Credenze e culti
'Credenza' è un termine notoriamente ambiguo, ma i principali significati elencati dai dizionari possono essere ricondotti a due gruppi generali. Da un lato, 'credenza' si riferisce a uno stato mentale, che prende o la forma di assenso a proposizioni o quella di fede in qualcuno; dall'altro, la parola designa gli oggetti dell'assenso: le proposizioni o nozioni che sono credute, implicitamente o esplicitamente. 'Culto' si riferisce a un insieme di pratiche rituali che hanno per oggetto e giustificazione entità sacre e che permettono di comunicare con esse, di utilizzare i loro poteri e di rendere loro omaggio, riaffermando così la loro posizione preminente nella coscienza dei fedeli. Le credenze che sono associate, direttamente o indirettamente, al culto vengono chiamate 'religiose' ed è esclusivamente di queste che si tratterà in questo articolo.
La relazione tra i due significati di 'credenza' e l'uso stesso di questo termine come categoria descrittiva universale sollevano però problemi non indifferenti. Inoltre, nella coppia 'culto/credenza' qual è il termine più importante e unificatore? Il culto è un aspetto della credenza o la credenza è un aspetto del culto? Cominciamo con il problema della legittimità del termine 'credenza'.
Il problema è stato recentemente affrontato da due studiosi, W. C. Smith (v., 1979) e Needham (v., 1972). La tesi del primo si può così riassumere: dei due significati principali di 'credenza', cioè 'assenso a proposizioni' e 'fede', solo il secondo è universalmente applicabile ai fenomeni religiosi. Smith sostiene anzi che è improprio l'uso di 'credenza' come sinonimo di 'fede': nella nostra cultura moderna il vero significato di 'credenza' è uno stato mentale di assenso, privo di certezza e persino dubbioso, a proposizioni. Inversamente, è erroneo considerare la fede come una specie di supercredenza, cioè - tomisticamente - come una virtù essenzialmente cognitiva che permette di credere in proposizioni che appaiono incredibili alla ragione naturale. 'Fede' va intesa nel senso in cui è intesa nell'Antico e nel Nuovo Testamento, nel Corano e nella letteratura brahmanica o nel canone buddhista: come azione e non come intellezione, come un atteggiamento (di reverenza, accettazione, testimonianza, impegno, fedeltà) nei confronti del trascendente. Al contrario della credenza, quest'atteggiamento non solleva nemmeno la questione della realtà del suo oggetto ed è perciò incompatibile con il dubbio. Insomma, come l'arabo iman e l'ebraico he'min (da cui deriva il nostro amen), 'fede' significa 'dir di sì', rispondere affermativamente a un'offerta divina, a una rivelazione su cui l'intelletto non si sofferma mai perché non la mette mai in dubbio.W. C. Smith ha senz'altro ragione di sottolineare (come Fustel de Coulanges e soprattutto William Robertson Smith avevano fatto prima di lui) che la moderna tendenza occidentale a ridurre la religione alla credenza in certe proposizioni è del tutto eccezionale. Questa tendenza si è fatta più acuta nei tempi moderni a causa dell'egemonia del razionalismo scientifico, ma ha cominciato a manifestarsi non appena la filosofia greca si è impadronita del cristianesimo e l'ha per così dire convertito a sé. Molto presto il cristianesimo ha insistito, in contrasto con tutte le altre religioni organizzate (e a fortiori con quelle non organizzate), sulla necessità per i fedeli di aderire a un credo e di mantenersi nell'ortodossia, giudicata più importante dell''ortoprassia'. Questa tendenza ha raggiunto il suo culmine con la filosofia tomista in cui scientia è superiore a fides, almeno dal punto di vista soggettivo (Summa Th., II-I, 67, 3 ad 1), e in cui la stessa fides è definita "cognoscitivus habitus" (Summa Th., II-II, 1, 1) o "habitus mentis [...] faciens intellectum assentire non apparentibus" (Summa Th., IIII, 4, 1). Si può dunque concedere a W. C. Smith che la centralità che la credenza (nella sua dimensione intellettuale, proposizionale) ha assunto nella tradizione religiosa occidentale ci fa correre il rischio di pensare che l'adesione a un sistema di credenze (invece che, per esempio, a un sistema di leggi, come nel giudaismo e nell'Islam, o a un sistema rituale, come nell'induismo e nelle religioni greca e romana) abbia la stessa importanza in tutte le altre religioni. Ma riconoscere questo fatto non significa accettare la confusione che W. C. Smith fa tra 'assenza di credo' e 'assenza di credenza', né la sua tesi di una radicale separazione, anzi incompatibilità, tra 'fede' e 'credenza' (vale a dire tra due significati della parola 'credenza' qual è comunemente intesa).
In realtà la fede nel senso di accettazione, fedeltà, impegno - si potrebbe dire, in una parola, 'sudditanza' -, quale la si trova nel Corano o nella Bibbia, presuppone la credenza in certe proposizioni. Per esempio, che senso avrebbe una relazione di sudditanza verso Dio se questi non fosse esplicitamente concepito come un signore e padrone che richiede, come tutti i signori e padroni, appunto sudditanza e fedeltà? È pertanto chiaro che, lungi dall'essere un atteggiamento primario e indipendente dalla credenza, come W. C. Smith sostiene, la fede del Corano e della Bibbia è il correlato di credenze concernenti le proprietà di Dio. Ed è proprio perché esiste la credenza che Dio sia un 'signore', che si insiste sulla necessità di accettarlo e di essergli fedele, piuttosto che sulla necessità di conoscerlo in forma intellettualmente corretta. W. C. Smith stesso è costretto ad ammettere che la fede presuppone certe nozioni; ma sostiene che queste non vanno considerate credenze o perché sono considerate come conoscenze certe, o perché non sono conscie. La prima tesi vale solo se si condivide con Platone (Repubblica, libri V-VII) il contrasto tra credenza come opinione, caratterizzata dal dubbio, e conoscenza, caratterizzata dalla certezza. Un tale contrasto si può indubbiamente ritrovare nel Corano, ma ciò prova soltanto che nel linguaggio di questo libro la relazione conoscitiva con Dio non può essere designata dalla parola zanna ('credenza' nel senso di 'opinione', 'conoscenza della cui verità si dubita'), non che il nostro termine 'credenza' (nel senso di 'cosa ritenuta vera') non sia applicabile a quella relazione. È a torto che W. C. Smith dà al nostro termine un senso più ristretto di quello che in effetti ha: egli ignora così che il termine copre tutto lo spettro che va da 'certezza soggettiva' ad 'assenso dubbioso'. Quanto all'altra sua tesi, secondo cui nessuna adesione inconscia a una nozione può essere definita 'credenza', essa trascura la difficoltà di tracciare una frontiera netta tra rappresentazioni riflesse e irriflesse (che del resto molti mettono nella categoria della credenza: v. Hampshire, 1983, p. 150), e quindi tra significato proposizionale e significato non proposizionale. In pratica, Smith assimila arbitrariamente la 'credenza' al 'credo'.
Egli insiste giustamente sul fatto che la fede islamica, biblica o brahmanica è più performativa che cognitiva, ma sembra credere, a torto, che l'aspetto performativo sia incompatibile con quello dichiarativo (v. Austin, 1962). Ciò lo porta a disconoscere non solo l'aspetto intellettuale della 'fede', ma anche l'aspetto pragmatico, performativo, della credenza. In effetti egli non vede che, facendo della credenza proposizionale, dell'aderenza sincera e convinta a un credo, il criterio principale di appartenenza a una Chiesa, il cristianesimo post-antico o moderno ha dato alla credenza una dimensione illocutoria, non proposizionale. Questa dimensione è particolarmente evidente nell'espressione pubblica, convenzionale, della credenza che è richiesta in riti di passaggio e di aggregazione come il battesimo, la cresima, ecc., o nei riti di abiura imposti agli eretici. Tutto ciò indica che l'espressione, esteriore ma anche interiore, della credenza in una proposizione è nel cristianesimo un vero e proprio atto di culto, con effetti illocutori.W. C. Smith sostiene anche che mentre le credenze religiose variano estremamente da religione a religione, le loro nozioni di fede sono straordinariamente simili. Ciò dimostrerebbe che riflettono tutte una stessa identica realtà, quella della fede, appunto. Non la credenza, ma la fede sarebbe dunque la categoria appropriata per definire e comprendere il fenomeno religioso nella sua universalità. Ma W. C. Smith caratterizza la fede in forma quanto mai vaga ed etnocentrica, soprattutto perché fa del fenomeno un fatto fondamentalmente personale. Secondo lui, l'aspetto istituzionale e intellettuale di tutte le religioni non è altro che una 'manifestazione' della fede personale o le fornisce il contesto e il linguaggio in cui si può esprimere. Ma basta conoscere di prima mano le pratiche religiose, soprattutto nelle religioni non scritturali, per rendersi conto che le cose stanno molto diversamente da quanto Smith sostiene sulla scorta di conoscenze esclusivamente testuali.La maggioranza dei fedeli compie riti e segue le leggi religiose perché - dice - si è sempre fatto così, perché così è da che mondo è mondo (e cioè perché la religione è un fatto istituzionale, tradizionale), non perché si senta mossa dalla 'fede' descritta da W. C. Smith. E sarebbe ingenuo non riconoscere che, anche nelle religioni che danno un'importanza centrale alla fede, questa si acquisisce come un habitus e non è una tendenza spontanea, una proprietà naturale immediatamente disponibile per l'individuo.Needham (v., 1972) giunge a conclusioni più estreme di quelle di Smith. La parola credenza non designa secondo lui uno stato mentale identificabile oggettivamente. Al contrario, l'idea di questo stato sarebbe la reificazione di un uso quasi esclusivamente limitato alle lingue europee moderne. Needham arriva a questa conclusione perché non esistono criteri empirici precisi per riconoscere uno stato mentale distinto che si possa chiamare 'credenza'. In effetti, questo supposto stato mentale non è indicato da segni somatici come quelli che permettono di identificare rabbia, gioia, angoscia, ecc. Inoltre, la credenza non è tra quei fenomeni la cui universalità si può dedurre a priori dal fatto che sono necessari a ogni possibile forma sociale. Non potendosi dimostrare né a priori né a posteriori che la credenza è una caratteristica reale dell'esperienza umana, non resta, secondo Needham, che considerarla come un flatus vocis, valido solo in quanto convenzione comunicativa di certe lingue.
Si prendano, per esempio, le coppie di espressioni 'credo in Dio'/'non credo in Dio', 'credo a quel che dice'/'non credo a quel che dice', 'credo che verrà per il tè'/'non credo che verrà per il tè'. Needham (v., 1972, pp. 121-122) sostiene che esse hanno in comune solo la forma grammaticale e non corrispondono né a una classe nel senso aristotelico, né a una 'famiglia' di fenomeni nel senso di Wittgenstein (v., 1953). Gli si può obiettare che un elemento comune invece ce l'hanno: il credito dato o meno a una persona (Dio, la persona che ha promesso di venire a prendere un tè, quella che mi dice qualcosa) e, accessoriamente o alternativamente, il credito dato o rifiutato a un'asserzione ('Dio esiste', 'è degno di fede', 'verrò per il tè'). Si osservi inoltre che la presenza o l'assenza di questo 'credito' non si deduce dalla sua espressione linguistica, ma dal fatto che il locutore è pronto ad agire in modo conforme a quello che dice: a preparare il tè per qualcuno, a seguire i dettami della legge divina, ecc. Il vero criterio di identificazione della credenza non è dunque linguistico, ma pragmatico. Non è quindi con argomenti basati sull'analisi di espressioni linguistiche che si può provare che 'credenza' è un mero flatus vocis.
Beninteso, dal fatto che qualcuno compia i rituali prescritti per il culto di un dio non si può dedurre automaticamente che egli creda in quel dio. Per spiegare comportamenti rituali o ogni altro comportamento non è necessario invocare una credenza specifica. Basta presupporre che i comportamenti siano tradizionali e che l'idea di metterli in discussione non sorga nemmeno o sia inibita dal timore di una sanzione sociale. Ma quest'argomento non prova affatto che nessuna credenza sia il correlato di quei comportamenti e tantomeno che sia inutile o erroneo invocare la nozione di credenza nella loro descrizione. In effetti, si può compiere un rito senza credere nel dio cui è indirizzato, ma non senza credere nel valore di seguire la tradizione che ne comanda l'esecuzione, o nel valore di non suscitare 'scandalo' e così via. Ogni azione, da questo punto di vista, presuppone una 'credenza', cioè una qualche adesione soggettiva, una qualche valutazione personale, da parte di colui che agisce.In conclusione, solo in culture fortemente individualistiche come la nostra si insiste sull'obbligo di rendere esplicite le credenze in base a cui si agisce e su quello di credere alle proposizioni consegnate dalla tradizione o sanzionate da una organizzazione (Chiesa, ma anche partito, Stato, esercito, ecc.). Nella maggior parte delle società, l'adesione individuale al patrimonio collettivo di nozioni non è obbligatoria e non è considerata necessaria al funzionamento del culto. Non è pertanto legittimo assumere che queste nozioni siano anche, necessariamente, 'credenze' stricto sensu. Ma non è nemmeno legittimo inferire da ciò che non lo sono mai o, peggio, che lo stato mentale 'credenza' non esiste ed è solo un uso linguistico arbitrario degli studiosi occidentali. Al contrario, l'esperienza etnografica - cioè il contatto approfondito e continuato con uomini e situazioni in culture diverse dalla nostra - ci insegna che gli uomini generalmente credono, cioè hanno fiducia, benché talvolta con una certa ambivalenza, sia nelle nozioni fondamentali della loro cultura che nelle persone (dei, preti, genitori, maestri) da cui queste nozioni derivano e che ne sono garanti. Queste due forme di fiducia sono inseparabili in quanto sono le due facce del processo comunicativo in cui consiste la vita associata. Pertanto è legittimo usare la nozione di credenza come categoria universale, tenendo però conto che nel suo senso stretto di assenso a proposizioni essa non copre l'intero campo delle significazioni religiose.
Quali sono i caratteri distintivi delle credenze religiose, cioè di quelle credenze che sono associate al culto? La questione riceve generalmente due tipi di risposte. Secondo gli uni, le rappresentazioni religiose nascono dallo stesso impulso razionale che si ritrova alle radici della scienza e del senso comune: l'impulso a spiegare, controllare e rendere prevedibili gli eventi. Da questo punto di vista le credenze religiose formano le teorie esplicative delle culture tradizionali e le azioni cultuali sono la loro applicazione pratica. Secondo gli altri, le rappresentazioni e azioni religiose hanno motivazioni del tutto diverse da quelle della scienza o del senso comune: sono piuttosto da mettere in relazione con i fenomeni di espressione e comunicazione artistica o con i fenomeni morali (in senso lato), il cui valore sta nei loro effetti sociali e psicologici, non nel loro potere esplicativo. Il primo gruppo di risposte va sotto il nome di 'teoria intellettualista', il secondo sotto quello di 'teoria simbolista' (v. Skorupski, 1976).
La prima e la più famosa formulazione della teoria intellettualista è dovuta a E. B. Tylor (v., 1871), secondo cui le credenze magiche e religiose differiscono tra loro e dalla scienza non perché riflettono forme di pensiero diverse (come sarà sostenuto da Lévy-Bruhl), ma perché le loro premesse, e pertanto il loro contenuto, sono differenti. Queste differenze sono a loro volta dovute a differenze nelle possibilità concrete di osservazione e indagine, nonché a differenze di interesse. Ciò che colpisce e pertanto interessa più profondamente l'uomo primitivo, secondo Tylor, sono due fenomeni: il contrasto tra la vita e la morte e quello tra il sogno e la veglia. Il fatto che si sognino persone assenti perché distanti o morte suggerisce che ogni persona, e per estensione ogni essere vivente, possiede un doppio spirituale, capace di staccarsi dal corpo e di sopravvivergli. Da qui la credenza in esseri spirituali, che offre la possibilità di spiegare non solo il sogno e la differenza tra un corpo vivo (abitato dallo spirito) e un corpo morto, ma anche tutti i fenomeni manifesti che sono inesplicabili nei termini empirici del senso comune.La tesi secondo cui i sistemi di credenze religiose sono appunto teorie le quali, introducendo entità 'invisibili', sovvengono alle limitazioni delle possibilità di spiegazione offerte dall'osservazione e dal senso comune è il caposaldo della sofisticata riformulazione della teoria intellettualista fornita da R. Horton (v., 1970). Secondo questo studioso, le differenze tra i procedimenti intellettuali della scienza moderna e quelli del pensiero religioso tradizionale sono in gran parte 'idiomatiche', non sostanziali, e perciò più apparenti che reali. Non è possibile discutere qui tutte le otto caratteristiche che secondo Horton sono comuni alle teorie religiose e a quelle scientifiche. Basterà accennare ad alcune. Per esempio, egli sostiene che le spiegazioni religiose, esattamente come quelle scientifiche, tentano di ricondurre la diversità all'unità, la complessità alla semplicità, il disordine all'ordine, l'anomalia alla regolarità. Queste riduzioni sono rese possibili in entrambe le attività intellettuali da regole di corrispondenza che permettono di tradurre gli eventi quali appaiono all'esperienza ordinaria in eventi dello schema teorico. Per esempio, un aumento di temperatura è tradotto in un aumento del movimento di molecole. Analogamente una malattia è tradotta in una punizione divina per spiegarla e per agire su essa. 'Dio' è dunque un principio di spiegazione come la 'molecola': differiscono solo perché il primo è un'entità personale, la seconda è invece impersonale.
Questo e altri argomenti di Horton sono validi solo in quanto riconoscono il fatto ovvio che tutte le manifestazioni dell'attività intellettuale hanno in comune certe proprietà formali. Indubbiamente pensare significa ridurre il complesso al semplice, il molteplice all'uno, e così via. Ma queste proprietà generiche del pensiero non sono in grado di rendere conto esaurientemente delle caratteristiche della credenza religiosa, contrariamente a quanto Horton sostiene. Facciamo un esempio. Lévy-Bruhl (v., 1910) sostiene che le credenze religiose hanno una caratteristica che dal punto di vista della nostra logica rappresenta un paradosso: una cosa può essere nel contempo identica a se stessa e identica a una cosa completamente diversa. Secondo Horton questi paradossi sono analoghi a quelli prodotti dalle regole di corrispondenza tra teoria ed esperienza. La soluzione del paradosso, nella scienza come nella religione, sta nel riconoscere che " l''è' delle affermazioni basate sulle regole di corrispondenza non è né l''è' della relazione di identità né l''è' della appartenenza a una classe. Sta piuttosto per un'unità-nella-dualità che è una caratteristica specifica della relazione tra il mondo del senso comune e il mondo della teoria" (v. Horton, 1970, p. 133).
Non c'è dubbio che alcuni dei casi paradossali segnalati da Lévy-Bruhl possono essere spiegati nel modo proposto da Horton. Ma altri non possono esserlo perché riguardano identificazioni non tra entità di diverso ordine (osservazione e teoria), ma tra entità dello stesso ordine, concrete le une e le altre. In tali casi la violazione della regola di non contraddizione sembra dovuta al postulato per cui termini associati metonimicamente o metaforicamente valgono come equivalenti nelle operazioni rituali. Per esempio, il coltello che ha ferito sarà identico a se stesso, ma anche alla ferita che ha inferto, e potrà così essere trattato come suo equivalente per sostenere la credenza nella capacità del rito di annullare la ferita distruggendo, poniamo, il coltello. L'esempio mostra anche che non si può rendere adeguatamente conto delle credenze facendone delle semplici teorie: esse sono spesso intelligibili solo come giustificazioni di azioni rituali.
Inoltre, molte rappresentazioni non hanno lo scopo di ridurre la complessità e la confusione dell'esperienza alla semplicità e chiarezza della teoria, ma al contrario circondano di oscurità e di mistero certi fenomeni e relazioni sociali per legittimarli o per metterli al riparo dalla critica. L'approccio di Horton non rende conto di quest'aspetto ideologico, mistificante, delle rappresentazioni e azioni religiose. Inoltre trascura il fatto che le teorie religiose non nascono, come quelle scientifiche, dalla preoccupazione di fornire una spiegazione unitaria dei fenomeni naturali in generale. La loro preoccupazione principale è costituita da eventi di interesse umano e, più in particolare, da eventi non ordinari o negativi come malattie, infortuni, ecc.
Questa è una delle ragioni principali per cui le forze e i poteri religiosi sono concepiti antropomorficamente e sociomorficamente. Come nota Bergson (v., 1932), la causa deve essere adeguata all'effetto, e quindi deve essere umana e sociale come quest'ultimo. Solo quando l'interesse teorico si sposta aldilà della sfera immediata degli eventi umani o di interesse umano si cominciano a invocare cause che sono naturali e impersonali come gli effetti che devono spiegare. Invece Horton fornisce una spiegazione poco convincente del contrasto tra il carattere personale (spiriti, divinità, ecc.) dei concetti nelle teorie religiose e il loro carattere impersonale (atomi, molecole, ecc.) nelle teorie scientifiche.Il contrasto sarebbe dovuto a esperienze diverse di ciò che costituisce l'ordine per eccellenza.
Nelle società che producono teorie religiose, le relazioni tra persone apparirebbero ordinate e prevedibili in sommo grado; pertanto, in questo caso, il linguaggio teorico prediligerebbe le metafore sociali, e i principî di spiegazione e ordinamento concettuale della natura prenderebbero forma personale. Nelle società che producono teorie scientifiche, al contrario, le relazioni umane apparirebbero caotiche e questo spiegherebbe perché l'esperienza dell'ordine è associata prevalentemente a cose, non a persone. Ma questa spiegazione è in conflitto con quanto sostenuto da vari studiosi che si sono occupati del passaggio dalla credenza religiosa alla scienza nel mondo antico. Vernant (v., 1962), per esempio, ha sostenuto che l'ordine sociale e spaziale della πόλιϚ greca (che certamente non era un paradiso) fornì il modello per il cosmo matematico. Il trasferimento dell'ordinamento sociale alla natura può d'altra parte essere interpretato, in senso opposto a Horton, come una prova che anche nelle società tradizionali è la natura ad apparire come il paradigma dell'ordine. In effetti, questa naturalizzazione o reificazione dell'ordine sociale ha l'effetto di dargli un aspetto immutabile e necessario che non avrebbe altrimenti (v. Weber, 1922). Dove Horton vede un uso teorico della società per spiegare la natura, si può dunque vedere un uso pragmatico della natura per giustificare la società.
Quanto alle differenze tra sistemi di credenze religiose e scienza moderna, Horton le spiega non in termini di contenuto, ma di atteggiamento nei confronti delle teorie. L'atteggiamento dello scienziato è 'aperto' e critico, perché egli è consapevole di teorie alternative; l'atteggiamento della persona religiosa è invece 'chiuso': ogni sfida alle nozioni stabilite è vista con orrore, come un rischio di caos che produce un'ansietà profonda. Quest'atteggiamento sarebbe il correlato dell'assenza di alternative teoriche nelle società tradizionali. Horton se ne serve per spiegare vari aspetti della mentalità religiosa: l'attitudine magica verso le parole (se non c'è consapevolezza del fatto che gli stessi oggetti hanno nomi diversi in lingue diverse, si ritiene che le parole abbiano un legame intrinseco con ciò che designano e possano quindi servire a influenzarlo); la mancanza di riflessività (e quindi di discipline come la logica e la filosofia); la tendenza a razionalizzare, con spiegazioni ad hoc, eventi che sono in contraddizione con la teoria, invece di criticarla ed eventualmente abbandonarla, ecc. Ma anche qui gli argomenti di Horton sono spesso poco convincenti: per esempio, contrariamente a quanto egli suggerisce, molte società tradizionali sono poliglotte e comunque consapevoli dell'esistenza di lingue diverse; non si può dunque spiegare l'uso magico del linguaggio con la mancanza di consapevolezza di denominazioni alternative degli stessi oggetti. Analogamente, la stessa frammentazione politica e culturale che è caratteristica delle società tradizionali crea la consapevolezza di concezioni del mondo alternative, rafforzata, in molte regioni del mondo, dalla secolare presenza di religioni universaliste come l'Islam, il buddhismo o il cristianesimo. Lo stesso atteggiamento difensivo del credente nei confronti delle teorie si ritrova, come Horton (v., 1982) è stato costretto ad ammettere, negli scienziati in carne e ossa, che sono spesso ben differenti dagli scienziati ideali raffigurati dalla filosofia popperiana di cui il nostro autore è seguace.
In conclusione, la teoria intellettualista della credenza religiosa ha il merito di individuare in essa proprietà generali dell'attività intellettuale che si ritrovano anche nella scienza, e un aspetto propriamente cosmologico-esplicativo che non va sottovalutato. Ma sembra incapace di rendere conto adeguatamente delle caratteristiche specifiche della credenza religiosa e ancor più di quelle del culto, che è ridotto a un'attività strumentale, quasi tecnologica.
Passando ora al secondo gruppo di teorie del culto e della credenza religiosa, osserviamo che la posizione 'simbolista' è stata formulata inizialmente da W. R. Smith (v., 1889) e soprattutto da Durkheim e dalla sua scuola, che hanno rivendicato, contro l'intellettualismo di Tylor e Frazer, il carattere sociale - e perciò storicamente determinato - del pensiero in generale e del pensiero religioso in particolare. Le credenze religiose sono fatti sociali che hanno motivazioni sociali e non possono quindi essere viste come semplici costruzioni teoriche di una ragione 'naturale' che resta identica nel tempo, ed è modificata soltanto dalla quantità e dalla qualità dell'informazione disponibile.
Nel suo primo tentativo di individuare il carattere specifico dei fenomeni religiosi, Durkheim (v., 1899) li definisce non in base a un contenuto o a una logica specifici, ma alla relazione che esiste tra essi e l'individuo - cioè in base al loro carattere implicitamente o esplicitamente obbligatorio. I fenomeni religiosi condividono questo carattere con quelli giuridici ed etici, ma mentre questi ultimi comportano obbligazioni solo sul piano del comportamento, i primi comportano anche rappresentazioni obbligatorie - credenze. Questa definizione è ovviamente discutibile, perché è impossibile separare rappresentazioni obbligatorie da azioni obbligatorie nel diritto e nell'etica.
Durkheim (v., 1912) ha successivamente proposto una definizione che prende in considerazione il denominatore comune di tutti i contenuti delle rappresentazioni religiose: essi concernono la sfera del sacro, cioè quelle cose che appaiono eminentemente rispettabili e importanti a una società. Ma che cosa è eminentemente sacro e importante per i membri di una società se non la società stessa? Di qui la conclusione ardita: non è il significato letterale, apparente, delle credenze religiose che può spiegarne il carattere specifico, ma il loro significato nascosto e profondo, che si riferisce alla società stessa. Le rappresentazioni religiose, qualunque sia la loro forma, personale o impersonale, naturale o artificiale, sono allegorie del mondo sociale, sono i suoi simboli reificati che permettono di riprodurlo agendo potentemente sulle coscienze individuali. Quest'azione si esercita prevalentemente negli atti del culto, cioè nei rituali che inculcano le credenze e consolidano la loro forza, ravvivando nel contempo le forme sociali e, più profondamente, il legame sociale stesso.
Il tentativo durkheimiano di ridurre tutti gli aspetti delle rappresentazioni religiose a un contenuto sociale e in particolare alla morfologia sociale è discutibile (v. Needham, 1963). Questa riduzione è del tutto inutile per stabilire la validità del punto principale della teoria: che le credenze religiose ricevono gran parte della loro forza e della loro ragione di esistere dalla loro funzione sociale. Per spiegare questo fatto basta riconoscere che esse sono socialmente costitutive perché socialmente condivise. Il solo senso in cui è necessariamente vera la teoria durkheimiana per cui le credenze religiose simboleggiano la società, è che c'è una componente di 'autoreferenzialità' in ogni atto simbolico. La forza di questi atti simbolici è la forza della comunità che li condivide e li impone alle generazioni successive, è la forza stessa dell'atto di condividere, il quale costituisce propriamente la società: non è dunque sorprendente che essi l'evochino. Ma questa evocazione deve, paradossalmente, essere distorta e diventare irriconoscibile, perché se l'atto intersoggettivo che è alla base delle rappresentazioni religiose e, attraverso esse, della società così come è costituita, fosse appercepito, il riconoscimento del loro carattere convenzionale, che ne conseguirebbe, le renderebbe vulnerabili alla critica e quindi le minerebbe. Per conservare la loro forza costitutiva le rappresentazioni sociali devono rimanere indiscutibili e acquistare perciò il carattere di cose: diventare come loro immodificabili, trascendenti rispetto al soggetto. I valori sociali fondamentali e, in ultima analisi, il potere stesso della società di costituirli e di autocostituirsi sono quindi reificati e alienati.
Qui l'analisi di Durkheim continua quelle di Hegel, Feuerbach e Marx, ma al pari di quelle, e delle posizioni 'simboliste' in genere, incontra una serie di difficoltà. Queste analisi postulano infatti uno stato di 'falsa coscienza' che è del tutto paradossale: il vero contenuto delle credenze religiose sembra dover essere nello stesso tempo riconosciuto ('simboleggiato') e non riconosciuto ('reificato') dalla coscienza. Esse non spiegano, però, come una cosa possa essere nello stesso tempo riconosciuta e misconosciuta; né spiegano come sia possibile all'analisi risalire dalla forma fittizia delle rappresentazioni al loro contenuto reale. Chi garantisce che l'analisi non diventi arbitraria non appena va aldilà del contenuto letterale delle rappresentazioni? che invece di 'contenuti reali', l'analista non ricavi altro che prodotti della sua immaginazione?
Varie soluzioni o rimedi sono stati cercati a questi problemi. Radcliffe-Brown (v., 1952) e i suoi seguaci, per esempio, hanno tentato di evitarli distinguendo radicalmente, in contrasto con Durkheim, la funzione dalla significazione. Le rappresentazioni religiose avrebbero, secondo loro, effetti sociali, ma non significherebbero necessariamente realtà sociali. A ogni modo, lo spinoso problema del significato potrebbe essere lasciato da parte, perché il vero compito dell'analisi di queste rappresentazioni sarebbe di identificarne la funzione. Ma la difficoltà di quest'approccio di comodo è che generalmente non si può rendere conto della funzione delle rappresentazioni senza prendere in considerazione il loro contenuto. In altre parole, il problema del simbolismo, cacciato dalla porta, ritorna dalla finestra. Inoltre, in fatto di significazione (che Radcliffe-Brown collega, senza elaborazione ulteriore, alla 'cosmologia'), il letteralismo non porta molto lontano o riporta alla posizione intellettualista, poiché le credenze religiose si presentano superficialmente come spiegazioni.
Altri studiosi pensano che sia necessario affrontare di petto, con tutte le difficoltà e i rischi che comportano, le questioni connesse con il simbolismo e gli stati mentali a esso legati. Si tratta, in particolare, di riconoscere la differenza che esiste tra forme proposizionali e non proposizionali della significazione. Le prime sono connesse all'uso discorsivo, argomentativo del linguaggio e sono il correlato della coscienza. Le seconde costituiscono un'area ben più vasta e complessa, principalmente connessa con l'uso di simboli visivi, uditivi, olfattivi e persino gustativi, aventi come correlato l'apprensione inconscia o semiconscia di relazioni significanti. Come nel linguaggio, la significazione consiste qui in una messa in relazione, nella percezione perciò di equivalenze e di contrasti. Ma si tratta di relazioni che non sono codificate nella stessa misura e nello stesso modo dei segni linguistici: in esse dominano i codici analogici, non quelli digitali (v. Bateson, 1972; v. Barth, 1975). Il problema sollevato da queste classi di segni è che non è possibile analizzarli in modo propriamente 'oggettivo'. In effetti, è proprio della loro natura rendere possibile e persino stimolare un numero indefinito di interpretazioni: l'analista risulta pertanto coinvolto e il processo che gli permette di discriminare tra le sue reazioni soggettive e quelle del gruppo sociale che studia non può essere ricondotto a metodi riproducibili a volontà. Egli può ricorrere solo a prove indirette delle sue interpretazioni di questi segni: comportamenti a essi regolarmente collegati, effetti sociali, associazioni di segni di un tipo con quelli di un altro tipo, e più generalmente l'intero contesto. Una cosa è certa: in questo campo non è l'esegesi verbale offerta dagli informatori a poter fornire una guida sicura all'effettivo significato dei segni che funzionano analogicamente (o tramite altre figure della retorica). In effetti, tra livello proposizionale e livello non proposizionale della significazione c'è una profonda differenza e talvolta quasi l'incomunicabilità.
Questi sviluppi portano a modificare e criticare in più punti la posizione simbolista nella forma datale da Durkheim. Un primo punto concerne il contrasto radicale tra le rappresentazioni collettive e obbligatorie, che sono secondo Durkheim caratteristiche della religione, e le rappresentazioni individuali e opzionali, che sarebbero caratteristiche della sfera profana. Come è possibile distinguere nettamente il significato pubblico e convenzionale da quello individuale nel simbolismo incoato o poco codificato che è caratteristico di buona parte del simbolismo religioso? Dove comincia l'interpretazione pubblica e finisce quella privata? E non è la distinzione stessa deformante, aldilà di un certo punto, se una delle condizioni fondamentali dell'efficacia sociale del simbolismo sta proprio nel carattere vario e indefinito dei suoi effetti sugli individui? Per la stessa ragione, come è possibile lasciare l'analisi dell'aspetto propriamente psicologico del simbolismo fuori dall'analisi del suo aspetto sociale?
Quest'ultima questione confluisce in una più generale obiezione all'eccessivo sociocentrismo della spiegazione durkheimiana della religione. Riconoscere con Durkheim l'origine sociale, convenzionale, dell'efficacia delle credenze e delle azioni rituali e, in ultima analisi, del senso di realtà a esse associato nelle coscienze non significa dover concludere con lui che le loro motivazioni e funzioni siano da trovarsi esclusivamente nella logica del funzionamento sociale. Non è per caso che buona parte delle teorie religiose tentino di spiegare, giustificare e rendere sopportabili (spesso creando l'illusione del controllo) fenomeni come la morte, la malattia, la sfortuna, gli elementi imponderabili dell'esistenza. È la sventura, come tutti sanno, che rende religiosi. La religione non consola gli afflitti solo sotto i nostri cieli. Come è stato notato da Weber, una delle preoccupazioni fondamentali della religione è la teodicea. Si deve dunque riconoscere che la credenza religiosa trova le sue radici anche in reazioni difensive contro i fenomeni della finitezza e della sofferenza, e in particolare contro l'ansietà che esse inducono.
A questo punto di vista, illustrato da pensatori come Spinoza e Bergson, Freud e Malinowski, si è obiettato che non è l'ansietà a produrre le credenze religiose, ma sono le credenze religiose a produrre l'ansietà (v. Radcliffe-Brown, 1952). Questo perché, creando prescrizioni positive e negative, creano nel contempo il timore di violarle. L'obiezione è però basata sulla confusione tra due tipi di ansietà: l'ansietà primaria che certe tendenze e pratiche rendono controllabile e sopportabile, e l'ansietà secondaria, ben più lieve, che nasce dal timore di incorrere nelle sanzioni soprannaturali di quelle credenze e pratiche. Non è poi da escludere che talvolta l'ansietà legata alla trasgressione sia dovuta all'anticipazione di un ritorno dell'ansietà primaria.Insomma, non c'è contrasto radicale tra sociologia e psicologia, né tra significato personale e significato pubblico, ma un movimento di determinazione reciproca. Senza una mediazione collettiva le fantasie personali sono prive di realtà perché incomunicabili o, se sono comunicabili, non sono accettate come reali. Ma, reciprocamente, le rappresentazioni collettive derivano parte della loro efficacia e della loro forza persuasiva dalla loro capacità di toccare le corde più intime degli individui, di soddisfare in forma immaginaria i loro desideri, di calmare i loro timori, aiutandoli così a vivere. La religione non è dunque semplicemente prescrittiva, un sistema di credenze e pratiche obbligatorie: è anche e soprattutto un sistema di comunicazione, un terreno di incontro e di realizzazione di motivazioni, fantasie, interpretazioni e progetti individuali. Senza l'energia che essi forniscono al sistema, questo non potrebbe esistere; ma senza il sistema che li realizza socialmente creando il contesto in cui possono comunicare gli uni con gli altri, nemmeno essi esisterebbero.
Il ruolo comunicativo della religione si realizza soprattutto nel sistema delle pratiche di culto. Questo non solo perché il culto fornisce i contesti concreti in cui avviene la comunicazione, ma anche perché incorpora le nozioni implicite o inconscie che non sono ridotte e nemmeno riducibili alla forma proposizionale delle credenze stricto sensu. Buona parte del culto consiste in riti: ma che cos'è un 'rito'? I molti usi del termine 'rito' sembrano poter essere raggruppati in due classi principali. Il termine si riferisce, da una parte, a comportamenti formali, con fini comunicativi e operativi; dall'altra, a equivalenti fittizi di azioni reali. Esempio della prima classe di riti sono i comportamenti di cortesia, le buone maniere, le cerimonie di insediamento di autorità politiche e religiose, il cerimoniale di corte, matrimoni, battesimi e così via; esempi della seconda classe sono le cosiddette 'ritualizzazioni' di comportamenti aggressivi, le rivolte rituali (assai comuni durante le feste dell'anno nuovo o quando cariche politiche e religiose diventano vacanti) e altre imitazioni di comportamenti ordinari o trasgressivi.Il principale tratto comune alle due classi è evidentemente il carattere simbolico delle azioni che includono. Ma ci sono molte altre classi di azioni simboliche: che cosa giustifica l'associazione di queste due? Fondamentalmente, il loro carattere costitutivo: queste azioni simboliche - a differenza, per esempio, delle azioni che hanno un carattere esclusivamente estetico - non si limitano a simboleggiare, ma fanno esistere ciò che simboleggiano, perché questo non esiste se non simbolicamente. Si prenda, per esempio, un rito matrimoniale. Esso consiste in gesti e simboli visivi che rappresentano il passaggio di una coppia dallo stato nubile a quello coniugale e le trasformazioni correlative (delle relazioni tra le due famiglie, delle relazioni degli sposi con altre persone, ecc.). Ebbene, per una convenzione sociale questa rappresentazione produce effettivamente ciò che rappresenta: gli sposi diventano coniugi, le loro famiglie assumono un rapporto di affinità, d'ora in avanti moglie e marito non potranno essere corteggiati, e così via. Analogamente, l'uso rituale del linguaggio è performativo: quando un sindaco (o un prete) dice, al punto prescritto del rito matrimoniale, "vi dichiaro marito e moglie", egli fa esistere ciò che dichiara. Lo stesso succede quando un giudice dice "l'imputato è assolto". In questi casi il dire è un fare (v. Austin, 1962).Il carattere costitutivo (v. Kantorowicz, 1946) o, come si dice anche, performativo, è altrettanto evidente nei riti che consistono nell'equivalente fittizio di un comportamento reale. Un esempio è fornito da un costume degli aborigeni delle isole Andamane: quando un gruppo vuol fare la pace con un gruppo nemico, finge di attaccarlo e danza, armato, una danza di guerra, che termina solo quando ogni danzatore ha scosso violentemente, prima di fronte, poi alle terga, ogni componente del gruppo nemico, il quale in quest'occasione resta completamente passivo (v. Radcliffe-Brown, 1922, pp. 134-135). La rappresentazione della guerra produce qui la pace, cioè il contrario di ciò che è rappresentato. Anche in questo caso, la simbolizzazione è performativa, ma lo è attraverso una negazione. L'effetto performativo è ottenuto mettendo in primo piano il carattere propriamente simbolico dell'azione e cioè sottolineando il fatto che il simbolo di qualcosa è differente dalla cosa stessa. La rappresentazione della guerra è una guerra che non è guerra, è una guerra finta: può pertanto rappresentare (e produrre convenzionalmente) la transizione dalla guerra vera e propria alla pace. Insomma, ci sono due modi per produrre realtà per definizione convenzionali, quali matrimonio, pace, ecc., tramite entità esse stesse convenzionali come i simboli: al diritto o al rovescio, tramite un'affermazione diretta o tramite una negazione, postulando che il simbolo sia identico a ciò che simboleggia (la rappresentazione di due persone quali marito e moglie li rende marito e moglie) o che sia una realtà diversa da esso, in effetti contraria a esso.
Naturalmente i due procedimenti possono essere combinati e il rito andamanese summenzionato ne fornisce la prova, perché mentre una delle due parti che lo compiono simboleggia la pace mediante una negazione del conflitto, l'altra la simboleggia esagerandone i caratteri: rimane infatti completamente passiva. Analogamente, in numerosi riti l'ordine sociale è riprodotto combinando la sua enunciazione diretta in forma estrema (e quindi 'formale') con la sua enunciazione indiretta mediante un disordine fittizio, un saturnale, un carnevale. La combinazione permette di dare all'azione rituale una forma dialettica perfettamente atta a simboleggiare e produrre le trasformazioni che sono la preoccupazione principale di tutti i rituali. In effetti, come fu notato molto tempo fa da Van Gennep (v., 1909), la maggioranza dei riti riguardano passaggi: dall'infanzia alla pubertà o allo stato adulto, dallo stato celibe a quello coniugale, dalla vita alla morte, dallo stato di persona comune a quello di re o di sacerdote o di cavaliere, dall'anno vecchio a quello nuovo, ecc.
Un'altra caratteristica comune a tutti i rituali è la loro natura fondamentalmente ludica. Si tratta cioè di azioni che costituiscono un ordine immaginario in tensione creativa con quello reale, o perché rappresentano una forma più ordinata e quasi utopica di quest'ultimo o perché, al contrario, rappresentano un'alternativa a esso. Ovviamente, il primo caso corrisponde a buona parte dei rituali che consistono in azioni 'formali', cioè in azioni che, a differenza di quelle ordinarie, rendono evidente la loro forma, che la comunicano, che dicono: "guardate, agiamo secondo le regole che costituiscono quest'azione, che è dunque valida". Benché queste regole siano in primo luogo costitutive dell'ordine caratteristico del rito e come tali non siano necessariamente applicabili anche ad azioni ordinarie, la loro appercezione nel corso del rito ha riflessi sulla vita quotidiana, perché il rito è anche un modello o una metafora del mondo quotidiano. Ad esempio, i riti dell'incoronazione hanno regole proprie, ma rappresentano altresì le relazioni ideali tra re e sudditi, tra potere politico e religioso, ecc. che si dovrebbero ritrovare, sia pure in forma più diffusa e meno ordinata, nella vita ordinaria. Analogamente, un rito come la messa cattolica esprime relazioni ideali tra Dio e i fedeli che è difficile ritrovare nella vita ordinaria. L'ordine artificiale del rito è dunque un 'gioco', un evento simulato che rende possibile ritemprare la consapevolezza delle forme e dei valori che devono (o dovrebbero) guidare le azioni ordinarie. Ma d'altra parte il carattere autocostitutivo delle forme rituali ne permette un funzionamento di tipo opposto: il rito può essere un compenso e una consolazione per il caos della vita ordinaria, cui i valori ideali non sembrano poter essere applicati. Le relazioni tra l'ordine ideale del rito e quello della vita ordinaria sono dunque complesse e ambigue, con aspetti di contrasto e aspetti di concordanza.
Ancor più complesse e ambigue sono le relazioni tra la vita ordinaria e quei riti che, in quanto imitazioni fittizie di comportamenti proibiti, permettono tanto la soddisfazione immaginaria del desiderio di trasgredire l'ordine, quanto la produzione di forme alternative a esso. Queste possono eventualmente essere adottate nella vita quotidiana: allora la festa diventa rivoluzione. Ma ordinariamente il carattere sovversivo di questi rituali è soltanto fittizio: in essi si gioca a invertire, distruggere, contestare l'ordine stabilito, ma dato che lo si fa per finta, non si fa altro che ristabilire indirettamente l'ordine stesso. A ogni modo in questi rituali l'aspetto creativo proprio del gioco è più importante dell'aspetto modellante, che invece domina nei rituali 'formali'.
Questi fatti indicano che il rito, oltre a costituire specifiche situazioni e trasformazioni in virtù di stipulazioni di carattere quasi giuridico, è costitutivo in un senso più generale e profondo. In ultima analisi esso contribuisce a costituire la comunità sociale che lo esegue, a creare un campo comunicativo e più generalmente relazionale tra i partecipanti. Ciò è particolarmente vero per quelle società in cui la comunità raggiunge la sua estensione più vasta al momento dell'esecuzione di rituali e non esiste al di fuori di essa. Inoltre, mentre il linguaggio costituisce la comunità rendendo possibile la comunicazione di proposizioni, il rituale la costituisce, a un livello più profondo, rendendo possibile una comunicazione prevalentemente non proposizionale.Il rito non è necessariamente religioso: lo è solo quando si crede che la fonte e la garanzia ultima del suo potere costitutivo siano situate non nella convenzione sociale, ma in entità trascendenti, personali o impersonali. L'effetto costitutivo del rito è allora attribuito all'intervento di queste entità, il che vuol dire che un rito religioso si riconosce dal fatto che include sempre procedimenti per stabilire rapporti corretti con esse. Perché buona parte dei riti assume un carattere cultuale? Perché i poteri della convenzione sociale e dell'azione umana nel rito vengono reificati e personificati? Una risposta adeguata a questi interrogativi può essere data solo da una teoria del fatto religioso, che non può essere sviluppata in questa sede. Ma è lecito assumere che la credenza in entità sacre come condizioni dell'efficacia del rito sia dovuta almeno in parte alla convergenza di due fatti (v. Valeri, 1985).
1. Il rito è vissuto come un ordine oggettivo, non costituito da alcun soggetto o relazione empirica perché, in ultima analisi, costitutivo di tutti. In quanto autore ultimo, il rito deve quindi restare senza autore - principio sviluppato fino alle estreme conseguenze dalla speculazione brahmanica, secondo cui il rito sacrificale è un ordine oggettivo che abbraccia e costringe gli dei come gli uomini (v. Lévi, 1898) - o avere un autore esso stesso trascendentale. In questo la situazione del rito è simile a quella del linguaggio, cioè dell'altra istituzione sommamente trascendentale, perché sommamente costitutiva della società. Non è perciò un caso che molti dei (a cominciare da Yahweh) siano personificazioni del potere della parola magica - cioè del linguaggio e del rito nello stesso tempo.
2. La riflessione porta ad astrarre vari tipi di autorità, vari aspetti del potere costitutivo del rito. Questi tipi sono distinti dalle azioni rituali concrete, ma conservano il carattere oggettivo comune a tutte. Appaiono dunque trascendentali come il rituale stesso. E poiché individuano tipi di azioni, sono rappresentati inevitabilmente come attori, e cioè personificati. La personificazione non è però sempre presente, né presente in uguale misura nel pensiero religioso. Personali o no, questi tipi reificati partecipano del carattere costitutivo del rito. Oltre a questa costitutività generica, ne hanno una specifica, rispetto alle azioni e relazioni di cui sono tipi.
Insomma gli dei e le altre entità sacre sono gli oggetti del culto perché ne sono i soggetti trascendentali. Questi soggetti sono il risultato di un processo di razionalizzazione e riflessione, il che spiega perché le credenze vere e proprie, che hanno forma proposizionale, si trovino soprattutto nel discorso teologico, mentre le forme non proposizionali di significazione abbondino nell'azione rituale, che utilizza mezzi non discorsivi e più specialmente musicali, coreutici, gestuali, ecc., che sono per loro natura ricchi di associazioni irriflesse o inconscie.
Credenze e rito costituiscono quindi due livelli, in parte complementari, in parte antagonisti, del culto. Il livello della credenza rappresenta il tentativo di giustificare razionalmente il potere costitutivo del rito, ma quest'ultimo è sempre più ricco della credenza e non può quindi essere completamente ridotto a essa. Da qui il viscerale antiritualismo delle religioni che privilegiano la credenza e il suo correlato, la fede, come relazione interiore e soggettiva con la divinità.
Il culto è dunque un processo di comunicazione tra uomini ed entità sacre che ha effetti costitutivi, cioè convenzionali. Naturalmente ha anche effetti non convenzionali, ma sono gli effetti convenzionali che lo distinguono da altri tipi di azioni, poiché quelli non convenzionali sono comuni a tutte le azioni. Gli effetti costititutivi del culto concernono sia la relazione tra entità sacre e uomini (cioè tra oggetti e soggetti del culto), sia lo status delle une e degli altri. In effetti è solo nel culto e tramite il culto che la relazione tra dei e uomini diventa una relazione vera e propria, cioè soggetta a regole e stipulazioni (come il famoso 'patto' tra Yahweh e gli Israeliti) di natura quasi giuridica. Non è un caso che il diritto nasca spesso dal culto e che, come nella Roma antica, la giuridicità delle relazioni tra uomini sia la controparte della giuridicità che caratterizza le relazioni tra gli uomini e i loro dei (v. Dumézil, 1969).
Quanto agli effetti costitutivi del culto su coloro che vi partecipano quali 'soggetti' o 'oggetti', basti citare il fatto che dappertutto gli dei hanno bisogno del culto, dell'onore, e persino della vita o dell'energia che il riconoscimento umano procura loro. Abbandonati, senza più culto, gli dei diventano insignificanti e possono persino morire. Se invece sono oggetto di culto, ricompensano - o dovrebbero ricompensare - coloro che li onorano producendo le trasformazioni corporali o sociali richieste. Esplicitamente o implicitamente, il centro di gravità del culto è sempre costituito da queste trasformazioni, e più genericamente dal desiderio di 'salvezza' - materiale o spirituale - dei partecipanti umani. Questi ultimi sono spesso suddivisi in due classi: i committenti di un particolare evento cultuale e gli specialisti rituali (preti, medium o sciamani) che lo eseguono e che fungono da intermediari tra le divinità e coloro che a esse si rivolgono. Oltre ai committenti diretti, assistono al rito anche spettatori o beneficiari indiretti, che formano propriamente il pubblico.
La comunicazione tra dei e uomini nel culto include dunque processi di comunicazione tra uomini: tra committenti e intermediari rituali, tra intermediari rituali e pubblico, tra committenti e pubblico. Pertanto, al fine di costituire una tipologia dei fenomeni cultuali è necessario prendere in considerazione non solo i loro scopi, i messaggi trasmessi, le modalità della loro trasmissione, ma anche le relazioni tra i vari interlocutori nel processo della comunicazione cultuale. Tanto più che esistono rapporti di covariazione tra le componenti del culto. Per esempio, quando un dio ha un carattere prevalentemente morale, la predicazione, cioè l'ammaestramento diretto del pubblico da parte del dio tramite un intermediario umano (prete o profeta che esso sia), diventa un elemento preponderante del culto (v. Weber, 1922). Ciò è dovuto al fatto che in questo caso il culto consiste soprattutto nel rendere omaggio al dio obbedendo ai suoi imperativi morali ed è perciò necessario che questi imperativi siano riaffermati e che il pubblico sia persuaso a seguirli. L'intermediario rituale è allora più il portavoce del dio presso il pubblico che il portavoce del pubblico presso il dio. Al limite, ci sono culti in cui si cessa di chiedere esplicitamente checchessia al dio e gli si lascia l'iniziativa di concedere o meno ciò che egli, nella sua onniscienza, sa che è desiderato.
Ma è solo nel culto di entità impersonali o di astrazioni personificate come la patria, la nazione, la bandiera, che hanno per scopo esplicito di ricostituire i gruppi sociali corrispondenti, che la comunicazione con il pubblico è preponderante rispetto alla comunicazione con l'entità sacra, cui ci si rivolge spesso con segni non verbali, appunto perché essa non è concepita come una persona vera e propria. Dove invece il dio fornisce soprattutto una garanzia per l'efficacia 'magica' delle operazioni rituali, si mette l'accento sulla comunicazione con esso piuttosto che con il pubblico. Gli intermediari rituali si rivolgono, sebbene indirettamente, anche agli spettatori umani quando questi sono in grado di giudicare la correttezza delle procedure messe in opera per comunicare con il dio. Ma spesso il sapere che permette di valutare queste procedure è accessibile ai soli intermediari rituali o perché è un loro privilegio o perché è troppo difficile (per esempio l'uso di lingue speciali - come sanscrito, pali, latino, slavonico, arabo classico, ecc. - è frequente nel culto). Tuttavia, anche quando è escluso dagli aspetti più complessi, soprattutto verbali, della comunicazione con il dio, il pubblico resta pur sempre un interlocutore necessario: gli si deve almeno far sapere che il rito viene eseguito. In questo senso ogni atto di comunicazione tra dei e uomini presuppone almeno implicitamente un atto di comunicazione tra uomini.
Due sono gli scopi della comunicazione con gli esseri sacri: produrre una congiunzione o, al contrario, una separazione tra loro e una situazione umana. A seconda dei casi, e soprattutto dei punti di vista, la prossimità delle potenze sacre può essere infatti benefica o malefica. Si consideri per esempio il caso di un uomo ordinario che entra per errore in un luogo dove è presente un dio. Egli viene contagiato dalla potenza divina e di conseguenza rischia di contagiare anche altre persone e cose. Ciò lo costringe a interrompere le sue attività e relazioni ordinarie. Perché possa riprenderle, bisogna persuadere o costringere il dio ad allontanarsi da lui. Gli atti cultuali che hanno questo scopo vengono chiamati riti di desacralizzazione. Si parla di riti di purificazione quando la congiunzione con la potenza sacra è supposta avere come effetto uno stato di impurità. Infine, i riti di esorcismo allontanano forze concepite come intrinsecamente malefiche, quali demoni, spiriti di morti, ecc. Mentre questi atti cultuali rimediano alle congiunzioni malefiche, altri - cioè le proscrizioni rituali o tabù - le prevengono, segnalando l'incompatibilità tra diverse classi di esseri e in particolare tra esseri sacri ed esseri profani.Ordinariamente, il contatto con le entità sacre è pericoloso ed è quindi evitato, salvo da coloro che, preti o asceti, si consacrano permanentemente al dio, separandosi nel contempo, almeno in parte, dal mondo sociale. Ma in momenti che sono resi straordinari dalle circostanze o dal calendario, quel contatto è invece cercato attivamente. Ci si rivolge allora alle divinità cercando di persuaderle o costringerle a intervenire nelle sfere di loro competenza, salvo poi mandarle via quando gli effetti cercati sono stati ottenuti.
I mezzi impiegati per allontanare o avvicinare gli dei sono sostanzialmente gli stessi: consistono in operazioni effettuate su e con segni verbali e non verbali. Le operazioni verbali prendono la forma di preghiere, ordini, esortazioni, ecc. Quelle non verbali sono le più ricche e complesse: utilizzano danze, musiche, sostanze profumate o colorate, immagini sacre (statue, dipinti, ecc.), doni, immolazioni, ecc. Alcuni di questi mezzi servono a influenzare soltanto gli dei, altri soltanto i partecipanti umani, ma la maggior parte influenzano entrambi. In effetti ciò che influenza gli uomini influenza anche divinità concepite antropomorficamente. Si noti che le trasformazioni dello stato mentale e fisiologico dei partecipanti umani non sono una conseguenza accessoria dell'impiego di mezzi comunicativi rivolti esclusivamente a trasformare lo stato e la disposizione degli dei, ma condizioni esplicitamente riconosciute dell'efficacia del rituale. In effetti, i partecipanti devono trasformarsi per poter entrare in contatto con il dio: purificarsi, eccitarsi (talvolta con droghe), praticare digiuni ed altre privazioni che modificano il loro stato mentale ordinario. Uomini e dei possono dunque incontrarsi solo convergendo. I riti del culto hanno appunto il compito di provocare un complesso di sensazioni e associazioni in cui l'uomo incontra, nell'alterazione della sua esperienza, il divino modificatore.
Combinando gli scopi del culto con i mezzi verbali e non verbali che esso impiega, gli studiosi hanno creato tipi come 'preghiera', 'sacrificio', 'offerta votiva', 'libazione', 'divinazione', 'ispirazione' (cioè la possessione di un intermediario umano da parte di uno spirito o di un dio), ecc. L'uso di questi termini comporta un rischio di reificazione: si discute del sacrificio o della preghiera, senza rendersi conto del fatto che questi termini possono essere utilizzati solo per riferirsi a fasi o aspetti di un processo di comunicazione sempre complesso tra uomini e dei e nel contempo tra uomini e uomini. Per esempio, è raro che ci sia sacrificio senza preghiera, cioè un rito verbale in cui le ragioni del rito manuale, nonché i suoi committenti e destinatari, vengono specificati. Reciprocamente, la preghiera comporta quasi sempre correlati non verbali (atteggiamento rispettoso, uso di gesti o vesti speciali, offerte, ecc.). Analogamente, il sacrificio comporta quasi sempre un aspetto divinatorio perché il corpo sacrificale (dalle cui viscere o dal cui comportamento si deduce la volontà del dio o la sua risposta a un quesito) è il punto di incontro dei messaggi umani e dei messaggi divini. Questa congiunzione è realizzata anche dal corpo del medium o dello sciamano: da questo punto di vista riti sacrificali e riti di possessione possono apparire come equivalenti ed essere usati alternativamente o in combinazione.
Nozioni come sacrificio, possessione, divinazione, sono dunque utili solo in quanto definiscono certe posizioni in una struttura comunicativa, in una circolazione di messaggi costitutivi (e quindi anche di forze) tra i vari partecipanti umani e divini, che costituisce la sola vera unità nello studio del culto. Reciprocamente, è in questa struttura, quale si realizza concretamente in ciascuna cultura e in ciascuna situazione, che quei termini devono trovare la loro definizione. Lo stesso vale per la definizione dei partecipanti umani e divini. I primi, come si è visto, possono essere suddivisi in committenti, intermediari e pubblico a seconda della posizione che assumono nel processo di comunicazione cultuale. Il committente fornisce la motivazione del processo e i mezzi materiali per realizzarlo (ma è talvolta aiutato dagli invitati), gli intermediari forniscono il loro sapere e persino il loro corpo (che può fungere - in modo complementare o ridondante rispetto ai corpi delle vittime sacrificali e a oggetti materiali come immagini o feticci - da punto di incontro tra umano e divino), il pubblico fa da testimone e contribuisce a rendere l'evento cultuale socialmente efficace, diffondendo la fama del suo successo e perpetuandone la memoria.
I partecipanti divini al rito possono essere classificati in base a numerosi parametri, deducibili dalle azioni cultuali in cui compaiono, nonché dalle credenze di cui possono essere, come si è visto, l'esplicito oggetto. Per esempio, gli esseri sacri possono essere classificati in funzione delle unità sociali che rendono loro un culto. Si distinguono così divinità domestiche, claniche, etniche, statali, di corporazioni professionali, di località, ecc. Ed è subito evidente che esiste una certa solidarietà e quindi analogia tra gli interlocutori umani e divini del culto: il dio (o santo) degli artigiani è egli stesso artigiano, il dio di un lignaggio è spesso un antenato, il dio del gruppo domestico è spesso una personificazione del focolare, ecc. Non è raro, inoltre, che ogni individuo abbia una divinità esclusivamente sua, un δαίμων cui è solo a rendere un culto che garantisce la sua esistenza individuale.
Oltre che dalle loro relazioni con i partecipanti umani al culto, le entità sacre sono qualificate dalle loro relazioni con il mondo materiale, cioè dalle loro manifestazioni tangibili. Le divinità sono sempre concepite antropomorficamente, nel senso che rispondono alla parola, hanno una volontà, hanno desideri e bisogni umani, hanno un sesso (o combinano i due sessi). Non è quindi un caso che nei luoghi del culto esse siano spesso rappresentate da immagini antropomorfe o con elementi antropomorfi e persino da uomini in cui si incarnano o in cui entrano per qualche tempo. Tali manifestazioni rendono tangibile la similarità tra dei e uomini e legittimano perciò l'uso di mezzi prettamenti umani (linguaggio, doni, ecc.) per comunicare con gli dei e per influenzarli. Ma gli dei non sono solo umani (e pertanto fondamentalmente comprensibili): sono anche trascendenti rispetto all'umano e da questo punto di vista non sono umani. Questa è una delle ragioni per cui manifestazioni non antropomorfe degli dei - montagne, animali, piante, sostanze, e talvolta la loro combinazione in 'feticci' - sono spesso importanti nel culto. L'uso di manifestazioni 'naturali' degli dei, in quanto riflette l'alterità e l'opacità del divino, si apparenta quindi, per un paradosso solo apparente, al radicale aniconismo professato da Islam, giudaismo e da alcune forme di protestantesimo.
In definitiva tutte le tipologie teologiche sono inglobate da un contrasto fondamentale: quello tra politeismo e monoteismo. Il politeismo sembra il correlato di forme di unificazione sociale e concettuale che accentuano la combinazione e mediazione di principî eterogenei piuttosto che l'uso di una struttura gerarchica omogeneizzata. La tendenza all'omogeneizzazione gerarchica si manifesta invece nell'enoteismo (cioè nel culto di un solo dio la cui esistenza non esclude quella di altri dei, che sono spesso ridotti a sue manifestazioni: v. Evans-Pritchard, 1956; v. Horton, 1970) e più ancora nel monoteismo. In quanto mette in rapporto una società di dei con una società di uomini, il politeismo presuppone sempre che la relazione dell'individuo con gli dei sia socialmente mediata. Per contro, il monoteismo favorisce una relazione personale (che rifugge spesso dal controllo sociale e dalle forme 'esteriori' - cioè pubbliche e formalizzate - del culto) tra l'individuo umano e un dio concepito come un superindividuo: dotato di libera volontà, autonomo, avente il principio della sua esistenza in sé, ecc. Naturalmente tra questi due estremi tendenziali (rappresentati, diciamo, dal politeismo dell'Africa occidentale e dal monoteismo dell'Europa protestante) si sviluppa tutto un ventaglio di interrelazioni complesse tra rappresentazioni teologiche, pratiche cultuali, forme sociali e processi storici particolari. (V. anche Religione; Religioni primitive; Riti; Sacro).
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