chiaramente riconoscibile nei suoi aspetti sociali e politici, è fondato su una tolleranza pacifica, esente da ogni pretesa autoritaria, nel rispetto della libertà religiosa dell'individuo che precede ogni legame di appartenenza a una Chiesa. Ai contrasti confessionali tra le Chiese, attenuati dall'ecumenismo, è subentrato peraltro un crescente conflitto di mentalità fra gli orientamenti liberali e quelli fondamentalisti, che si collocano trasversalmente rispetto alle tradizioni ecclesiastiche e sono radicati, più che in professioni di fede e in convinzioni dottrinali di stampo confessionale, in divergenze nel modo di concepire la società nel suo complesso.
La confessionalizzazione del cristianesimo occidentale si è propagata in altri continenti, e attraverso le missioni in Africa e in Asia si è trasmessa alle nuove Chiese cristiane locali, contemporaneamente, a volte, alle forme di civiltà e di cultura dell'Europa occidentale e del Nordamerica. Nella seconda metà del Novecento il processo di decolonizzazione ha portato, in seguito all''indigenizzazione' culturale del cristianesimo, a un progressivo rapido allontanamento dai modelli confessionali della tradizione europea e a un diverso modo di attuare l'ecumenismo. Qui il cristianesimo, diversamente da altre religioni e soprattutto dall'espansionismo islamico, esercita un'azione rivolta a superare le divisioni chiesastiche e ad appianare i contrasti; tuttavia ciò porta anche, conformemente al diverso contesto di tradizioni culturali, all'elaborazione di forme tendenzialmente diverse di teologia e di religiosità, il che dà origine a nuovi motivi di conflitto.Dal punto di vista delle culture non europee o nordamericane il cristianesimo rappresenta infatti il complesso delle tradizioni, estranee alle culture locali, introdotte dalle missioni e dalla civiltà tecnico-scientifica: si arriva così a interpretare la NATO come un'alleanza 'cristiana'. Agli occhi della cultura non cristiana differenziazioni strutturalmente importanti per l'Occidente cristiano dell'età moderna, come la separazione tra Chiesa e Stato, tra religione e politica, tra pubblico e privato, passano in secondo piano rispetto ai contrasti di fondo con la cultura occidentale. Ciò autorizza a ritenere che la presunta completa secolarizzazione dell'Occidente sia, almeno dal punto di vista della storia sociale, un pregiudizio della nostra cultura, e che l'importanza della cultura cristiana al di fuori delle Chiese sia molto più grande di quanto non pensino gli intellettuali occidentali.
Per la cultura politica del mondo cristiano ha assunto grande rilevanza nell'età moderna il principio della separazione tra Chiesa e Stato: i suoi fondamenti teorici vanno cercati nella rinascita della dottrina giusnaturalistica, avvenuta dapprima nell'ambito culturale della Spagna cattolica, per reazione alle conseguenze politico-culturali della colonizzazione americana (Francisco de Vitoria), e poi nell'ambito protestante (Ugo Grozio). La rinascita del giusnaturalismo si riallacciava al diritto naturale degli antichi, contrapponendosi all'integrazione del diritto naturale nella teologia, che metteva a fondamento dell'unità dell'ecumene ecclesiastica e politica un ordine naturale e sociale intrinsecamento cristiano. Durante la conquista dell'America Latina il principio normativo dell'unità di comunità ecclesiastica e comunità politica aveva portato a negare agli indigeni il riconoscimento dei loro diritti, in quanto si riteneva che tali diritti fossero legati all'appartenenza all'ecumene cristiana; la nuova formulazione della dottrina giusnaturalistica metteva invece in risalto l'esistenza di diritti naturali dell'uomo non soggetti a tale limitazione. Negli Stati territoriali d'Europa la distinzione fra la comunità giuridica fondata sul diritto naturale e la comunità ecclesiastica entrò gradualmente a far parte delle teorie giuspubblicistiche, alle quali aveva aperto la strada il nuovo diritto delle genti, fondato sul diritto naturale.
In sintesi, nella teoria della separazione tra Chiesa e Stato, di origine giusnaturalistica, trovò espressione il diritto dei cittadini, per cui i doveri civici e quelli religiosi divennero tra loro indipendenti e l'appartenenza alla comunità giuridica non fu più vincolata necessariamente all'appartenenza a una confessione cristiana. Il diritto naturale del XVII e del XVIII secolo, con il suo secolarismo e la sua critica delle Chiese, trasse la sua forza di penetrazione dalla già ricordata esperienza delle guerre di religione, e fu in primo luogo un 'diritto della pace': esso pose le premesse concettuali di un mutamento in senso pacifico ed extra-ecclesiastico della cultura politica e sociale, facendo sì che le discordie confessionali cessassero di essere fonte di guerra e distruzione.
L'eredità più importante del giusnaturalismo per il mondo moderno consiste nell'idea dei diritti umani. Quest'idea, affermatasi in Europa nonostante le resistenze delle Chiese cristiane, è un esempio particolarmente notevole di trasformazione culturale del cristianesimo al di fuori delle Chiese. L'idea che l'individuo abbia una dignità incondizionata, prepolitica e al di là di ogni condizione e ordinamento sociale, accoglie infatti il retaggio del cristianesimo e delle sue origini ebraiche, in cui l'uomo è considerato creatura e immagine di Dio. Questa dignità dell'uomo costituisce un suo diritto naturale, che viene tradotto nelle opportune forme giuridiche dagli ordinamenti politici e sociali, indipendentemente dal legame con la Chiesa. Mentre nella dottrina ecclesiastica il valore dell'uomo in quanto immagine di Dio è legato alla mediazione della Chiesa, e quindi alla salvazione amministrata dall'istituto ecclesiastico, nella concezione giusnaturalistica la dignità dell'individuo viene svincolata da questo legame sociale con l'appartenenza a una Chiesa. Si apre così la strada a una validità universale dei diritti umani, che si estende senza specificazioni a ogni individuo e quindi tendenzialmente a tutta l'umanità.
L'accettazione dell'idea dei diritti umani da parte delle Chiese, avvenuta nella seconda metà del XX secolo, rappresenta una tardiva ratifica del contenuto implicitamente cristiano di quell'idea, ispirata al diritto naturale, da parte della dottrina sociale della Chiesa nelle sue diverse frazioni confessionali. In ogni caso, l'affermazione della validità universale dei diritti dell'uomo non richiede più una motivazione riservata specificamente ed esclusivamente alla Chiesa.Se si considerano la Rivoluzione americana e la nascita del Bill of rights (1776), si può dubitare che il diritto alla libertà religiosa sia all'origine del riconoscimento di tutti gli altri diritti dell'uomo; ciò non toglie che la democrazia liberale dell'Occidente sia stata guidata nel plasmare la società proprio dal riconoscimento incondizionato della libertà dell'individuo, i cui diritti primari sono la libertà religiosa e quella di coscienza. In base al presupposto normativo che tutti gli uomini sono per principio uguali tra loro, spetta a ciascun individuo dare un contenuto concreto a queste libertà, indipendentemente da prescrizioni corporative o istituzionali. Il fatto che l'idea dei diritti umani non abbia avuto attuazione concreta in nessuna società empiricamente esistente conferisce loro il carattere di un articolo di fede: articolo di fede che sembra finora plausibile solo nell'ambito culturale influenzato dal cristianesimo, mentre nella prospettiva delle culture non cristiane, e in particolare dell'Islam, esso è visto come un influsso estraneo proveniente dall'Europa cristiana e incontra quindi forti resistenze.
Con la rivendicazione dei diritti universali dell'uomo è connessa la separazione tra Chiesa e Stato, tra religione e politica; dapprima ebbe un ruolo preminente la limitazione dell'influenza giuridica e politica delle pretese religiose ed ecclesiastiche, mentre più tardi si procedette a un'analoga limitazione delle pretese statali sul cittadino in quanto individuo. La separazione tra autorità spirituale e autorità temporale sostenuta dalla dottrina sociale della Chiesa (v. § 3c) viene ripresa nelle costituzioni statali, che escludono dalla competenza del legislatore, come immutabili e inalienabili, i diritti umani fondamentali, impegnando lo Stato a tutelarli. L'accoglimento di tali diritti nelle costituzioni dei diversi Stati agisce di riflesso sulle Chiese nel senso che a esse spetta, tramite il diritto dell'individuo alla libertà religiosa, una legittima rivendicazione indiretta nei riguardi dello Stato, scaturita originariamente dalle potenzialità della cultura cristiana al di fuori delle Chiese.
I processi di degenerazione politica e sociale degli Stati e dei sistemi fondati su ideologie totalitarie - come nell'Europa del Novecento la Germania nazista, l'Italia (sia pure in forma attenuata), la Spagna e soprattutto l'impero sovietico e i suoi satelliti - sono dovuti fra l'altro all'incompatibilità fra i diritti umani elementari e ogni sistema ideologico repressivo. In seguito a queste esperienze le Chiese cristiane, impegnate nel rappresentare e difendere i diritti umani individuali di fronte agli Stati totalitari, hanno acquisito una nuova funzione, ricca di conseguenze politiche. Soprattutto l'esperienza dello sterminio degli Ebrei ha messo le Chiese cristiane di fronte al fatto che le garanzie fondamentali dello Stato di diritto non possono essere reclamate solo per i compagni di fede, e che il loro intrinseco contenuto cristiano può e deve essere sostenuto attivamente, al di là delle barriere ecclesiastiche, a favore di ogni essere umano, quale che sia la sua confessione.
La genesi della società moderna dall'etica cristiana teorizzata da Max Weber (v. § 2b) riguarda soprattutto l'economia capitalistica e le forme di condotta razionale a essa associate. Non meno importante è la nascita del moderno Stato di diritto democratico dallo spirito del cristianesimo non istituzionalizzato, trasfuso nel diritto naturale. Ciò è evidente anche nell'affermarsi dello Stato del benessere, in contrapposizione al capitalismo individualistico: il fatto che le società europee non siano state bloccate sulla strada della modernizzazione dai conflitti fra capitalismo e socialismo, ma siano riuscite a realizzare con gli strumenti della politica sociale nuove forme d'integrazione, è dipeso anche dall'influsso della cultura cristiana e dei movimenti cristiano-sociali.
Lo Stato del benessere è la combinazione di una forma di governo democratica e di un'economia capitalistica privata con un vasto complesso di prestazioni sociali regolamentate dall'amministrazione centrale, alle quali tutti hanno diritto in base a criteri di valutazione dello stato di bisogno stabiliti dalla legge. Il principio della 'possibilità di partecipare' riguarda gli aspetti essenziali della vita, come la famiglia, l'educazione, il lavoro, la sanità, la sicurezza sociale, la cultura. Nelle società premoderne questa 'inclusion' (v. Parsons, 1968) era assicurata soprattutto dalle unioni sociali tradizionali; la dissoluzione delle strutture integrative e stabilizzanti della società corporativa - dissoluzione accelerata dall'industrializzazione e dall'urbanesimo - portò alla pauperizzazione di massa. Nell'Ottocento l'ideologia capitalistica e quella socialista, altrimenti inconciliabili tra loro, erano sorprendentemente concordi nel rifiutare l'intervento dello Stato per risolvere la questione sociale; questa strada si è dimostrata invece ricca di sviluppi positivi.
Le forme d'integrazione proprie dello Stato del benessere si sono sviluppate nei paesi soggetti all'influsso del cristianesimo, e a questo processo hanno collaborato attivamente e direttamente le Chiese e i gruppi cristiani. Religiosi e laici anglicani e luterani, associazioni cattoliche e un'esplicita dottrina sociale formulata dal papa (l'enciclica Rerum novarum del 1891) hanno avviato, in collaborazione con forze politiche conservatrici d'impronta cristiana, un movimento di reazione contro le conseguenze negative dell'economia capitalistica, avente lo scopo di impegnare lo Stato a compiere interventi di politica sociale. In questo caso lo Stato non è visto come il detentore del potere, ma come il rappresentante della comunità, che dopo la scomparsa delle leghe sociali di carattere prestatale si assume il ruolo di garante dei diritti umani.L'idea di uno Stato orientato verso l'integrazione sociale anziché verso l'esercizio del potere introduce, rispetto al giusnaturalismo moderno, alcuni elementi della tradizionale concezione cristiana del diritto naturale, come si può vedere dall'importanza attribuita al principio di 'sussidiarietà'. La politica sociale, in cui la concessione di sussidi è accompagnata dal riconoscimento dell'autonomia delle famiglie, delle categorie professionali e di altre forme sociali prestatali, si oppone sia all'idea socialista dell'annullamento dello Stato nella società, sia a quella capitalistica del libero mercato come struttura sociale fondamentale. Negli obiettivi dello Stato del benessere è operante, in modo diverso che nella salvaguardia costituzionale dei diritti dell'uomo, il riconoscimento della libertà e della dignità dell'individuo nella sua esistenza sociale; la formulazione giuridica di questi principî viene richiesta allo Stato anche dalle Chiese, che hanno contribuito concretamente a farli accettare.
Un importante patrimonio socioculturale delle società improntate al cristianesimo è il computo cristiano del tempo. Il conteggio degli anni a partire dalla nascita di Cristo e quello dei giorni della settimana, col riposo domenicale, forniscono un efficace modello d'orientamento per strutturare l'interpretazione del mondo e della vita sia per la società nel suo complesso che per l'individuo. Il computo cristiano del tempo è uno degli elementi di stabilità culturale in cui si esprime, al di là di tutti i mutamenti e di tutte le rivoluzioni, la continuità dell'ambito culturale del cristianesimo.
Con l'adozione dell'ordinamento ebraico dei giorni feriali e festivi e della suddivisione romana dei mesi, la domenica divenne subito il centro del nuovo calendario cristiano; nel VI secolo ebbe inizio un lungo processo (v. Borst, 1990) al termine del quale si affermò definitivamente, nell'alto Medioevo, la divisione della cronologia universale in ante e post Christum.
Importanti per la storia sociale della cultura cristiana sono i tentativi, compiuti nel corso della modernizzazione della società, di stabilire un diverso computo del tempo. L'esempio più famoso è dato dal calendario repubblicano ideato durante la Rivoluzione francese (v. Maier, 1959). La rottura con il passato, la monarchia, la Chiesa e la tradizione cristiana - come coscienza dell'inizio di un'epoca nuova - doveva manifestarsi anche in una nuova cronologia. La svolta epocale doveva improntare la concezione del tempo, dalla suddivisione dell'anno a quella della giornata, dall'articolazione del tempo lavorativo al ritmo delle feste e delle solennità. Il fallimento di questo tentativo sta a indicare che la coscienza del tempo dell'età moderna si è sviluppata, nonostante tutte le fratture e i contrasti, in continuità con la storia della cultura cristiana; anche le iniziative prese dai regimi totalitari del XX secolo in Russia, in Italia e in Germania non sono riuscite a mettere durevolmente in discussione la cronologia cristiana. Si è sviluppata, piuttosto, una crescente differenziazione nella coscienza sociale del tempo. Il calendario festivo dell'anno liturgico, su cui si basa la scansione del 'tempo della Chiesa', influenza in misura notevole la coscienza sociale del tempo, anche se l'anno civile, che ha inizio il 1° gennaio, non coincide con quello religioso, che comincia con l'avvento. Il computo del tempo della società globale è legato a quello ecclesiastico soprattutto attraverso le festività cristiane, che ad esempio vengono difese come un patrimonio sociale dai sindacati in quanto rappresentanti degli interessi dei lavoratori nei riguardi del tempo libero. La scansione del tempo ecclesiastico è segnata inoltre dal ritmo delle domeniche come giorni dedicati al servizio divino, l'assistenza al quale è uno dei più importanti doveri sociali dei fedeli. La scomparsa nelle confessioni non cattoliche del precetto domenicale associato a eventi sacramentali e a minacce di punizione, come pure l'abolizione delle sanzioni sociali e giuridiche per il mancato adempimento dei doveri ecclesiastici hanno ridimensionato in varia misura la norma sociale che imponeva di frequentare la chiesa; ma ciò non ha sminuito l'importanza sociale della domenica, che al contrario è stata esaltata dall'individualizzazione e dalla commercializzazione del tempo libero. Soprattutto nei paesi altamente industrializzati dell'Occidente, in seguito alla riduzione degli orari di lavoro, la cultura del tempo libero come cultura del giorno festivo secolarizzato è in continua espansione, in concorrenza con le aspettative di partecipazione delle Chiese.
Alcuni importanti moduli di comportamento sociale correlati col calendario ecclesiastico si sono resi autonomi nel contesto della vita familiare e individuale, a causa della loro rilevanza 'biografica'. Ciò vale in primo luogo per la trasformazione in solennità familiari di cerimonie ecclesiastiche celebrate in occasione di nascite, di certe fasi dello sviluppo giovanile, di matrimoni e di decessi: evidentemente tali cerimonie, intese come riti di passaggio, trovano una motivazione più forte nell'esperienza del tempo vissuta nella famiglia che non nell'interpretazione dogmatico-dottrinale fornita dalla Chiesa. Esse rimangono tuttavia legate alle forme ecclesiastiche, anche quando il comportamento religioso dell'individuo si distacca nelle altre sue manifestazioni dal catalogo dei doveri prescritti dalle Chiese.
Il tempo della Chiesa e quello della vita individuale non coincidono, ma non sono neppure reciprocamente neutrali: proprio nella scansione del tempo si è avuto un processo di differenziazione che ha portato a una discordanza fra tempo ecclesiastico, sociale e individuale, e che corrisponde alla differenziazione tra la cultura cristiana all'esterno delle Chiese e quella al loro interno.
Su un altro piano, la percezione sociale del tempo è importante per la visione del mondo in generale, per la strutturazione della durata e della fine della storia universale come storia del genere umano. Il cristianesimo ha collocato il tempo nella prospettiva di una fine del mondo che, configurandosi come 'giudizio universale', assume forti connotazioni normative sul piano sia sociale che morale. Già nel Medioevo si passò dall'escatologia protocristiana, fondata sulla prospettiva di una fine del mondo generalizzata, a un'escatologia individuale. Il problema del modo in cui ciascun uomo avrebbe affrontato dopo la morte il Giudice divino, nella prospettiva del paradiso o dell'inferno, ha avuto un profondo influsso sociale di tipo normativo sulla condotta di vita del singolo; la nozione del purgatorio, come periodo di purificazione del defunto dai peccati che gli impediscono l'accesso all'eterna salvezza, era destinata a influenzare la prassi di vita.
L'età moderna ha abolito questo schema, normativo sul piano sociale, dell'attesa della fine e del Giudizio, rivalutando in senso morale-cristiano il presente. In questo modo sono venuti a mancare anche importanti strumenti della disciplina sociale ecclesiastica. Il consenso sulla finitezza temporale del mondo è stato sostituito da un nuovo consenso sul carattere infinito di un'evoluzione resa possibile dal progresso tecnico-scientifico; all'idea di un ordinamento naturale e immutabile del mondo e della società, accompagnata dall'attesa di una catastrofe finale, è subentrata un'esperienza del tempo legata a trasformazioni continue e sempre più rapide. L'adattarsi a esse costituisce non solo un costante problema delle istituzioni tradizionali come le Chiese, ma anche un problema personale dell'individuo nella società.
Nel contesto di questa concezione consolidata della durata indefinita della società ha fatto irruzione, nei paesi avanzati, l'idea razionale dei "limiti dello sviluppo" (Club di Roma), che si è trasformata ben presto in una critica dei presupposti ideologici del moderno consenso sul progresso. La tradizionale concezione cristiana della fine del mondo ha assunto così un nuovo carattere di attualità, diventando un punto di riferimento nell'ambito dei conflitti sempre più frequenti originati dal progresso materiale. Essa si associa, con intenti critici nei confronti della civiltà odierna, ad antiche idee mitico-religiose sull'unità organica di natura e uomo prestabilita da Dio. Questa rinnovata impostazione è ideologicamente in contrasto con la visione razionale e tecnico-scientifica del mondo: suo punto fermo è la problematica dell'ecologia, della minaccia che le attività dell'uomo rappresentano per il suo ambiente naturale.
All'idea di un affrancamento dell'uomo dalla natura si contrappone un'interpretazione del mondo che propugna un ritorno alla natura. Quando si discute se i problemi ecologici derivanti dallo sviluppo della società possano essere fronteggiati con una conversione del sistema industriale, o se invece richiedano un mutamento ideologico e religioso di fondo, viene messo in questione il consenso sulla concezione del tempo tipica della società moderna. Si offre allora alle Chiese, in quanto custodi della tradizionale visione premoderna del mondo, l'opportunità di unirsi ai movimenti di critica del progresso della società attuale e di sottrarsi alla posizione marginale in cui le aveva relegate l'interpretazione scientifica del mondo, riconquistando una posizione centrale nell'odierno dibattito sulla concezione del tempo.
Allo stesso modo diviene problematico un altro tipo di consenso, anch'esso moderno, proprio della cultura cristiana: quello riguardante l'esigenza di una giustizia sociale estesa a tutti gli uomini. La realizzazione di quest'ideale, che è un assioma della dottrina sociale della Chiesa, è legata al progressivo aumento del benessere nelle società occidentali in seguito allo sviluppo tecnologico ed economico: ciò vale soprattutto nei riguardi dei paesi sottosviluppati. Nella tensione tra benessere ed ecologia emergono interpretazioni divergenti del nostro tempo, opposte valutazioni normative basate su diverse concezioni religiose ed etico-sociali. Si preannunzia così, alla fine dell'età moderna, una nuova costellazione ideologica in cui il cristianesimo incorporato nella cultura e nella società viene coinvolto, insieme con le nuove potenzialità interpretative liberatesi nelle Chiese, nei conflitti tra l'ordine naturale e la giustizia sociale, conflitti di cui non è dato prevedere l'esito. In ogni caso, questa situazione su scala mondiale offre la possibilità di ridare un peso ideologico ai problemi che la secolarizzazione aveva fatto accantonare all'inizio dell'età moderna. In questo contesto va anche inquadrata la rinascita in ogni parte del mondo di correnti e movimenti fondamentalisti, caratterizzati da tendenze nettamente antimodernistiche.
La sociologia della teologia scientifica si occupa della funzione sociale di guida che la teologia razionale assolve nei riguardi della prassi ecclesiastica. L'elaborazione sistematica della teologia come scienza, pervenuta alla sua prima forma integralmente razionalizzata nell'alto Medioevo, ha lo scopo di fornire un fondamento scientifico al cristianesimo istituzionalizzato nella Chiesa. Su questa base la verità del cristianesimo può essere espressa in categorie atemporali della ragione, in modo che la sua validità possa essere affermata anche indipendentemente dalla religiosità effettiva. La tensione fra religiosità e teologia derivante dalla scientificizzazione di quest'ultima ha prodotto nella Chiesa frequenti conflitti sociali: tale tensione è stata, accanto all'istituzionalizzazione di un clero contrapposto alla comunità, il fattore più importante di divergenza fra teologi e laici, poiché l'interpretazione valida del cristianesimo compete alla teologia, in collegamento con l'autorità ecclesiastica. Nel protestantesimo la socializzazione del ministero ecclesiastico per mezzo della teologia scientifica è stata ulteriormente intensificata dal declino dell'autorità sacramentale, in quanto il reclutamento dei pastori è avvenuto quasi esclusivamente in base alla loro formazione teologica.
La rilevanza sociale della teologia scientifica rispetto al cristianesimo ecclesiastico rimase aproblematica fino a quando la scienza generale si trovò in accordo con la razionalità teologica e con le sue implicazioni filosofiche. Dal Settecento in poi la teologia scientifica è diventata il principale terreno di confronto nel dibattito sociale sulla validità della verità cristiana e delle conseguenti pretese della Chiesa nei riguardi della società. La liberalizzazione di una ricerca teologica non sottoposta alla censura ecclesiastica, quale si è affermata nel protestantesimo, contrasta con i tentativi del cattolicesimo di regolamentare e sottoporre a censura la teologia scientifica.
Al di là di queste differenze tra le varie confessioni, è importante notare per la funzione sociale della teologia che essa interpreta il cristianesimo mediante enunciati razionalmente rappresentabili e comprensibili, a un livello socialmente diverso rispetto alle forme di rappresentazione proprie della prassi religiosa. Ciò significa che la guida della prassi ecclesiastica da parte della teologia scientifica avviene in primo luogo attraverso un sapere accessibile solo a un ristretto strato sociale di cristiani dotati di un'istruzione superiore. Le teologie del XIX e del XX secolo orientate verso la critica scientifica si rivolgono quindi, nella loro apologia del cristianesimo fondata su teorie storiche e filosofiche, a una minoranza colta e fanno dipendere la partecipazione alla conoscenza della verità teologica da forme di sapere cui ha accesso solo un numero socialmente limitato di membri della Chiesa. La teologia come conoscenza elitaria è posta dinanzi al problema della comunicazione sociale nella misura in cui la cultura generale si distacca, ai fini della vita pratica, dalla conoscenza scientifica; in particolare, si pone il problema se la capacità della Chiesa di tramandare il cristianesimo possa sopravvivere e rinnovarsi efficacemente in connessione con la teologia. Pertanto i conflitti tra la Chiesa e la teologia scientifica, sempre esistiti allo stato latente e manifestatisi più volte apertamente dall'Ottocento in poi, riguardano anche la funzione di integrazione sociale della teologia.
Il più importante strumento sociale usato per tramandare il cristianesimo, nella Chiesa e al di fuori di essa, è il linguaggio. In sintonia con la tradizione ebraica, la parola di Dio è la principale rappresentazione della verità religiosa. Per la razionalità del suo linguaggio il cristianesimo si differenzia in modo determinante, dal punto di vista della storia delle religioni, dalle forme magiche e dalle prassi mitiche. Tuttavia i contenuti esperibili nelle forme linguistiche cristiane non colgono immediatamente la realtà divina in sé, ma servono solo a stabilire un rapporto sociale con essa. La funzione del linguaggio religioso non coincide col suo significato; il linguaggio ha infatti una funzione simbolica e serve a comunicare per simboli il rapporto con Dio. In questo senso nel cristianesimo il linguaggio più importante è quello della liturgia del servizio divino: in quanto linguaggio rituale, esso serve a rendere stabile e ripetibile l'attualizzazione di quella realtà divina con cui l'uomo non può avere alcun rapporto immediato. Sia la Chiesa cattolica che quella ortodossa hanno tenuto conto dell'importanza del linguaggio liturgico, creando una lingua ecclesiastica eguale in tutta la Chiesa; le riforme della liturgia, come ad esempio la traduzione del suo linguaggio nelle varie lingue nazionali, incidono quindi in profondità nella conservazione della tradizione e hanno per le Chiese conseguenze di vasta portata sul piano sociale.
I tentativi di trascendere questa funzione di comunicazione sociale propria del linguaggio religioso si sono sviluppati nella tradizione della mistica, dando origine al problema della possibilità di trasmettere socialmente l'immediatezza di questo tipo di esperienza. La mistica non può condurre alla formazione di una Chiesa, perché rappresenta un'esperienza di unione con Dio non comunicabile nella sua immediatezza e in quanto esperienza individuale non esprimibile socialmente. Il discorso sulla mistica è già un discorso metareligioso. La mistica pertanto costituisce la fonte cristiana dell'individualismo moderno, e in questo senso Troeltsch (v., 1912) ha definito la religione dei moderni intellettuali idealisti un individualismo mistico privo di qualsiasi efficacia sociale.Il linguaggio liturgico ha il suo luogo sociale nell'istituzione ecclesiastica ed è comunicabile socialmente solo in connessione con il rito del servizio divino. Gli elementi essenziali del dogma sono presenti nelle formule liturgiche della professione di fede, poiché queste stesse hanno il carattere di un symbolum (ad esempio il symbolum romanum). Il linguaggio simbolico della liturgia non è però un mezzo di comunicazione idoneo per la vita sociale quotidiana, e in particolare per l'etica sociale: nella gerarchia linguistica delle Chiese la forma di espressione etico-sociale dello spirito cristiano è quindi in subordine rispetto al linguaggio simbolico. Se, com'è avvenuto nelle moderne società occidentali, l'osservanza del precetto domenicale è sentita sempre meno come obbligo sociale, si riduce anche la partecipazione al linguaggio simbolico-liturgico della Chiesa; la corrispondente rivalutazione e autonomizzazione dell'etica sociale come forma di comunicazione del cristianesimo crea allora lo spazio per un pluralismo linguistico di tipo nuovo.
Questo pluralismo sociolinguistico è più marcato e persistente nel protestantesimo, in cui fin dal tempo dei movimenti pietistici secenteschi si è attribuita alla devozione individuale una grande importanza, accresciuta dalla tendenza del cristianesimo non istituzionalizzato a privilegiare i valori etici. Nella misura in cui si sono associate con la nascente borghesia, la religiosità e l'etica protestanti hanno trovato nelle forme di comunicazione del cristianesimo secolare un medium sociale extraecclesiastico.
In tempi recenti si è manifestato un influsso diretto delle teorie sociolinguistiche là dove il linguaggio religioso e teologico è stato indagato criticamente sulla base del suo implicito carattere sociale ed è stato analizzato con la volontà di cambiarlo. Ad esempio, il movimento femminista di origine nordamericana si è servito di criteri sociolinguistici per evidenziare il carattere maschilista del linguaggio simbolico religioso e per reclamarne una trasformazione in senso neutrale rispetto al sesso. Questi movimenti non partono da originarie esigenze religiose, ma si richiamano ai programmi di emancipazione femminile che dopo essersi affermati in generale nelle società democratiche tendono ora a mettere radici anche nel cristianesimo istituzionalizzato. Risulta così ancora una volta che il linguaggio religioso ha un'importante funzione di ordinamento sociale, che può costituire un punto di partenza per alcuni processi di modernizzazione all'interno delle Chiese. Ciò vale sia per certe riforme liturgiche, sia per le richieste di mutamenti del linguaggio ecclesiastico avanzate da determinati movimenti sociali.
Dopo le ricerche di filosofia del linguaggio di Wittgenstein si è affermata l'idea che la lingua parlata comune sia la forma di linguaggio sociale che abbraccia tutti gli altri linguaggi specializzati e che rende possibile la comunicazione fra i linguaggi più diversi. Nelle scienze sociali e in particolare nella sociologia della religione quest'idea implica che soltanto ciò di cui si parla nella lingua corrente - ossia ciò che viene linguisticamente acquisito e rappresentato a livello individuale - costituisce per il singolo una realtà certa ed esistenzialmente percepibile (v. Berger e Luckmann, 1966). Strettamente connessa con questa posizione è la problematica della trasmissione del cristianesimo nella società. Gli sforzi della teologia moderna sono rivolti in gran parte a trasformare il linguaggio della tradizione ecclesiastica in un linguaggio attuale, socialmente trasmissibile e individualmente accettabile. Dal punto di vista della sociologia delle Chiese questi sforzi si riallacciano alla prassi della predicazione, in cui si cerca di raggiungere gli ascoltatori attualizzando la tradizione attraverso il linguaggio corrente accessibile a tutti. A questa tendenza si contrappone una concezione sociolinguistica basata su ricerche etnologiche (v. Geertz, 1973), che suggerisce la via esattamente opposta alla traduzione del linguaggio religioso nelle forme linguistiche quotidiane: essere religioso vuol dire sempre apprendere e far proprio il linguaggio specifico di una determinata religione. In tal caso il modello sociale per l'applicazione pratica di questa concezione sociolinguistica non è più la trasformazione del linguaggio, ma la catechesi: la religione si apprende e si acquisisce mediante la pratica di un particolare linguaggio sociale, che consente di entrare a far parte di una comunità linguistica ecclesiastica (v. Lindbeck, 1984).
Nell'ambito del linguaggio si manifestano dunque, come nella scansione sociale del tempo e come già in altri campi, alcuni moderni processi di differenziazione del cristianesimo e delle Chiese; in tali processi sono insite nuove possibilità di accrescere la rilevanza sociale della cultura cristiana e l'autonomia delle Chiese nella società. (V. anche Religione).
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