Buddhismo
Il termine 'buddhismo' sta a indicare sinteticamente tutte le forme di religiosità che si richiamano in qualche modo all'autorità di Gautama Buddha. Come il cristianesimo, l'islamismo e l'induismo, il buddhismo appartiene alle cosiddette religioni universali; e poiché il fine ultimo della sua predicazione è la liberazione dal mondo, sentito come dolore, il buddhismo va annoverato senz'altro tra le religioni soteriologiche.Il fondatore della comunità religiosa buddhista è un personaggio storico, vissuto circa 2.500 anni fa nell'India settentrionale; da qui il buddhismo si è diffuso in gran parte dell'Asia, ma è stato poi soppiantato dall'Islam in India, in molte regioni dell'Asia centrale, nella penisola malese e nell'Indonesia. Solo negli ultimi cento anni il buddhismo ha trovato seguaci anche in Europa e nell'America settentrionale.
Durante la sua storia esso ha conosciuto profonde trasformazioni, che hanno riguardato sia i contenuti dottrinali, sia la posizione della comunità religiosa nello Stato e nella società. Nel buddhismo primitivo, come pure in alcune delle forme tuttora esistenti, la comunità dei monaci e delle monache è considerata come la vera depositaria della tradizione, e costituisce una specie di élite religiosa. Nel corso della storia sono sorte però altre forme di buddhismo in cui l'istituto della comunità conventuale con obbligo di castità è completamente scomparso. Queste forme più tarde sono caratterizzate da un forte influsso sulla vita sociale e politica; tendenze analoghe si riscontrano tuttavia anche nelle comunità monastiche, e nell'area del buddhismo tibetano ciò ha portato anche alla creazione di Stati 'retti dal potere religioso'.Non è possibile descrivere in uno spazio ristretto questa molteplicità di fenomeni senza compiere una scelta, nella quale daremo la preminenza alle forme più antiche del buddhismo e ai suoi sviluppi nell'India e nell'Asia sudorientale.Le forme tuttora esistenti possono essere classificate in cinque gruppi principali, ciascuno corrispondente a una diversa tradizione: a) il buddhismo Theravāda (detto anche 'meridionale'), che è la religione prevalente nello Sri Lanka (Ceylon), in Birmania, in Thailandia, nel Laos e nella Cambogia; b) il buddhismo tradizionale dei Newar nepalesi; c) il buddhismo del Tibet, fondato sulle raccolte di testi sacri in lingua tibetana; d) il buddhismo dei paesi dell'Asia orientale (Cina, Corea, Giappone, Vietnam), fondato sui testi sacri in lingua cinese; e) il buddhismo Śivaita, diffuso a Giava e a Bali.
Notizie isolate sul buddhismo sono giunte in Occidente fin dall'antichità: ad esempio, verso il 200 d. C., Clemente Alessandrino menziona la presenza in India di seguaci del Buddha. Informazioni più precise sono fornite dalle narrazioni di viaggi del tardo Medioevo e della prima età moderna, nelle quali peraltro è raro che si parli dei contenuti dottrinali della religione buddhista: le notizie più esaurienti in proposito si trovano nel resoconto di un soggiorno nel Siam pubblicato nel 1691 da Simon de La Loubère. In molte relazioni di viaggiatori vengono esaminati, accanto ai miti e ai rituali, anche il ruolo svolto dai monaci e dai 'sacerdoti' buddhisti nei vari paesi dell'Asia e l'atteggiamento dei governanti verso il buddhismo.
Lo studio scientifico del buddhismo ebbe inizio verso il 1790 nell'ambito dell'indianistica. Tuttavia, poiché all'epoca in India il buddhismo era praticamente estinto, i primi studiosi dovettero far riferimento ai dati - in gran parte alterati per motivi polemici - tratti dalle fonti induiste. Le cose cambiarono solo dopo il 1820, quando divennero accessibili alcune fonti originarie, costituite dapprima da manoscritti in sanscrito provenienti dal Nepal e da testi del canone tibetano e poi, a cominciare dal 1840 circa, da testi del canone Theravāda, redatto in lingua pāli. Fondatori della moderna ricerca sul buddhismo furono Eugène Burnouf (Introduction à l'histoire du bouddhisme indien, Paris 1844, e Le lotus de la bonne loi, 2 voll., Paris 1852), Thomas W. Rhys Davids (Buddhism, being a sketch of the life and teachings of Gautama the Buddha, London 1877) e Hermann Oldenberg (Buddha. Sein Leben, seine Lehre, seine Gemeinde, Berlin 1881; tr. it.: Buddha, Milano 1937). In seguito la letteratura scientifica sul buddhismo è cresciuta fino a raggiungere una mole difficilmente dominabile, e accanto a essa è apparsa nelle principali lingue europee una quantità sterminata di scritti divulgativi su di esso e sulle sue forme più importanti. D'altro lato l'interpretazione delle dottrine, e in particolare delle fonti più antiche, è tuttora in parte controversa, così che non si può parlare di una communis opinio generalmente accettata; forse ciò è dovuto al fatto che quasi tutti gli autori hanno assunto verso l'oggetto della propria indagine un atteggiamento di adesione o di rifiuto personale che inevitabilmente ha influito sulle loro trattazioni.
Il primo tentativo di studiare metodicamente il buddhismo da un punto di vista sociologico fu compiuto da Max Weber nel saggio Hinduismus und Buddhismus, pubblicato nel 1920 come secondo volume dei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie; tuttavia il problema della posizione del buddhismo nella vita sociale era stato esaminato in precedenza da altri studiosi in varie opere, e già nell'ultimo ventennio dell'Ottocento autori buddhisti avevano trattato tale problema in saggi apparsi in lingua inglese. In epoca più recente vennero condotte nei paesi buddhisti numerose ricerche sociologiche sul campo, di cui furono poi pubblicati i risultati; in genere però questi lavori si limitano a presentare i materiali sulla base di criteri che rispecchiano l'evoluzione generale dei metodi sociologici. Solo a cominciare dal 1960 circa si è sviluppata un'autonoma ricerca sociologica sul buddhismo: in essa si avverte un ritorno a Max Weber ed emergono in primo piano i problemi relativi alla separazione della sfera 'mondana' da quella 'oltremondana' (su cui ritorneremo) e alla possibilità di legittimare mediante gli ideali buddhisti l'esercizio del potere.
Come altri fondatori di religioni, anche il Buddha ha esposto i suoi insegnamenti in forma di prediche e discorsi, ma non ha lasciato nessuna codificazione delle sue dottrine e nessuno scritto. Secondo la tradizione, subito dopo la morte del Buddha un concilio di monaci autorevoli raccolse e ordinò i suoi insegnamenti, dando così origine al canone buddhista, il cosiddetto Tripiṭaka ('le tre ceste'), diviso in tre sezioni principali. Comunque, in questa fase iniziale furono codificate solo le parti più importanti della regola monastica. Discostandosi dalla tradizione vedicobrahmanica, il Buddha non si servì del sanscrito, che era l'antica lingua sacra indiana, ma si espresse nel linguaggio corrente del suo tempo, ossia in un dialetto medio-indo-ario, e volle che nel propagare la sua dottrina i discepoli usassero ciascuno la propria madrelingua. Tuttavia più tardi, nella scia della 'rinascita del sanscrito', varie scuole buddhiste indiane provvidero a tradurre in questa lingua i testi dottrinali. Nell'ambito del buddhismo Theravāda la funzione di lingua sacra fu attribuita al pāli, un idioma medio-indiano relativamente simile (ma non identico) a quello usato dal Buddha. Del resto fino al I secolo a. C. i testi buddhisti - come già per molti secoli era accaduto per la maggior parte di quelli vedico-brahmanici - furono oggetto di trasmissione prevalentemente orale: la conservazione mnemonica dei testi sacri per la posterità era uno dei compiti dell'ordine monastico fondato da Buddha (Saṅgha). La formazione di varie correnti in seno al buddhismo primitivo ebbe inizio già prima della definitiva codificazione della raccolta di scritti costituenti il canone, così che tra le sue differenti versioni sussistono notevoli somiglianze, ma non una piena concordanza. Sostanzialmente solo i 'detti del Buddha' avrebbero dovuto essere vincolanti, ma in seguito anche altre tradizioni furono considerate tali e furono accolte nel canone. Solo la versione redatta in lingua pāli è conservata per intero nel testo originario indiano (il cosiddetto canone pāli); sono state riscoperte e pubblicate parti cospicue delle versioni parallele in altre lingue medio-indiane e in sanscrito, mentre numerose trascrizioni delle regole monastiche e degli antichi testi dottrinali sono state tramandate in traduzioni tibetane e cinesi, alcune delle quali molto accurate. Per primo fu stabilito il testo del codice disciplinare del Saṅgha (Vinayapiṭaka): probabilmente la sua stesura più antica, ricostruibile dal confronto tra le versioni tramandate, esisteva già un secolo dopo la morte del Buddha. Si tratta essenzialmente di un'opera giuridica, destinata a regolare la vita associata dei monaci e delle monache e i rapporti tra la comunità monastica e il laicato. I contenuti dottrinali tramandati nei discorsi didascalici (sūtra) furono trattati in una prima fase in modo piuttosto libero; solo qualche tempo dopo questi discorsi furono riuniti secondo criteri formali in quattro raccolte, a cui fu aggiunta più tardi una quinta silloge di opere di vario carattere, in gran parte più recenti.
Al contrario di quanto avvenne per altre scuole, i seguaci del Theravāda fissarono già in età antica il loro canone; i relativi testi, redatti come si è detto in lingua pāli, furono introdotti fin dal III secolo a. C. nello Sri Lanka e la loro codificazione definitiva coincise con la registrazione per iscritto eseguita durante un concilio di monaci al tempo del re Vaṭṭagāmaṇī Abhaya (89-77 a. C. circa). Il canone pāli rimase il testo fondamentale del buddhismo Theravāda a Ceylon e nell'Asia sudorientale, e nel corso dei secoli fu integrato da un gran numero di commenti e di opere esplicative, anch'essi in lingua pāli.
In seguito, presso gli aderenti al Mahāyāna e al buddhismo tantrico prevalse una concezione estensiva delle 'opere canoniche'; furono allora introdotte nel canone opere che si riteneva fossero rimaste segrete per un certo tempo, nonché insegnamenti attribuiti a vari Buddha mitici. Le grandi raccolte in tibetano e in cinese oggi esistenti contengono quindi, accanto alle opere più antiche, numerosi testi di origine posteriore. La tradizione tibetana è fondata su una silloge di 'detti del Buddha', il Kanjur (bKa'-'gyur), composta da 1.055 opere, e su una silloge di 3.962 opere esplicative e scientifiche, il Tanjur (bsTan-'gyur); la successiva codificazione del canone tibetano è opera del dotto monaco Bu-ston (1290-1364), anche se la traduzione di alcune opere risale all'VIII secolo. Le due raccolte apparvero per la prima volta a stampa nel 1411 a Pechino e furono poi ripubblicate più volte nel Tibet. Invece il Tripiṭaka della tradizione cinese non è stato mai codificato in modo definitivo e vincolante, così che le varie edizioni differiscono notevolmente tra loro anche per quanto riguarda il numero delle opere in esse contenute. Il primo Tripiṭaka cinese a stampa apparve nel 972; l'attuale ordinamento dei testi risale all'epoca Ming. Oggi la versione ufficiale del canone buddhista in lingua cinese è il cosiddetto Tripiṭaka Taishō, pubblicato in Giappone tra il 1924 e il 1929 in 55 volumi e contenente 2.184 opere.Notizie sulla posizione dei buddhisti nello Stato e nella società sono fornite anche da fonti storiche. Per quanto riguarda l'India nell'antichità e nel Medioevo, in mancanza d'una storiografia coeva, dobbiamo ricorrere largamente alle iscrizioni; per Ceylon disponiamo invece di una storiografia sistematica, con le cronache del Dīpavaṃsa (IV secolo) e del Mahāvaṃsa (primi del VI secolo), derivate da una cronaca perduta più antica i cui inizi sono databili al I secolo a. C. Una ricca letteratura storica ci è stata tramandata inoltre dai buddhisti tibetani, e anche nell'Asia orientale vi fu già in età antica una storiografia molto evoluta, dalla quale possiamo attingere notizie sulla posizione del buddhismo nello Stato.
La comunità religiosa buddhista fu fondata da Siddhārtha Gautama (in pāli: Siddhattha Gotama), nato in un boschetto presso Lumbini, non lontano dall'attuale confine tra il Nepal e l'India. Nei testi buddhisti posteriori, ai racconti sul Buddha storico si sono sovrapposte numerose leggende, ma dai passi biografici della tradizione più antica è possibile ricostruire con sufficiente chiarezza il corso della sua vita.Siddhārtha nacque nella repubblica nobiliare degli Śākya e perciò fu in seguito chiamato Śākyamuni, 'il saggio della famiglia Śākya'; suo padre Śuddhodana era il capo di una delle famiglie, appartenenti alla casta dei nobili (kṣatriya), che governavano congiuntamente una piccola repubblica con capoluogo Kapilavastu. Il giovane Siddhārtha sposò Yaśodharā, che gli diede un figlio di nome Rāhula; ma a ventinove anni, sebbene la sua vita scorresse apparentemente felice, decise di abbandonare patria e famiglia per cercare nell'ascesi la definitiva liberazione dalla sofferenza e comunicò ai familiari questa sua irrevocabile decisione. I particolari della sua partenza da casa appartengono alla leggenda. Siddhārtha si recò dapprima presso vari maestri che affermavano di conoscere la via della liberazione, ma il conformarsi ai loro insegnamenti non bastò a fargli conseguire tale scopo; si sottopose allora all'ascesi più severa, con stretti digiuni e pericolosi esercizi respiratori che lo portarono quasi alla morte. Ma anche la più dura ascesi risultò vana. Perciò, trascorsi sei anni, Siddhārtha vi rinunziò e fu per questo abbandonato dai suoi discepoli e ammiratori. Mentre si ristorava in riva al fiume Nairañjanā, seduto in profonda meditazione sotto un albero di Ficus religiosa, ebbe finalmente la visione della verità, del cammino verso la liberazione e della possibilità di percorrerlo: era divenuto così il Buddha, ossia il 'risvegliato' o l''illuminato', e aveva raggiunto il nirvāṇa, acquistando la consapevolezza di non dover mai più rinascere. Ciò accadde sotto l'albero della bodhi ('illuminazione'), presso l'odierna Bodh Gaya, nello Stato indiano del Bihar.
Solo dopo lunga riflessione il Buddha si decise - cedendo, narra la leggenda, alle insistenze del dio Brahmā - a rivelare agli uomini la verità da lui scoperta; essa infatti - dicono i testi - è difficile da comprendere e non esprimibile in parole. Si diresse allora verso Vārāṇasī (Benares), dove il primo uomo al quale volle comunicare la sua dottrina si allontanò senza averla compresa; ma più tardi, nel boschetto delle gazzelle di Sārnāth, alle porte della città, il Buddha incontrò cinque asceti itineranti, che gli erano stati compagni al tempo della sua ascesi estrema, e riuscì a convertirli esponendo loro la sua dottrina, fondata sulle 'quattro nobili verità' (dharmacakrapravartanasūtra, o 'messa in moto della ruota della Dottrina'). In tal modo, con la cosiddetta 'predica di Benares', nacque il Saṅgha, la comunità dei monaci e delle monache buddhisti. Dopo aver peregrinato e insegnato per circa quarantacinque anni nei territori degli odierni Stati dell'Uttar Pradesh e del Bihar, l'ottantenne Buddha morì a Kuśinagara per un'intossicazione alimentare ed entrò nel parinirvāṇa: raggiunse cioè lo stato della completa estinzione, che esclude ogni rinascita. Nel frattempo era diventato così famoso che fra i principi della regione si scatenò quasi una guerra per il possesso dei suoi resti; alla fine si arrivò a una pacifica spartizione delle sue ossa e delle sue ceneri, ed ebbe così inizio il culto buddhista delle reliquie.
Nella biografia del Buddha la durata dei singoli periodi sembra tramandata in modo attendibile, ma la cronologia assoluta non è ben definita. La maggior parte dei buddhisti segue oggi la cronologia tradizionale del Theravāda, che colloca al 543 a. C. la data del parinirvāṇa; su questa base, ma con l'ausilio di una necessaria correzione, alcuni storici occidentali moderni hanno invece calcolato date comprese tra il 486 e il 477 a. C., mentre studiosi giapponesi hanno indicato il 386 (Hakuji Ui) o il 383 (Hajime Nakamura). Lo stato attuale delle fonti non consente comunque una datazione precisa.
Come il cristianesimo e l'Islam sono derivati dall'ebraismo e la loro nascita non è concepibile senza questo fondamento, così per intendere storicamente il buddhismo è necessario situarlo sullo sfondo del contemporaneo pensiero filosofico-religioso indiano, identificabile con le prime forme preparatorie o primitive dell'induismo. In questo contesto va citata innanzitutto la dottrina della trasmigrazione delle anime e del ciclo delle esistenze, già presente nella letteratura prebuddhista delle Upaniṣad e connessa fin d'allora con la dottrina del karma, secondo cui il tipo di reincarnazione dipende dalle azioni buone o cattive precedentemente compiute. Anche il problema della via verso la liberazione dal ciclo delle rinascite era stato già posto, così come erano sostanzialmente noti alcuni dei metodi che saranno adoperati dal buddhismo per conseguire la liberazione, in particolare varie specie di pratiche ascetiche e di esercizi yoga. Tuttavia il Buddha negò espressamente la validità dei principî fondamentali della religione vedico-brahmanica, cioè la sacralità degli scritti vedici e l'origine sacrale dell'ordinamento tradizionale della società indiana - ovvero del 'sistema delle caste' - e delle connesse norme giuridiche indù (dharmaśāstra). Al sistema delle caste il Buddha contrappose la dottrina secondo cui tutti gli uomini sono per principio uguali e la possibilità di conseguire la salvezza non dipende dall'appartenenza per nascita all'una o all'altra casta, ma soltanto dalle qualità morali e intellettuali dell'individuo. Mentre la società indù tradizionale non conosceva le conversioni isolate e non accoglieva nel suo seno i non indù, ampliandosi solo con l'inclusione di intere popolazioni, la conversione al buddhismo era un atto individuale.
Il buddhismo primitivo era dunque una dottrina salvifica per i singoli nell'ambito di una società pluralistica: chi intendeva percorrere coerentemente la via della liberazione e ritrarsi dal mondo poteva entrare a far parte del Saṅgha. Buddha descrive così il significato della fondazione dell'ordine monastico: "Ecco che un padre di famiglia, o suo figlio, o uno che si è reincarnato in un'altra famiglia, viene a conoscenza della Dottrina. Dopo averla conosciuta, acquista fiducia nel Perfetto e dice a se stesso: 'Piena di ostacoli è la vita nella famiglia, luogo d'impurità, mentre il distacco da casa è simile al libero cielo; non è facile condurre in famiglia una vita santa e incontaminata. Se ora mi radessi capelli e barba, indossassi la veste gialla e mi allontanassi da casa?' E così abbandona i suoi beni e i suoi congiunti, si rade capelli e barba, indossa la veste gialla e va via da casa. Ritiratosi in solitudine, segue le regole di vita dei monaci. Evita di recare danno agli esseri viventi, è pieno di solidarietà e di compassione verso ogni creatura. Si astiene dal rubare, prende solo ciò che gli vien dato ed è puro di cuore. Si astiene dalla lussuria, vive puro e rinunzia ai rapporti sessuali. Evita la menzogna, dice solo la verità e non inganna nessuno. Evita la maldicenza, il linguaggio grossolano e le chiacchiere vane. Si astiene dal distruggere germogli e piante. Si nutre solo una volta al giorno, non frequenta spettacoli di danza, di canto, di musica e simili, non si adorna con corone, non usa profumi e balsami, non dorme in letti alti e spaziosi, rifiuta oro e argento, cereali e carne crudi, servi e serve, non possiede animali domestici, ecc. Si accontenta di una veste per proteggere il suo corpo e del cibo offertogli come elemosina per riempire il suo stomaco" (riduzione dal Majjhimanikāya, I, 179 ss.).
Il Saṅgha è stato dunque fondato per consentire al singolo di realizzare un ideale di vita monastica: quest'ultima ha solo la funzione ausiliaria di creare le condizioni esteriori per lo sviluppo del retto atteggiamento spirituale nella meditazione e nella conoscenza. Il Buddha non è un redentore nel senso in cui lo è Gesù per i cristiani, ma si limita a indicare la via della salvezza e a insegnare le verità alle quali è pervenuto con le proprie forze. Gli è estranea l'idea di un dio creatore e reggitore dell'universo o quella di un'anima esistente in eterno: questa 'negazione dell'anima' è un carattere peculiare del buddhismo rispetto alle altre dottrine salvifiche indiane. Scopo di chi cerca la redenzione è il nirvāṇa, che il dotto monaco Nyanatiloka definisce, in base ai testi, come "la totale estinzione degli impulsi volitivi che accettano la vita e a essa si aggrappano convulsamente, manifestandosi come brama, odio e accecamento; e quindi la liberazione completa e definitiva da tutte le future reincarnazioni, dalla vecchiaia e dalla morte, dalla sofferenza e dall'affanno". Ciò equivale a superare senza residui l'illusione dell'esistenza di un'anima eterna: in realtà, tutto ciò che esiste è solo un'incessante processo di mutazione degli elementi costitutivi dell'essere.
Manca nel buddhismo originario qualsiasi concezione magica: riti e cerimonie non hanno nessun valore metafisico, e di per sé la fede non ha alcun potere di redenzione. La conoscenza suprema non può essere ottenuta che attraverso il cammino buddhista verso la salvezza, e ciò implica che a essa può accedere solo chi ha rinunziato a vivere nel mondo.La comunità di coloro che si dedicano interamente a questo scopo salvifico, il Saṅgha, dipende per la sua esistenza materiale dalle offerte dei laici ed è necessario quindi che i suoi membri si distinguano per certi contrassegni esterni; la vita comunitaria è inoltre regolata dalle prescrizioni formali - considerate come dettami dello stesso Buddha - contenute nel già citato Vinayapiṭaka. Quest'opera è divisa in tre parti: 1) un elenco dei divieti imposti agli appartenenti all'Ordine; 2) una serie di norme procedurali; 3) una serie di norme complementari, generalmente di origine più tarda.L'elenco dei divieti costituisce un codice di comportamento vincolante, composto da circa 220 disposizioni, che vanno da norme etiche fondamentali come la condanna dell'omicidio fino a precetti puramente esteriori come la proibizione di allestire giochi d'acqua; i divieti sono classificati in vari gruppi, in base alle sanzioni previste per la loro trasgressione. La violazione delle norme del primo gruppo implica automaticamente l'esclusione perpetua e irrevocabile dal Saṅgha; altre infrazioni gravi sono punite con la perdita temporanea dei diritti connessi con la condizione monastica; per quanto riguarda infine le cosiddette 'norme minori', il Buddha ha rimesso alla comunità il potere di abrogarle. Queste ultime prescrizioni, riguardanti il comportamento esteriore, sono destinate a garantire che i monaci osservino costantemente un contegno decoroso e inoffensivo verso l'ambiente che li circonda. Il cosiddetto formulario della confessione, in cui sono elencati questi divieti, veniva recitato nel corso di cerimonie penitenziali periodiche: inizialmente era prevista la confessione delle mancanze di fronte all'assemblea dei monaci, ma in seguito questa pratica fu sostituita da una specie di confessione privata resa a un monaco con maggior anzianità di appartenenza al Saṅgha. Le norme procedurali definiscono esattamente in che modo i monaci debbano essere accolti nell'Ordine e come vadano eseguiti tutti gli altri atti comunitari aventi efficacia giuridica: ad esempio, viene stabilito quali e quanti abiti si possano avere, vengono dettate norme particolari per i monaci ammalati, ecc.
Da principio nel Saṅgha non vigeva nessuna gerarchia: tutti i religiosi erano uguali e il loro rango era determinato solo dal tempo trascorso dal momento dell'ordinazione. Il Buddha non aveva designato nessuno dei suoi seguaci come capo della comunità: dopo la sua morte la via da seguire sarebbe stata indicata solo dalla sua dottrina - che doveva rivolgersi a chiunque la comprendesse - e dalla regola dell'Ordine. Non vi era quindi nulla che implicasse l'esercizio di un potere, e la regola del Saṅgha potrebbe valere come esempio di costituzione d'una comunità di uguali. Vi sono buoni motivi per supporre che i suoi principî procedurali, come pure lo stesso termine 'Saṅgha', siano stati ripresi dalla tradizione giuridica delle antiche repubbliche nobiliari indiane, nella quale era cresciuto il futuro Buddha. Era possibile uscire in qualsiasi momento dall'Ordine e rientrarvi, così che in un primo tempo non ebbe modo di formarsi un ceto rigidamente chiuso di monaci 'professionali'.I seguaci laici non costituivano un organismo paragonabile a quello monastico, ma sostenevano con le loro offerte monaci e monache, creando così le basi materiali per l'esistenza dell'ordine. Essi appartenevano però al Saṅgha inteso in senso più ampio. Buddha enumera quattro 'assemblee' di seguaci, ponendo accanto ai monaci e alle monache gli aderenti laici (upāsaka) e le aderenti laiche (upāsikā); la loro professione di fede consiste nel recitare la formula dei 'tre rifugi' (tri-śaraṇa) - nel Buddha, nella sua dottrina (Dharma) e nella sua comunità (Saṅgha). Ai seguaci laici rimasti a vivere nel mondo viene raccomandato di osservare almeno cinque regole fondamentali di comportamento etico (śīla): 1) astenersi dal distruggere ogni forma di vita; 2) astenersi dal furto; 3) essere continenti; 4) astenersi dalla menzogna; 5) astenersi dalle sostanze inebrianti. I laici più devoti seguono di tanto in tanto otto o dieci regole, preparandosi così a condurre la vita ascetica dei monaci.
Giustamente Max Weber ha definito il buddhismo "una soteriologia intellettuale e aristocratica assolutamente sui generis, [...] una religione di ceto, specificamente apolitica e antipolitica, [...] un monachesimo mendicante e nomade intellettualmente educato". In effetti, la regola dell'ordine contiene un certo numero di disposizioni destinate espressamente a evitare conflitti coi poteri statali: i monaci non devono immischiarsi nelle questioni politiche e sociali e da parte sua lo Stato li tollera in quanto comunità autonoma di religiosi per professione.
Per quanto ci è dato di sapere dalle fonti, in origine il Saṅgha fu effettivamente una comunità mendicante e nomade di monaci (bhikṣu) e monache (bhikṣunī); ma già in età remota esso ebbe in dono dai laici terreni per costruirvi capanne e più tardi edifici permanenti d'abitazione per i religiosi. Di conseguenza, col tempo questi divennero sedentari e l'Ordine cambiò carattere e funzioni, modificando anche il suo rapporto con la comunità laica, verso la quale i monaci assunsero compiti analoghi a quelli di cura d'anime del clero cristiano.Unico scopo del buddhismo originario era di indicare agli uomini la via della liberazione: in vari discorsi il Buddha delimitò in tal senso la sua dottrina, affermando che essa doveva occuparsi solo di ciò che poteva servire alla salvezza. In alcuni testi posteriori è usato per la dottrina stessa l'aggettivo 'oltremondana', in quanto essa conduce al di là di questo mondo, cioè al nirvāṇa; tutto il resto, comprese le azioni cultuali e le rappresentazioni religiose utilizzabili a fini terreni, è invece 'mondano' e non appartiene alla dottrina buddhista in senso proprio, anche se per la nostra mentalità rientra nell'ambito dei fenomeni religiosi. Quest'apparente controsenso si spiega col particolare carattere della dottrina del Buddha che non è né un dio né un consolatore che possa venire in aiuto di noi uomini, ad esempio quando un nostro congiunto versa in pericolo di vita: in casi come questo ci è di scarso conforto il sapere che ogni esistenza è dolorosa e che per ciascuno di noi le sofferenze sono commisurate al precedente comportamento. Gli uomini sono troppo deboli per sopportare questa dura verità, e perciò il buddhismo ha sempre lasciato ai suoi aderenti laici gli dei e i culti tradizionali, così che divinità e spiriti potessero continuare a essere invocati per le esigenze religiose della vita quotidiana. Queste pratiche non sono in conflitto col buddhismo, perché sono considerate appartenenti alla sfera mondana e non a quella della religione (śāsana); dal canto loro i monaci, avendo rinunziato al mondo, non devono occuparsi dei culti riguardanti le divinità e gli spiriti né partecipare ai loro riti, e in particolare non devono compiere sacrifici cruenti, che sarebbero in contrasto col precetto di non uccidere.Le due tradizioni coesistenti, quella buddhista e quella dei culti popolari, sono state denominate rispettivamente 'grande' e 'piccola' tradizione. Come ha messo in evidenza per primo il sociologo delle religioni M. M. Ames (1964), la presenza di altri culti nelle società buddhiste non dev'essere interpretata come una forma di sincretismo. Lo stesso Buddha riconobbe alla religiosità tradizionale una funzione sociale: interpellato circa le condizioni perché una comunità prosperasse egli menzionò, insieme alla regolarità delle riunioni del Consiglio, alla concordia nel mettere in atto le sue decisioni, alla fedeltà alle antiche norme e al rispetto del diritto, anche la conservazione dei santuari pubblici e privati, delle pie offerte e dei sacrifici, cioè dei riti in onore delle antiche divinità. Tutto ciò non è in contrasto con la tutela dei 'perfetti', ossia dei monaci che hanno raggiunto la santità; e così ancora oggi alla corte del re di Thailandia, protettore della religione buddhista nel suo paese, sono attivi dei sacerdoti brahmanici, incaricati di celebrare quei riti induisti che per tradizione non possono mancare in una corte dell'ambiente culturale indiano.Sarebbe tuttavia semplicistico affermare che la dottrina buddhista non ha conseguenze importanti per la sfera mondana, la società e lo Stato. In effetti il Buddha colse ogni occasione per esortare i governanti alla pace e all'integrità morale: in una famosa predica illustrò le condizioni per la prosperità di uno Stato, facendole derivare dalle leggi generali del comportamento etico, e in varie altre prediche - in particolare nel Sigālovādasūtra, noto anche col nome di Gihivinaya ('etica per i laici') - spiegò come gli uomini debbano trattarsi fra loro nella vita sociale.
Solo nel periodo iniziale si può parlare di un Saṅgha rigorosamente apolitico in una società pluralistica. Un mutamento decisivo nei rapporti fra Stato e comunità religiosa si ebbe al tempo del re Aśoka (268-233 a. C.), la cui personalità ci è nota soprattutto dalle iscrizioni su pietra da lui lasciate. Egli condusse una fortunata ma sanguinosa guerra di conquista contro i Kalinga e divenne così padrone di quasi tutto il subcontinente indiano; ma dopo essersi convertito al buddhismo fu preso - come risulta da una delle sue grandi iscrizioni - da un profondo rimorso per lo spargimento di sangue causato dalla guerra e decise di trasformare il mondo, anziché con la forza delle armi, con quella della legge morale, del Dharma. In alcune iscrizioni viene esplicitamente dichiarata la sua personale adesione alla religione buddhista; tuttavia ciò che gli preme non è di propagare il proprio credo, bensì di stabilire i principî di una dottrina etica comune e per così dire sovraconfessionale, che affermi l'inviolabilità di ogni forma di vita e promuova ugualmente ogni fede religiosa. Avendo il buddhismo finalità oltremondane, è impensabile che esso dia vita a una determinata forma di Stato; possiamo tuttavia considerare Aśoka come il primo fautore di una concezione politica ispirata ai principî buddhisti, in quanto egli sostenne che lo Stato ha il compito di prendersi cura di tutti gli uomini, anzi di tutti gli esseri viventi (fu lui a ordinare che si edificassero luoghi di cura anche per gli animali, come ne esistono tuttora in Birmania). Aśoka era abbastanza realista per rendersi conto che un simile ideale poteva essere attuato solo entro certi limiti, e che ad esempio era praticamente impossibile abolire del tutto la caccia o la macellazione: sappiamo però che egli dichiarò inviolabili alcune specie animali, stabilì dei periodi in cui era vietato cacciare altre specie, ecc.Oltre ad assegnare per la prima volta al pensiero e all'azione politici il compito di trasformare consapevolmente il mondo secondo gli ideali buddhisti, Aśoka provvide anche a riformare il Saṅgha. Le norme di comportamento imposte ai suoi membri erano molto gravose, e già nel periodo intercorso tra la morte del Buddha e il regno di Aśoka era apparsa evidente la difficoltà di metterle in pratica; un altro motivo di crisi era la crescente ricchezza dei monasteri. Il re dispose che i monaci indegni, esclusi dall'Ordine per decisione dei suoi organi disciplinari, non potessero più presentarsi come religiosi, e avviò una radicale ridefinizione dei rapporti fra l'autorità statale e la comunità buddhista. I provvedimenti di riforma da lui presi, noti come 'riforma śāsana' e documentati da iscrizioni, furono giudicati positivamente da tutta la tradizione posteriore e servirono da modello alle successive riforme del Saṅgha. Aśoka diede anche inizio alla diffusione su larga scala del buddhismo, inviando nei paesi confinanti missionari che ne annunziassero la dottrina. Suo figlio Mahinda introdusse il buddhismo nell'isola di Ceylon, facendone la religione nazionale dei Singalesi, e all'incirca nello stesso periodo i primi buddhisti giunsero nella 'Terra d'oro' (Suvarṇabhūmi), ossia nelle zone costiere dell'attuale Birmania; altre missioni furono mandate nei paesi dell'Occidente (alcune delle iscrizioni di Aśoka sono redatte in greco e in aramaico). Secondo Max Weber la decisione del re di favorire il buddhismo corrispose a una necessità storica ed ebbe lo scopo di 'addomesticare le masse'; quest'interpretazione non sembra però confermata dalle fonti, di cui abbiamo oggi una migliore conoscenza, ed è più probabile che la politica di Aśoka fosse suggerita da motivi del tutto personali.
La forma di buddhismo introdotta a Ceylon e lungo le coste dell'Indocina dai missionari indiani inviati da Aśoka fu detta dai suoi seguaci Theravāda ('dottrina degli anziani dell'Ordine'); a causa della sua diffusione nei paesi del Sud asiatico essa è chiamata anche 'buddhismo meridionale'. In questa tradizione, fondata sul Tripiṭaka o canone in lingua pāli, si ebbe cura che i testi antichi fossero tramandati con grande fedeltà: a tale scopo si tennero numerosi concili in cui i testi sacri furono recitati e attentamente esaminati per verificarne l'esattezza.Gli ideali politici affermati da Aśoka introdussero nella tradizione Theravāda, per principio molto conservatrice, un nuovo elemento dinamico: compito del sovrano era di edificare uno 'Stato sociale' in cui l'eccedenza di beni materiali prodotti fosse tale da garantire l'assistenza ai poveri e ai malati e da consentire al massimo numero di persone l'avanzamento spirituale sulla via del nirvāṇa. Questa nuova impostazione, associata all'impegno di preservare il Saṅgha dal decadimento interno, faceva dello Stato un'istituzione con finalità più vaste e addirittura religiose: secondo l'espressione di Emanuel Sarkisyanz, vi fu allora una tendenza dello Stato "ad autorealizzarsi trasformandosi in un'istituzione liberatrice".
In tal modo, da dottrina di salvezza di una ristretta comunità elitaria il buddhismo divenne un fattore determinante nella concezione dello Stato. In verità gli ideali di cui si è parlato non hanno mai corrisposto e tuttora non corrispondono alla realtà dei paesi buddhisti, ma sono serviti piuttosto a legittimare i rapporti di potere esistenti; tuttavia, quando il divario tra ideali e realtà si è fatto troppo grande essi hanno anche giustificato la resistenza all'autorità o addirittura il rivolgimento politico.Contrariamente a quanto abbiamo visto accadere nei paesi del buddhismo Theravāda, nella madrepatria indiana la dottrina del Buddha rimase sempre una fra le tante religioni coesistenti e non divenne mai un fattore decisivo dell'ordinamento sociale; più tardi, in seguito alla conquista musulmana avvenuta nel XII e XIII secolo, il buddhismo indiano decadde fino a estinguersi quasi completamente.
Le forme di buddhismo collettivamente indicate col nome di Śrāvakayāna ('veicolo degli uditori', ossia dei discepoli del Buddha) o col termine più tardo di Hīnayāna ('piccolo veicolo') sono fondate esclusivamente sulle dottrine contenute nelle antiche scritture canoniche; i seguaci del Mahāyāna riconoscono invece anche altre tradizioni. Essi partirono dall'idea che gli insegnamenti del Buddha trasmessi dalle comunità monastiche tradizionali fossero incompleti e sostennero che il Buddha, oltre alle dottrine già note, ne aveva predicate altre per le quali l'uditorio del suo tempo non era ancora maturo; ma era arrivato ormai il momento di divulgare queste dottrine più profonde, che avrebbero consentito di penetrare la vera natura 'dei' buddha (v. sotto) e avrebbero portato alla 'perfezione della conoscenza'. I seguaci del Mahāyāna non contestavano affatto l'autorità delle antiche scritture canoniche, ma ritenevano che la loro validità fosse solo relativa: il rapporto da essi istituito fra il canone Hīnayāna e i testi Mahāyāna è molto simile a quello esistente nel cristianesimo tra Vecchio e Nuovo Testamento. In particolare, i monaci Mahāyāna continuarono a ritenere vincolanti le regole tradizionali dell'Ordine, adottando le norme contenute nel Vinayapiṭaka. Poiché la struttura di una comunità monastica non dipendeva essenzialmente dall'adesione collettiva a determinate concezioni dogmatiche, poteva accadere - come sappiamo da alcuni resoconti di viaggiatori cinesi - che in uno stesso monastero convivessero pacificamente seguaci dell'Hīnayāna e del Mahāyāna. A differenza del buddhismo primitivo, quello Mahāyāna non è fondato su un corpo di dottrine unitario e in sé concluso, ma su una pluralità di forme religiose aventi in comune alcuni principî fondamentali. Uno dei migliori conoscitori del buddhismo indiano classico, Étienne Lamotte, ha evidenziato nelle varie forme di Mahāyāna cinque caratteri principali (cfr. É. Lamotte, Mahāyāna Buddhism, in Bechert e Gombrich, 1984, pp. 90-93).
1. L'ideale del bodhisattva ('colui la cui essenza è l'illuminazione'). Mentre il seguace dell'antica dottrina aveva come unico fine la sua personale salvezza, il seguace del Mahāyāna è impegnato nel conseguire la perfetta illuminazione di un buddha: egli percorre il lungo e faticoso cammino del bodhisattva, rinunziando a entrare al più presto nel nirvāṇa per operare invece nel mondo a beneficio di ogni essere vivente. A tale scopo egli pratica le 'perfezioni' (pāramitā), la più alta delle quali è la 'perfezione della conoscenza' (prajñāpāramitā), fino a raggiungere in dieci 'tappe' (bhūmi) l'onniscienza di un buddha. I meriti acquistati dal bodhisattva vengono da lui trasferiti (pariṇāmanā) ad altri esseri per aiutarli disinteressatamente nel loro sforzo di liberazione, durante periodi di tempo di lunghezza inimmaginabile.
2. La molteplicità dei buddha e dei bodhisattva. Secondo la dottrina primitiva il Buddha era soltanto un uomo, anche se dotato di capacità sovrumane, e a lui, una volta entrato nel nirvāṇa, non era più possibile rivolgersi. Rimaneva solo la sua dottrina, che però non bastava a soddisfare i bisogni religiosi delle masse. Nacque così la fede nell'esistenza di una pluralità di bodhisattva, residenti in un numero enorme di mondi, e con ciò fu assicurata a ogni uomo la possibilità di partecipare direttamente agli eventi salvifici e di fruire dei meriti accumulati da questi esseri sovrannaturali, liberatori del mondo: i più noti tra essi sono i bodhisattva Avalokiteśvara o Lokeśvara e Mañjuśrī e il buddha Amitāyus o Amitābha, 'il buddha della luce infinita'. I mistici del Mahāyāna non erano disposti ad accettare la dottrina del buddhismo primitivo secondo cui il Buddha si era estinto per sempre nel nirvāna, e attribuirono ai buddha, oltre a un 'corpo di trasformazione' (nirmāṇakāya) con cui essi si manifestano sulla terra, anche un 'corpo di beatitudine' (sambhogakāya) e infine un 'corpo di dottrina' (dharmakāya) che ne rappresenta la forma più alta: è questa la vera essenza dei buddha, l'unica dotata di autentica realtà.
3. La duplice irrealtà degli esseri e degli elementi. Come abbiamo visto, l'irrealtà dell'io o della personalità è un'idea tipica del buddhismo primitivo; tuttavia le antiche scuole sostenevano che gli 'elementi' (dharma) dal cui concorso nasce il divenire del mondo, e quindi l'illusione dell'io, devono avere una realtà, grazie alla loro 'natura intrinseca' (svabhāva) e ai loro 'caratteri distintivi' (laksana). Al contrario, i dotti del Mahāyāna affermano che anche gli elementi sono 'vuoti' e privi di natura intrinseca e di caratteri distintivi in senso filosofico.
4. La 'vacuità' (śunyatā). Una volta che si sia compresa l'irrealtà della persona e degli elementi si è arrivati anche alla conoscenza della vacuità. Alcuni seguaci del tardo buddhismo, specialmente nel Tibet e nell'Asia orientale, e alcuni commentatori moderni hanno visto in questo concetto l''assoluto' del buddhismo, mentre altri critici indiani e occidentali hanno derivato da esso il rimprovero di nichilismo mosso al buddhismo; il significato originario del termine non giustifica tuttavia né l'una né l'altra interpretazione. A questo proposito Lamotte scrive: "Gli esseri e gli elementi sono vuoti non in virtù di una 'vacuità', ma in quanto non esistono. Del resto il concetto di 'vacuità' ha solo un valore provvisorio: è come una zattera che si abbandona dopo aver traversato il fiume [...]. I seguaci del Mahāyāna non sono quindi dei nichilisti: questi ultimi negano ciò che vedono, mentre i primi non vedono nulla, e quindi nulla negano e nulla affermano" (ibid., p. 93).
5. La verità convenzionale e la verità assoluta. Può sembrare contraddittorio che il Mahāyāna pretenda dai suoi aderenti le più elevate qualità morali e al tempo stesso affermi la vacuità di tutto ciò che esiste. Ma si tratta di un'incongruenza solo apparente, perché questi due aspetti della dottrina corrispondono a due punti di vista sostanzialmente diversi, originati dalla distinzione tra una 'verità relativa' (samvrti-satya) e una 'verità assoluta' (paramārtha-satya). Nella nostra esistenza terrena siamo vincolati alla prima di esse: dobbiamo praticare le virtù del bodhisattva per poter progredire sulla via della liberazione. Nella meditazione, invece, veniamo a conoscenza della vera natura del mondo, che consiste appunto nella vacuità in cui si dissolve la realtà apparente. Il fatto che per conseguire la salvezza sia necessario attenersi a questo duplice punto di vista ci fa capire che in fondo tutti gli enunciati hanno una validità condizionata: la concezione giusta, col cui aiuto è possibile evitare ogni contraddizione, è la 'via di mezzo' del buddhismo Mahāyāna.
Molte delle dottrine tipiche del Mahāyāna non possono dirsi radicalmente nuove: gli studiosi hanno infatti identificato nei testi giunti fino a noi uno strato tradizionale - definito 'semi-Mahāyāna' - che conteneva già alcune nozioni di questa scuola, senza peraltro che i suoi membri si considerassero rappresentanti di una nuova dottrina salvifica. Ad esempio le 'perfezioni' (pāramitā) praticate dai bodhisattva e la teoria secondo cui tutti gli esseri sono 'vuoti' erano già note alla primitiva dottrina buddhista; così pure troviamo anticipati nei testi antichi concetti come la pluralità dei buddha e il trasferimento dei meriti. La svolta decisiva si ebbe comunque nel I e nel II secolo della nostra era, quando la nuova via mahāyānica verso la salvezza fu formulata nei suoi particolari e contrapposta alle concezioni delle scuole più antiche, criticate come inadeguate.
Non è stato ancora ben chiarito quale sia stato il substrato sociologico di questa 'trasformazione' del buddhismo. Max Weber ha avanzato l'ipotesi che la monarchia assoluta in via di sviluppo fosse interessata a offrire agli strati inferiori la possibilità di un'ascesa sociale, allo scopo di facilitare la formazione di uno Stato unitario, e abbia perciò favorito il buddhismo in quanto livellatore delle differenze tra i ceti. Contro questa tesi sono state mosse però importanti obiezioni. Certamente Weber era nel giusto quando vedeva nell'adattamento ai bisogni religiosi delle masse un fattore determinante della metamorfosi del buddhismo: fin dal tempo del re Aśoka la mentalità magica (soprattutto nella forma di un incantesimo protettivo, il paritta) e le concezioni salvifiche (in particolare quelle riguardanti i bodhisattva) erano entrate a far parte dell'universo mentale buddhista. Tuttavia l'affermazione di queste tendenze popolari rappresenta solo un aspetto del fenomeno in esame, giacché a essa si contrappone la nascita di scuole filosofiche. Sebbene il Buddha avesse escluso ogni discussione di problemi filosofici, in quanto inutile ai fini della salvezza, dai tempi di Aśoka in poi la tradizione dottrinale buddhista si era occupata sempre più del pensiero indiano contemporaneo. La prima grande scuola filosofica Mahāyāna è quella dello Śūnyavāda ('dottrina del vuoto'), detta anche dei Mādhyamika (rappresentanti della 'dottrina di mezzo'); anticipazioni di questa scuola s'incontrano già nei Prajñāpāramitāsūtra ('testi dottrinali della perfetta conoscenza'). Il rappresentante più famoso dello Śūnyavāda è il filosofo Nāgārjuna, vissuto intorno al 200 d. C.: egli illustrò con sottile ed elaborata dialettica le tesi della scuola, al centro delle quali si trova la già accennata nozione di vacuità.Una diversa risposta al problema dell'assoluto, più vicina al nostro modo abituale di pensare e quindi più facilmente comprensibile, è data dall'altra grande scuola filosofica Mahāyāna, quella dello Yogācāra, nota anche come Vijñānavāda ('dottrina della coscienza'). Nata come una corrente dei Mādhyamika essa divenne una scuola autonoma per opera di Maitreyanātha (circa 300 d. C.) e di Asanga (IV secolo d. C.). Al centro della riflessione Yogācāra sta l'essere supremo, caratterizzato come 'mente incontaminata' o 'luminosa' e indicato col nome di 'quiddità' (tathatā), 'sfera degli elementi' (dharmadhātu), ma anche come 'vacuità' (śunyatā): esso è 'inesprimibile' e 'non molteplice', ma al tempo stesso è il fondamento dell'illusorio mondo fenomenico considerato come una rappresentazione della mente. Si tratta di una rappresentazione immaginaria, alla quale non corrisponde nulla di realmente esistente: a rigore, non esiste una realtà né all'esterno né all'interno del conoscere. La dualità di soggetto e oggetto è soltanto un'illusione; la perfezione raggiunta alfine mediante l'esercizio del meditare libera la mente da ogni rappresentazione e consente che si attui la 'natura del Buddha'.
Verso la metà del primo millennio d. C. cominciò ad affermarsi in India il cosiddetto tantrismo, un movimento spirituale che ha influenzato tutte le grandi scuole indiane: esso è caratterizzato dal confluire di vari elementi, non ignoti alle tradizioni religiose più antiche, ma che ancora non si erano mai presentati in così stretta connessione tra loro. Il vocabolo tantra indicava in origine l'ordito di un tessuto, ma passò poi a denotare vari sistemi di dottrine e di prassi religiosa, aventi in comune i seguenti caratteri principali.
1. L'accorciamento del cammino verso la liberazione. Mentre i metodi tradizionali di ricerca della salvezza richiedono per lo più un lungo travaglio, esteso a numerose esistenze successive, le scuole tantriche affermano di aver scoperto nuovi metodi che portano rapidamente allo stesso scopo, pur implicando maggiori rischi per gli adepti. Come nel caso del Mahāyāna, le origini di queste dottrine si fanno risalire al Buddha storico o a buddha mitici, e quindi i testi denominati Tantra vengono presentati anch'essi come 'detti del Buddha'.
2. L'esoterismo dei sistemi dottrinali. Sebbene nella maggior parte dei sistemi tantrici vi sia anche una prassi culturale accessibile a tutti, la conoscenza delle principali dottrine e norme di comportamento è riservata agli iniziati, che vengono ammessi ai singoli livelli della teoria e della prassi tantrica solo dopo essere stati esaminati dai loro maestri. A ogni livello corrisponde una speciale consacrazione (abhiṣeka); è considerato pericoloso dedicarsi alla teoria e alla prassi senza essere stati consacrati e senza la guida di un maestro, perché un'errata applicazione della dottrina può sconvolgere l'equilibrio psichico.
3. Simbolismo e ambiguità. Le dottrine tantriche vengono presentate in modo indiretto, in considerazione del loro carattere esoterico e delle gravi difficoltà di comprensione che esse presentano. Le realtà e i processi fondamentali sono indicati mediante simboli e gli enunciati dottrinali sono formulati in modo ambiguo: a certi vocaboli e simboli viene infatti attribuito, oltre al significato ordinario, anche un secondo significato, la cui conoscenza è riservata agli iniziati e fornisce la chiave indispensabile per comprendere la tradizione tantrica.
4. Ritualismo e simboli magici. Strettamente connessi col significato dei simboli sono i significati del rituale, delle formule magiche (mantra) e dei simboli magici (yantra). Nel tantrismo le azioni, le parole e i segni esteriori - situati cioè al livello della nostra realtà umana - non hanno solo la funzione di simboleggiare i processi psichici e metafisici, ma addirittura li producono. Viene così a costituirsi una prassi magica, e spesso il tantrico, oltre a dedicarsi alla ricerca della salvezza, è anche un mago capace di vincere le leggi naturali per mezzo delle energie psichiche da lui dominate. Tuttavia al livello superiore della conoscenza tantrica anche questa prassi viene considerata come mera parvenza, perché ogni energia e ogni efficacia possono appartenere a rigore solo alla mente e il principio ultimo di ogni essere è rappresentato dalla vacuità.
5. Varietà di metodi. Anche nel buddhismo tradizionale il maestro teneva conto delle particolari condizioni psichiche di ogni singolo discepolo, ma si postulava la sostanziale unità dei metodi di salvezza e di meditazione insegnati dal Buddha. Il maestro tantrico riconosce invece che non può esservi una simile unità per chi voglia percorrere una via 'diretta' verso la salvezza: le nozioni e le vie da lui insegnate, contenute nei vari tantra o sistemi, sono quindi differenti tra loro e sono riservate a singoli seguaci o a gruppi di seguaci.
6. L'attuazione del cammino salvifico nel proprio corpo. Nel buddhismo tradizionale la meditazione è orientata verso la concentrazione mentale e verso il controllo delle funzioni fisiche e spirituali, soprattutto al fine di superare gli impedimenti e le alterazioni che esse provocano; per contro, lo yoga tantrico è orientato interamente verso il corpo, considerato come sede di tutte le energie spirituali, e l'attivazione dei legami psicofisici in esso latenti diviene il punto di partenza del cammino salvifico. La teoria dello yoga tantrico è fondata su particolari concezioni circa il moto delle forze vitali nel corpo e circa i cosiddetti 'sistemi nervosi'; questi ultimi sono visti come sedi di particolari energie psichiche e quindi, per la coincidenza tra macrocosmo e microcosmo, di particolari divinità e principî, il che consente di identificarli con determinati valori religiosi.Nei cosiddetti sistemi del tantra śaktico la polarità dei sessi assume una funzione importante nel processo di conoscenza e di liberazione. Le energie psichiche superiori sono personificate in divinità femminili e il dispiegarsi dell'assoluto nel mondo fenomenico è inteso come il risultato di un'apparente scissione dell'essere supremo, dovuta alla sua 'potenza' femminile (śakti); il tantrico, consapevole della sostanziale unità del mondo, si propone di svincolare dalla sfera delle passioni umane le manifestazioni della vita istintiva, facendone il fondamento di un'esperienza religiosa e di conoscenze superiori.
È presumibile che il tantrismo śaktico si sia sviluppato dapprima nell'ambito dell'induismo, dove il culto di divinità femminili ebbe fin da tempi remoti un'importanza preminente. A quanto pare queste concezioni si fecero strada presso i buddhisti nel contesto di un movimento di reazione contro le forme sclerotizzate del monachesimo tradizionale; tale movimento fu avviato da eremiti e predicatori itineranti (a molti dei quali si attribuivano poteri magici), che si erano allontanati dal Saṅgha e che spesso appartenevano a caste inferiori, così che la loro attività fu anche una manifestazione di protesta sociale. Le loro dottrine furono osteggiate dalle comunità buddhiste tradizionali, che le consideravano scandalose, ma qualche generazione più tardi la situazione era cambiata: gli insegnamenti dei tantrici più importanti, discussi nei grandi centri di formazione monastica come Nālānda e Vikramaśilā, divennero oggetto di commenti e di opere letterarie e furono fatti propri da alcuni movimenti missionari buddhisti. Il tantrismo non śaktico trovò accoglienza nel buddhismo diffuso nell'Asia orientale, mentre nel Tibet la tradizione tantrica fu recepita nella sua totalità. Le pratiche śaktiche descritte nei testi furono per lo più interpretate simbolicamente come processi svolgentisi nella psiche di chi si dedicava alla meditazione.
Come si è detto nel cap. 5, la diffusione del buddhismo fuori dell'India cominciò al tempo del re Aśoka; a quell'epoca si ebbe la conversione del re di Ceylon (Laṅkā) Devānampiyatissa (circa 250-210 a. C.). Da allora il buddhismo Theravāda è la religione nazionale e statale dei Singalesi, mentre i tentativi d'introdurre nell'isola anche il Mahāyāna ebbero successo solo per breve tempo. Fra le peculiarità del buddhismo singalese vi fu la formazione di vasti domini feudali aventi come titolari gli abati dei grandi monasteri; tuttavia questo sistema si scontrò ripetutamente con l'opposizione di movimenti riformatori che intendevano riaffermare gli ideali ascetici del buddhismo originario. Nel periodo più antico il Saṅgha era articolato in tre scuole o sètte (nikāya): il Mahāvihāravāsin, l'Abhayagirivāsin e il Jetavanavāsin. Quando il re Parākramabāhu I (1153-1186) ordinò che tutti i monaci si sottomettessero alla scuola del Mahāvihāra, un movimento ascetico di riforma sorto nell'ambito della stessa scuola provocò una divisione del Saṅgha in due comunità: quella dei 'monaci del villaggio' (gāmavāsin) e quella dei 'monaci della foresta' (araññavāsin). Dopo il declino dei buddhismo singalese - dovuto fra l'altro al fatto che le regioni costiere di Ceylon erano cadute nelle mani di potenze coloniali come il Portogallo e l'Olanda - il re di Kandy invitò nel suo regno (che rimarrà indipendente fino al 1815) alcuni monaci siamesi; essi vi giunsero nel 1750 e contribuirono a fondare una scuola tuttora esistente, il Syāmanikāya, facendosi continuatori dell'antica tradizione del feudalesimo monastico. Tra il XII e il XVIII secolo furono emanate numerose leggi (chiamate Katikāvata) in cui vennero raccolte le disposizioni - approvate dall'assemblea del Saṅgha e ratificate dal re - sull'organizzazione della comunità e sul modo di applicarne la regola.Dal tardo Medioevo in poi gli ordini maggiori furono riservati ai monaci appartenenti alla casta più elevata, quella dei Govigama: in tal modo, contrariamente agli insegnamenti del Buddha, venne introdotto nella comunità monastica il sistema delle caste. Per reazione contro questo stato di cose si formarono, a cominciare dal 1802, altre nikāya che ripristinarono l'originario principio di uguaglianza e sostennero un'interpretazione più rigida delle regole dell'Ordine. Oggi il Saṅgha dello Sri Lanka si articola in tre nikāya (Syāmanikāya, Amarapuranikāya, Rāmaññanikāya), suddivise a loro volta in numerosi gruppi indipendenti tra loro dal punto di vista organizzativo; queste divisioni restano tuttavia un fatto interno all'Ordine e non toccano da vicino il laicato, in quanto non implicano nessuna diversità d'interpretazione dottrinale.
Una particolarità del buddhismo nello Sri Lanka è la sua stretta connessione col nazionalismo singalese. La già ricordata cronaca del Mahāvaṃsa (risalente agli inizi del VI secolo) a cui i Singalesi riconoscono una autorità paragonabile a quella delle scritture canoniche, narra diffusamente come nel II secolo a. C. il re di Ceylon Duṭṭhagāmaṇī si sia valso del sostegno morale del Saṅgha per liberare l'isola dal dominio straniero dei Tamil, facendo tra l'altro incastonare nella sua lancia una reliquia del Buddha. Secondo questa tradizione, i Singalesi sono il popolo a cui il Buddha ha affidato il compito di custodire e trasmettere la sua dottrina, nella forma autentica del Theravāda. L'idea di essere un 'popolo eletto' ha creato stretti legami, tuttora esistenti, fra religione e coscienza nazionale; tali legami si rafforzarono notevolmente quando, con la decadenza del buddhismo indiano, Ceylon divenne l'avamposto occidentale del mondo buddhista. Negli ultimi tempi la comunità monastica di Ceylon si è impegnata a fondo nella conservazione della lingua nazionale; l'adozione del singalese come unica lingua ufficiale dell'isola (1956), dovuta essenzialmente all'attivismo politico di gran parte del Saṅgha, ha dato origine a un contrasto sempre più acuto tra Singalesi e Tamil.In Birmania il buddhismo esiste da circa duemila anni, ma la definitiva affermazione del Theravāda come religione nazionale si ebbe solo al tempo del re di Pagan Anuruddha (1044-1077). Nel corso dei secoli seguenti il buddhismo Theravāda s'impose anche tra la maggior parte dei popoli thai, soprattutto fra i Siamesi, i Laotiani e gli Shan, come pure fra i Cambogiani o Khmer. A quanto pare, inizialmente dev'essersi affermata una scuola in cui si svilupparono, sulla base dei testi Theravāda, i caratteri fondamentali del tantrismo (ricordati nel cap. 7), senza tuttavia che si facesse uso del termine tantra; in seguito queste antiche pratiche religiose, profondamente radicate nella popolazione, furono ripetutamente combattute da movimenti riformatori tendenti a ristabilire nella sua purezza la dottrina Theravāda.
Come nello Sri Lanka, anche in Birmania, nella Thailandia, nella Cambogia e nel Laos il Theravāda fu favorito dalla maggior parte dei sovrani locali, che istituirono una gerarchia ecclesiastica sottoposta alla vigilanza statale. Tale sistema, perfezionato nella Thailandia del XIX e XX secolo con l'introduzione di metodi amministrativi moderni, fu invece abolito in Birmania dal governo coloniale britannico, che separò le istituzioni religiose da quelle statali. In conseguenza di ciò, gran parte del Saṅgha birmano partecipò alla lotta per l'indipendenza e dopo la fondazione dell'Unione Birmana si schierò a favore della restaurazione del buddhismo come religione di Stato. Il tentativo d'imporre tale provvedimento fallì con l'ascesa al potere del generale Ne Win (1962); tuttavia nel 1980 fu creato con l'aiuto statale un sistema di amministrazione centralizzata per l'intero Saṅgha dell'Unione, comprendente anche un'efficiente giurisdizione ecclesiastica. Contrariamente a quanto è avvenuto nei paesi precedentemente citati, in cui il buddhismo ha potuto godere finora del sostegno statale, in Cambogia il Theravāda tradizionale è stato annientato dall'avvento dei Khmer rossi.Mentre nello Sri Lanka il Saṅgha si è evoluto in una specie di sacerdozio professionale, nel senso che di norma chi è stato ordinato monaco rimane tale per tutta la vita, nell'Asia sudorientale - soprattutto in Birmania e in Thailandia - è consentito far parte della comunità monastica per un periodo di tempo limitato, e anzi l'ammissione a essa è diventata per la popolazione maschile una specie di rito iniziatico; naturalmente, accanto a questi membri temporanei vi è una maggioranza di membri permanenti. Per quanto riguarda la possibilità di applicare oggi, in società 'post-tradizionali' aventi una Chiesa di Stato, l'antico diritto ecclesiastico contenuto nei testi canonici, in tutti i paesi fondati sulla tradizione Theravāda sono stati raggiunti compromessi con le tradizioni giuridiche locali.
Nel Nepal il buddhismo tradizionale dei Newar va inquadrato storicamente nel Vajrayāna o buddhismo tantrico, anche se non esiste più un ordine di monaci osservanti il celibato. Nel Saṅgha - che nel XIII e XIV secolo si trasformò in due comunità di casta, i Vajrācārya e gli Śākyabhikṣu - si è ammessi con la cerimonia iniziatica del bare chuyagu, derivante dall'ordinazione minore (pravrajyā) delle antiche comunità monastiche. In questa forma di religione i Vairācārya sono gli esperti dei riti e ricevono una speciale iniziazione alle dottrine 'segrete' del Vajrayāna; gli appartenenti alle altre caste buddhiste sono esclusi dall'iniziazione, ma possono prendere parte al culto pubblico. Il buddhismo dei Newar ha conservato dunque la sua autonomia cultuale rispetto all'induismo, ma per quanto riguarda l'ordinamento sociale si è adeguato pienamente alle esigenze di una società come quella indù, fondata sulla divisione in caste.
Forme autonome di buddhismo si svilupparono in Cina a cominciare dal I secolo d. C. e nel Tibet a cominciare dal VII secolo; in entrambe queste aree culturali il buddhismo assunse una notevole importanza politica ed economica nella vita della società e dello Stato. Nell'area tibetana si formarono addirittura dei veri e propri Stati retti dal potere religioso, che ebbero vita più lunga nel Tibet propriamente detto (prima sotto i grandi abati della scuola dei Saskya, poi sotto i Dalai Lama) e minor durata nel Bhutan e nella Mongolia. Invece in Cina l'influsso del clero buddhista fu limitato dalle ripetute confische dei beni del Saṅgha e dalle frequenti chiusure di monasteri ordinate dai sovrani locali: la dottrina ufficiale cinese era il confucianesimo, che rifiutava alcuni principî fondamentali del buddhismo ma non poté fare a meno di misurarsi con le sue idee. Anche in Giappone, dove arrivò attraverso la Cina e la Corea, il buddhismo dovette coesistere e competere con lo shintoismo: in questo contesto vanno considerati alcuni importanti sviluppi del buddhismo giapponese.
A cominciare dal V secolo, nel corso della cosiddetta 'colonizzazione indù', il buddhismo fu importato insieme con l'induismo a Sumatra e a Giava; si affermò allora nell'Indonesia una forma particolare di Vajrayāna, tuttora testimoniata dalla presenza di grandi edifici, tra cui spicca il Borobudur. In seguito le due religioni coesistenti a Giava confluirono in un sincretismo fondato sull'identificazione di Śiva col Buddha. Fra il XV e il XVII secolo le religioni di origine indiana furono soppiantate in Indonesia dall'Islam, ma il cosiddetto buddhismo Śivaita sopravvisse nelle isole di Bali e di Lombok: in esse l'organizzazione sociale segue il sistema indiano delle caste, mentre si possono ancora osservare notevoli tracce di concezioni religiose naturalistiche preindiane.
Con questa denominazione vengono indicati i movimenti buddhisti rinnovatori nati dal confronto coi modelli culturali europei e col pensiero scientifico moderno. Questa tendenza ha cominciato ad affermarsi a Ceylon negli ultimi decenni dell'Ottocento ('disputa di Pānadurā' fra cristiani e buddhisti nel 1873, attività di Anāgārika Dharmapāla, fondazione della Maha Bodhi Society, ecc.), ha avuto manifestazioni parallele in Thailandia e in alcune parti dell'India e in tempi più recenti si è estesa a numerosi altri paesi buddhisti. In India Bhimrao Ramji Ambedkar (1891-1956), pioniere della lotta per migliorare la condizione dei cosiddetti 'intoccabili', ha avviato fra i diseredati un movimento di massa fondato sul buddhismo Theravāda, interpretando le dottrine del Buddha come una filosofia della rivoluzione sociale. Anche in Giappone si sono avute nuove forme radicali di buddhismo, in particolare quella rappresentata dal Sōka-gakkai. Questo movimento, fondato nel 1930, è ispirato a un testo del Mahāyāna classico, il Sūtra del loto, nella versione giapponese dovuta a Nichiren (1222-1282); esso ha creato una comunità religiosa messianica che si dedica interamente all'attività politica, ottenendo notevoli successi anche fuori del Giappone.(V. anche Religione).
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