Religione
1. Introduzione
La sociologia della religione non è nata come ramo particolare della scienza della religione, bensì in seno alla sociologia stessa (v. Tenbruck, 1991, p. 28). Il concetto acquistò un suo preciso significato con la pubblicazione nel 1920-1921 dei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie di Weber. In questi saggi il sociologo tedesco aveva messo in luce il nesso tra ethos capitalistico ed etica protestante, esplorando altresì le connessioni tra le grandi religioni mondiali, la vita economica e la stratificazione sociale. La morte prematura impedì a Weber di realizzare il suo progetto di colmare le lacune dell'opera sviluppando una 'sociologia della religione' organica e sistematica. Nel 1922 una versione non definitiva della Religionssoziologie venne pubblicata come sezione autonoma nell'opera postuma Wirtschaft und Gesellschaft.
La sociologia della religione si propone di ricercare e analizzare luoghi e funzioni delle religioni nelle società moderne. Poiché Émile Durkheim e i suoi allievi concepivano in termini analoghi lo studio dei fatti religiosi, l'etichetta di 'sociologia della religione' viene applicata anche alle loro teorie. In contrasto con il materialismo, sia Weber che Durkheim affermavano che la storia della religione continuava anche nella società industriale secolarizzata.
La nozione di 'secolarizzazione' ha un ruolo fondamentale nella sociologia della religione. Si tratta di un concetto che designa una pluralità di fenomeni: la perdita di ogni legame con le Chiese, le condizioni per la nascita di un 'mercato religioso' e di un pluralismo delle confessioni, la trasformazione di assunti religiosi in evidenze culturali. Proprio per questa complessità di significati il concetto di secolarizzazione si rivela ora come in passato particolarmente utile per comprendere il ruolo della religione nella società moderna (v. Pollak, 1995; v. Hervieu-Léger, 1990; v. Stark e Bainbridge, 1985).
2. La religione nel contesto della secolarizzazione e della modernizzazione
Per 'secolarizzazione' si intende propriamente il passaggio di beni o istituzioni in possesso del potere ecclesiastico nelle mani del potere civile. Questo processo di sottrazione all'ambito delle pertinenze dirette o indirette della gerarchia ecclesiale ebbe inizio già nel Seicento (il termine 'secolarizzazione' fa la sua prima comparsa negli accordi preliminari alla pace di Vestfalia), e andò di pari passo con la formazione dello Stato moderno e con l'affermarsi del principio della separazione tra Stato e Chiesa. Il primo paese a sancire nella costituzione l'abolizione di una Chiesa di Stato furono gli Stati Uniti (il 'disestablishment' del I emendamento).
In Europa il paese che intraprese con maggior coerenza la strada della secolarizzazione fu la Francia, a partire dalla delibera emanata dall'Assemblea costituente il 2 novembre 1789 ("tous les biens ecclésiastiques sont à la disposition de la nation"), sino alla legge del 1905 che sanciva la completa separazione tra Stato e Chiesa, con la conseguente completa esclusione di quest'ultima dalla sfera pubblica (v. Campenhausen, 1994⁴, pp. 66-68).
Più incerto fu il cammino della Germania. La Costituzione di Weimar del 1919 era ambivalente, in quanto, se da un lato riconosceva la piena libertà religiosa dei cittadini, dall'altro attribuiva alle comunità religiose lo status di enti di diritto pubblico dotati di ampi poteri, ad esempio in materia fiscale (artt. 136-139 e 141). La Costituzione della Repubblica Federale Tedesca riprese interamente queste disposizioni (art. 140), sicché le grandi Chiese hanno un riconoscimento ufficiale (ibid.). In Germania dunque la separazione tra Stato e Chiesa fu perseguita con meno coerenza rispetto alla Francia, tanto che nel suo caso si può parlare di una 'forma debole' di Chiesa di Stato.
Il processo di secolarizzazione e la conseguente separazione tra Stato e Chiesa hanno avuto significative ripercussioni sulle comunità cristiane, creando innanzitutto i presupposti per la nascita di un 'mercato' religioso. Come ha osservato Peter Berger a proposito degli Stati Uniti, la perdita del monopolio ecclesiale ha fatto sì che "religioni un tempo dominanti oggi debbano essere 'vendute' sul mercato, e vendute a una cerchia di clienti che non sono costretti a 'comprare'. La situazione pluralistica è innanzitutto una situazione di mercato. Le istituzioni religiose sono diventate 'agenzie pubblicitarie', e la religione stessa si è trasformata in un 'bene di consumo'. La logica dell'economia di mercato domina in questo modo ampie sfere della vita religiosa" (v. Berger, 1969, p. 132). Soprattutto negli Stati Uniti, le Chiese sono diventate dipendenti dalle offerte dei cittadini, e la religione ha cessato di essere un destino per diventare una libera scelta dell'individuo. Non si è trattato di una trasformazione necessariamente negativa per le Chiese, ma va rilevato che non tutte le denominazioni ne hanno beneficiato in egual misura. A questo riguardo è interessante osservare che a partire dal 1776 il numero dei membri di alcune sette protestanti negli Stati Uniti anziché diminuire ha registrato un costante incremento (v. Finke e Stark, 1992).
Questa 'situazione di mercato' fa sì che le varie religioni non solo si trovino in competizione le une con le altre, ma debbano anche far fronte alla concorrenza di offerte culturali non religiose. Molte forme di espressione delle religioni moderne, come ad esempio i movimenti di risveglio spirituale, i meetings di massa, le pubblicazioni e le associazioni (si pensi all'YMCA), sono nate sul mercato culturale. La religione è passata in parte dalla sfera ecclesiale a quella culturale, con significative ripercussioni sulle sue forme organizzative e sul suo modo di presentarsi al pubblico.Il problema del riconoscimento pubblico delle comunità religiose è un'altra, importante conseguenza della separazione tra Stato e Chiesa. Se in principio la preoccupazione prevalente era quella di tutelare le comunità religiose dall'ingerenza dello Stato, in seguito l'esigenza più sentita è sembrata quella di tutelare i cittadini da una eccessiva influenza delle comunità religiose sulla sfera pubblica (v. Sullivan, 1994). D'altro canto la grande rilevanza delle comunità religiose nella vita quotidiana dei cittadini ha fatto sì che aumentassero le pressioni nei confronti delle autorità per ottenerne il riconoscimento ufficiale. Il fenomeno del multiculturalismo agisce nella stessa direzione, in quanto spinge verso una "politica del riconoscimento" (v. Taylor e altri, 1994).
Gli effetti della secolarizzazione vennero acuiti dalla modernizzazione economica che all'inizio del XIX secolo investì progressivamente l'Europa e l'America. L'avvento della società industriale mutò il valore della tradizione religiosa nella vita quotidiana. Nella sfera dell'agire economico il guadagno monetario divenne più importante del soddisfacimento dei bisogni tradizionali. Nell'ambito del potere politico la legislazione scritta divenne più importante della consuetudine. La tradizione religiosa perse il suo valore tradizionale di norma dell'agire sociale. Niklas Luhmann ha parlato a questo proposito di un processo di 'differenziazione della religione', che ne ha mutato radicalmente le funzioni. La religione ha perso il suo valore regolativo per la società ed è diventata un sottosistema funzionale autonomo, indipendente sia da quello economico che da quello politico. In questo modo è potuta divenire oggetto di giudizio da punti di vista a essa estranei, come quello dell'economia razionale o della legittimità politica. Nello stesso tempo, però, ha acquistato il carattere di un sistema autonomo rispetto alle grandi potenze sociali. Questo processo ha avuto inoltre importanti conseguenze per ciò che Luhmann ha definito "sicurezza originaria" della religione, nel senso che non è più possibile un trapasso da certezze religiose a certezze non religiose e viceversa (v. Luhmann, 1993, p. 259).
Gli effetti della modernizzazione sulle religioni sono stati analizzati da Peter Berger. "Innumerevoli individui - egli afferma - vivono nell'ambivalenza tra liberazione e alienazione [...]. La modernità viene di fatto vissuta come una liberazione - dai limiti ristretti della tradizione, dalla miseria, dai vincoli del clan e della tribù. D'altro canto per questa liberazione viene pagato un prezzo altissimo. L'uomo sperimenta oggi una solitudine impensabile nella società tradizionale: privato dei vincoli di solidarietà della sua esistenza collettiva, vive altresì nella totale incertezza riguardo alle norme che dovrebbero guidare la sua esistenza, e non sa più nemmeno chi o cosa egli sia" (v. Berger, 1979).
Il sociologo britannico A. Giddens, dal canto suo, ha osservato come la modernizzazione abbia comportato una globalizzazione del mondo di vita dell'individuo. La dinamica della modernità sradica il singolo dal suo mondo di vita familiare, inserendolo in una rete di rapporti sociali che attraverso i meccanismi dello scambio e i mezzi di comunicazione hanno perso ogni specifico riferimento spaziale acquistando una dimensione mondiale. L'individuo è dunque costretto a determinare autonomamente la propria identità. La crescente consapevolezza storica ha un ruolo importante in questo processo, in quanto consente di rispondere al mutamento attraverso una riflessione su alternative presenti in passato o che sono state soppresse. La pretesa espressa dall'illuminismo di vagliare criticamente tutte le pratiche sociali ha portato da un lato a una moltiplicazione delle alternative, dall'altro a una perdita di certezza (v. Giddens, 1990).
La critica della religione di Thomas Hobbes e poi degli illuministi del XVIII e del XIX secolo aveva contribuito a risvegliare l'interesse per la storia delle religioni. La distinzione operata tra una religione razionale e le religioni storiche tradizionali imponeva non solo di stabilire dei criteri per definire la prima, ma anche di spiegare la continuità delle religioni storiche. Nell'ambito della filosofia della religione questo compito intellettuale ha assunto progressivamente un'importanza centrale e ha contribuito a ridestare l'attenzione per lo studio delle religioni, ritenuto in grado di fornire delucidazioni su una dimensione dell'esistenza umana che merita riconoscimento a prescindere da tutte le pretese di razionalizzazione.
Le strade intraprese per risolvere questo compito intellettuale sono state peraltro assai diverse. Le religioni potevano essere viste come una forma di filosofia della natura, ed è questa la posizione sostenuta in Inghilterra da David Hume, cui si ispirò l'interpretazione intellettualistica della religione di Edward Burnett Tylor, secondo il quale la storia della religione non è che la storia del tentativo compiuto dall'umanità sin dalle origini di risolvere l'enigma della natura e dell'uomo stesso.
Jean-Jacques Rousseau in Francia e Immanuel Kant in Germania posero a fondamento della religione razionale la sua funzione morale. Secondo Rousseau l'autentica religione è indipendente da tutte le istituzioni della civiltà. L'uomo non ha bisogno né di filosofi né di teologi per conoscere i suoi doveri morali: non i giudizi dell'intelletto, ma i moti del cuore sono la migliore guida nelle questioni che riguardano la società. Il costante ripresentarsi delle guerre di religione, come già lamentava Hobbes, non sarebbe imputabile alle religioni ma agli Stati. Un'idea simile si ritrova in Kant, il quale colloca la vera religione esclusivamente nella sfera del dover essere (la morale), sostanzialmente distinta da quella dell'essere. "La religione (considerata soggettivamente) è la conoscenza di tutti i nostri doveri come comandamenti divini" (v. Kant, 1793). Per pervenire a tale conoscenza non vi è bisogno di alcuna Chiesa. È la ragione a indicare ciò che vi è di intemporale nella religione storica, ciò che vi è di universale in una confessione particolare, ciò che vi è di immutabile in ciò che muta. Pur con tutte le riserve e le limitazioni, Kant non dubita che una religione particolare possa avere una funzione preparatoria, servendo da strumento per raggiungere il fine della fede razionale. L'individuo laico deve solo liberarsi dalla tutela della Chiesa obbedendo unicamente alla ragione: in questo modo la religione particolare può diventare fonte di una moralità pubblica vincolante. Queste idee vennero in seguito sviluppate da Émile Durkheim e in parte anche da Max Weber.
Johann Gottfried Herder e Friedrich Schleiermacher inaugurarono una tradizione filosofica che, in polemica con quella che veniva considerata l'arida razionalità dell'illuminismo, attribuiva alle religioni storiche il più grande valore, considerandole un'espressione naturale e spontanea dell'animo umano.
Un passo importante fu segnato dall'analisi filosofica della religiosità indiana sviluppata da Hegel sulla base di una comparazione tra il mondo spirituale orientale e quello occidentale. Mentre in India la negazione del mondo sfocerebbe in un annullamento della soggettività, nella tradizione occidentale sarebbe invece fonte di una tensione permanente tra soggetto e mondo. Nella storia dell'Occidente si può riconoscere una crescente soggettività e individualità dell'uomo. Partendo da premesse analoghe, Arthur Schopenhauer rovescerà il giudizio di Hegel, affermando che il grande merito storico delle religioni basate sulla negazione del mondo è proprio quello di superare la soggettività e l'individualità. Hegel e Schopenhauer segnano l'inizio di una filosofia della religione che vede nella negazione del mondo il contributo più rilevante delle religioni storiche - un'idea che verrà poi ripresa e sviluppata da Troeltsch e da Max Weber.
Friedrich Nietzsche adottò un'altra strategia per analizzare le religioni storiche. Rifiutando in modo radicale e polemico l'assunto che i principî morali siano autoevidenti per l'uomo, egli sostenne che non può esservi una ragione - né pura né pratica - indipendente da uno specifico contesto spazio-temporale. Le religioni diventano così fatti fondamentali della vita. A Nietzsche si ispirerà la cosiddetta 'filosofia della vita' (Lebensphilosophie), e il suo pensiero influenzerà anche Georg Simmel.
Lo studio della religione come disciplina storico-empirica si sviluppa dalla consapevolezza che per spiegare la presenza della religione nella società moderna secolarizzata non è più sufficiente richiamarsi al valore per così dire autoevidente della tradizione. Nemmeno le spiegazioni offerte dalla filosofia della religione, troppo diverse e contrastanti, si rivelano adeguate a chiarire le condizioni e i presupposti del fenomeno religioso, che va studiato invece sulla base di fatti univoci e osservabili. E tuttavia sono pur sempre le opzioni filosofiche dei singoli autori a decidere quali fenomeni vadano considerati di pertinenza della religione e quali no. Alla diversità di approcci filosofici va ricondotta in ultimo la pluralità di teorie formulate nell'ambito dello studio scientifico (storico-empirico) del fenomeno religioso.
3. Genealogie religiose del sistema sociale moderno
L'opera principale di Durkheim, La divisione del lavoro sociale, tematizzava un fenomeno che all'epoca della pubblicazione del libro (1893) era estremamente attuale. La Francia era allora nel pieno del processo di industrializzazione, e parallelamente al mutamento sociale si andava verificando il passaggio del potere politico da una classe privilegiata a un ceto medio borghese (v. Jones, 1986-1987, pp. 177 ss.). Nell'analizzare questo mutamento, Durkheim incentrò l'attenzione sulla divisione del lavoro, che ai suoi occhi costituiva l'innovazione fondamentale. Nelle società semplici in cui non vige una divisione del lavoro avanzata il ruolo sociale del singolo è fissato dalla tradizione e dalle consuetudini. Ogni violazione della tradizione è considerata un delitto contro gli dei e quindi severamente punita. Il diritto è di tipo repressivo e ha la funzione di garantire la conformità sociale. Nella società moderna basata sulla divisione del lavoro gli individui diventano tanto più estranei gli uni agli altri quanto più cresce la loro interdipendenza funzionale. Il problema che Durkheim si propone di analizzare riguarda i rapporti tra personalità individuale e solidarietà sociale: perché l'individuo, pur diventando sempre più autonomo, è sempre più dipendente dalla società? Come può egli essere nello stesso tempo persona e solidale? È innegabile difatti che questi due processi, per quanto possano apparire contraddittori, si verificano parallelamente. Può una società organizzata in base alla divisione del lavoro creare un vincolo morale tra i propri membri in competizione? Porsi questo problema significava chiaramente rifiutare l'assunto in base al quale il singolo individuo è una sorta di monade che istituirebbe autonomamente i rapporti sociali. Per Durkheim, al contrario, la vita collettiva non è nata dalla vita individuale, ma viceversa. Solo così è possibile spiegare in che modo si formino e si sviluppino individualità personali senza che ciò determini una disgregazione della società.
Durkheim non era stato il primo a porsi il problema del vincolo morale nella società moderna. Si trattava di un problema nato con la Rivoluzione francese, che aveva sottratto al singolo il posto assegnatogli nella gerarchia e nell'ordine tradizionali. Lo status aveva lasciato il posto al contratto tra cittadini. Le conseguenze sociali a lungo termine di questo sviluppo avevano attirato l'attenzione di una serie di pensatori già all'inizio dell'Ottocento - in Inghilterra, in Germania e, soprattutto, in Francia (v. Lukes, 1973, pp. 195-199; v. Nisbet, 1952, ed. 1968, pp. 80 ss.). Se molti vedevano nell'individualismo una minaccia per la coesione della società, Durkheim avanza invece un'interpretazione diversa, alla cui base egli pone l'analisi del ruolo e delle funzioni della religione.
Il fatto che il sociologo Durkheim cercasse nella storia della religione la risposta a questo problema può apparire sorprendente solo a prima vista. Altri pensatori francesi avevano aperto la strada in questa direzione. Già Rousseau, ad esempio, aveva affermato che una società ha bisogno di una religion civile. Uno dei maestri parigini di Durkheim, lo storico dell'antichità N.-D. Fustel de Coulanges, nel suo studio La cité antique (1864) aveva dimostrato come nel mondo antico la religione costituisse il fondamento dei rapporti sociali. Il culto dei morti, strettamente legato al culto del focolare, sarebbe stato all'origine della comunità domestica e dei gruppi di parentela. La stessa istituzione della proprietà sarebbe derivata da tale culto, e la religione avrebbe contribuito anche alla formazione delle antiche comunità cittadine, costituite da una pluralità di gruppi di parentela. Il carattere socialmente produttivo della religione era quindi stato dimostrato già prima di Durkheim. Ciò presupponeva peraltro che la religione non fosse definibile solo in termini di dogmi e dottrine, ma anche e soprattutto di comportamenti obbligati. Durkheim fece propria questa valutazione differenziata della dottrina e dei riti religiosi alla luce dei loro effetti sociali.
Nella sua analisi dei legami sociali nella società basata sulla divisione del lavoro Durkheim assegna un ruolo rilevante alla religione, sebbene lamenti l'assenza di una definizione scientifica del fenomeno religioso. Nella sua teoria 'religione' non è che un altro modo di designare la normatività sociale. Via via che si intensifica la divisione del lavoro, si estende l'ambito di autonomia del singolo individuo e diventa sempre più esiguo il numero di quelle tradizioni che hanno carattere vincolante per tutti e alle cui violazioni la comunità reagisce con il diritto repressivo. Il diritto si svincola progressivamente dalla religione, e così pure le sfere e le funzioni politiche, economiche e cognitive. L'ambito della religione si restringe progressivamente, e l'individuo diventa sempre meno eterodiretto. Durkheim non condivideva peraltro il pessimismo di quanti avevano deplorato questo processo considerandolo un sintomo di disgregazione sociale. A suo avviso il mutamento sociale avrebbe creato le condizioni per una nuova forma di integrazione sociale. Questo residuo di esistenza collettiva costituirebbe l'ultimo fondamento morale comune che continua a sussistere anche nella società dominata dalla divisione del lavoro: nella misura in cui tutte le altre credenze e pratiche assumono un carattere sempre meno religioso, l'individuo diventa oggetto di una forma di religione (v. Durkheim, 1893).
Sull'origine di questo culto dell'individuo Durkheim si esprimerà in modo più preciso in occasione di una presa di posizione nell'affaire Dreyfus. Nel saggio L'individualisme et les intellectuels (1898) egli replica all'accusa secondo cui gli intellettuali, spinti da un individualismo distruttivo, avrebbero gettato il paese nell'anarchia con la loro critica dell'esercito e dello Stato. Durkheim prende con decisione le difese dell'individualismo, sostenendo che esso non deve assolutamente essere confuso con l'egoismo, con un culto egoistico dell'Io, ma va bensì ricondotto ai diritti umani e al principio del carattere sacro della persona affermato da Kant e da Rousseau. L'individualismo per Durkheim è una morale con un carattere vincolante assoluto, non implica alcuna forma di anarchia, ma rappresenta l'unico sistema di fede che può garantire l'unità morale del paese. Per questa ragione, difendere gli interessi dell'individuo significa difendere gli interessi vitali della società. L'individualismo viene addirittura equiparato a una religione di cui l'uomo è allo stesso tempo fedele e divinità. "Questo culto dell'uomo ha quale dogma supremo l'autonomia della ragione e quale rito supremo la libera verifica" (v. Durkheim, 1898). Quanto alle origini dell'individualismo, Durkheim lo riconduce non già all'illuminismo ma al cristianesimo, che avrebbe spostato il centro della vita morale dall'esterno all'interiorità, erigendo l'individuo a giudice supremo delle proprie azioni.La tesi della religione come 'fatto sociale' che condiziona l'agire del singolo anche senza che questi ne sia consapevole è al centro dello studio Il suicidio, pubblicato nel 1897. Qui Durkheim rovescia il problema affrontato ne La divisione del lavoro sociale: non si tratta più di spiegare come sia possibile la solidarietà nella società moderna basata sulla divisione del lavoro, bensì di individuare le ragioni che spingono gli individui a spezzare il vincolo sociale. Come ha osservato acutamente Lukes, Durkheim con questo studio voleva celebrare il trionfo del proprio metodo sociologico, dimostrando che anche nel caso di un'azione puramente individuale come il suicidio il singolo è condizionato da una realtà esterna indipendente da lui (v. Lukes, 1973, p. 194).
L'esistenza di un collegamento tra confessioni religiose e tassi di suicidio era già nota prima di Durkheim. Partendo da dati statistici i quali dimostravano che l'incidenza del suicidio era assai maggiore tra i protestanti che non tra i cattolici, Durkheim (v., 1897) ritenne di aver trovato una spiegazione convincente per questo dato sorprendente: il tasso più elevato di suicidi tra i protestanti a suo avviso andava ricollegato all'individualismo della loro religione. I cattolici invece sarebbero maggiormente integrati in una comunità, e tra gli Ebrei l'incidenza del suicidio risulta ancora minore in quanto le costanti persecuzioni subite avrebbero contribuito a rafforzare i loro legami di solidarietà. La religione è dunque un fattore che incentiva oppure frena il suicidio, ma può agire in quest'ultima direzione, proteggendo gli individui dall'impulso autodistruttivo, solo quando forma una comunità. I dogmi avrebbero un ruolo secondario: ciò che conta è la capacità di una religione di dar corpo a un'esistenza collettiva.
Con lo studio sul suicidio Durkheim intendeva dimostrare che un'indagine sulla società deve tener conto di fatti sociali che non sono di evidenza immediata, ma debbono essere scoperti. Esiste una classe di azioni che gli uomini compiono autonomamente, obbedendo tuttavia a una forma di coercizione. Le azioni che non sono imposte da una legge di natura, ma non sono nemmeno del tutto spontanee, formano la categoria dei faits sociaux: si tratta di quelle forme di azione, di pensiero e di sentimento che trascendono il singolo individuo e sono dotate di un potere cogente in virtù del quale si impongono (v. Durkheim, 1895). Nella sua analisi dei fatti sociali Durkheim assegna un posto privilegiato alla religione. Il motivo è spiegato nella prefazione al secondo volume dell'"Année sociologique": "Si resterà sorpresi del particolare rilievo che è stato dato a questo genere di fenomeni, ma essi sono il germe da cui sono scaturiti tutti, o quasi, gli altri. La religione comprende in sé in via di principio, sebbene in stato ancora embrionale, tutti quegli elementi che separandosi, affermandosi, connettendosi tra loro in mille modi hanno dato origine alle varie manifestazioni della vita collettiva" (v. Durkheim, Préface, 1899). La religione appariva allora a Durkheim la chiave per comprendere e spiegare le regole matrimoniali, il diritto penale, in breve l'intero sistema sociale. Da explanandum la religione si trasformava così in explanans.
Attraverso le religioni delle società semplici secondo Durkheim è possibile accedere alla sfera inconscia della vita collettiva. In queste comunità inoltre non si è ancora creata quella distanza psichica tra motivazioni e azioni che nelle società progredite rende le prime imperscrutabili. Poiché le religioni dei 'primitivi' offrono modelli interpretativi di tipo cognitivo oltreché morale, il loro studio consente di gettar luce sull'origine delle nostre categorie di pensiero. Da esse infatti si sono sviluppate le forme attraverso le quali organizziamo tuttora la nostra conoscenza.
Per il suo studio Le forme elementari della vita religiosa Durkheim (v., 1912) si servì del materiale etnografico sugli Aranda e altre tribù australiane raccolto da due etnologi britannici, B. Spencer e F.J. Gillen. Tale studio si apre con una definizione della religione che precisa quelle formulate in precedenza in altri scritti: "La religione è un sistema solidaristico di credenze e pratiche che si riferiscono a cose, credenze e pratiche sacre, ovvero separate e proibite, le quali uniscono in un'unica comunità morale, chiamata chiesa, tutti coloro che vi aderiscono". Il carattere vincolante delle credenze, secondo Durkheim, può derivare solo dal fatto che la religione è espressione di un gruppo sociale. Il totem (animale o pianta che sia) costituisce l'emblema dell'appartenenza di gruppo, e la venerazione di cui è oggetto è socialmente produttiva, in quanto unisce i singoli individui in una comunità dotata di una propria realtà trascendente o sovrannaturale. I termini usati da Durkheim fanno pensare a una sorta di miracolosa transustanziazione, in virtù della quale un gruppo di singoli individui dà luogo a una comunità morale.
In Le forme elementari della vita religiosa Durkheim presenta anche un'analisi dell'animismo. L'origine di questa credenza a suo avviso non va ricercata nell'esperienza dei sogni, della malattia e della morte, come riteneva E.B. Tylor. Alla spiegazione intellettualistica dell'animismo proposta da Tylor Durkheim contrappone una interpretazione sociale, secondo la quale le radici di tale credenza andrebbero ricercate nel dualismo dell'uomo, che da un lato esiste come singolo individuo, dall'altro si identifica con la collettività rappresentata dal totem. Le tribù australiane credono che le anime rinascano e che ognuna di esse incarni il principio totemico. Proprio l'esistenza del principio totemico nell'uomo stesso costituisce il fondamento della sua autonomia. La sacralizzazione della società e l''autonomia' del singolo individuo sono concepite da Durkheim come un sistema di vasi comunicanti. La struttura dell'autonomia morale è ancorata alla religione delle società elementari. La storia dell'umanità non è che la realizzazione di ciò che la religione primitiva aveva prefigurato.
La dimensione collettiva dell'essere umano costituisce il tema di uno scritto durkheimiano del 1914, Il dualismo della natura umana e le sue relazioni sociali. L'esistenza umana avrebbe una duplice dimensione: in quanto essere corporeo l'uomo è una creatura materiale, individuale ed egoista, in quanto dotato di anima è un essere morale, sociale e razionale. Come già aveva affermato Kant, l'uomo è libero di contrastare i propri impulsi, ed è ciò a farne un essere morale. L'uomo è persona in quanto obbedisce alla legge morale generale, ed è individuo in quanto segue gli impulsi del corpo. È il corpo, quindi, a determinare l'individualizzazione del singolo; l'anima, per contro, determina la sua autonomia rispetto alle leggi naturali. Quanto più l'uomo si libera dalla materialità, tanto più diventa persona.
Agli occhi di Max Weber, la nascita della moderna società razionale tipica del mondo occidentale non è né un prodotto dell'illuminismo europeo, né in generale di un'evoluzione necessaria. Alla sua genesi contribuirono condizioni storiche del tutto particolari, che Weber analizza in uno dei suoi scritti più famosi, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, apparso in due parti, nel 1904 e nel 1905, nell'"Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik". Nel 1920 Weber rielaborò e ampliò questo scritto per inserirlo nei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie.
La connessione tra protestantesimo e capitalismo, "il carattere prevalentemente protestante della proprietà e dell'impresa capitalistica", non fu una scoperta di Weber (v., 1904-1905): ad esempio già Eberhard Gothein, nel 1892, nella sua storia economica della Foresta Nera e dei territori limitrofi l'aveva messa in luce. Ma come spiegarla? Secondo l'interpretazione weberiana il capitalismo poté affermarsi solo grazie al sostegno di una forza interiore, di un ethos che gli permise di sconfiggere un potente avversario, il tradizionalismo. Weber illustra l'influenza esercitata dal tradizionalismo sulla sfera economica con l'esempio del salario a cottimo. Contrariamente a tutte le aspettative, un aumento dei salari a cottimo aveva l'effetto di diminuire anziché di aumentare la produttività del lavoratore. All'incremento salariale questi reagiva diminuendo la produzione giornaliera. La possibilità di un guadagno superiore era palesemente meno allettante di quella di lavorare meno. Da questa constatazione Weber trae la seguente conclusione: "L'uomo 'per natura' non vuole guadagnare denaro e sempre più denaro, ma semplicemente vivere, vivere secondo le sue abitudini e guadagnare quel tanto che è a ciò necessario. Dappertutto, là dove il capitalismo moderno iniziò la sua opera di aumento della produttività del lavoro umano mercé l'aumento della sua intensità, urtò nella resistenza indicibilmente ostinata di questo motivo fondamentale del lavoro economico precapitalistico". Questa resistenza, che Weber considera insita nella natura umana, doveva essere spezzata perché potesse nascere il capitalismo moderno.
Il ruolo svolto dalla religione in questo processo non era di evidenza immediata; molti anzi avevano sostenuto che il capitalismo fosse una conseguenza dell'emancipazione dalla religione. L'interpretazione radicalmente diversa avanzata da Weber fu senza dubbio influenzata dai lavori del giurista Georg Jellinek (v., 1895), il quale aveva dimostrato che i diritti umani moderni non erano nati dalla concezione illuministica del diritto naturale, bensì dalla Riforma luterana. Furono i non conformisti religiosi del XVII secolo a impegnarsi per primi per i diritti fondamentali della libertà di fede e di coscienza (v. König e Winckelmann, 1985², p. 15).
Interpretando la religione come istanza rivoluzionaria Weber intendeva anche chiarire in che modo le idee agiscono nella storia. È evidente qui la critica al materialismo storico, che scaturisce da un modo del tutto diverso di concepire il progresso storico. Il caso eccezionale di una rottura del tradizionalismo, secondo Weber, fu reso possibile solo da un'istanza superiore alla tradizione, e tale istanza va ricercata nel versante soggettivo dell'economia, nel suo ethos. L'agire economico necessita - come del resto ogni agire sociale - di un conferimento di senso adeguato. L'ipotesi di un'affinità elettiva tra agire e conferimento di senso deriva dalla concezione del potere che Weber espliciterà in seguito in Economia e società. L'agire sociale, che è sempre riferito al comportamento di altri individui, può riuscire solo quando tutti i soggetti gli attribuiscono un unico e medesimo senso. Interazioni sociali regolari possono sussistere solo quando tutti i soggetti concordano sulla validità di un sistema di senso, e quanto più a esso viene attribuita una validità incondizionata, tanto più aumenta la probabilità di una riuscita regolare delle interazioni sociali. Partendo da queste riflessioni di ordine sistematico, Weber incentra l'attenzione sulla religione al fine di spiegare perché l'economia capitalistica sia sorta nei paesi protestanti.
Nell'Etica protestante Weber isola una condotta di vita metodica che avrebbe costituito la forza propulsiva del capitalismo. Per ricostruire tale ethos il sociologo tedesco attinge agli scritti devozionali dei puritani inglesi risalenti alla seconda metà del XVII secolo. Scaturiti direttamente dalla prassi pastorale, questi scritti cercavano di inculcare nel fedele la convinzione che la salvezza non può essere ottenuta attraverso i sacramenti. È solo l'imperscrutabile volontà divina a decidere chi sarà salvato e chi no; nessuno potrà mai avere certezze al riguardo, e di conseguenza l'uomo non può fare altro che assolvere con scrupolo i propri doveri quotidiani, fare del proprio meglio e dare buona prova di sé nella professione. Il successo deve essere considerato il primo indizio della grazia, ma solo il lavoro indefesso e la rinuncia al piacere garantirebbero le opportunità di salvezza. Questa dottrina teologica della predestinazione ebbe dunque una particolare conseguenza pratica: costituì il fondamento di un'ascesi intramondana che da un lato disprezza il godimento sfrenato della ricchezza, dall'altro libera l'aspirazione al guadagno dalle pastoie dell'etica tradizionalista. Senza dubbio ciò non rientrava nelle intenzioni dei predicatori, e tuttavia tra i laici, in condizioni particolari, questa dottrina contribuì a consolidare una condotta di vita che scalzò l'agire economico di tipo tradizionale. Interpretando i concetti religiosi come modelli di condotta di vita, Weber getta luce sulle interpretazioni di senso di quegli strati sociali che per primi superarono il tradizionalismo. Ascesi intramondana, spirito, vocazione, conferma, sono tutti concetti riconducibili a un ethos che mirava a svincolare l'economia dai bisogni tradizionali. Proprio l'assenza della certezza della salvezza costituì la forza propulsiva che permise di rivoluzionare l'ordinamento economico, spezzando i vincoli posti dal tradizionalismo all'aspirazione al guadagno. Allorché una determinata classe sociale adottò questo modello di condotta e conquistò il potere, l'intero sistema sociale prese una nuova direzione di sviluppo.
Per quanto acute, queste osservazioni di Weber non hanno mancato di suscitare critiche. Alcuni storici ad esempio hanno rilevato che gli scritti devozionali utilizzati da Weber risalgono a un'epoca in cui molti puritani si erano ritirati dalla politica per dedicarsi esclusivamente allo svolgimento delle loro attività professionali (v. Lehmann, 1988, p. 540). Il puritanesimo descritto da Weber pertanto non sarebbe tipico di tutte le forme di puritanesimo. La debolezza della sua argomentazione, si è ancora sostenuto, consisterebbe nel fatto di cercare di spiegare un fenomeno tedesco del XIX secolo - la distribuzione statisticamente ineguale del capitale tra luterani, calvinisti e cattolici - sulla base della letteratura edificante inglese del XVII secolo (v. Ay, 1995). Un altro motivo di perplessità, sempre legato alle fonti, è dato dal fatto che Weber avrebbe desunto la tesi secondo cui il calvinismo spingerebbe all'attivismo, mentre il luteranesimo porterebbe al quietismo, dall'arsenale delle polemiche confessionali del XIX secolo (v. Graf, 1993).
Nel 1911 Weber pose nuovamente mano ai suoi studi di sociologia della religione, cimentandosi nell'impresa titanica di indagare il rapporto tra l'economia e le grandi religioni mondiali - confucianesimo, induismo, buddhismo, islamismo e cristianesimo. A spingerlo su questa strada fu la convinzione che non solo il protestantesimo, ma tutte le grandi religioni fossero sostenute da potenti classi sociali, e che alla base dei differenti sistemi religiosi vi fossero differenti classi sociali. Attraverso la storia delle religioni, a suo avviso, era possibile determinare e spiegare il differente corso sociale intrapreso dalle grandi civiltà. Weber era convinto che "sono gli interessi (materiali e ideali) e non le idee, a dominare direttamente l'attività dell'uomo. Ma le 'concezioni del mondo' create dalle 'idee' hanno spesso determinato, come chi aziona uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso tale attività" (v. Weber, 1915; tr. it., vol. I, p. 342).
Frutto di queste ipotesi di lavoro fu Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen (1915-1920), che si presenta come una vera e propria ricostruzione storica delle grandi religioni mondiali. La concezione della religione di Weber si richiama non all'animismo di E.B. Tylor, bensì al preanimismo di R.R. Marett: la religione non si sarebbe sviluppata dalla credenza nell'anima, ma dal timore reverenziale di fronte allo straordinario e all'inesplicabile. Secondo lo schema evolutivo delineato da C.P. Tiele le religioni naturali - le quali vedono il mondo animato da forze sovrannaturali che possono essere controllate con la magia - lasciano il posto con la comparsa dei profeti alle religioni etiche: "La sostituzione delle religioni naturali con le religioni etiche è stata di norma il risultato di una rivoluzione, o perlomeno di una riforma cosciente" (v. Tiele, 1897, p. 63). Rifacendosi a Max Müller, Tiele aveva operato una distinzione tra una concezione 'teoantropica', che considera la divinità immanente nella natura umana, e una concezione 'teocratica', in cui essa si contrappone all'uomo come potenza estranea. Le religioni naturali e le religioni etiche corrisponderebbero a due stadi evolutivi diversi della religione, laddove le due concezioni della divinità summenzionate indicherebbero i due orientamenti divergenti intrapresi rispettivamente dalle religioni indoeuropee e da quelle semitiche (ibid., pp. 150-181). Weber riprende sostanzialmente questo schema, aggiungendovi però il concetto di religiosità della redenzione, attinto non già da Tiele bensì da H. Siebeck, secondo il quale la religione della redenzione rappresenta una categoria autonoma. Questa scelta gli consente di tematizzare la 'religiosità' quale dimensione soggettiva della religione. In relazione al concetto di religiosità della redenzione, però, ancora più importante dell'influenza di Siebeck fu quella di Troeltsch. Da questi Weber mutua l'idea che la forza propulsiva di ogni evoluzione religiosa sia l'esperienza della inesplicabilità e della mancanza di senso del mondo: "Il problema dell'irrazionalità del mondo è stato la forza propulsiva di ogni sviluppo religioso. La dottrina indiana del karma e il dualismo persiano, l'idea del peccato originale, quella della predestinazione e del deus absconditus sono scaturite tutte da questa esperienza" (v. Weber, 1919). Dall'esperienza dell'impotenza secondo Weber sarebbero scaturiti progressivamente i vari sistemi di interpretazione religiosa del mondo: dall'esperienza della imprevedibilità della natura il dinamismo, dal rifiuto del medium cultuale l'etica religiosa, dall'esperienza dell'assenza di giustizia le teodicee.
Ciò che spinse Weber a estendere la sua indagine alle religioni extraeuropee fu la scoperta della peculiarità del razionalismo occidentale. Il concetto chiave a questo riguardo è quello di 'disincantamento', cui Weber attribuisce un'importanza tale da immetterlo "come un corpo estraneo" (v. Tenbruck, 1975, p. 667) nella nuova versione dell'Etica protestante: proprio l'assoluta mancanza di una salvezza ecclesiale-sacramentale - scrive Weber - fu rispetto al cattolicesimo l'elemento decisivo. "Quel grande processo storico-religioso di disincantamento del mondo che si iniziò con le antiche profezie giudaiche, e che in unione col pensiero scientifico greco rigettò tutti i mezzi magici nella ricerca della salvezza, considerandoli come superstizione delittuosa, trovò qui la sua conclusione" (v. Weber, 1904-1905; tr. it., vol. I, p. 197).
Per comprendere il ruolo fondamentale che Weber attribuisce alla nozione di 'disincantamento' occorre rifarsi alla sua distinzione tra agire soggettivamente razionale rispetto allo scopo e agire oggettivamente razionale. Il primo può fondarsi sulla condotta di vita dell'individuo senza dover essere oggettivamente giusto. Il mondo oggettivo, 'corretto', dei fatti e il mondo soggettivo della condotta di vita razionale sono geneticamente indipendenti. A ciò avrebbe provveduto appunto il 'disincantamento'. La pretesa che il corso del mondo sia in qualche modo dotato di senso scaturiva dalla religione, ma poiché si trattava di una pretesa irrealizzabile, il problema della sofferenza ingiustificata portò progressivamente a una crescente svalorizzazione del mondo (v. Weber, 1915). Da tale svalorizzazione si sarebbe sviluppata la consapevolezza che il mondo e le sue forme di vita obbediscono a leggi autonome. È dunque nella storia della religione che andrebbe ricercata l'origine dello iato creatosi tra il mondo dei fatti e il mondo del significato. Così come l'ascesi intramondana avrebbe creato l'etica del capitalismo, dal disincantamento del mondo sarebbe scaturito il postulato pratico secondo cui esso sarebbe governato da leggi impersonali.
In questo processo però interveniva anche un altro elemento importante: quella che Weber definisce 'etica dell'intenzione' (Gesinnungsethik). Solo in concomitanza con essa il disincantamento poté compiere la sua opera rivoluzionaria. La religiosità si sarebbe quasi trovata costretta ad accettare con il crescente disincantamento del mondo riferimenti di senso sempre più (soggettivamente) irrazionali rispetto allo scopo, basati su principî o valori morali o di tipo mistico (v. Weber, Über einige..., 1913). Il disincantamento del mondo esteriore dei fatti avrebbe dato libero spazio a conferimenti di senso soggettivi. Nel descrivere le tensioni tra l'etica della religiosità di negazione del mondo e l'autonomia dell'agire economico e politico razionale rispetto allo scopo, Weber fornisce diversi esempi che dimostrano come nel mondo ridotto a meccanismo sdivinizzato persistano alternative improntate all'etica dell'intenzione. Assieme ai loro presupposti razionali, tali alternative formerebbero la tipica cultura occidentale. Nel mondo disincantato dei fatti il singolo individuo sarebbe costretto a dare egli stesso un senso al mondo; nessuna conoscenza empirica potrebbe essergli d'aiuto in questo compito.
Il carattere contraddittorio della cultura occidentale viene analizzato da Weber nel saggio Wissenschaft als Beruf (1917-1919). Nel mondo moderno l'esistenza quotidiana è teatro di uno scontro tra posizioni diametralmente opposte. Proprio la completa riuscita del processo di disincantamento del mondo avrebbe dischiuso negli ordinamenti di vita oggettivati quegli spazi in cui la storia della religione può continuare sotto diverse condizioni. In precedenza Weber aveva ricollegato questa continuità dell'esigenza religiosa con l'intellettualismo: "Quanto più l'intellettualismo fa recedere la credenza nella magia e i processi del mondo vengono 'disincantati', perdono il loro contenuto di senso e si limitano a 'essere' e ad 'accadere', tanto più cresce e si fa pressante l'esigenza che il mondo e la 'condotta di vita' nel suo complesso siano dotati di senso e di significato" (v. Weber, 1917-1919). In questo modo il disincantamento riproduce quel problema che aveva dato impulso alla nascita e allo sviluppo della religione. Se il cosmo è retto da leggi impersonali, l'individuo volente o nolente deve rifondare autonomamente la propria soggettività, indipendentemente da ogni realtà precostituita, facendo riferimento a valori. Da un lato la realtà si riduce a mera fatticità, dall'altro il senso diventa un problema di onestà intellettuale e di decisione personale.
Nella prima versione dell'Etica protestante sembrava che la dinamica sociale avesse annullato tutti i valori tranne quelli legati all'etica professionale razionale. Weber concludeva allora la sua analisi della condotta di vita razionale con la cupa visione di una "gabbia d'acciaio" da cui non esiste scampo (v. Weber, 1904-1905). La concezione del disincantamento del mondo sviluppata nel 1911 segna un mutamento di prospettiva. Il misticismo non è una mera categoria residua, un pendant passivo rispetto all'ascesi attiva (v. Schluchter, Religion und ..., 1988, vol. II, p. 81), ma diventa un'alternativa altrettanto legittima nel mondo disincantato. La razionalizzazione formale del mondo ammette una pluralità di razionalizzazioni della condotta di vita (v. Mommsen, 1985 e 1993). Al singolo individuo è lasciata piena responsabilità di condurre la propria vita in conformità con decisioni soggettive. A questo proposito può essere utile richiamare la differenza tra il concetto di 'condotta di vita' e quello di 'agire' messa in luce da W. Gephart (v., 1993, p. 51). Il valore della condotta di vita non si fonda sul successo nell'interazione, ma sulla saldezza di un sistema di norme a fronte delle inevitabili delusioni. Sia l'ascesi che il misticismo rappresentano tali norme cristallizzate della condotta di vita. Il pluralismo delle decisioni individuali creerebbe i presupposti per la sopravvivenza della religione, sia pure in condizioni diverse, anche nel mondo razionalizzato e disincantato.
Un ruolo importante per il fenomeno religioso è attribuito da Weber alla categoria degli intellettuali. "Nel passato [...] la natura particolare degli strati intellettuali era oltremodo importante per le religioni. Il loro compito principale era la sublimazione del possesso della salvezza religiosa in una fede nella 'redenzione'. La concezione dell'idea di redenzione era in se stessa antichissima, se si intende come liberazione dal bisogno, dalla fame, dalla siccità, dalla malattia, e infine dalla sofferenza e dalla morte. Ma la redenzione acquistò un carattere specifico solo quando fu espressione di una 'concezione del mondo' razionalizzata e sistematizzata e della presa di posizione nei confronti di essa" (v. Weber, 1915; tr. it., vol. I, p. 342). La religiosità della redenzione e il ruolo degli intellettuali assumono un'importanza centrale nella ricostruzione weberiana della storia della religione. L'esperienza dell'irrazionalità del mondo è l'elemento fondamentale sulla base del quale effettuare la comparazione delle grandi religioni mondiali. "La concezione metafisica di Dio, che suscitò il bisogno inestirpabile della teodicea, fu parimenti in grado di produrre soltanto pochi sistemi di pensiero - in tutto, come vedremo, soltanto tre - che dessero delle risposte soddisfacenti sul piano razionale al problema del fondamento dell'incongruenza tra destino e merito. Si tratta della dottrina indiana del karma, del dualismo di Zarathustra e del decreto di predestinazione del deus absconditus. Queste soluzioni, le più rigorose razionalmente, sono apparse però solo in via del tutto eccezionale nella loro forma pura" (ibid., p. 338). Poiché il problema del male e dell'ingiustizia è sostanzialmente irrisolvibile, la storia della religione continua il suo cammino anche nella società contemporanea. Le grandi religioni sia asiatiche che occidentali rappresentano risposte intellettuali a queste esperienze universali dell'uomo, e di conseguenza si tratta di opzioni sempre attuali, che nel mondo disincantato avrebbero lo status di fondamenti della condotta di vita.
D'altro canto, tuttavia, il ruolo della religione nel mondo disincantato si differenzia da quello che essa aveva nel mondo tradizionale. Quanto più sono gli intellettuali in via di principio a problematizzare il 'senso' del mondo, tanto più il 'senso' viene delegato al soggetto. Le religioni tradizionali diventano massime della condotta di vita che acquistano validità sulla base di una decisione soggettiva. Le antiche, molteplici divinità, disincantate e quindi sotto forma di potenze impersonali, escono dalle loro tombe, lottano per riaffermare il loro potere sulla nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta reciproca (v. Weber, 1917-1919). Persino gli dei dunque possono essere disincantati e acquistare potere sulla vita umana come forze impersonali. Lo stesso intellettualismo che ha determinato il disincantamento del mondo può ancora concepire gli dei trasformandoli in valori sublimati. Tali valori, secondo Weber, si sono ritirati dalla sfera pubblica o nel regno occulto della vita mistica o nella fratellanza di relazioni dirette tra i singoli (ibid.). Egli comunque riteneva poco probabile che da ciò potesse scaturire un reale rinnovamento religioso.
4. Tre paradigmi teorici
Nei suoi sviluppi successivi la sociologia della religione non ha accolto incondizionatamente tutte le sollecitazioni dei classici. Mentre sia Weber che Durkheim ritenevano che la religione fosse una funzione della società e quindi della vita pubblica, le due principali teorie della religione formulate successivamente diedero un'interpretazione sostanzialmente diversa del ruolo e delle funzioni della religione. La fenomenologia pone a fondamento della religione l'esperienza personale, mentre il funzionalismo ne individua la ragion d'essere nelle sue funzioni latenti per il sistema sociale. Solo a seguito dell'influenza esercitata dalla filosofia del linguaggio sull'analisi della cultura la religione è stata interpretata come parte integrante dell'agire comunicativo e quindi della sfera pubblica.
Al centro della cosiddetta 'fenomenologia della religione' vi è l'idea che questa sia un fenomeno autonomo e irriducibile. Il postulato di un'autonomia della religione fu formulato a cavallo tra Ottocento e Novecento, e si riconnetteva all'auspicio che essa potesse esercitare un'azione a distanza sulla cultura moderna proteggendo la personalità del singolo dalle coercizioni della società moderna (v. Kippenberg, 1996). Un ruolo non trascurabile ebbe a questo riguardo il risveglio dell'interesse per il pensiero di Friedrich Schleiermacher, i cui principali artefici furono Wilhelm Dilthey e Rudolf Otto. Secondo Dilthey, i principî meccanicistici sono stati illegittimamente applicati allo spirito, riducendo l'uomo a una mera macchina di percezione e conoscenza della realtà esterna. Ciò avrebbe inficiato anche la concezione della religione. Questa, come già aveva affermato Schleiermacher, esprimerebbe per Dilthey l'esperienza dell'unione 'mistica' dell'uomo e della natura con l'infinito.
Alla base dell'ermeneutica sviluppata da Dilthey vi è l'idea di un isomorfismo tra l'esperienza (Erlebnis) religiosa interiore, che è sempre soggettiva e individuale, e le sue oggettivazioni in fatti esteriori, la cui comprensione consente una conoscenza obiettiva del fenomeno religioso (v. Dilthey, 1911). Le due dimensioni - i fatti esteriori quali oggettivazioni della religione e l'esperienza religiosa interiore - si presuppongono reciprocamente. La comprensione della storia della religione produce in un unico e medesimo processo un sapere sia oggettivo, sia pratico-esistenziale.Le idee di Dilthey vennero riprese e sviluppate dal filosofo della religione Rudolf Otto, cui si deve una nuova edizione critica, a cent'anni dalla prima pubblicazione, dei famosi scritti sulla religione di Schleiermacher. Questi, secondo Otto, avrebbe compiuto un significativo e originale tentativo di riavvicinare alla religione un'epoca che ha perso ogni interesse e ogni legame con essa. Rispetto alle sfere della conoscenza e dell'azione, secondo Schleiermacher, la religione costituisce un ambito a sé stante dell'esistenza umana, della vita spirituale, completamente indipendente da quelle e dotato di un valore autonomo (v. Otto, 1899). Contro la cultura intellettualistica e il filisteismo del razionalismo nello Stato, nella Chiesa, nella scuola e nella società, Schleiermacher fa appello alla fantasia, alla profondità interiore, al presagio, al misticismo, a ciò che è storicamente divenuto e positivo in contrasto con ciò che è 'naturale', a ciò che è individuale e particolare in contrasto con l'universale-razionale.
Nel suo studio sul sacro Otto (v., 1917) riafferma l'autonomia della religione rispetto alla conoscenza e alla morale. Le categorie concettuali risultano inadeguate alla comprensione del fenomeno religioso, che può essere colto e spiegato solo facendo appello ai sentimenti. Otto rifiuta recisamente la riduzione della religione a esigenze etiche. Il 'numinoso' è precisamente il sacro spogliato dall'elemento morale ovvero razionale. Solo trattandolo come datum primario della vita esso può essere reso accessibile alla coscienza.
La risonanza internazionale delle idee di Otto contribuì in misura considerevole all'affermarsi di un'interpretazione della religione come esperienza individuale irriducibile. Illustri storici della religione, tra cui Mircea Eliade, si richiamarono a Otto proponendo una concezione del fenomeno 'religione' in cui fattori come morale e conoscenza hanno un ruolo del tutto marginale. Affermare l'autonomia della religione significava ribadirne il carattere di sfera privata, sottraendola quindi alle spiegazioni riduzionistiche della sociologia e soprattutto alle ingerenze politico-ideologiche. In base all'approccio ermeneutico della Lebensphilosophie, nell'analisi della religione l'ultima parola spetta all'esperienza religiosa soggettiva. Il luogo d'elezione delle religioni può essere solo la sfera privata individuale, non la sfera pubblica.
Negli stessi anni i sociologi andavano sviluppando un particolare tipo di analisi funzionalistica della religione. Il paradigma funzionalistico, ispirato al modello dell'organismo biologico, si basava sui seguenti postulati: che la società costituisce un'unità, che le sue istituzioni forniscono un contributo essenziale al mantenimento della coesione sociale e che tali istituzioni, in virtù di questa funzione, sono indispensabili. Robert K. Merton, uno dei più illustri esponenti della scuola funzionalista, intraprese una revisione critica di questo paradigma rilevando come esso ignori completamente la distinzione fondamentale tra motivazioni consapevoli e conseguenze non intenzionali dell'azione; spesso, infatti, le azioni hanno conseguenze non volute dall'attore, che vengono percepite solo da un osservatore esterno. Secondo Merton, quindi, è indispensabile per l'analisi sociologica distinguere tra funzioni manifeste e funzioni latenti. La distinzione in questione si dimostra particolarmente importante per un'istituzione quale la religione. Il comportamento manifestamente irrazionale potrebbe avere una funzione razionale, come nel caso della magia; anche se questa si fonda su assunti erronei, svolge nondimeno funzioni sociali indispensabili (v. Merton, 1968³, pp. 86 ss.).
Un esempio di queste 'funzioni latenti' delle credenze religiose è dato dai rituali di ribellione nell'Africa sudorientale studiati dall'etnologo inglese Max Gluckman (v., 1953). Egli analizza un rito per propiziare il raccolto, che si svolgeva ogni anno in primavera tra gli Zulu, la cui caratteristica saliente era il sovvertimento dei ruoli maschili e femminili. J.G. Frazer - che al pari di Tylor adottava un'interpretazione intellettualistica della religione - aveva ricondotto questo tipo di rituale al 'pensiero magico' proprio dei popoli primitivi. Gluckman però restava scettico di fronte a questa spiegazione. Al suo occhio di etnologo non poteva sfuggire il fatto che tra gli Zulu covavano conflitti sociali tra uomini e donne. Richiamandosi alla nozione aristotelica di catarsi, egli affermò che la funzione del rito era quella di scaricare l'aggressività delle donne e quindi di ripristinare la stabilità sociale. La ribellione rituale può aver luogo solo all'interno di un ordine sociale che non viene posto in discussione, ed è quindi ben lontana da una rivoluzione sociale. Ciò che appare come un rivolgimento è in realtà funzionale alla conservazione dell'ordine sociale.
L'idea che comportamenti apparentemente irrazionali possano essere spiegati facendo riferimento alle loro funzioni latenti fu ripresa da altri etnologi. Già Bronislaw Malinowski, del resto, aveva aperto la strada in questa direzione nella sua analisi della magia trobriandese. I Trobriandesi facevano ricorso a pratiche magiche solo quando si trattava di affrontare imprese rischiose, come ad esempio la pesca del pescecane; per i compiti di routine e privi di rischi, invece, adottavano tecniche e comportamenti ispirati a principî empirici e razionali. La funzione latente della magia allora sarebbe quella di creare sicurezza in situazioni di tensione emozionale. Contrariamente a quanto aveva sostenuto Frazer, Malinowski riteneva che la magia non potesse essere interpretata come una sorta di falsa scienza: "La funzione della magia è quella di ritualizzare l'ottimismo degli uomini" (v. Malinowski, 1925).
La distinzione tra funzioni manifeste e funzioni latenti è stata oggetto di numerose critiche. In particolare, secondo Anthony Giddens sarebbe poco verosimile che gli uomini non tengano conto delle conseguenze non intenzionali delle loro azioni anche al ripetersi dell'esperienza. Ciò potrebbe accadere solo se il soggetto fosse una sorta di monade. Di fatto l'individuo è portato a riflettere costantemente sulle proprie azioni alla luce dell'esperienza e a modificarle. Le conseguenze non intenzionali dell'azione diventano le condizioni note del comportamento successivo. Tali processi retroattivi sono tipici di qualunque azione (v. Giddens, 1984). Alla luce di questa critica al funzionalismo 'classico' un allievo di Gluckman, Victor Turner, ha reinterpretato anche il rituale di ribellione descritto in precedenza. Sebbene le modifiche apportate possano apparire irrilevanti, il risultato nel complesso è qualitativamente diverso. Agli occhi di Turner la gerarchia sociale è fondamentalmente precaria, in quanto contrasta con l'eguaglianza naturale di tutti gli uomini - la communitas, come egli la definisce. I rituali di ribellione pertanto sono sempre anche esercizi mentali per un'autentica rivoluzione (v. Turner, 1969). La tesi di Turner sembra trovare una conferma significativa nel rituale aschura degli sciiti in Iran. La sconfitta subita nel 680 dall'imam sciita al-Ḥusain a Kerbelā veniva celebrata ogni anno in quello che aveva tutti i caratteri di un tradizionale rituale di ribellione. La sollevazione contro lo scià alla fine degli anni settanta venne celebrata con una nuova versione di questo rituale, che questa volta non terminava con una sconfitta, bensì con una vittoria - l'empio Yazid, che incarnava lo scià, veniva sconfitto. I rituali di ribellione, si può concludere, non hanno una funzione esclusivamente catartica, ma possono diventare il modello di un nuovo ordine politico.
Gli intensi dibattiti sollevati dallo studio di Clifford Geertz, Religion as a cultural system - uno dei più discussi della seconda metà del secolo -, coinvolsero anche gli studiosi della religione, oltre che gli etnologi e gli storici. In esso infatti Geertz (v., 1966) sanciva la fine dei due paradigmi che avevano dominato lo studio della religione sino agli anni sessanta, il funzionalismo e la fenomenologia. Dichiarando sterile la vecchia controversia che per decenni aveva opposto le due scuole - se la religione debba essere definita come credenza individuale o come funzione sociale - Geertz impostò il problema in termini diversi, affermando che la religione è un fenomeno di rilevanza sociologica non in quanto rispecchia l'ordine sociale, bensì in quanto lo crea. Nel sostenere questa tesi egli si richiamava alla filosofia delle forme simboliche di E. Cassirer e della sua allieva S. Langer. A differenza degli altri esseri viventi, l'uomo si servirebbe dei segni non solo per designare le cose, ma anche per rappresentarle. Il linguaggio - come insegnava la gnoseologia filosofica - rappresenta il mondo, consentendoci di conoscerlo e di comprendere il significato che esso ha per noi. Il mondo ci è dato solo attraverso simboli, e questi possono essere di due tipi: linguistici e non linguistici. Nel primo caso il significato degli oggetti viene trasmesso in forma discorsiva, nel secondo viene rappresentato nella sua integrità (v. Langer, 1942). Geertz riprende tale distinzione tra simboli discorsivi e simboli rappresentativi applicandola allo studio della religione. Nella sua analisi i simboli religiosi avrebbero la funzione di "unificare l'ethos di un popolo - il suo stile, il suo carattere e la sua natura, il suo orientamento etico e le sue tendenze estetiche - con la sua visione del mondo, l'immagine che esso ha delle cose nella loro pura datità, le sue idee d'ordine nel senso più ampio. Le credenze e le pratiche religiose rendono l'ethos di un gruppo credibile sul piano intellettuale [...] e la concezione del mondo credibile sul piano emotivo". In questa prospettiva la vecchia disputa sulla priorità tra credenza e funzione appare obsoleta. L'attenzione va rivolta invece all'interrelazione tra i due elementi. La funzione della religione sarebbe quella di creare una sintesi tra l'immagine del mondo di un popolo e il suo ethos pratico, e nel far ciò essa sosterrebbe l'una con l'autorità dell'altro. La religione renderebbe evidenti i concetti metafisici, e fornirebbe una spiegazione intellettuale per le azioni e la mentalità dell'uomo.L'approccio di Geertz metteva in discussione non solo il funzionalismo, ma anche la fenomenologia. Interpretando la religione nei termini della Lebensphilosophie, Rudolf Otto, Nathan Söderblom e Gerarddus van der Leeuw avevano sostenuto che solo sulla base della propria esperienza personale (Erlebnis) l'interprete può comprendere le testimonianze religiose del lontano passato e di culture estranee. Affermando che immagine del mondo ed ethos, credenza e azione si convalidano a vicenda, Geertz poneva l'ermeneutica su nuove basi.
Una scossa alla tesi, posta in dubbio da Geertz, secondo cui solo sulla base dell'Erlebnis personale la religione risulta interpretabile, fu data dalla pubblicazione postuma del diario di Malinowski. Se nei suoi scritti questi aveva esortato l'etnologo ad adottare il metodo dell'osservazione partecipante, andando a vivere con i membri della comunità studiata e partecipando attivamente alla loro vita, nei diari manifesta invece una viva insofferenza e una totale incomprensione per gli indigeni, arrivando a dichiarare: "Posso ben capire la crudeltà del colonialismo belga e tedesco!" Il problema che qui emerge è stato messo chiaramente in luce da Geertz: "Se la conoscenza etnologica non presuppone, come si è fatto credere, una sensibilità straordinaria, una capacità quasi sovrannaturale di pensare, di sentire e di percepire le cose come un indigeno, [...] com'è possibile allora in generale una conoscenza etnologica delle modalità di pensiero, di sentimento e di percezione degli indigeni? Il problema che ci pone il diario [...] non è di ordine morale, ma gnoseologico [...]. Che ne è della comprensione, se manca l'empatia?" (v. Geertz, 1977). In questa prospettiva perdeva fondamento anche la vecchia fenomenologia della religione, che aveva fatto dell'esperienza prelinguistica del singolo principio e fine dell'interpretazione della religione. Geertz cerca di risolvere il problema posto dal diario di Malinowski affermando che alla base del lavoro dell'interprete non vi è l'empatia, bensì l'osservazione del modo in cui gli uomini agiscono nel contesto delle forme simboliche attraverso cui rappresentano se stessi e gli altri. L'osservazione deve subentrare all'intuizione. Il ricercatore, secondo Geertz, deve studiare in che modo le azioni manifestino le immagini del mondo, e le immagini del mondo vengano tradotte in pratica dalle azioni. Per essere significativa, la descrizione di azioni e comportamenti deve mostrare quando e come le immagini del mondo acquistano realtà sociale attraverso l'agire. È chiaro che questo approccio di Geertz, in cui la comprensione/interpretazione è strettamente connessa all'osservazione, si differenzia sia dalla fenomenologia che dal funzionalismo classico; lo si potrebbe definire 'funzionalismo ermeneutico'.
A partire dagli anni sessanta molte delle idee di Geertz sono state recepite dagli etnologi, dagli storiografi e dagli studiosi di religione. Il binomio 'belief and action' si è sostituito alla vecchia idea della comprensione intuitiva. Come ha osservato acutamente A. MacIntyre (v., 1967), tra credenza e azione non esistono nessi causali. Ogni azione necessita di una spiegazione da parte dell'attore - in caso contrario non si tratterebbe di un comportamento riflesso. Le autentiche azioni esprimono idee e credenze, e in relazione a ciò possono essere giudicate coerenti o incoerenti. A seguito delle sollecitazioni provenienti da questi nuovi sviluppi teorici, le molteplici interrelazioni tra idee e azioni sono diventate l'oggetto d'indagine privilegiato nello studio della religione. Al funzionalismo classico - che postulava un sistema sociale integrato e attori non consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni - e alla fenomenologia - che postulava un'esperienza religiosa atemporale - è subentrata la teoria dell'agire comunicativo: la religione può essere osservata analizzando i ruoli e le funzioni che esplica nell'interazione pubblica, e può essere compresa attribuendole il valore di un'interpretazione di senso.
5. La religiosità nella cultura moderna
La tesi di Weber, secondo cui al disincantamento della società fa riscontro inevitabilmente un 'reincantamento' della condotta di vita del singolo, è stata ripresa e modificata in tempi recenti da autori quali P. Berger, N. Luhmann e A. Giddens. Nella società le religioni hanno assunto nuovi ruoli e nuove funzioni come sistemi di interpretazioni di senso. Il carattere saliente di questo mutamento può essere espresso come trapasso dalla 'religione' alla 'religiosità' (v. Luckmann, 1967). A trovare seguaci entusiasti non è più la religione tradizionale nella sua totalità, ma il suo valore di interpretazione del senso della storia, della natura e della persona. Sul piano organizzativo questo mutamento ha avvantaggiato i piccoli gruppi (sette e culti) piuttosto che le Chiese. Pur nella varietà di forme assunte dalla religiosità nel mondo contemporaneo, emergono due orientamenti ricorrenti, l'apocalittica e il misticismo, presenti non solo nel cristianesimo occidentale, ma anche nel giudaismo, nell'islamismo e nell'induismo.
Weber rifiutava la tesi di Ernst Troeltsch, secondo il quale solo le Chiese e non le sette possono essere universali e fondare un cristianesimo popolare, mettendo in luce come le sette nascano da una 'aspirazione alla purezza'. In quanto comunità di virtuosi religiosi, gli unici votati alla salvezza, la setta si separa dalla Chiesa come un'istituzione che fa splendere la sua luce sia sui giusti che sugli ingiusti. Questa esclusività della setta tuttavia non significa che essa non possa avere un carattere universale e popolare. Il caso degli Stati Uniti per Weber dimostrava il contrario: in questo paese la religione aveva un carattere popolare proprio perché il tipo di religiosità dominante era quello della setta. L'intuizione di Weber si è dimostrata fondata. Come emerge da uno studio sullo sviluppo delle denominazioni statunitensi condotto da R. Finke e R. Stark, le sette che si oppongono alla cultura dominante ed esigono dai propri membri una condotta di vita virtuosa hanno oggi un maggior numero di seguaci rispetto alle comunità 'liberali'. "Le organizzazioni religiose sono tanto più forti quanto più impongono costi rilevanti in termini di sacrifici, e persino di stigmatizzazione, ai loro membri" (v. Finke e Stark, 1992, p. 238). Il conflitto con la cultura dominante ha contribuito a espandere e a rafforzare le denominazioni, mentre l'adattamento le ha indebolite (ibid., p. 255).Una conferma a questa ipotesi viene dal caso del fondamentalismo. Con questo termine si indica un movimento di riformati, sorto tra il 1910 e il 1915 negli Stati Uniti, per difendere quali 'fondamenti' (fundamentals) del cristianesimo i dogmi dell'infallibilità della Bibbia, dell'immacolata concezione, della resurrezione del corpo, del sacrificio di Cristo in espiazione dei peccati dell'umanità e di una sua seconda incarnazione alla fine dei tempi. All'inizio il movimento si caratterizzò come una reazione interna alla Chiesa contro la teologia 'liberale', che aveva eliminato questi dogmi a causa della loro inverosimiglianza scientifica. Negli anni venti il contrasto travalicò l'ambito ecclesiale spostandosi sul terreno politico. I fondamentalisti invocavano un intervento diretto delle autorità statali affinché ponessero fine alle scandalose conseguenze dell'industrializzazione, come l'alcolismo e la prostituzione, e vietassero l'insegnamento di dottrine scientifiche in disaccordo con il racconto biblico della creazione. Nello Stato del Tennessee, ad esempio, essi riuscirono a far proibire l'insegnamento delle teorie di Darwin nelle scuole pubbliche. L'insegnante John Scopes, con l'appoggio di numerosi liberali, denunciò il fatto e intentò un procedimento giudiziario che lo vide sconfitto, ma che ebbe l'effetto di screditare gravemente il fondamentalismo agli occhi dell'opinione pubblica. Quello che divenne noto come 'processo alle scimmie' contribuì a far apparire i fondamentalisti come illetterati e reazionari. Negli anni sessanta tuttavia la situazione cambiò e il movimento fondamentalista cominciò ad apparire sotto una luce più favorevole. Ciò si dovette in parte ad alcune decisioni della Corte Suprema, in particolare la proibizione della preghiera nelle scuole pubbliche e la legalizzazione dell'aborto in determinate circostanze, che suscitarono viva indignazione tra ampi strati della popolazione. I fondamentalisti si mobilitarono contro l'aborto e per la tutela della morale cristiana tradizionale da parte dello Stato. Mentre nella giurisprudenza emergeva la preoccupazione di svincolare l'azione dello Stato e le istituzioni pubbliche da un'influenza religiosa troppo diretta, i fondamentalisti reclamavano un riconoscimento ufficiale della morale cristiana tradizionale. I nuovi gruppi fondamentalisti non rispondono più al cliché di un movimento di protesta reazionario. Come ha osservato Martin E. Marty (v. Marty e Appleby, 1992), la definizione del 'fondamentalismo' come credenza nella infallibilità delle Sacre Scritture, tuttora proposta dai dizionari, non è più attendibile. Rispetto all'ortodossia ecclesiale i gruppi fondamentalisti sono troppo politicizzati, selettivi e innovativi; rispetto al conservatorismo politico sono troppo religiosi e troppo poco adattati alle istituzioni esistenti. Si tratta di gruppi che reagiscono alle sfide poste alla fede tradizionale, che difendono determinati dogmi, formano movimenti esclusivi, sono in opposizione con i poteri sociali e politici, combattono il relativismo e il pluralismo, difendono l'autorità e negano la teoria evoluzionistica. In breve, si tratta di gruppi che conoscono il mondo di vita moderno, ma lo respingono. È questa una caratteristica che accomuna il fondamentalismo a correnti analoghe nelle altre religioni (giudaismo, islamismo, induismo e buddhismo). I fondamentalisti conoscono la dinamica del mondo di vita moderno con la sua scienza e la sua tecnologia, le sue forme di dominio burocratico e il suo mercato mondiale, e tuttavia rifiutano di elevare tale dinamica a massima della condotta di vita individuale e di conformare la propria esistenza ai criteri della modernizzazione che antepone l'autonomia alla tradizione, il mutamento alla continuità, la quantità alla qualità, l'efficienza ai valori tradizionali. Il sociologo Martin Riesebrodt (v., 1990) ha cercato di delineare il 'milieu sociomorale' dei movimenti fondamentalisti, i cui tratti salienti sarebbero l'appartenenza a una medesima religione, una situazione economica analoga, un vicinato comune e uno stesso orientamento morale. Il ceto medio protestante anglosassone di razza bianca ha costituito un siffatto milieu, e la modernizzazione ne avrebbe incrementato in misura significativa l'omogeneità. Il mondo di vita moderno richiede altri valori rispetto a quelli tradizionali della parsimonia, della fedeltà alla Bibbia, del senso della famiglia e della struttura patriarcale. Oggi si rendono necessari investimenti, flessibilità, mobilità, capacità di adattamento, individualismo, critica della tradizione. Le norme valide in passato sono state rese obsolete dal progredire dell'industrializzazione, della scienza, dell'urbanizzazione e dei partiti burocratici. La dinamica del mutamento sociale ha messo in crisi le forme di condotta di vita tradizionali, ponendo i membri del ceto medio protestante di fronte a una decisione difficile: cogliere le opportunità offerte dalla modernizzazione, oppure difendere la condotta di vita tradizionale contro il mondo moderno. Mentre i protestanti liberali hanno optato per la prima soluzione, abbandonando la morale tradizionale, i fondamentalisti hanno espresso un radicale rifiuto del mondo moderno, che si esprime però non già in un ritiro dal mondo corrotto, ma nella rivendicazione aperta e aggressiva di una riforma morale.
Le sette protestanti hanno guadagnato seguaci anche al di fuori degli Stati Uniti. Particolarmente significativo è il loro successo in America Latina (v. Martin, 1990). Nel 1916 i protestanti in quest'area erano ancora un'esigua minoranza, alla metà degli anni trenta 2,5 milioni, negli anni sessanta 5 milioni e negli anni ottanta 40. Secondo Martin il fenomeno va posto in connessione con il crollo dell'ordinamento sociale gerarchico. Finché in America Latina aveva dominato una oligarchia di latifondisti legati al cattolicesimo, il suo avversario era costituito da un laicismo militante. La situazione cambiò con l'industrializzazione a partire dagli anni trenta, e con la dittatura militare dopo gli anni sessanta. La rottura dell'ordine sociale offrì l'opportunità di affermarsi al protestantesimo, che rifiuta sostanzialmente la gerarchia e sostiene che la religione è un problema di coscienza del singolo individuo. Esso trovò seguaci soprattutto tra gli emarginati, i quali si rivolgevano alle sette radicali sperando in una redenzione, non solo dalle malattie ma anche dal peccato (alcolismo, violenza e promiscuità). Per queste sette si rivela particolarmente calzante l'osservazione di Finke e Stark, secondo cui quanto più esse pretendono dai propri seguaci sacrifici e un rigido autocontrollo, tanto più acquistano forza.
Come ha dimostrato E.R. Sandeen (v., 1970), il movimento religioso di cui il fondamentalismo fu espressione era nato assai prima della controversia dottrinale sui fundamentals, e si collocava nella tradizione dell'interpretazione apocalittica della storia che conobbe una rinascita agli inizi del XIX secolo. Dopo le guerre di religione europee del Seicento, le intense aspettative dell'avvento del regno di Dio erano state accolte con diffidenza sia nelle Chiese che tra i cittadini, o avevano incontrato un aperto rifiuto. Solo al principio dell'Ottocento intervenne un mutamento in questo atteggiamento. L'esperienza della Rivoluzione francese, che aveva espresso una critica radicale alla religione sostituendo alla Chiesa il culto paganeggiante della ragione, contribuì a dare nuovo impulso alla credenza in una fine catastrofica della storia. In Inghilterra gli avvenimenti francesi vennero interpretati come l'avverarsi di una profezia di Daniele (7, 25): "[L'ultimo re] proferirà parole insolenti contro l'Altissimo [...] e cercherà di cambiare i tempi e le leggi" (ibid., p. 6). L'ingloriosa fine di questa rivoluzione apparve a molti cristiani una dimostrazione del fatto che gli uomini non sono in grado di determinare con le proprie forze un progresso verso uno stato migliore. Apocalittica e profetismo conobbero una rinascita. Dall'inizio dell'Ottocento in Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti si moltiplicarono aspettative e movimenti apocalittici.
In Inghilterra nel periodo dell'industrializzazione (1790-1850) le sette protestanti superarono per numero di seguaci le Chiese di Stato. Con il metodismo si diffuse tra gli operai un 'chiliasmo della disperazione'. Anche in Germania nell'Ottocento si ebbero fasi di intensificazione delle aspettative chiliastiche. Nella prima metà del secolo si erano diffuse nella regione del Württemberg, dopo che il teologo Bengel fissò come data d'inizio del regno millenario il 18 giugno 1836. In seguito tali sette si diffusero nelle regioni industriali tedesche (v. Hölscher, 1989). Negli Stati Uniti ebbe un'enorme risonanza il predicatore William Miller, il quale sulla base di una personale interpretazione delle profezie bibliche annunciò il ritorno di Cristo sulla terra per il 1843. Il mancato verificarsi della predizione non fu inteso da Miller e dai suoi seguaci come una smentita, ma come una procrastinazione concessa da Dio per consentire ai fedeli di fare penitenza e opera di evangelizzazione. L. Festinger e altri (v., 1964, pp. 12-23) hanno visto in questo episodio una conferma della loro tesi secondo cui i fedeli non abbandonano necessariamente le loro credenze quando gli eventi attesi non si verificano. La dissonanza cognitiva, fonte di turbamento, in genere viene ridotta intensificando l'azione missionaria.
Tra i fondatori di movimenti apocalittici va citato anche John Nelson Darby (1800-1882), fondatore della setta dei Plymouth brethren e del cosiddetto 'premillenarismo'. Secondo Darby le profezie bibliche si riferivano in parte agli eventi che precedono l'avvento di Cristo, in parte a eventi futuri. Dopo la crocefissione e la resurrezione di Gesù, Dio avrebbe continuato ad adempiere le profezie bibliche. La fine del tempo si approssima: "Al segnale dato mediante la voce dell'Arcangelo e la tromba di Dio [...] saremo rapiti sulle nubi per andare a incontrare il Signore" (Tess., I, 4, 17). Dopo verrà la "tribolazione sì grande, quale non vi fu mai dal principio del mondo sino a ora, né mai vi sarà", profetizzata da Matteo (24, 21), e anche Israele risorgerà. È interessante notare che Darby, discostandosi dalle dottrine dominanti della Chiesa, attribuisce agli Ebrei un ruolo importante nell'avvento della fine dei tempi (v. Sandeen, 1970, pp. 59-80). Il 'premillenarismo' di Darby ebbe vasta risonanza negli Stati Uniti e divenne un elemento essenziale nel movimento fondamentalista. Ancor oggi nel Nordamerica è ampiamente diffusa la credenza che nell'epoca attuale si avvereranno le profezie bibliche. Secondo P. Boyer (v., 1992), una riprova dell'enorme popolarità della corrente premillenarista negli Stati Uniti può essere considerato il successo del libro di H. Lindsey e C.C. Carlson, The late planet earth (1970), che interpreta la minaccia della catastrofe nucleare sulla base della Bibbia. Fino al 1990 il libro ha avuto una tiratura di 28 milioni di copie.Il successo del fondamentalismo protestante dimostra come nell'ambito della filosofia della storia l'apocalittica sia diventata nel nostro secolo la principale antagonista della fede nel progresso. Contrariamente a Karl Löwith, il quale riteneva che vi fosse una sostanziale continuità tra l'escatologia cristiana e la credenza laica nel progresso, Hans Blumenberg ha sostenuto che le due concezioni hanno diversa origine e pertanto sono destinate a restare interpretazioni inevitabilmente divergenti della storia.L'interpretazione apocalittica della storia moderna non fu alimentata solo dal protestantesimo. Movimenti e correnti analoghi si ritrovano anche all'interno del giudaismo. Sin dagli anni settanta l'antica contrapposizione tra un messianismo religioso che rifiutava ogni attivismo in vista della fine dell'esilio, e il sionismo laico e nazionalistico, lasciò il posto a una nuova sintesi, un attivismo nazionalistico di tipo religioso, il cui principale artefice è stato il mistico rabbi Kuk (v. Ravitzky, 1996). Un'interpretazione apocalittica dell'epoca attuale caratterizza anche il fondamentalismo islamico delle confraternite (v. Marty e Appleby, 1992 e 1995, cap. IV).
L'appassionata ricerca delle radici della cultura europea che vide coinvolti storici, filosofi e linguisti dell'Ottocento portò a individuare due grandi tradizioni, quella greco-romana, o 'ellenismo', che aveva concepito la natura come animata, e quella giudaico-cristiana, o 'ebraismo', cui veniva imputata invece una concezione del mondo come materia morta e inanimata. Un contributo fondamentale in questa direzione venne dall'opera dell'indologo e studioso del fenomeno religioso Friedrich Max Müller, che analizzò la differenza tra la visione del mondo giudaico-cristiana e quella greca sulla base della comparazione linguistica, per la quale poté servirsi di testi vedici che erano stati decifrati di recente. Con l'ausilio della filologia, Müller indagò le origini linguistiche delle religioni indoeuropee (arie) e semitiche. All'origine della corrente indoeuropea egli individuò quella che a suo avviso costituiva la scoperta più importante del XIX secolo, ossia l'equazione tra il greco Zeus pater, il latino Juppiter, il sanscrito Dyaus pitar e l'antico norvegese Tyr. Tutti questi nomi sarebbero derivati da un'unica forma comune, dyau pitar, che letteralmente significa 'Padre Cielo'. Migliaia di anni prima di Omero e dei poeti vedici, scrive Müller, i progenitori della stirpe aria invocavano un Essere invisibile con un unico e medesimo nome, il nome più spirituale e sublime che poteva offrire il loro vocabolario d'allora, il nome del Cielo e della Luce. La principale caratteristica della religione aria, secondo Müller, sarebbe quella di esprimere con un vocabolo l'adorazione di Dio nella natura, la percezione della divinità che agisce dietro i fenomeni naturali. Müller mette a confronto questa mistica della natura indoeuropea con la concezione biblica. La caratteristica distintiva di tutte le religioni semitiche sarebbe a suo avviso l'"adorazione di Dio nella storia". Il Dio venerato dai Semiti non era tanto il signore della natura, quanto piuttosto il signore del destino del singolo, della tribù e del popolo. Partendo dall'identità dei nomi indoeuropei dell'Essere celeste, Müller (v., 1873) postula una fase originaria della storia dell'umanità in cui questa avrebbe avuto un'appercezione diretta della divinità; ogni individuo può fare esperienza del divino nella natura stessa. Nel 1875 il contemporaneo di Müller Matthew Arnold imputò all'ebraismo la mancanza di spiritualità del mondo di vita moderno. Circa vent'anni dopo Max Weber individuerà nella religione giudaico-cristiana la forza propulsiva del disincantamento del mondo.
L'idea di Müller, secondo cui la religiosità è una facoltà umana che può essere attualizzata nella contemplazione della natura da ogni singolo individuo, è assai vicina alle concezioni del misticismo tedesco. Può sembrare paradossale che il misticismo venga considerato parte di una particolare tradizione di pensiero, se è vero che la sua caratteristica essenziale è proprio quella di essere un'esperienza universale e ineffabile. Sul piano storico (nonché sistematico) vi sono peraltro buone ragioni per considerare il misticismo una tradizione, sebbene non specificamente tedesca o cristiana, ma comune a tutte le grandi religioni (v. Katz, 1983).
L'espressione 'misticismo tedesco' fu coniata da un allievo di Hegel per indicare la continuità tra la religione medievale e la filosofia tedesca moderna (v. Weeks, 1993, p. 1). La rivelazione di Dio non sarebbe limitata al passato; la Bibbia, la storia e la natura sarebbero tre forme parallele di rivelazione. Come si legge in una poesia medievale di Daniel Czepko: "Tutto trabocca di Dio. L'erbetta è un libro, se cerchi di aprirlo, ti si schiuderà la creazione e ogni sapere" (ibid., p. 186). Questa tematica venne ripresa e sviluppata dal romanticismo. Novalis, ad esempio, espresse l'idea che l'infinito esiste nel finito; il mondo avrebbe in sé una vis occulta che può essere svelata allo spirito umano. Là dove l'uomo impara il linguaggio segreto della natura, nasce la religione.Contemplazione mistica e ascesi sono considerate da Weber i due principali sbocchi che la religiosità della redenzione ha assunto rispettivamente nel mondo orientale e in quello occidentale. W. Schluchter (v., 1979) e J. Habermas (v., 1981) hanno ripreso la tipologia weberiana e hanno operato una distinzione tra concezione cosmocentrica e concezione teocentrica, individuando in quest'ultima uno dei presupposti del processo di razionalizzazione occidentale.
Il misticismo divenne un elemento importante nella Kulturkritik tedesca tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Un ruolo significativo a questo riguardo fu svolto da Eugen Diederichs, fondatore dell'omonima casa editrice tedesca, il quale si fece portavoce di tutti coloro che avevano cominciato a mettere in dubbio il valore del progresso scientifico-tecnico (v. Hübinger, 1987 e 1996). Considerando il cristianesimo corresponsabile dell'appiattimento e della meccanizzazione della vita moderna, Diederichs interpretò la crisi della cultura contemporanea anche come una crisi religiosa (v. Kippenberg, 1996; v. Graf, 1996). La crescente insofferenza nei confronti dello spirito del tempo contemporaneo, espresso da un arido materialismo da un lato, e da una religione unilaterale dell'intelletto e della volontà dall'altro, avrebbe portato secondo Diederichs alla nascita di un 'nuovo misticismo', che si sarebbe configurato come un "confronto critico con la modernità" (v. Hübinger, 1987, p. 102).
Tra gli esponenti del nuovo misticismo può essere annoverato anche il filosofo tedesco Martin Buber, il quale in Ekstatische Konfessionen (1909) propone una rielaborazione personale del misticismo della tradizione ḥasidica, secondo cui Dio è presente in ogni singola cosa ed esperibile in ogni semplice fatto. Per Buber l'esperienza religiosa ci condurrebbe in regioni dell'esistenza inaccessibili all'intelletto. Una tesi molto simile venne espressa dal filosofo americano William James, il quale nel famoso libro The varieties of religious experience (1902) descrive quegli stati di coscienza che possono essere definiti 'esperienze mistiche'. Ciò che caratterizza tali esperienze è l'impossibilità di tradurle in parole, la loro capacità di dischiudere all'individuo un sapere inattingibile all'intelletto discorsivo, il carattere transitorio e il modo inaspettato e improvviso in cui sopraggiungono. L'individuo che sperimenta tali stati di coscienza acquista consapevolezza della propria libertà dalle leggi del cosmo; la realtà esterna non è più maya, illusione. Esperienze di questo tipo, relativamente lontane dal pensiero concettuale, rinviano secondo James a un Sé svincolato dalla causalità naturale.
La continuità di questa tradizione è attestata da una varietà di fenomeni religiosi contemporanei - misticismo, spiritismo, teosofia, new age - per i quali A. Faivre ha proposto l'etichetta di 'esoterismo occidentale'. Si tratta di una forma di pensiero alla base della quale vi sarebbero i seguenti principî: 1) esiste una corrispondenza tra cosmo e uomo, o tra natura e storia; 2) la natura è animata da forze segrete; 3) tali forze occulte possono essere conosciute sia in forma mediata sia attraverso l'immaginazione soggettiva; 4) questa conoscenza è in grado di trasformare tanto il soggetto che la percepisce quanto la natura stessa. A ciò si aggiungono altre idee che si ritrovano anche al di fuori dello stretto ambito dell''esoterismo occidentale', come quella secondo cui le tradizioni di varia origine si fonderebbero sincreticamente in una gnosi universale, o il principio secondo cui il sapere esoterico viene trasmesso da un maestro ai suoi discepoli. Come ha dimostrato recentemente W.J. Hanegraaff (v., 1996), questa forma di pensiero si ritrova, sviluppata e rielaborata, anche nel movimento new age.L'organizzazione sociale di questo tipo di religiosità è sempre stata debole se non del tutto assente. I sociologi americani definiscono 'culti' i movimenti di questo tipo per distinguerli dalle sette (v. Stark e Bainbridge, 1985, pp. 19-37). A differenza di queste ultime, che hanno origine dalla rottura nei confronti di una Chiesa, i culti in genere sono liberi sin dall'inizio da qualunque legame ecclesiale, e ciò ha portato alcuni a mettere in dubbio la legittimità di considerare i culti come autentiche comunità religiose. In alcuni casi - e ciò vale in particolare per la new age - i culti non hanno mai dato luogo a gruppi formalmente organizzati. Stark e Bainbridge menzionano a questo riguardo il fenomeno dei cosiddetti 'audience cults', in cui gli adepti conoscono i maestri solo attraverso i media e non formano alcun gruppo. (V. anche Buddhismo; Cristianesimo e Chiese cristiane; Islamismo; Jainismo; Monachesimo; Movimenti integralistici; Religiosa, organizzazione; Sacerdoti; Sacro; Sciamanesimo; Secolarizzazione; Sette religiose; Shintoismo; Taoismo; Zoroastrismo).
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