Sacro
Una presentazione della categoria del sacro non può non iniziare constatando la contraddizione di fondo di fronte a cui si trovano oggi le scienze sociali. Per un verso, a partire da molteplici punti di vista, esse convergono nel prendere atto dell'inevitabilità e dell'irreversibilità del processo di secolarizzazione e, dunque, dell'eclissi se non del tramonto definitivo del sacro (v. Acquaviva, 1961); per un altro, esse sembrano sempre più costrette a ricorrere al concetto di sacro, se vogliono render conto e spiegare i comportamenti e le credenze individuali e, in genere, la complessità e la dinamicità della situazione religiosa contemporanea (v. Hervieu-Léger, 1993).
Questa situazione ha radici storiche ben precise. La nozione di sacro è una 'scoperta' di quella scienza comparata delle religioni che si è affermata, in paesi come la Francia, la Germania, l'Inghilterra, nella seconda metà dell'Ottocento, quale tentativo di studiare e di comparare, su di un piano di pari dignità, in quanto prodotti culturali, le differenti religioni. Le 'origini' di questo concetto affondano nella cultura illuministica, e precisamente sia nel suo tentativo di trovare un comune fondamento antropologico al sentire religioso dell'uomo sia nel tentativo parallelo, messo in atto in particolare da J.-J. Rousseau, di trovare un fondamento non teologico, ma comunque religioso (la cosiddetta 'religione civile'), alla convivenza sociale. In questo senso, il sacro si è affermato, soprattutto in Francia e nella scuola sociologica francese, sullo sfondo dei contemporanei processi di laicizzazione come chiave di lettura laica dei fenomeni religiosi, acquisendo quell'ambiguità rilevata all'inizio: diventando una chiave di identificazione della stessa religione, il sacro è diventato insieme una 'realtà' inevitabilmente soggetta, anch'essa, al declino sociale del religioso; nel contempo, interpretato come una 'realtà' alternativa alla religione istituzionale, esso si è dimostrato in grado di sfuggire alla corrosione dei processi secolarizzanti che aggredivano la religione di chiesa.
Quanto precede dovrebbe aiutare a comprendere meglio la particolare prospettiva assunta in questa sede. Nell'attuale dibattito culturale, sacro è diventato una categoria sempre più complessa, dai percorsi labirintici e dotata di una varietà interpretativa in grado di sfidare qualunque sintesi. Quel che qui si propone è un possibile percorso storiografico, con particolare attenzione alle fortune che la categoria del sacro ha avuto nelle scienze sociali. Dopo alcuni cenni sulla sua 'scoperta' e dopo alcune considerazioni sulla complessità del problema semantico, si prenderanno in esame le due principali interpretazioni del sacro che hanno influenzato in modo determinante le fortune successive del termine: l'interpretazione di É. Durkheim e della scuola sociologica francese e l'interpretazione, a sfondo ontologico, della fenomenologia della religione. Nella seconda parte dell'articolo saranno poi esaminate le fortune di queste due interpretazioni nell'ambito delle scienze sociali, con particolare attenzione ai problemi posti dall'attuale 'ritorno del sacro' e dai fenomeni di disseminazione o diaspora che contraddistinguono la situazione socio-religiosa contemporanea. Sono di conseguenza esclusi, se non perché direttamente attinenti all'argomento, altri tipi di interpretazione, largamente correnti nel dibattito attuale e discendenti dalla molteplicità di discipline che si richiamano a questa categoria (v. Kamper e Wulf, 1987), in particolare quelle di tipo filosofico relative al sacro quale a priori religioso (v. Splett, 1971).
La 'scoperta' del sacro come categoria interpretativa dei fenomeni religiosi costituisce l'esito di un processo complesso, che accompagna la storia culturale dell'Ottocento. In particolare, è possibile individuare due tradizioni interpretative che, alla fine del secolo, convergeranno nel dar vita, seppur in modo indipendente, alla moderna categoria del sacro.
La prima tradizione è tipica della Germania e tradisce la sua matrice protestante nel suo spiccato individualismo, che la porta a sottolineare, nel sacro, il carattere soggettivo di esperienza vissuta, di Erlebnis. Questa esperienza ha per oggetto non più Dio o il divino, cioè una concezione personale del trascendente, com'è proprio del monoteismo biblico, ma una totalità misteriosa, che va dalla Natura di certe poesie di F. Hölderlin (cfr., ad esempio, "Wie wenn an Feiertage..." e il commento che ne ha dato M. Heidegger, Erläuterungen zur Hölderlins Dichtung, Frankfurt a.M. 1943, pp. 50 ss., in particolare p. 54: "Hölderlin chiama la Natura das Heilige, poiché essa è più antica dei tempi e degli dei, e però la sacralità non è in nessun modo una proprietà dedotta da un dio che si situa lontano; il sacro non è sacro perché è divino, ma il divino è divino, poiché, nel suo modo di essere, è sacro") all'Infinitamente altro dei Discorsi sulla religione (1799) del pietista F. Schleiermacher. Nella prospettiva di quest'ultimo, infatti, a fondamento delle religioni storiche vi è ormai un religioso considerato come una totalità che genera quelle manifestazioni specifiche che sono le religioni storiche, nel contempo trascendendole e, dunque, non identificandosi con esse. Né è un caso che questo filone interpretativo abbia trovato, come vedremo, la sua espressione più compiuta in Das Heilige (1917) di Rudolf Otto, di un filosofo e teologo, cioè, che era stato, un secolo dopo la loro prima pubblicazione, il curatore dell'edizione critica delle Reden schleiermacheriane.
La seconda tradizione è rintracciabile soprattutto in Francia e, per l'influsso decisivo che essa ha esercitato sulle scienze sociali, merita una considerazione più approfondita. Essa concerne "un progetto di civiltà, solidale nei confronti delle nuove interpretazioni che verranno date, fino al costituirsi della Terza Repubblica, del concetto rousseauiano di 'religione civile"' (v. Borgeaud, 1994, p. 389). Questo progetto accompagna il costituirsi di una tradizione sociologica francese, che da Saint-Simon e Comte, attraverso l'opera di N.-D. Fustel de Coulanges, approda infine alle riflessioni e alle elaborazioni di Durkheim e della sua scuola, in particolare di H. Hubert e di M. Mauss. Questo secondo filone interpretativo riflette la particolare situazione socio-religiosa francese durante l'Ottocento, di un paese, cioè, che per un verso costruisce e si costruisce in funzione di un progetto di laicità e dunque di separazione tra Chiesa e Stato, tra religione istituzionale e società, per un altro rimane un paese profondamente cattolico, anche se conosce, grazie alla presenza di isole protestanti e di una importante minoranza ebraica, un relativo pluralismo religioso.
Nei suoi primordi, dal Génie du christianisme di R. de Chateaubriand al De la religion di B. Constant (per non dire dei lavori dei tradizionalisti cattolici, da J. de Maistre a C. de Bonald), questa tradizione si segnala perché, in polemica più o meno aperta sia con l'individualismo protestante e il suo intimismo fideistico sia con l'individualismo utilitaristico che riduceva l'agire al calcolo e all'interesse del singolo trascurando il problema dell'ordine e relegando la religione nel campo dell'illusione, tende a sottolinearne la particolare realtà che si dispiega nella forza integratrice, di coesione sociale, svolta dalla pratica religiosa. Inoltre, in questa prospettiva, la religione, considerata all'origine di tutte le idee fondamentali dell'umanità, acquista un fondamentale valore cognitivo.
Nella reinterpretazione, in prospettiva positivista e sostanzialmente atea, che A. Comte darà di questo complesso di idee, il fondamento dell'agire del singolo e dei suoi valori tenderà a essere individuato non più in una religione, che corre il pericolo di essere identificata nel cattolicesimo della Restaurazione, ma, appunto, nel sacro. Significativamente, nel Cours de philosophie positive, il sacro viene da Comte collocato in due ambiti: il sacro negativo o tabù e il sacro come sanzione. Mentre il primo tipo di credenze appartiene però al passato - a un passato, nella prospettiva evoluzionistica tipica del sistema comtiano, irreversibile -, il secondo tipo appartiene al presente e concerne la funzione di consacrazione sociale che le credenze religiose svolgono. Questo tema è al centro del Système de politique positive del 1851, in cui, non a caso, termini come sacré, consacrer, saint si moltiplicano. Sacré, in particolare, è quell'Amore, che costituisce il fondamento, il motore immobile della società immaginata da Comte. Questo Amore 'sacro' svolge una serie di funzioni sociali fondamentali: è la molla che spinge il singolo all'azione sociale; è l'espressione e il fondamento del legame singolo-società; è quel surcroît d'énergie, vale a dire la fonte dell'ideazione collettiva, che sta alla base del vivere sociale. Quella "prépondérance sacrée de la sociabilité sur la personnalité" che era stata tipica del Medioevo cristiano, è il compito che ora Comte assegna alla sua religione dell'umanità.
In questa "tradizione sociologica" (v. Nisbet, 1966, pp. 221 ss.), la riflessione sul sacro ha, dunque, come prototipo e modello il cattolicesimo contemporaneo (v. Isambert, 1982, pp. 266-267): si pensi all'obbligatorietà della credenza, che troverà nel dogmatismo del Concilio Vaticano I (1870) il suo sigillo; o al potere integratore della religione cattolica, cui guardano con minore o maggiore nostalgia tutti i più significativi rappresentanti di questa tradizione. In tal modo, il sacro diventerà, in particolare nella riflessione di Durkheim, il fondamento di una nuova morale sociale, sostituto di quella obbligatorietà religiosa tipica di un cattolicesimo ormai in crisi irreversibile e, in ogni caso, non più proponibile quale fondamento di uno Stato laico.
Accanto a queste due tradizioni, nel corso della seconda metà dell'Ottocento se ne viene costituendo una terza, legata alle fortune della nascente antropologia culturale e, in generale, della comparative religion; essa ha nell'Inghilterra vittoriana il suo punto di riferimento privilegiato. In questa tradizione vengono messi a fuoco due importanti aspetti della successiva interpretazione del sacro: la sua ambivalenza, per cui il sacro è, nel contempo, positivo e negativo; e la sua progressiva identificazione con il mana. Si tratta di due aspetti nuovi, che confluiranno nell'interpretazione di Durkheim e della sua scuola soprattutto attraverso l'interpretazione di W. Robertson Smith, un pastore della Chiesa presbiteriana scozzese che aveva sposato le tesi della teologia liberale, applicando allo studio della Bibbia i metodi storicocritici di J. Wellhausen e della sua scuola.
Per Robertson Smith, il sacro (the holiness) designa la relazione tra un dio e una realtà appartenente al mondo naturale. Se l'assunzione nell'ambito religioso di queste manifestazioni dipende da un fatto sociale e cioè dalla condivisione da parte di un determinato gruppo sociale (nella fattispecie, studiando Robertson Smith la religione degli antichi Semiti, un clan), la dimensione sacrale consiste nella manifestazione di una potenza straordinaria che si comunica alla natura, secondo una metafora tipica dell'epoca e destinata a grande fortuna, come una scarica elettrica: "ogni luogo e cosa che possiedono un'associazione naturale con il dio sono considerati - se è lecito prendere a prestito una metafora dall'elettricità - come carichi di un'energia divina che è pronta ad ogni momento a scaricarsi fino a distruggere l'uomo che presuma di accostarvisi in modo indebito" (v. Smith, 1889, ed. 1969, p. 151). Il sacro di Robertson Smith è un sacro ambivalente, un supernatural power che può contagiare chi vi si accosti senza aver rispettato le opportune prescrizioni (problema del tabù, sul quale ritorneremo), ma è anche una potenza positiva, che si manifesta nei vari aspetti della natura e del cosmo: un'energia, insomma, che si è caricata dei tratti, ben noti allo studioso scozzese, del qadosh e cioè della sacralità del Dio ebraico. In questo modo, Robertson Smith fa un'importante opera di mediazione culturale. Se Fustel de Coulanges, nella Cité antique, studiando il fondamento della religione antica, aveva contribuito a riproporre il problema della centralità del sacro nelle religioni antiche, Robertson Smith, appoggiandosi da un lato alle correnti ricerche antropologiche sul mana e sul tabù, dall'altro rileggendo queste problematiche alla luce dei dati della filologia semitica, contribuisce sia ad allargare il campo di applicazione della categoria del sacro all'area semitica sia, soprattutto, a gettare un ponte tra studi antropologici e studi relativi al mondo antico e in particolare al mondo biblico. In questo modo, si gettano le basi per quella universalizzazione della categoria del sacro che coinciderà con la sua 'scoperta'. Mentre, però, per il 'liberale' Robertson Smith il sacro appartiene in sostanza al passato dell'umanità, alle religioni naturali e politeistiche, sulle quali aveva alla fine trionfato l'individualismo, religioso e disincantato, del cristianesimo (naturalmente, di tipo protestante liberale) - e con esso la religione rivelata sulla religione naturale e la religione tout court sulla magia - occorrerà attendere Durkheim perché le due tradizioni sopra delineate trovino il loro superamento in una concezione del sacro considerato ormai come il fondamento di ogni religione. Il sacro, che in tutti questi autori continua in fondo a essere, secondo le sue origini semantiche, una qualità delle cose, si trasforma così in una sostanza.
A favorire questo mutamento contribuì in modo decisivo l'assimilazione del sacro da un lato col tapu polinesiano, dall'altro col mana (v. Greschat, 1980, per una recente messa a punto). Il primo termine era stato introdotto in Europa in seguito alla pubblicazione del resoconto del terzo viaggio nelle isole del Pacifico del capitano Cook (cfr. J. Cook e J. King, A voyage to the Pacific Ocean, 1776-1780, London 1784), il quale aveva individuato il termine e la sottintesa nozione di divieto, proibizione, a Tonga e aveva trovato conferma della sua diffusione nelle isole Sandwich e nelle isole della Società. Esso designava "le cose che sono proibite"; non aveva, d'altra parte, un'estensione uniforme nei territori osservati e finiva spesso per coincidere con le stesse leggi della tribù. Ben presto, in opere di missionari cristiani, si tese a identificarlo con il mana o potenza, una identificazione che doveva rivelarsi gravida di conseguenze per le successive fortune della nozione di sacro.
'Mana' era un termine la cui esistenza nell'area polinesiana era stata già rilevata nel 1814 da W. Williams. Soltanto molti anni dopo, però, attraverso l'opera di un missionario, Codrington, sui Melanesiani, il termine doveva acquisire diritto di cittadinanza negli studi antropologici e di comparative religion. L'autore, avanzando l'ipotesi secondo cui il termine era diffuso in tutta l'area del Pacifico, così lo definiva: "È un potere e un'influenza non fisici, ma in una certa misura soprannaturali. Si manifesta, tuttavia, nella forza fisica o in ogni forma di potere o eccellenza che un uomo possegga. Questo mana non è fissato ad alcunché, ma può essere trasmesso ad ogni cosa" (v. Codrington, 1891, pp. 118-119).
Nel giro di pochi anni, grazie a una serie di opere di antropologi e studiosi di storia comparata delle religioni, da J.H. King a J.N.B. Hewitt, da R.R. Marett ad A.C. Fletcher, la nozione di mana veniva estesa ad altre aree storico-religiose 'primitive', prestandosi a più o meno fondate assimilazioni con termini affini come il wakan dei Sioux, il boylya degli Australiani, l'orenda degli Irochesi e degli Uroni e così via. Grazie a questo processo di estensione, si viene a creare un vero e proprio 'manismo' o 'panmanismo' e cioè una teoria che tende a identificare nel mana il fondamento stesso della vita religiosa, anzi, nel linguaggio dell'epoca, le sue 'origini'. Ora, sarà proprio su questa progressiva identificazione che si eserciterà la riflessione di Durkheim e della sua scuola. Se vogliamo però comprendere perché il sociologo francese ha fatto ricorso al concetto di sacro per tradurre in termini occidentali la teoria del mana, occorre abbandonare per un momento il campo delle riflessioni storiografiche sul costituirsi di questo particolare metalinguaggio per passare a prendere in esame alcuni aspetti del complesso problema semantico.
Qualunque riflessione sul dato linguistico soggiacente alla categoria di sacro deve evitare due rischi. Il primo è quello di pensare di poter stabilire, sulla base di alcune etimologie, per quanto solide, il significato del termine: la filologia o la semantica, per quanto preziose, anzi indispensabili in questo tipo di indagine, possono infatti servire a ricostruire la storia di una terminologia nelle differenti tradizioni religiose, ma non permettono di operare quel salto categoriale che consiste nel cogliere il significato che il sacro ha assunto nel metalinguaggio della moderna critica. Il secondo pericolo, collegato al primo ma di segno rovesciato, consiste nel pensare di poter individuare il significato del sacro prescindendo dalla complessità o addirittura dall'esistenza stessa del dato semantico. Molte tradizioni religiose, infatti, pur conoscendo forme simboliche sacrali, mancano di un autolinguaggio che le definisca, per lo meno dal loro punto di vista: in questo secondo caso, dovendosi per forza di cose ricorrere a una definizione esterna, dell'osservatore e dello studioso, il rischio, nella mancanza di un riscontro linguistico, è quello di attribuire a quel particolare contesto e a quella particolare tradizione valori sacrali in realtà a essi estranei (come, ad esempio, talora succede nei, peraltro utili, lavori comparati curati da Ries: v., 1978-1986).
La storia del termine 'sacro' è semplice e complessa nel contempo. Per un verso, esso - e, più in generale, la coppia sacro-profano - deriva dal latino sacer (e dalla correlata coppia sacer-profanus) attraverso la mediazione del latino cristiano, in particolare del latino della Vulgata. Per un altro verso, il termine ha conosciuto nelle lingue moderne una storia diversa a seconda del rapporto che esse hanno intrattenuto (o non hanno intrattenuto) col latino. Si è così venuta costituendo una terminologia molto differenziata, come dimostrano ad esempio i modi diversi secondo cui è stata tradotta l'opera di R. Otto, Das Heilige: Il sacro, Le sacré, Lo santo, The idea of holy, Det Heilige, ecc.In latino (per quanto segue, v. Fugier, 1963; v. Benveniste, 1969 e in genere per l'area classica la recente messa a punto di Dihle: v., 1988) i due termini-chiave sacer e sanctus derivano da una radice indoeuropea sak, che ha originariamente un valore di pattuizione, indica cioè una sanzione, definisce un rapporto riguardo a certe offerte. A partire da questa base, la tradizione latina ha poi operato alcune distinzioni, soprattutto nel campo del diritto sacrale, in particolare costituendo coppie oppositive, preziose per delimitare i rispettivi campi semantici, come sacer-profanus (ciò che sta fuori del fanum e cioè del luogo consacrato) o sanctus-sine sanctione.
Sacer, così, indica tutto ciò che, in virtù di un atto pubblico della civitas e dei suoi rappresentanti, viene dedicato agli dei, sottratto cioè alla sfera profana per essere loro consacrato; sanctus, di contro, indica la sanzione ufficiale, il riconoscimento legale di questo atto. Il primo termine rimanda, dunque, a un senso religioso specifico (rapporto con gli dei), mentre il secondo indica ciò che unifica, soprattutto a livello di imputabilità, tutte le realtà giuridicamente rilevanti, tra cui appunto le cose sacre. Quanto alla coppia sacer-profanus, essa è importante per la determinazione spaziale del sacro: il luogo indicato come sacer era spesso circondato da mura o in qualche modo isolato dal rimanente spazio circostante, adibito invece a una funzione profana (profanare, infatti, significava 'portar fuori' le offerte davanti al recinto del tempio, il fanum, al cui interno si celebrava il sacrificio). Questa connotazione spaziale accompagna anche oggi i due termini, costituendone una definizione ancora valida: "ciò risulta evidente quando la chiesa sorge ancora vicino all'ingresso della città, il luogo di culto accanto alla sala di riunione del villaggio e là dove un'assemblea di buddhisti o di musulmani risulta qualcosa di differente da un convegno di economisti o da una riunione di atleti" (v. Colpe, 1986; tr. it., p. 491).
Il termine sacer ha anche un senso peggiorativo, come nell'espressione virgiliana auri sacra fames (Aen., III, 57) o nella formula sacer esto, 'sia maledetto', dove esso indica colui che ha violato una legge e viene di conseguenza maledetto e condannato perché ha violato la sacralità di un oggetto o di una persona che appartenevano agli dei, nel senso che erano stati consacrati alla e dalla divinità. Ne consegue che già in latino sacer possiede un significato ambivalente: esso rimanda a qualcosa che è insieme venerato e sinistro, è percepito, nel contempo, come santo e maledetto. Sacer esto, accanto al significato negativo sopra ricordato, ne possiede infatti anche uno positivo, indicando qualcosa o qualcuno che viene affidato, consacrato alla divinità.
La centralità di sacer nel ricco vocabolario cultuale latino è confermata sia dall'esistenza di riti come il ver sacrum (il sacrificio di tutti gli animali nati in primavera e l'espulsione dalla comunità e dal consorzio cultuale di tutti gli adulti allo scopo di stabilirne la posizione sociale e di assicurarsi il favore di Marte, che operava al di fuori dei confini della comunità) sia dall'esistenza di un'ampia famiglia semantica, che comprende termini da esso derivati come sacrare, sacrificare, sacramentum, sacerdos.
Quanto a sanctus (su cui v. la sintesi fondamentale di Festugiere, 1942), participio passato di sancire, esso finisce per assumere una grande ampiezza di significati, comprendendo anche il senso dell'infallibilità del culto e della purezza morale. Ciò contribuisce a spiegare perché, nella Vulgata, esso finì per tradurre il greco hágios del Nuovo Testamento e della Settanta e l'ebraico qadosh. Di contro, sacer, in questa tradizione ebraico-cristiana, finì per tradurre il greco hierós, indicando per lo più l'atto di consacrazione alla divinità.
Ma per comprendere questo aspetto decisivo delle traduzioni bibliche, attraverso le quali il termine sacro doveva giungere fino a noi, occorre fare un passo indietro e prendere brevemente in considerazione altri esempi di lingue indoeuropee e di lingue semitiche.
Il vocabolario greco del sacro è più sfumato e articolato di quello del latino e meno caratterizzato dalle sue dicotomie (v. Williger, 1922). Il concetto più importante è quello indicato dal termine hierós. Esso designa qualcosa che manifesta un potere divino, qualcosa di consacrato non in seguito a un'azione sacrificale, ma all'intervento di una divinità. Il termine funge quasi esclusivamente da predicato, sia riferito a persone che a cose; difficilmente un dio viene definito hierós; per questo, gli ebrei di lingua greca e in seguito i cristiani furono costretti a ricorrere al termine hágios.Gli altri due termini-chiave sono hagnós e hágios, derivati da una radice hag (da cui deriva anche ágos, indicante un oggetto che incute timore, terrore). Hagnós comprende ciò che è puro in senso cultuale e viene usato più frequentemente in collegamento con gli dei; con esso sono qualificati anche elementi in grado di purificare, come l'acqua o il fuoco. Per questo, in senso più generale, esso può indicare le condizioni di purità sessuale rituali e di libertà dalla contaminazione del sangue e della morte o, al di fuori della sfera del culto e delle sue peculiari regole di purità, la condotta di vita 'pura' di un individuo. Quanto a hágios, il termine trova un impiego piuttosto raro nel greco classico ed ellenistico, che ne facilitò l'uso religioso. Proprio per questo gli ebrei vi fecero ricorso per tradurre qadosh, mentre, caratteristicamente, del gruppo di vocaboli facenti capo a hierós, si ricorse soltanto a hieréus per la traduzione dell'ebraico kohen, 'sacerdote'. Il greco del Nuovo Testamento, poi, conservò una funzione privilegiata a hágios, designando ad esempio come hágioi la comunità dei costituenti la ekklesía.
Del vocabolario sacrale greco merita ricordare un ultimo termine: hósios. Esso indica tutto ciò che è permesso o sanzionato da una legge divina in contrapposizione a díkaios, 'giusto', ciò che è sanzionato da una legge umana; di conseguenza, il carattere di chi vi aderisce (di qui, i vari significati di 'pio', 'devoto', 'religioso', anche 'puro'). In contrapposizione a hierós, esso indica ciò che è sottratto al dominio degli dei, 'profano': se il denaro consacrato agli dei è hierón, ciò significa che non lo si può toccare; in quanto hósion, però, esso è liberamente fruibile. Nella Settanta, esso non traduce in genere qadosh ma hasid, 'pio' (la Vulgata, invece, tradurrà hósios con sanctus, in riferimento sia all'uomo che a Dio).
Nella Bibbia ebraica (v. Cazelles, 1985) il concetto di gran lunga più importante è quello di qadosh. La fonte della sacralità è lo stesso Jahvè: le cose divengono, di conseguenza, sacre in seguito a un intervento divino. Fu per opera dei profeti che l'attributo di 'santo' fu eticizzato e tendenzialmente attribuito al solo Jahvè. Ne consegue - differenza fondamentale rispetto al caso delle religioni politeistiche - che la santità o sacralità trasmesse alle cose o agli uomini da Jahvè sono state create da Dio, non fanno parte, cioè, della natura. Un concetto collegato, ma distinto, è quello di ḥerem, l'oggetto separato, messo da parte, perché bandito e, in molti casi, destinato alla distruzione.
Quest'ultima radice ḥrm si ritrova anche in arabo, almeno a partire dal Corano, come base della terminologia araba del sacro. La città della Mecca, per esempio, è un ḥarīm, un luogo circoscritto e inviolabile. La striscia di terra che la circonda e la protegge è conosciuta come al-ḥarām. Nel centro della città è situata la 'moschea proibita', al-masjid al-ḥarām, così detta perché possono entrarvi soltanto coloro che hanno compiuto un iḥram o si sono personalmente consacrati. Nel centro del suo cortile interno, al-aḥram al sharīf ('il nobile recinto'), si trova la aedes sacra, la Ka'bah, albayt al-ḥarām, 'la casa proibita'. Ancora oggi "i rapporti del musulmano col mondo esteriore sono dominati dalla distinzione che egli pone tra quanto è ḥarām, illecito, interdetto, proibito, e quanto è ḥalāl, lecito, permesso, non proibito. Dire di qualcuno che confonde ḥarām e ḥalāl significa accusarlo di essere del tutto ignorante in materia di religione" (v. Chelhod, 1964, p. 50).
Non è ora possibile inseguire le fortune del sacro nei vari ambiti religiosi (v. Ries, 1978-1986 e, per un'analisi esemplare di un contesto tardo-antico, v. Brown, 1982). Queste e altre terminologie che si potrebbero discutere insegnano che il termine sacro (e la coppia sacro-profano o coppie simili) traduce soltanto in parte la complessità di terminologie diversificate, il cui esatto valore semantico può essere reso soltanto da precise analisi contestuali. Quel che è importante per il nostro discorso è sottolineare - come insegna il caso in particolare di Durkheim e della sua scuola - che l'uso degli studiosi moderni presuppone in genere la mediazione cristiana, in particolare il latino della Vulgata, dal momento che "su questa tradizione si fonda la terminologia dei precursori medievali di tutti i moderni linguaggi specialistici" (v. Colpe, 1986; tr. it., p. 492). Questa mediazione di una religione monoteistica e creazionista comportò, come insegna l'analisi di qadosh, la netta distinzione tra il sacro o santo che compete a Dio nella sua trascendenza assoluta e nella sua signoria creatrice, e il sacro che compete alla creazione. In quest'ottica, il latino sanctus finì per indicare una qualità essenzialmente divina, a sfondo etico, conservata nel francese saint e nell'italiano e nello spagnolo santo. Quanto alle lingue germaniche, esse hanno conservato una radice (gotico, hails; antico islandese e antico alto-tedesco, heil) che in origine significava 'intatto, sano, intero' (l'equivalente del greco holókleros) come nell'inglese holy, nel tedesco e nell'olandese heilig, nello svedese helig. Per indicare, invece, la qualità risultante dalla consacrazione a Dio, il latino ha conservato il termine sacer, con forme participiali come sacratus da cui deriva il participio francese (con)sacré, l'italiano sacro e lo spagnolo (con)sagrado. L'inglese, in questo senso, impiega la parola romanza sacred, mentre il tedesco e l'olandese utilizzano l'antica radice weik nelle forme geweiht e gewijd.
È nota la definizione della religione formulata da Durkheim, secondo la quale tutte le credenze religiose "presuppongono una classificazione delle cose reali o ideali che si rappresentano gli uomini in due classi o in due generi opposti, definiti generalmente con due termini distinti - tradotti abbastanza bene dalle designazioni di sacro e profano. La divisione del mondo in due domini che comprendono l'uno tutto ciò che è sacro, e l'altro tutto ciò che è profano, è il carattere distintivo del pensiero religioso" (v. Durkheim, 1912; tr. it., p. 39). Questa definizione è l'esito di un processo complesso, che in questa sede può essere soltanto accennato, in cui decisivo risulta il contributo teorico degli allievi H. Hubert e M. Mauss, anche se fin dai primi articoli di Durkheim sull'"Année sociologique" è possibile ritrovare intuizioni che egli svilupperà in seguito e, in ogni caso, si deve al vigoroso spirito sistematico del caposcuola se la nozione di sacro ha assunto nell'ambito delle scienze sociali una rilevanza significativa.
Se in un primo tempo (in sostanza, fino al saggio del 1899 sulla definizione dei fenomeni religiosi: per maggiori dettagli v. la ricostruzione di Pickering, 1984, pp. 71 ss.) si era mosso nel solco della tradizione sociologica francese sopra delineata, individuando nel sacro o, da un punto di vista sociale, la forza che dà cogenza a determinate regole sociali o, da un punto di vista naturale, la qualità di determinati oggetti e persone investiti dalla sua potenza, soltanto in un secondo tempo, sotto lo stimolo delle analisi sui differenti fenomeni religiosi compiute da Hubert e Mauss, Durkheim allargherà la sfera d'influenza del sacro alle società primitive e si porrà il problema di una definizione della religione in funzione della coppia sacro-profano.
L'importanza del contributo di Hubert e Mauss (v., 1909; v. Isambert, 1976) può essere riassunta in questi termini. Partendo dal lavoro di Robertson Smith, essi sottolineano l'ambiguità del tapu, che può essere avvicinata a quella del sacer latino: identificazione gravida di conseguenze, e che prepara la strada all'interpretazione in chiave psicanalitica dell'ambivalenza psicologica del tabù come sacro negativo che pochi anni dopo, in Totem e tabù (1912-1913), darà Freud. Questo sacro, oltre a designare, come è messo in luce nel saggio sul sacrificio, uno spazio simbolico e un sistema di operazioni, nel saggio sulla magia è poi identificato col mana: in tal modo, esso diventa una forza universale, precedente ogni esperienza, che fonda le rappresentazioni magiche; nel contempo, trasmettendosi agli oggetti, esso diventa una loro qualità. Le implicazioni di queste identificazioni sono già presenti in un saggio di Hubert del 1904: il qadosh ebraico, il tapu e il mana polinesiani sono equivalenti funzionali del sacer; ne consegue che la nozione di sacro è universale, anzi questa idea diventa la condizione stessa del pensiero religioso. Di qui la proposta, che Hubert avanza, di definire la religione come "l'administration du sacré". Di qui, anche, l'osservazione di Mauss che "la notion de dieu se resout, en dernière analyse, en la notion de sacré" (v. Mauss, 1968, p. 97). Ora, come è noto, proprio questa constatazione è soggiacente alla fondamentale critica delle definizioni di religione al suo tempo correnti che Durkheim farà nella prima parte delle Forme elementari.
Quali sono, ora, le caratteristiche fondamentali del sacro così come è possibile evincerle da quest'ultima fondamentale opera? Oltre a essere un fenomeno universale, il sacro possiede, per Durkheim, un carattere di assolutezza e di irriducibilità. La dicotomia sacro-profano deriva questa sua irriducibilità, in ultima analisi, dalla dicotomia società-individuo. Il sacro è infatti una rappresentazione collettiva, in quanto tale, una categoria che classifica e ordina il reale. Ciò significa che la qualità del sacro non è legata ad alcun elemento naturale o utilitaristico, ma è culturale e sociale.
In quanto tale, il sacro possiede un valore simbolico: proprio il fatto che esso non coincida con un determinato oggetto - il quale è soltanto il luogo della sua manifestazione -, fa sì, da un lato, che l'oggetto divenga il simbolo del sacro, dall'altro, che questi simboli mutino col mutare della società. In quanto fatto sociale, poi, il sacro è indivisibile e contagioso: ciò significa sia che esso va sempre considerato nella sua totalità e inderivabilità, sia che, come avevano insegnato in particolare i lavori di Robertson Smith, esso possiede un aspetto fisico, quasi materiale, essendo un fluido o una sorta di scarica elettrica, che, soprattutto come sacro negativo (l'aspetto del tabù), si diffonde come un contagio. Questo aspetto del sacro, d'altra parte, non va confuso col suo aspetto positivo, con quello che Durkheim chiama anche il sacro morale, inteso come il fondamento dell'obbligo etico: "L'essere sacro è in un certo senso l'essere vietato, che non si osa violare; ma è anche l'essere buono, amato, ricercato [...]. La personalità umana è cosa sacra; non si osa violarla, e ci si tiene discosti dai confini della persona - e nello stesso tempo è il bene per eccellenza, la comunione con gli altri" (v. Durkheim, 1963; tr. it., p. 166). In questo modo, sulla falsariga del passaggio da sacer a sanctus rintracciabile anche in R. Otto, attraverso la nozione di sacro si può constatare il passaggio di Durkheim da un'etica della costrizione esterna, dell'obbligatorietà, a un'etica, di tipo kantiano, dell'interiorità. Al pari di Otto, infine, l'ultimo Durkheim ha sottolineato con vigore il carattere emozionale dell'esperienza del sacro: il sentimento del sacro ha la sua "verità", come insegnava il coevo pragmatismo di W. James, nel suo "provarsi"; per questo, come Durkheim giungerà a sostenere in un celebre frammento pubblicato postumo, per studiare una religione, occorre - come insegnava anche Otto - in qualche modo provare un sentimento religioso, se ci si vuole mettere in sintonia col credente: in questo modo, "le sentiment du sacré devient le fait religieux fondamental" (v. Isambert, 1976, p. 54).
L'interpretazione del sacro data da Durkheim si caratterizza per la sua sistematicità, in grado di convogliare al suo interno i vari aspetti e momenti della riflessione precedente sul sacro, unificandoli intorno all'idea che il sacro è il modo in cui la società classifica la realtà e, nel contempo, l'esperienza che sta alla base di questo sistema di classificazione. I sociologi, soprattutto francesi, che si sono mossi lungo il cammino aperto da Durkheim e dai suoi allievi, hanno teso invece a privilegiare l'uno o l'altro aspetto presente nella sintesi durkheimiana.
In questa tradizione, un posto particolare occupa la rielaborazione del sacro operata da R. Caillois e dal Collegio di sociologia (1937-1939: v. Hollier, 1979), cui egli partecipò attivamente. Le posizioni dei membri del Collegio (oltre a Caillois, in particolare G. Bataille e M. Leiris) sono diverse non solo per le differenti modulazioni del tema, ma anche per il variare del grado di 'trasgressività' con cui si rapportano all'elaborazione durkheimiana. Al di là delle differenze, importa però sottolineare l'esistenza di un comune nucleo interpretativo. Come già in Durkheim, anche per i membri del Collegio la nozione di sacro diventa centrale per capire l'instaurarsi di quella esperienza di effervescenza collettiva - di 'parossismo sociale', secondo la terminologia del Collegio - in base alla quale l'individuo trascende se stesso e si identifica in una collettività più ampia. Il sacro, in altri termini, risponde agli interrogativi concernenti i fondamenti vitali, le forze prerazionali che costituiscono e fondano il vincolo sociale. A differenza di Durkheim, però, e della sua scuola, che nell'analisi del sacro avevano privilegiato le società primitive, il Collegio chiede al concetto di sacro di render conto delle sue stesse metamorfosi nella società contemporanea, all'apparenza disincantata e inaridita. In questo modo, esso inaugura quello studio delle moderne vie del sacro, che costituisce un aspetto tipico della contemporanea indagine socio-religiosa.
Si tratta di indagini pionieristiche, che affrontano nodi importanti come il rapporto tra il sacro e la sovranità o il potere (v. per una elaborazione successiva di questo nesso Heusch, 1962; v. Doutreloux e Thiel, 1975) o la sua diffusa presenza nei meandri della vita quotidiana. Centrale, ad esempio, è il nesso tra violenza e sacro, ritornato di attualità grazie ai lavori di W. Burkert e in particolare di R. Girard (v., 1972). In linea con gli studi di Hubert e Mauss sul sacrificio, ma recependo nuove suggestioni, Caillois sottolinea, sulle orme del maestro Dumézil, l'idea del sacro come di un ordine varuniano, e cioè di un ordine delle cose che implica la violenza di Varuna; Bataille, con una lettura che cerca di integrare sociologia e psicanalisi, sottolinea che "la società non è un essere meno vero né meno ricco della persona [...] esigendo il dono di sé, tale essere deve essere sacro e cioè dotato di quelle forze, virtù e seduzioni che richiedono e determinano il sacrificio" (cfr. Bataille, in Hollier, 1979; tr. it., p. 463). In questo modo, il sacro finisce per coincidere con quell'"inconscio sociale", antitetico rispetto alla "coscienza sociale" di Durkheim, che costituisce la quintessenza di una società che periodicamente si rinnova, attingendovi nei momenti in cui, nel corso delle sue cicliche crisi, essa è costretta a ritornarvi come a una sua fonte vitale. Per dirla con Caillois, esso è quell'al di qua (o al di sotto) che la vita sociale, nelle sue forme normali, reprime e ricopre. È, come dirà poi Bastide, quel "sacro selvaggio" che forma una sorta di riserva inesauribile di pulsioni e di forze da cui trae alimento la vita sociale: "La crisi dell'istituito, e cioè della Chiesa, non comporta una crisi di ciò che istituisce e cioè dell'effervescenza dei corpi e dei cuori, della sperimentazione ricercata del sacro", di un sacro selvaggio che "si vuole esperienza vissuta del caos" (v. Bastide, 1975, pp. 136-137 e 235) o, come altri dirà, esperienza del dionisiaco sociale e cioè "ribollimento prodigioso della vita che l'ordine delle cose, per poter durare, deve canalizzare" (v. Wunenburger, 1981, pp. 13-14). Infatti, il nucleo centrale della nozione del sacro propria del Collegio è la sua ambiguità o ambivalenza, e cioè il suo essere insieme puro e impuro. Mentre il suo lato "destro", positivo, lo connette all'ordine sociale, in quanto garante delle regole e delle interdizioni, il suo lato "sinistro", negativo, lo lega al sovvertimento e alla trasgressione, alla logica parossistica e orgiastica del dispendio improduttivo.
Questa concezione del sacro, nel contempo eredità e superamento della concezione durkheimiana, sta alla base di un fondamentale saggio dello stesso Caillois, non a caso composto in quegli stessi anni e in quel particolare clima di 'parossismo sociale' in cui si consumò la breve ma non effimera parabola del Collegio: L'homme et le sacré. Si tratta di un testo fondamentale nella storia delle moderne interpretazioni del sacro, perché vi si congiungono temi e motivi propri della tradizione sociologica francese e spunti dell'interpretazione vitalistica e ontologica del sacro, che prenderemo in esame nel prossimo capitolo e che in Francia avevano trovato espressione nell'opera di H. Bergson, in particolare ne Les deux sources de la morale et de la religion (1932).L'homme et le sacré riflette il clima particolare del Collegio di sociologia, quella ricerca di un sacro 'attivista', in grado di rivitalizzare una società in crisi (v. la ricostruzione di P. Geble, in Kamper e Wulf, 1987, pp. 82-90). Se per un verso il sacro, sulle orme di Durkheim, è definito nella sua opposizione al profano, per un altro esso si è ormai trasformato in un "dato immediato della coscienza [...] una categoria della sensibilità" (v. Caillois, 1939, ed. 1963³, p. 18). Ciò che il lavoro, di conseguenza, si propone non è tanto una morfologia del sacro (che sarà invece lo scopo perseguito da Eliade nel suo Trattato di storia delle religioni), quanto una sua sintassi, che miri a cogliere le costanti delle sue manifestazioni, indagandone i tipi di relazioni con le varie realtà umane. Nella sua peculiare dialettica, esso è il fondamento della vita religiosa, che in questo senso si presenta come l'insieme dei rapporti tra l'uomo e il sacro: mentre le credenze li espongono e li garantiscono, i riti perseguono lo scopo di assicurarli praticamente. Questa dialettica vede, da un lato, all'opera un sacro che, nella presentazione di Caillois, conserva i tratti tipici di forza indivisibile, onnipresente, incomprensibile, pericolosa, sommamente efficace, un'energia che manifesta il suo potere contagioso, epidemico, in grado di provocare, non più facendo ricorso alla metafora dell'elettricità ma della chimica, fusioni improvvise e irresistibili; dall'altro, un profano visto come un néant actif, che degrada la pienezza del sacro, permettendone nel contempo la manifestazione. Ne consegue che "entrambi sono necessari allo sviluppo della vita: l'uno come il luogo in cui essa si dispiega, l'altro come la fonte inesauribile che la crea, che la mantiene, che la rinnova" (ibid., p. 20).
L'universalità del sacro non è, in altri termini, sostanziale ma relazionale: essa discende dalle particolari relazioni che il sacro intrattiene col mondo umano. Due in particolare sono i tipi di questo rapporto: il sacro di rispetto e quello di trasgressione (per una ripresa e uno sviluppo di questa tipologia v. Cazeneuve, 1971; v. Makarius, 1974). Mentre il primo corrisponde allo stato sociale normale, il secondo, come insegna ad esempio il caso della festa, rappresenta il momento, per Caillois fondamentale, della sua trasgressività. Soltanto in questo modo, infatti, il sacro, in quanto energia sociale caotica e indifferenziata, può liberarsi e periodicamente ricrearsi. In questo modo, però, il sacro si è trasformato in una essenza irriducibile a ogni altra, in una sorta di "underground pulsionale della società" (v. Isambert, 1982, p. 259). In questo senso, anche Caillois ha dunque contribuito, sulla scia di Durkheim, a quel processo di sostanzializzazione del sacro che costituisce l'esito forse più significativo della sua 'scoperta' e che ha trovato la sua espressione più significativa nella ontologia del sacro propria della tradizione fenomenologica.
Nello stesso anno in cui uscivano Le forme elementari della religione il vescovo luterano Nathan Söderblom pubblicava sulla Encyclopaedia of religion and ethics dello Hastings un articolo fondamentale sul sacro. La holiness vi è definita "the great word in religion", più essenziale della nozione di Dio. Infatti, osservava lo studioso svedese, mentre la vera religione, come ad esempio il buddhismo, può sussistere senza un concetto di divinità, non vi è alcuna autentica religione senza la distinzione tra sacro e profano: "L'idea di Dio senza la concezione del sacro non è religione (cfr. F. Schleiermacher, Reden über die Religion, Berlin 1799). Non la mera esistenza della divinità, ma il suo mana, il suo potere, la sua sacertà, è ciò che caratterizza la religione" (v. Söderblom, 1913, p. 731). Polemizzando con l'interpretazione sociologica (ibid., p. 741), Söderblom metteva poi in discussione l'origine sociale di questa concezione, rimandando a una sua possibile fondazione ontologica e sovrannaturale. In questo modo, si può dire che egli inaugurasse un altro filone interpretativo in cui, a partire, come in Durkheim, dalla constatazione che il sacro è una sostanza, una "realtà" di validità universale, il problema delle sue "origini" veniva risolto presupponendone la "realtà" ontologica. Ora, chi darà compiuta espressione teorica all'esigenza di una fondazione ontologica del sacro sarà il teologo, filosofo e storico delle religioni tedesco R. Otto, in particolare con Das Heilige del 1917.
L'interpretazione che del sacro dà Otto sta alla base di una corrente di studi, oggi largamente presente nella storia delle religioni, fondata sull'antropologia dell'homo religiosus (v. per tutti Ries, 1982). Essa risponde al bisogno di indagare 'scientificamente' un oggetto, la religione, la cui autonomia assoluta, per essere adeguatamente difesa dalla deriva indotta dal riduzionismo critico e dal relativismo storicista, viene fondata su di un a priori, il sacro appunto. Se è vero che la storia mette di fronte ai mutamenti continui delle espressioni dell'esperienza religiosa, è altresì vero, per Otto, che soggiacente a questi mutamenti vi è un Erlebnis che non muta. Il sacro risponde appunto al bisogno di fondare teoricamente l'inderivabilità e, nel contempo, l'universalità del particolare Gefühl o sensus numinis che sta alla base dell'esperienza religiosa in quanto tale.
Non è qui il luogo per approfondire la struttura dell'argomentare di Otto. Per i nostri scopi basterà limitarsi a osservare che il sacro del filosofo di Marburgo possiede una caratteristica fondamentale, che ritornerà in tutti gli autori che a lui si ispireranno, da G. van der Leeuw a M. Eliade: esso non è soltanto una categoria interpretativa, formale, di tipo kantiano, che, come indica il sottotitolo del volume (L'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione al razionale), serve a formalizzare le esperienze del numinoso, ma è prima di tutto e soprattutto un'esperienza di natura interiore che ha in qualche modo in sé i contenuti del suo esperire. Nella peculiare rilettura che dell'a priori religioso dà Otto, in quanto momento universale, esso si configura come una particolare disposizione o atteggiamento dell'uomo, è cioè, per riprendere l'espressione di Otto, a sua volta ripresa da Schleiermacher, una "religiöse Anlage", una disposizione religiosa. A differenza che in Schleiermacher, però, non abbiamo più a che fare con una particolare disposizione psichica, dal momento che essa è come una potenza ordinata all'atto, come un germe autogenerantesi che ha in sé la sua legge di sviluppo e il suo scopo e nella storia soltanto il terreno, più o meno propizio, per la sua realizzazione.
Nel rapporto col mondo empirico e storico questa potenza ha, dunque, soltanto la sua causa strumentale, il suo luogo di manifestazione, non certo il suo inizio (la religione, per Otto, iniziando da se stessa) né, tanto meno, il suo scopo (dal momento che il telos di quella particolare potenza che è il sacro ottiano è seminalmente contenuto nelle inderivabili, oscure rappresentazioni del peculiare Gefühl o contenuto sentimentale che le fonda). In questo modo, il sacro di Otto non è più soltanto oggetto di studio e categoria interpretativa, ma il fondamento stesso, di natura ontologica, di questo studio; la storia delle religioni, di conseguenza, si trasforma in storia del sacro, delle sue manifestazioni e del suo sviluppo ideale, nel senso che le leggi di questo sviluppo non dipendono dal contesto storico, ma sono caratterizzate da "stadi puramente immanenti al numinoso stesso" (v. Otto, 1917; tr. it., p. 189, n. 1). E solo una fenomenologia, attenta all'esperienza psicologica soggiacente, sarà in grado di dare veramente conto della particolare dialettica del sacro che questa reinterpretazione in chiave ontologica produce.
Sulla via aperta e ampiamente percorsa da Otto si sono mossi numerosi autori, con variazioni e critiche significative che non intaccano però l'idea di fondo del sacro come valore categoriale assoluto. In questa linea interpretativa, "è un assioma ontico sintetico per la coscienza religiosa che il valore assoluto e per sé appartiene alla specie di valore del sacro, il quale tipo di valore non si può ridurre a nessun altro gruppo: siano valori logici, assiologici, morali, estetici, ecc. La serie di valore del sacro stesso si può presentare, entro la varietà delle religioni positive, come in larga misura variabile, sia nelle particolari qualità sia nella loro sintesi. Come tipo di valore è una grandezza di assoluta perfezione, che in nessun senso si è 'sviluppata' da qualche altro valore" (v. Scheler, 1921; tr. it., p. 283). In questo senso, pare legittimo affermare che ormai in questa prospettiva il sacro, sostanzializzato e assurto a valore fondante della religione, ha in certo senso preso il posto del Dio personale delle religioni abramitiche (v. Isambert, 1982, pp. 302-303).
Forse l'autore più significativo e, comunque, il più noto, in questo percorso interpretativo, è lo storico delle religioni rumeno M. Eliade. Nella sua interpretazione del sacro egli parte dalla coppia categoriale sacro-profano valorizzata da Durkheim e da Caillois, ma questa rilegge alla luce della sua particolare ontologia dell'arcaico. Essa lo porta, sulla scia di Otto e della corrente fenomenologica, a rifiutare ogni interpretazione riduzionistica - e, dunque, anche sociologica - della natura e delle origini del sacro, inducendolo, di contro, a sottolinearne il particolare carattere di realtà, se non di verità. Il sacro eliadiano, infatti, è un dato strutturale della coscienza umana, che storicamente manifestano le ierofanie, guidate da una peculiare dialettica secondo la quale la particolare "realtà" del sacro si manifesta, e non può non manifestarsi, nella profanità degli oggetti più diversi, senza che però questi oggetti la possano esaurire.
Al pari della dialettica, cara ai romantici, tra Infinito e finito, "questa paradossale coincidenza del sacro e del profano, dell'essere e del non-essere, dell'assoluto e del relativo, dell'eterno e del divenire è quanto rivela ogni ierofania, anche la più elementare [...] questa coincidenza tra sacro e profano produce, di fatto, una rottura di livello ontologico. Qualsiasi ierofania la implica perché ogni ierofania mostra, manifesta la coesistenza delle due essenze opposte" (v. Eliade, 1949; tr. it., p. 36). Se è vero che l'inesauribile varietà delle ierofanie - di cui Eliade ha tentato una sistemazione morfologica - ci ricorda l'influsso che la storia e la cultura hanno nel determinare le modalità concrete di queste manifestazioni e il pericolo insito in ogni semplificazione riduttiva, è altresì vero che, agli occhi dello storico delle religioni rumeno, la corrispondenza simbolica tra il sacro e le sue differenti epifanie dipende, in ultima analisi, dalla struttura che esso possiede e che coincide, secondo un modello interpretativo che per certi aspetti ricorda quello di Caillois, con il rapporto dell'uomo con l'universo e con il suo fondamento vitale ed energetico, il sacro appunto. In questo senso, anche l'interpretazione che Eliade dà del sacro va nella direzione di ridurre la sua apparente multiformità all'unità sostanziale di questa realtà particolare.
Abbiamo sinora presentato le due principali correnti interpretative del sacro, che stanno alla base delle successive fortune che questa categoria ha conosciuto nelle scienze sociali, in particolare nella scuola funzionalista e nella scuola fenomenologica. Un aspetto singolare di queste vicende, che merita di essere sottolineato se si vuole comprendere meglio la situazione interpretativa più recente, è, nonostante le evidenti e profonde differenze, la presenza di una serie di elementi che accomunano queste due correnti. Questi aspetti comuni si comprendono meglio se si confronta brevemente la teoria del sacro di Durkheim con quella di Otto.
Da un punto di vista sia genetico sia strutturale, le due teorie non potrebbero essere più lontane. Per quanto riguarda in particolare quest'ultimo, mentre la teoria sul sacro di Durkheim ne sottolinea l'aspetto cognitivo e normativo, la natura di fenomeno collettivo e la funzione di integrazione sociale, la teoria sul sacro di Otto ne sottolinea l'aspetto emozionale e affettivo (il sacro è Gefühl des Überweltlichen), la natura di fenomeno individuale e la funzione di trascendimento della realtà empirica e, dunque, sociale. Come abbiamo visto, però, Durkheim, nella sua ricerca delle 'origini' del sacro, è giunto anch'egli a sottolineare l'importanza, anzi, la centralità del dato esperienziale: in questo modo, si apriva la via per possibili sconfinamenti tra i due sistemi interpretativi. Questi sono resi possibili anche da un'altra affinità. Durkheim per un verso, Otto per un altro, distinguono chiaramente tra sacro e religione. Per entrambi, la religione, in quanto dato istituzionale, presuppone il sacro, che ne costituisce appunto la fonte esperienziale; per cui le religioni, con le loro credenze e pratiche - secondo peraltro una dicotomia tipica e ben più antica -, costituiscono le oggettivazioni di questo Grund.
Ciò significa che la crisi della religione, indotta ad esempio dai processi secolarizzanti, non comporta automaticamente la crisi del sacro; ché, anzi - come vedremo meglio nel prossimo capitolo -, si possono aprire a questo punto spazi insospettati di ricupero. Val la pena, infine, di ricordare un ultimo possibile elemento di collegamento, riconducibile al rapporto sacro-morale. Può darsi che in ciò reciti una parte importante il comune debito nei confronti di Kant; quel che è certo è che, seppur in modi diversi, per entrambi i pensatori, il sacro è profondamente collegato al santo come dato etico. Si comprende meglio, in questa prospettiva, il fatto che in entrambe le scuole che hanno ripreso e sviluppato le loro teorie la funzione etica del sacro permanga un elemento significativo: il sacro è, in ultima analisi, ciò che, consacrando un oggetto o un valore, viene ad attribuirgli un valore assoluto in grado di guidare l'azione sia del singolo sia della comunità.
Un primo esempio significativo di questa 'mediazione' si ha nel corso degli anni trenta, oltre che nel già ricordato Collegio di sociologia, anche nella teoria di H. Becker (v., 1950). Ponendosi in una prospettiva idealtipica, Becker distingue due sistemi di valori (value systems) diametralmente opposti, secondo la tipica prospettiva dualista soggiacente alla coppia oppositiva sacro-profano: sacro e secolare. A ognuno di questi due sistemi di valore corrisponde un tipo di società, anch'esse diametralmente opposte. Esse differiscono per il fatto che uno dei due sistemi-tipo, definito sacro, si oppone a ogni forma di mutamento, mentre l'altro, che Becker definisce secular, l'accetta senza problemi, quando non lo promuove. In questo contesto, sacro vuol dire semplicemente che un sistema sociale è riluttante ad accettare o a iniziare mutamenti sociali, al contrario del sistema di tipo secolare. Nella reinterpretazione di Becker, il termine sacro, pur comprendendo molto di ciò che normalmente si intende con religione, non coincide con essa, né tanto meno è compreso in essa: mentre un valore, un atteggiamento o una società 'religiosi' nel senso comune della parola nella prospettiva di Becker possono anche essere definiti 'secolari', un valore, un atteggiamento o una società comunemente definiti 'irreligiosi' o 'areligiosi' possono invece essere definiti 'sacri'. Questo perché i due concetti indicano esclusivamente tipi-base di azione, atteggiamenti fondamentali di vita e, in seguito, sistemi di valore e tipi di società contrastanti. Anche se questa dicotomia può ricordare analoghe dicotomie come quella durkheimiana tra società organica e società meccanica, quella di Becker si distingue perché priva di ogni tensione evoluzionistica, i due tipi succedendosi e alternandosi nei differenti contesti sociali. Sicché non si può parlare di un passaggio irreversibile dal sacro al secolare: come dimostra la storia, società sacrali possono, con un ritmo relativamente rapido, diventare secolari o viceversa: e questo, proprio perché il sacro rimanda a un dato esperienziale che si ripresenta continuamente nella storia umana.
Su questo sfondo si comprendono meglio certi sconfinamenti più recenti intercorsi tra quegli autori della corrente funzionalista (v. per alcuni esempi il capitolo successivo) che, a differenza di sociologi come T. Parsons o N. Luhmann, hanno continuato a fare ricorso alla nozione di sacro come chiave interpretativa fondamentale dei sistemi socio-religiosi, e i rappresentanti della scuola fenomenologica, come P. Berger e T. Luckmann o, da noi, S. Acquaviva. Ciò che accomuna i rappresentanti di entrambi gli indirizzi è la constatazione che il sacro costituisce, comunque, un aspetto intramontabile della condizione umana. Per i funzionalisti, però, ciò che permane è la funzione di identità che il sacro svolge sia nei processi di socializzazione sia nei processi di formazione della personalità (v. Mol, 1976), anche se poi si tratterà, a seconda del mutare dei contesti storico-culturali, di individuare i differenti equivalenti funzionali del sacro. Di contro, per i fenomenologi, il sacro mantiene un carattere ontologico, ponendosi come la fonte di quell'ethos del trascendimento che, trascendendo il dato empirico dell'io, permette di preservare e 'salvare' quel Sé che costituisce il fondamento sacro dell'individuo, anche se poi non risulta semplice cogliere i modi, non sempre immediatamente percepibili, con cui questa particolare realtà si manifesta nelle società secolarizzate. Per questi ultimi autori, infatti, ciò che si è definitivamente disintegrato è il cosmo sacro tradizionale: di qui l'emergere di una società pluralista e di 'mercato' dei beni religiosi, al cui interno tornano a circolare beni religiosi che però ora hanno - e, come effetto della crisi delle religioni istituzionali, non possono non avere - il loro fondamento appunto nel sacro. Di contro, per i funzionalisti l'emergere di una società secolarizzata non ha mutato i dati di fondo del problema: quel che ora importa mettere in luce è la funzione differente che il sacro vi svolge. Non dovrà di conseguenza sorprendere che, dietro il recente dibattito sul 'ritorno del sacro', siano in azione soprattutto interpretazioni di tipo funzionalistico.
In un importante articolo del 1977 il sociologo David Bell, affrontando in modo critico le teorie a quel tempo dominanti sulla ineluttabilità della secolarizzazione, si poneva un interrogativo che avrebbe caratterizzato i successivi studi sulla situazione socio-religiosa contemporanea: stiamo assistendo a un 'ritorno del sacro'? (v. Bell, 1977; v. AA.VV., 1977).In una interpretazione funzionalista la risposta è evidente: lungi dal disparire, il sacro "non si eclisserebbe da un lato se non per riapparire dall'altro; lungi dallo sparire definitivamente, esso subirebbe delle metamorfosi e degli spostamenti" (v. Sironneau, 1982, p. 188; v. Prades, 1987). Di conseguenza, non è il caso di parlare di 'ritorno del sacro' per il semplice fatto che "in realtà non si era mai eclissato. Si era semplicemente presentato sotto mentite spoglie. Ma è noto che ciò che è profondo ama la maschera" (v. Ferrarotti, 1983, p. VIII). Ferrarotti sottolinea, in questo modo, quello che definisce il paradosso del sacro: "Ridotto all'essenziale, il paradosso del sacro è il seguente: 'sacro' è il metaumano che più occorre alla convivenza umana, pena l'appiattimento del vivere, l'offuscarsi del parametro o punto di riferimento critico contro cui misurarsi, la perdita del 'senso del problema' ossia pena la perdita di ciò che vi è di propriamente (unicamente) umano nell'uomo" (ibid., p. 118). Il sacro permane, nella rilettura del sociologo italiano, una realtà la cui 'genesi' è essenzialmente sociale, secondo la tradizione sociologica sopra delineata (anche se egli preferisce parlare di 'comunità' invece che di 'società'): un bisogno sociale che, nel contempo, si pone come il fondamento metasociale dei valori che una società o comunità devono condividere per essere veramente tali. Riemergono in questo modo, alla luce del nuovo paradigma interpretativo che si interroga sui modi della convivenza di sacro e secolare (v. i saggi raccolti in Hammond, 1985), una serie di funzioni del sacro già messe a tema dalla ricerca precedente. Così, per Ellul (v., 1973), in virtù della sua ambivalenza e della sua funzione di separazione, il sacro permette oggi al singolo di ristabilire 'l'ordine del mondo', assegnando alle cose in fluttuazione dei valori sacri che lo rassicurano e, nel contempo, lo mettono in consonanza con l'universo: una funzione, sia aggiunto, che è divenuta fondamentale nell'area della nuova religiosità, solo che si pensi alla centralità che vi rivestono la prospettiva olistica e i tentativi, variamente declinati, di ristabilire un rapporto tra l'energia sacra, che si sperimenta come presente nel singolo, e il fondamento cosmico di questa energia, coincidente appunto con il sacro (v. Filoramo, 1994, pp. 53 ss.).L'attuale disseminazione del sacro negli interstizi più diversi della società, in quel quotidiano che pareva essere stato completamente dissacrato dalle moderne discipline del sospetto come la psicanalisi, ma anche in quelle sfere dell'agire sociale, come la sfera della politica o della scienza, che parevano essere diventate le più profane e, dunque, le più immuni dal contagio di questo virus particolare, per un verso è certo figlia del tempo, nel senso che la pervasività del sacro, la sua capacità di metamorfosi, quel suo aspetto a prima vista parassitario che lo porta a vivere alle spalle dei fenomeni più diversi, ricordano la cultura del simulacro e del bricolage tipica del postmoderno. Per un altro verso, però, se la categoria del sacro è ritornata a essere una categoria centrale non solo delle scienze sociali ma in genere delle scienze della cultura è anche perché, in una società secolarizzata, il sacro costituisce una delle modalità possibili per dare ordine e coerenza ai significati socialmente condivisi: individui e comunità, infatti, che non si ritrovano più a condividere valori comuni, per dare senso alla loro esistenza, conferiscono a oggetti e simboli un valore assoluto, consacrandoli e, con ciò stesso, separandoli e assolutizzandoli.
(V. anche Credenze e culti; Religione; Riti)
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