Riti
1. Definizioni del concetto
Il termine 'rito' è usato spesso per designare le procedure formali, gli atti di osservanza religiosa e le cerimonie di un culto, ma in un'accezione più ampia indica qualunque comportamento o attività formalizzata che si svolge secondo regole o procedure specificate dalla società: in questo senso si parla di 'usanze e riti della guerra', oppure di 'riti di passaggio' (matrimoni, cerimonie di insediamento, ecc.). Gli atti o i comportamenti rituali spesso hanno un carattere peculiare o straordinario che li distingue da altre attività sociali, e tuttavia i confini tra ciò che è rito e ciò che non lo è sono piuttosto incerti e indefiniti. Gli atti rituali possono essere individuali e privati, oppure pubblici e sociali.
I due significati, sia quello specificamente religioso sia quello più ampio di 'usanza' o 'prescrizione', sono presenti entrambi nel termine latino 'ritus'. Nei testi liturgici 'rito' designa l'ordinamento complessivo della liturgia, mentre 'cerimonia' indica la prassi delle azioni liturgiche. Quest'ultimo termine è oggi comunemente usato per indicare qualunque azione formalizzata e codificata di tipo laico, spesso di carattere pubblico. L'idea di ordine prescritto è suggerita dal vocabolo affine sanscrito 'riti' - derivato da ri, 'andare, scorrere', che significa 'usanza', 'maniera'. Propriamente, 'rito' è sostantivo, e 'rituale' aggettivo, ma in italiano, così come in inglese, 'rituale' viene comunemente usato sia come sostantivo che come aggettivo. Nello studio del rituale si possono individuare due orientamenti: il primo focalizza l'attenzione sulle funzioni e sugli effetti dei riti analizzati nel contesto sociale; il secondo privilegia il contenuto simbolico del rituale o la sua storia.
La disciplina che ha affrontato nel modo più sistematico e approfondito lo studio del rituale è stata l'antropologia. I primi antropologi si interessarono a questo tema nell'ambito più generale degli studi di religione comparata e dei relativi dibattiti sull'origine e sullo sviluppo delle forme religiose, sulla rivelazione divina e sul rapporto di priorità tra credenza e azione. La tesi secondo cui i comportamenti religiosi non possono che nascere da idee o credenze religiose preesistenti fu messa in discussione da William Robertson Smith in Lectures on the religion of the Semites (1889). Egli sostenne che il dato primario di ogni esperienza religiosa sono le azioni e l'esperienza, e non già le idee e le credenze, che si rivelano più instabili nel tempo. Questa idea fu ripresa per certi versi da Durkheim nel suo studio sulla religione degli Aborigeni, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), in cui all'esperienza e all'azione viene assegnata la priorità sulle idee nella nascita e nella sopravvivenza della religione. Secondo Durkheim, "i riti sono regole di condotta che prescrivono come l'uomo debba comportarsi con gli oggetti sacri" (v. Durkheim, 1912, p. 56). Il rituale riguarda sostanzialmente la sfera dell'azione: esso "non si identifica con l'intero sistema religioso o magico, ma è, per così dire, il braccio esecutivo di tale sistema" (v. Fortes, 1966, p. 411).
L'attenzione per le azioni o le osservanze prescritte portò a estendere la categoria del rito al campo più vasto delle usanze e dei comportamenti formalizzati. Una volta riconosciuto che il rituale non è legato necessariamente a idee o motivazioni specificamente religiose, il campo d'indagine si amplia notevolmente, includendo ogni attività caratterizzata dalla routine o dalla ripetizione e da regole esplicite che ne stabiliscono le modalità di svolgimento. Il problema diventa allora quello di distinguere i vari tipi di attività ripetitive o strutturate, che includono abitudini, giochi, tecniche, usanze, cerimonie e rituali.
Nel suo fondamentale studio Les rites de passage Arnold Van Gennep (1909) identificò la forma comune di una classe generale di riti che hanno la funzione di sancire pubblicamente le transizioni sociali. Tale categoria comprende i riti che scandiscono le fasi del ciclo di vita (nascita, morte, pubertà e iniziazione), le cerimonie di ospitalità e quelle di insediamento, i riti legati al succedersi delle stagioni e al calendario. Pur nella loro eterogeneità, tutti questi riti presentano una struttura o forma comune, costituita dalla articolazione in tre fasi: la prima segna la separazione dal precedente status sociale; la seconda è una fase liminare o di transizione; la terza è quella della aggregazione o reintegrazione che segna l'ingresso nel nuovo status o il completamento della transizione. I riti di passaggio identificati da Van Gennep comprendevano sia pratiche religiose che usanze sociali e cerimoniali. L'individuazione di questa struttura tripartita quale forma comune delle sequenze cerimoniali ad opera di Van Gennep portò a focalizzare l'attenzione sulle similitudini nella forma dei riti, sull'esistenza di regole sociali standardizzate in una gamma estremamente diversificata di situazioni sociali; le analisi incentrate sul significato simbolico, sulle funzioni e sugli effetti dei riti vennero messe sempre più in discussione.
Se i comportamenti prescritti sono tipici del rito, ma la componente religiosa non viene più considerata una sua caratteristica essenziale o necessaria, sorge il problema di delimitare la categoria. I riti possono essere considerati un tipo speciale di comportamento? Regole, routines, ripetizione e formalizzazione sono presenti in molte attività sociali: dalle formule convenzionali di convenienza a tutti i tipi di abilità pratiche, di giochi e di tecniche complesse di produzione. Come osserva Goody (v., 1977), codificazione, regolarità e ripetizione improntano ogni aspetto della vita sociale. L'esistenza di regole si spiega facilmente nel caso dell'azione tecnica o strumentale, in cui esse assolvono una funzione pratica, sono un mezzo efficace in rapporto a uno scopo specifico. La distinzione tra atti strumentali e atti espressivi, tra 'fare' e 'dire' sembrava fornire un criterio per distinguere i comportamenti rituali da altre forme di comportamento codificato e ripetitivo. In questa prospettiva l'azione rituale si distingue da quella tecnico-strumentale per la presenza di una componente simbolico-espressiva. "Il rito può essere definito come un tipo di attività strutturata, orientata al controllo delle faccende umane, di natura eminentemente simbolica e con un referente non empirico, come una regola sancita socialmente" (v. Firth, 1951, p. 222). "La principale differenza tra le modalità dell'azione di tipo tecnico-pratico e quelle 'magico-religiose' risiede fondamentalmente nella presenza o nell'assenza di un elemento simbolico istituzionalizzato [...] Ciò significa che l'intera procedura, o rito, ha una componente essenzialmente espressiva, a prescindere dalla sua efficacia strumentale" (v. Beattie, 1966, p. 202).
La dimensione spettacolare, la rigidità, la presenza di norme che regolano lo svolgimento dell'azione e che non sono giustificate dai suoi scopi dichiarati, il coinvolgimento emotivo degli attori e degli spettatori: sono queste le caratteristiche che hanno attirato l'attenzione degli antropologi sulla peculiarità del rituale. Nei riti le forme di comportamento sono codificate, ma il rapporto tra mezzi e fini non è 'intrinsecamente' evidente, appare arbitrario, non razionale o irrazionale. Come osserva Goody (v., 1961, p. 156), siamo portati ad attribuire una natura simbolica o espressiva a un comportamento palesemente strano. Poiché non riusciamo a interpretarlo nei termini di un rapporto intrinseco tra mezzi e fini, tendiamo ad assumere che esso simboleggi o esprima qualcos'altro.
Molti antropologi hanno dedicato la loro attenzione all'interpretazione del simbolismo rituale, nella convinzione che un significato simbolico possa spiegare azioni prive di una evidente motivazione pratica. Secondo Leach (v., 1968), la maggior parte delle azioni umane che si svolgono in situazioni culturalmente definite hanno sia un aspetto tecnico-pratico, sia un aspetto espressivo-comunicativo - 'fanno' e 'dicono' qualcosa nello stesso tempo. Non è facile tracciare un confine netto tra comportamenti strumentali e comportamenti espressivi. In certe circostanze un'azione pratica come quella di mangiare del pane può assumere una forte valenza simbolica. Tuttavia, Leach ritiene che sebbene l'aspetto espressivo possa essere individuato in quasi ogni tipo di azione, nel rito la dimensione simbolico-comunicativa risulta prevalente, costituendone la caratteristica distintiva. Il rito, allora, non andrebbe considerato come una categoria comportamentale, ma piuttosto come un aspetto del comportamento. L'analisi degli elementi espressivi e simbolici del rituale è al centro di numerosi, importanti studi antropologici sull'argomento (v. ad esempio Radcliffe-Brown, 1922; v. Richards, 1956; v. Turner, 1967). L'idea secondo cui il rito è essenzialmente espressivo può risultare utile per capire la sua ragion d'essere: il fatto di aver espresso ciò che ha espresso lo giustifica a prescindere da qualunque altra funzione si ritiene possa aver assolto.
Uno dei principali problemi che pone l'identificazione del rito con la sua dimensione simbolica ed espressiva è quello di stabilire chi e in base a quale autorità debba fornirne l'interpretazione. Spesso risulta difficile ottenere dagli attori una spiegazione attendibile dei loro comportamenti rituali. Diversi individui possono offrire spiegazioni differenti delle stesse azioni; alcuni affermano di seguire semplicemente la tradizione, e non pensano che il rito abbia un significato speciale. In certi casi un determinato individuo viene ritenuto un'autorità in materia, mentre gli altri sono considerati troppo giovani o inesperti; in altri, il rito ha un significato segreto o tenuto accuratamente nascosto; in altri ancora, i soggetti affermano di aver dimenticato o di non aver mai appreso ciò che i loro antenati intendevano esprimere. In alcune società il significato dei riti non è fissato esplicitamente, discusso di buon grado o oggetto di una riflessione consapevole, laddove in altre i partecipanti, o le persone interessate, o le autorità si dimostrano più disponibili a fornire esegesi e spiegazioni (v. Turner, 1967). Gli antropologi possono attribuire determinati significati alle azioni osservate, e possono trarre inferenze sul loro simbolismo, ma resta il problema di stabilire la validità di tali interpretazioni e la corrispondenza tra le conclusioni degli osservatori e le intenzioni e le idee dei partecipanti e degli attori. Le spiegazioni e le interpretazioni indigene del rito possono essere più o meno esaurienti, chiare ed esplicite: si tratta di un problema di osservazione empirica. Le caratteristiche dell'osservatore possono avere anch'esse un ruolo importante: il grado di familiarità e il tipo di rapporto instaurato con i soggetti, il livello di conoscenza della lingua locale, la durata del periodo di osservazione, ecc. sono tutti elementi che influenzano le interpretazioni dei riti.
Al pari delle usanze, i riti forniscono indicazioni esplicite su ciò che si deve e ciò che non si deve fare; un'altra caratteristica comune è data dal fatto che l'osservanza di riti e usanze è giustificata dall'appello alla tradizione. Le norme delle usanze e del rituale non sono vincolanti per tutti, ma solo per un gruppo specifico di individui e spesso solo in particolari situazioni. Il fatto che riti e usanze siano giustificati dall'appello alla tradizione o a una convenzione generale ("facciamo così perché queste sono le nostre usanze, le nostre consuetudini, perché i nostri padri e i padri dei nostri padri hanno sempre fatto così"), anziché dalla razionalità o dall'efficacia pratica, può farli apparire del tutto arbitrari o irrazionali, una questione di mera routine. Un vuoto formalismo, la semplice conformità alle convenzioni sono spesso associati all'osservanza dei riti e delle usanze. I riti di conseguenza sono stati presentati in termini contraddittori: da un lato come privi di significato in quanto osservati in modo meccanico, per pura obbedienza alle convenzioni; dall'altro come colmi di significati simbolici ed espressivi, sebbene a volte questi siano oscuri o segreti.
In conclusione, è evidente che sulla natura e sulle caratteristiche distintive dei riti non esiste unanimità di vedute. Rifiutando di circoscrivere il rito ai comportamenti qualificati da finalità o natura religiosa, molti antropologi hanno focalizzato l'attenzione sulla classe più generale dei comportamenti standardizzati prescritti dalla tradizione, e hanno cercato di definire il rito come un tipo speciale di azione distinto dall'azione strumentale. Ciò ha indotto alcuni autori a identificare il suo carattere speciale con le valenze simbolico-espressive, che nei riti sono spesso (sebbene non sempre) predominanti. Altri autori hanno sostenuto invece che la dimensione simbolico-espressiva è presente in misura maggiore o minore in pressoché tutte le azioni sociali, e che pertanto il rituale va considerato non già come una categoria comportamentale, ma come un aspetto del comportamento.
2. La ritualizzazione
Il concetto di rito è stato applicato anche al comportamento animale, in particolare in rapporto alla cosiddetta 'ritualizzazione'. Il termine suggerisce l'idea di un processo attraverso il quale determinate azioni o sequenze di azioni diventano fisse, distintive e riconoscibili, assumendo il carattere di atti rituali. Fu Julian Huxley (v., 1923) a coniare il vocabolo nell'ambito dei suoi studi sui cerimoniali di corteggiamento e sul rituale di formazione della coppia negli uccelli. In etologia, il concetto di 'ritualizzazione' designa le modificazioni nei segnali motori di alcuni vertebrati inferiori in adattamento alla loro funzione comunicativa. Si tratta di un processo evolutivo attraverso il quale un modulo comportamentale si modifica per acquistare maggiore efficacia come segnale, avendo un valore adattativo ai fini del coordinamento, della comunicazione, dell'accoppiamento e della difesa. In genere i comportamenti acquistano un supporto morfologico sotto forma di strutture o caratteristiche anatomiche supplementari che rendono il movimento più vistoso (un esempio è dato dalle striature bianche nel piumaggio degli uccelli, che l'animale mette in mostra quando si accinge a volare). I comportamenti tendono inoltre a essere semplificati, stereotipati ed esagerati per massimizzarne l'efficacia comunicativa (v. Wilson, 1975, p. 224). La funzione comunicativa e cerimoniale nel comportamento animale corrisponde alla dimensione simbolica ed espressiva nel rituale umano. Nell'abbigliamento e nel comportamento rituale si osservano elementi di ostentazione analoghi a quelli che caratterizzano i cerimoniali degli animali. Un oggetto o un'azione possono essere esagerati o semplificati per aumentarne la visibilità e per comunicare un particolare significato. Ad esempio, i rituali legati alla figura del re e le insegne dei capi tra gli Ashanti del Ghana nell'Africa occidentale includevano spade dalla foggia speciale e oggetti di uso comune come bastoni, scranni e chiavi, modificati ed elaborati per fini cerimoniali. Tali oggetti acquistarono funzioni e significati diversi rispetto a quelli originari - scrigni, serrature e chiavi introdotti presso gli Ashanti dai commercianti europei nel XVIII secolo vennero associati alla proprietà e al controllo della ricchezza. Grossi mazzi di chiavi speciali cominciarono a essere esibiti dai consiglieri del re degli Ashanti per simboleggiare le sue immense ricchezze; quando il sovrano faceva il bagno, i mazzi di chiavi venivano scossi e fatti tintinnare (v. McLeod, 1981). Le elaborazioni cui sono sottoposti determinati oggetti per attirare l'attenzione sono una modificazione della loro funzione originaria, che richiama per certi versi la modifica delle funzioni di certi comportamenti o strutture morfologiche degli animali nel processo di evoluzione biologica basato sulla selezione.Se è vero che i comportamenti rituali degli animali e degli uomini presentano certe affinità - come ad esempio la fissità o la standardizzazione, il requisito di condizioni specifiche e l'ostentazione -, tra di essi esiste ovviamente una differenza fondamentale: i primi sono specie-specifici, ossia parte della dotazione evoluzionistica della specie, mentre i secondi sono un prodotto della cultura e altamente variabili, e non già una caratteristica universale della specie.
Il concetto di 'ritualizzazione' è stato applicato dagli antropologi al comportamento umano per indicare due processi distinti. Il primo può essere definito un processo di formalizzazione attraverso il quale la funzione originaria del comportamento viene modificata, alterata o annullata, sicché esso assume un peso o un significato diverso. Ad esempio nei 'rituali di ribellione' descritti da Gluckman (v., 1963) i rappresentanti dell'autorità o del potere possono essere oggetto di scherno e di irriverenza, ma solo nei termini e nel contesto specifico del rituale: non si tratta quindi di una ribellione reale, ma di una ribellione 'ritualizzata'.
Il secondo processo cui si fa riferimento con il concetto di ritualizzazione è un processo di riconoscimento che assume un carattere speciale nell'azione rituale. I riti umani comportano il riconoscimento. Molto spesso determinate azioni eseguite nel rituale possono essere compiute anche in forma non rituale (ad esempio lavarsi, mangiare, accendere fuochi, ecc.). Tuttavia, come osservano Humphrey e Laidlaw (v., 1995), l'elemento essenziale che contraddistingue il comportamento rituale è il fatto di essere formalmente prescritto e riconosciuto come tale, è il processo attraverso il quale determinate azioni vengono eseguite in un dato modo - quello che appunto viene definito 'ritualizzazione'. Tale processo conferisce alle azioni rituali un particolare carattere 'distaccato' o 'esteriore' rispetto alle intenzioni o agli scopi reali dell'attore. La forma prescritta stabilisce ciò che si deve fare; ad esempio, ci si attende che il pubblico batta le mani alla fine di un concerto per dimostrare di aver gradito l'esecuzione, e si assume che sia questo il significato espresso dal battimani, anche se si tratta di un gesto puramente meccanico che non rispecchia minimamente i reali sentimenti degli spettatori. Il significato del battimani è convenzionale, per così dire prestabilito, 'esteriore' rispetto ai sentimenti personali dell'individuo. La ritualizzazione recide il legame implicito, diretto che si suppone esista normalmente tra le intenzioni e le azioni di un attore.
È attraverso il processo di ritualizzazione che il comportamento rituale acquista un carattere speciale che lo distingue dal comportamento ordinario. Dal punto di vista dell'attore, nel rito l'azione è eterodiretta: egli è e non è nello stesso tempo l'autore delle proprie azioni, che sono prestabilite da regole costitutive e vincolanti imposte dalla società. I partecipanti devono conoscere le regole per decidere se applicarle in determinate circostanze. Da qui la preoccupazione per la correttezza dell'esecuzione, il senso di compiere un dovere o di rispettare una consuetudine. Queste sono caratteristiche comuni ai codici sociali di condotta in generale, che consentono agli individui di prevedere in certa misura gli effetti del proprio comportamento sugli altri. La codificazione dell'interazione ha la funzione di standardizzare e di comunicare determinati significati (v. Skorupski, 1976, pp. 76-115), ma con il trascorrere del tempo questi possono andar perduti. Le convenzioni infatti fissano i comportamenti, ma non i loro significati originari. Le regole non sono autoevidenti, ma debbono essere insegnate, la loro validità si fonda sulla tradizione o sulla consuetudine. È questo il motivo per cui appaiono in certa misura arbitrarie.
La ritualizzazione nel comportamento umano tuttavia non va intesa in termini assoluti: le usanze nascono e scompaiono, possono perdere o acquistare salienza e significatività. La variabilità dell'attenzione per le usanze e i rituali è un fatto di evidenza immediata, e trova riscontro nella diversità di spiegazioni e di interpretazioni fornite dai soggetti, nonché nella circostanza in certo modo paradossale che in una stessa società alcuni sono convinti che riti e usanze abbiano un significato preciso, mentre altri li considerano vuoti formalismi. Può essere utile a questo proposito operare una distinzione tra la risposta a uno stimolo (le reazioni in questo caso variano e possono essere più o meno spontanee, più o meno facili da esprimere verbalmente) e la comprensione razionale e consapevole di un messaggio o di un significato simbolico. Gli osservatori e i partecipanti possono percepire chiaramente come tali i segnali che hanno lo scopo di richiamare l'attenzione - la rigidezza e il formalismo, la presenza di regole e convenzioni -, senza peraltro essere in grado di comprendere il significato che essi hanno o hanno avuto in passato.
Se la presenza di regole e di una forma strutturata implica l'intenzione di comunicare un messaggio o un significato, il ruolo di autore di tale messaggio può essere ascritto alla 'società' in un remoto passato, alla tradizione, agli antenati, ai defunti o alla storia, a un dio o a uno spirito. A volte il messaggio originario può andar perduto, e in questo caso si recide il legame tra azione e significati. Come osserva Maurice Bloch (v., 1974), il formalismo tipico del rituale richiede l'obbedienza a un'autorità tradizionale, ma comporta altresì una perdita di significato, limitando la libertà di scegliere le parole e le azioni adeguate per esprimere ciò che si vuole comunicare. Il formalismo può sostituirsi alla riflessione autonoma e comportare una perdita di sincerità e di autenticità. Quando l'azione perde i suoi significati originari, inevitabilmente il trascorrere del tempo determinerà mutamenti e variazioni nelle interpretazioni che ne verranno date.
3. Società storia e trasmissione del rituale
La convenzione è una forza essenzialmente conservatrice, che promuove la stabilità. La fissità fa sì che le azioni col passare del tempo acquistino un carattere arcaico - e ciò può significare semplicemente antiquato, superato, oppure tramandato, tradizionale, sacro.Il rito è spesso presente e ha un ruolo importante nella sfera politica, dove assolve di volta in volta la funzione di conferire dignità, di amplificare, fissare e giustificare l'azione, di promuovere la stabilità e la solidarietà, di esibire pubblicamente il consenso e l'armonia sociale (v. Kertzer, 1988). L'importanza del rituale è pienamente riconosciuta nella filosofia confuciana: nella teoria e nella prassi politica dell'antica Cina il rituale (li) aveva la funzione di incarnare e realizzare l'armonia eterna. Durante la dinastia Tang, tra il 600 circa e il 900 d.C., notevoli energie, ricchezze e sforzi intellettuali venivano profusi nei culti di Stato. I riti imperiali erano minuziosamente definiti e codificati, e la loro esecuzione era affidata a una complessa e sofisticata burocrazia. La riuscita esecuzione del programma rituale era considerata un successo del regno in quanto realizzazione dell'ideale dell'imperatore esemplare incarnato dai 're savi'. Attraverso il rituale si celebrava la continuità nel tempo della Cina e il suo legame con il passato. L'importanza sociale dei culti di Stato, che ricevevano la sanzione suprema da un'autorità eterna e immutabile, risiedeva nel loro valore sia pratico che esemplare (v. McMullen, 1987). Nel concetto cinese di li - tradotto usualmente con 'rituale' - è contenuta l'idea che il decoro, l'osservanza delle norme sia la virtù suprema. "La teoria politica confuciana sembra basarsi sui seguenti presupposti. La società è governata da un complesso codice di rituali (li) che regola tutti gli aspetti della vita. Osservando il rituale prescritto per una data situazione, gli uomini manifestano sul piano sia fattuale che simbolico il modo in cui ci si deve comportare in quella situazione [...] I valori e le norme della società aristocratica sono tutti contenuti nel li, e attraverso il rituale la società può essere controllata in modo completo ed efficiente; l'osservanza del li consente di risolvere i conflitti della società, di definirne e di fissarne norme e relazioni, di realizzare i suoi obiettivi fondamentali attraverso la cooperazione di tutti. L'adempimento del li equivale alla conservazione dell'ordine" (v. Pocock, 1973, pp. 43-44).
Alcuni elementi della concezione confuciana ricompariranno assai più tardi nelle teorie sociologiche sulle funzioni del rito. Durkheim (v., 1912), ad esempio, riprende l'idea secondo cui la religione rafforza i legami di solidarietà tra i membri della società. Secondo la sua teoria, nelle società preindustriali la religione permea molti aspetti della vita sociale, offrendo spiegazioni sulla realtà e riaffermando i valori sociali. La partecipazione alle cerimonie e ai riti, celebrati con cadenza regolare, rafforzerebbe la solidarietà sociale. Attraverso essi, l'individuo si sente in contatto con forze superiori; ma ciò che viene interpretato come influenza divina, in realtà non sarebbe altro che l'esperienza dell'influenza della collettività sull'individuo. Il carattere obbligatorio e vincolante delle norme che regolano i rapporti col sacro pone le azioni rituali al di là di ogni dubbio o contestazione umana: il rito è giustificato da un'autorità sacrale. Il sistema sociale dipende dal consenso sui valori collettivi fondamentali, sugli interessi comuni e su una rete di relazioni improntate alla cooperazione anziché al conflitto.
Radcliffe-Brown (v., 1952) in una conferenza sul Tabù e in un saggio successivo su Religione e società si richiamò sia al pensiero di Durkheim sia alle antiche concezioni cinesi del rituale, sostenendo che i riti esistono e si tramandano in quanto preservano la società stessa, riflettendone i valori essenziali e rafforzando la solidarietà sociale. Il rituale può esplicare questi effetti sociali e psicologici in virtù del suo carattere fisso e vincolante. Come osserva Forge (v., 1990), gli sforzi richiesti per organizzare e celebrare i principali riti di una comunità possono rafforzarne il potere politico, in quanto stimolano la produttività e l'agire cooperativo, incentivano la creatività, suscitano l'entusiasmo collettivo e il desiderio di eccellere, rafforzano la solidarietà sociale. Così, ad esempio, il culto dell'igname e le grandi case cerimoniali riccamente decorate degli Abelam, una popolazione del medio Sepik nella Nuova Guinea, sono ammirati e copiati dalle popolazioni vicine, che considerano la loro magnificenza come un segno dell'accesso privilegiato degli Abelam alla sfera sovrannaturale.
Un osservatore esterno potrebbe studiare i riti come fatti sociali e individuare rapporti causali o correlazioni tra le regole rituali e determinate forme sociali dominanti, riconoscendo altresì che le interpretazioni del rituale fornite dai partecipanti non ne spiegano necessariamente tutti gli aspetti. La posizione di osservatore esterno infatti consente di individuare connessioni e spiegare o identificare effetti che non sempre sono riconosciuti dagli attori stessi.
Durkheim si proponeva di analizzare e di spiegare la funzione della religione nella società assumendo che fenomeni universalmente diffusi come la religione e i riti non potrebbero esistere e conservarsi nel tempo se fossero privi di una qualche funzione. Roy Rappaport (v., 1968) adottò un approccio analogo nel suo studio del ciclo rituale kaiko della tribù dei Tsembaga Maring della Nuova Guinea. Le regole di questo ciclo rituale governavano i conflitti locali e stabilivano periodi di pace che si alternavano alla guerra aperta, fissando le epoche in cui effettuare l'uccisione dei maiali domestici, offerti in sacrificio agli antenati e usati per gli scambi di doni con gli alleati. L'analisi di Rappaport illustra in che modo il ciclo rituale possa essere interpretato come un complesso sistema di regolamentazione mirato a controllare e a preservare i complessi equilibri di un ecosistema basato sulla popolazione umana e sulla popolazione suina, sulla terra e sulla sua capacità produttiva. Avanzando un'interpretazione che si richiama all'idea della selezione naturale, Rappaport afferma che il ciclo rituale si è conservato nel tempo in quanto funzionale alla preservazione di tale ecosistema. Attraverso la regolamentazione della guerra, la redistribuzione della popolazione su una quantità limitata di terra, il controllo delle dimensioni della popolazione suina e lo sfruttamento efficiente delle risorse ambientali, il rituale contribuisce a preservare la popolazione umana e l'equilibrio ecologico del suo ambiente. Per i Tsembaga le regole rituali erano sancite da un'autorità sovrannaturale, e in quanto norme vincolanti di carattere sacro non potevano essere cambiate né messe in discussione. Tuttavia, quello che Rappaport definisce 'modello cognito' degli attori, ossia i significati espliciti che essi attribuiscono alle azioni rituali (ad esempio offerte sacrificali agli antenati, doni per gli alleati, ecc.), non corrisponde sempre al 'modello operazionale', ossia alle spiegazioni proposte dagli antropologi (ad esempio il rituale come regolatore ambientale). La spiegazione dei riti non va ricercata soltanto negli scopi consapevoli e nelle interpretazioni che ne danno gli attori; questi sono ovviamente importanti come dati di partenza, ma necessitano di una interpretazione e di una spiegazione che vada oltre il livello della semplice osservazione.
L'approccio funzionalistico/deterministico, che interpreta i riti in termini di vantaggi adattativi, o vede in essi il prodotto di specifiche cause sociali, ha attirato numerose critiche. Si è sostenuto ad esempio che è errato adottare un approccio positivistico e i metodi delle scienze naturali o biologiche per studiare la società e la cultura umana. Tale approccio sarebbe astorico e riduzionistico e trascurerebbe le idee e i sentimenti associati ai riti, ignorando altresì le credenze e le interpretazioni dei partecipanti. Le spiegazioni dei riti di tipo funzionalistico avrebbero inoltre un carattere teleologico, in quanto deducono l'origine dei riti dai loro effetti attuali. Esse assumono indebitamente che i riti si siano conservati immutati nel tempo, e che pertanto debbano avere una qualche utilità o funzione: ma ciò significa presupporre la stabilità sociale e ignorare la storia.
L'attenzione per la storia che aveva contraddistinto sia l'analisi dei riti nell'antica Roma di Fustel de Coulanges (v., 1864), sia lo studio sul sacrificio dei Semiti di W. Robertson Smith (v., 1889), è riemersa in alcuni autori contemporanei (v. ad esempio Bloch, 1986; v. Burke, 1978; v. Comaroff, 1985), secondo i quali il rito in quanto fenomeno sociale va studiato nella sua evoluzione storica, osservando in che modo esso si trasformi sotto l'influenza di processi ed eventi storici.
Un approccio che focalizzi l'attenzione sui determinanti sociali del rituale non deve essere una speculazione sulle origini, bensì un'analisi dei principî di trasformazione, uno studio del mutamento nel tempo. È proprio questo l'orientamento che impronta l'opera di Fustel de Coulanges e di Robertson Smith. Nei suoi studi sull'istituzione del sacrificio tra i popoli semitici, quest'ultimo ricostruì le trasformazioni intercorse nel luogo e nell'organizzazione della cerimonia sacrificale nelle varie fasi della storia degli Israeliti: dall'epoca delle tribù nomadiche all'insediamento in Palestina, all'istituzione della monarchia, ai periodi di prosperità e di espansione sino alla disfatta e all'esilio. Il sacrificio originariamente avveniva nei boschi, in un luogo sacro rivelato da Dio, o nel sito di macellazione degli animali durante la caccia, oppure nell'accampamento della tribù quando veniva sacrificato un animale del gregge; successivamente la cerimonia veniva celebrata davanti a un altare o presso il Tempio. Ad ognuna di queste fasi corrispondevano forme di partecipazione e officianti differenti. Alle trasformazioni nell'organizzazione sociale fece riscontro una trasformazione dell'organizzazione e delle procedure del rito. Il linguaggio, il repertorio di simboli e di metafore e il significato del sacrificio riflettevano l'esperienza sociale (ad esempio, per indicare la relazione tra Dio e gli Israeliti vengono usate di volta in volta le metafore del padre/figlio, del pastore/gregge, del signore/servo, del sovrano/suddito, del giudice/peccatore). L'immolazione dell'animale rimase l'atto chiave del rito, ma mutarono i significati e gli scopi a esso attribuiti (ringraziamento, celebrazione, dono, tributo, atto propiziatorio, espiazione, pentimento). Le esperienze politiche della sconfitta e dell'esilio modificarono le modalità di esecuzione del rito e nello stesso tempo la percezione del suo senso e del suo scopo.
Un analogo interesse per il modo in cui eventi storici e mutamenti politici hanno influenzato l'organizzazione e il significato di un rito emerge nello studio di Maurice Bloch (v., 1986) sul rito della circoncisione tra i Merina del Madagascar. Basato sull'osservazione diretta, tale studio ricostruisce l'evoluzione storica del rito attingendo ai resoconti che lo descrivono in diversi momenti dei due secoli precedenti. Nonostante i rilevanti cambiamenti politici - le guerre intestine, l'avvento del dominio coloniale, l'affermarsi del movimento indipendentista e la politica post-coloniale - che hanno determinato significative trasformazioni nelle proporzioni, nel fasto cerimoniale e nel livello di partecipazione, alcuni elementi sono rimasti immutati nel tempo, e formano il nucleo stabile del rito di circoncisione. Il suo significato politico è cambiato in modo considerevole, ma gli elementi costanti, secondo Bloch, garantiscono la continuità del suo significato simbolico. Il rito ha conservato dunque un complesso di significati e di valori che hanno contribuito a preservare l'identità culturale dei Merina.
Il problema della continuità è in larga misura un problema di ordine empirico; a differenza degli storici dell'Europa e della Cina, gli antropologi che studiano società in cui le testimonianze scritte sul passato mancano o sono assai scarse non si trovano certo nelle condizioni migliori per cogliere gli elementi di continuità e le trasformazioni nelle pratiche e nelle credenze rituali. I documenti storici, quando sono disponibili, dimostrano sia una continuità nel tempo (è questo il caso dei rituali legati alla figura del sovrano: v. Cannadine e Price, 1987; v. Ebrey, 1991; v. Bloch, 1924), sia una discontinuità a seguito di rivoluzioni o di conversioni (è il caso del rituale in Russia dopo la Rivoluzione d'ottobre: v. Lane, 1981). In tutte le società si riscontra comunque la tendenza a creare usanze e riti, a proiettarne le origini nel passato e a considerarli o a renderli 'tradizionali' (su questo tema v. Hobsbawm e Ranger, 1983).
Alcuni studi empirici sulla trasmissione del rituale nelle società preletterate dimostrano come a significative variazioni nel tempo possa associarsi la credenza (nutrita talvolta tanto dai membri della società quanto dagli antropologi che la studiano) che la tradizione sia stata rigorosamente conservata nel passato, anche se ora rischia di andar perduta.Jack Goody (v., 1972) ha osservato lo stesso rito di iniziazione bagre tra i LoDagaa del Ghana settentrionale a intervalli regolari nel corso di più di vent'anni, e ha potuto così confrontare le versioni del mito recitato durante i riti individuando le variazioni nell'ordine, nei temi e nella formulazione delle migliaia di versetti di cui si compone il mito. Nelle società non letterate come quella dei LoDagaa, in cui la cultura è basata sulla trasmissione orale diretta del sapere, si rendono necessari espedienti mnemonici - formule verbali, sequenze di versi legate all'ordine delle azioni rituali nonché agli schemi delle attività di sussistenza stagionali e quotidiane delle famiglie. Tali schemi forniscono modelli o strutture che aiutano a ricordare l'ordine e il contenuto dei versi, ma non possono evitare le variazioni apportate nelle differenti recitazioni, né inibire l'apporto creativo di nuovo materiale. Come scrive Goody (ibid., p. 13), "tutto l'esistente esiste sia nel mutamento che nella continuità". Così i neofiti imitano i narratori esperti, questi acquistano prestigio grazie alla loro abilità, e sebbene la struttura fondamentale resti inalterata, ogni recitazione è una ri-creazione, e riflette in certa misura gli interessi dei narratori. Non esiste un testo scritto cui far riferimento, o che stabilisca la forma originaria corretta; l'autorità risiede nella consuetudine e nella comunicazione; per il neofita, la versione che ascolta nella stanza del Bagre è quella corretta, la 'vera' versione. La trasmissione orale del sapere comporta variazioni e perdite, ma può essere considerata anche un fattore di flessibilità e di creatività.
Questo aspetto è stato studiato confrontando i modi in cui uno stesso rito o riti analoghi vengono celebrati in diverse comunità (v. Barth, 1987), oppure le trasformazioni che una stessa cerimonia subisce nel corso del tempo. Barth ha analizzato i complessi riti di iniziazione articolati in fasi separate da lunghi intervalli di tempo tra i Baktaman della Nuova Guinea centrale. Altri antropologi che hanno condotto ricerche sul campo nella stessa regione hanno dimostrato che società affini, che vivono in comunità separate e parlano lingue diverse, celebrano riti analoghi, ma ne forniscono interpretazioni differenti. Come ha messo in luce Barth (v., 1987) la diversità delle interpretazioni può essere ricondotta a vari fattori empirici, come ad esempio la complessità della struttura del rito e i lunghi intervalli di tempo che separano la celebrazione delle sue varie fasi, nonché a un particolare stile culturale improntato alla segretezza, alla metaforicità e all'allusività.Harvey Whitehouse (v., 1992) ha analizzato il modo in cui gli stili culturali possono influire sulla trasmissione di idee ed esperienze attraverso il rituale, sottolineando la differenza tra i processi di persuasione religiosa basati su spiegazioni e giustificazioni di tipo logico-razionale, e quelli basati sull'impatto emotivo, sullo shock e sulla mistificazione, sull'esposizione a oggetti e azioni dotati di una potente carica simbolica. I riti spesso sfruttano l'effetto della sorpresa, della segretezza, della paura, ecc. per fissare come in un lampo di luce un'esperienza. La natura e l'intensità di tali effetti naturalmente variano a seconda della società, del contesto e degli scopi del rituale.
4. Il simbolismo rituale e l'autorità dell'esperienza
In quanto espressione di una collettività, i riti possono essere considerati un veicolo per trasmettere idee ed esperienze ai membri di una comunità. Li si può paragonare a un testo o a un'opera teatrale che viene rappresentata perché possa comunicare il suo messaggio alle generazioni successive o esercitare su di esse la propria influenza; l'autore del testo in questo caso è la società stessa.Il rituale ha un ruolo importante nella conservazione e nella trasmissione della cultura. Attraverso la partecipazione ai riti i membri di una società apprendono valori e conoscenze importanti per la comunità e in questo senso i riti possono essere considerati una forma di condizionamento sociale delle percezioni e dei comportamenti individuali. Lo studio dei riti può gettare luce sull'ordine morale di una società. Le celebrazioni rituali generano esperienza e nello stesso tempo riaffermano le credenze e gli ideali collettivi fondamentali della comunità.
È questa la concezione, assai vicina a quella di Durkheim, che sta alla base degli importanti studi sul rituale di Victor Turner, in particolare quelli dedicati al simbolismo rituale dei Ndembu dello Zambia (v. Turner, 1957, 1967 e 1969). Nella società Ndembu la cui sussistenza si basa sugli scarsi raccolti consentiti da un ambiente desertico e sulla caccia, le condizioni di vita sono piuttosto dure. All'instabilità dovuta ai continui cambiamenti di insediamento si aggiunge quella derivante dal conflitto tra un modello di residenza patrilocale (per cui la coppia va a vivere presso la famiglia del marito) e un sistema di discendenza matrilineare (ossia calcolata per via femminile). Al centro dell'interpretazione di Turner vi è l'idea che il simbolismo rituale dei Ndembu abbia la funzione di richiamare e rendere tangibili i valori morali fondamentali della società. I valori connessi ai legami e alle obbligazioni matrilineari, alla fertilità e all'abilità nella caccia, che nella società ndembu hanno un'importanza centrale, vengono evocati nel rituale attraverso una serie di oggetti e di qualità simbolici (ad esempio arbusti e piante, il corpo e i suoi fluidi, i colori) che possono assumere un ampio ventaglio di significati. Secondo Turner, una società costretta a vivere in un ambiente che offre scarse opportunità di seguire un modello ecologico stabile trova le proprie regolarità nei processi biologici e nella natura allo stato selvatico, piuttosto che nei ritmi 'artificiali' del calendario agricolo o della vita stanziale. Una particolare pianta dal cui gambo tagliato stilla un liquido bianco simile al latte diventa un simbolo del seno, della maternità, dei vincoli matrilineari; un'altra pianta dalla linfa rossa evoca il sangue, la caccia, il pericolo; un arbusto che i cefalofi (una specie di antilopi) utilizzano come nascondiglio viene usato nei riti della caccia e nelle tecniche di divinazione per scoprire le cose nascoste (v. Turner, 1967). Un oggetto concreto come il ramo di un albero può essere dotato di significati astratti e indicare per associazione di idee determinati attributi umani o funzioni corporee; può essere mosso da una determinata persona, o posto in relazione con qualcuno o con qualcosa per illustrare un'idea, per suggerire un legame tra persone e concetti, o valori ed emozioni. Gli oggetti e le azioni dei riti ndembu spesso sono piuttosto comuni, ma hanno significati ed effetti alquanto complessi. Turner paragona gli oggetti concreti (i simboli) del rituale alle note di una partitura musicale organizzate in schemi o strutture al fine di evocare idee, atteggiamenti e sentimenti. La polisemia delle note (gli oggetti simbolici) fa sì che i loro significati possano cambiare di volta in volta ed essere associati in modo evocativo e creativo. Gli oggetti simbolici sono come i segnali che un cacciatore incide sugli alberi per indicare il percorso, o come luci nell'oscurità che connettono il noto e rivelano l'ignoto. Le metafore delle tracce incise sul tronco degli alberi e dei segnali luminosi fanno parte del repertorio di immagini usate dai Ndembu per spiegare i loro riti a Turner. In generale, egli non ebbe alcuna difficoltà a ottenere dai membri di questa società spiegazioni dettagliate sul complesso ventaglio di significati e sulle associazioni emotive e cognitive delle loro azioni rituali.
I diversi tipi di riti possono essere classificati in molti modi, ma nessuno schema classificatorio ha incontrato sinora un consenso unanime. Mentre i riti di passaggio che segnano gli stadi e i mutamenti principali nel ciclo di vita (nascita, matrimonio, morte, ecc.) sono identificati quasi universalmente, la classificazione di altri tipi di rito è resa più difficile dal fatto che le motivazioni, gli scopi, gli accenti e le tematiche variano da cultura a cultura. I riti di passaggio che segnano i cambiamenti del ciclo di vita hanno un carattere diverso a seconda di come vengono percepiti e segnalati i processi evolutivi. In alcuni casi le transizioni possono essere considerate e celebrate come processi normali che hanno un andamento ciclico e regolare, mentre in altri sono percepite come momenti di crisi che la comunità cerca di controllare o di risolvere attraverso una risposta rituale. Turner (v., 1957) contrappone così ai riti fissi e prestabiliti i riti 'riparatori', con i quali una società tenta di fronteggiare le situazioni di incertezza e di stress. È questo il caso dei culti di iniziazione dei Ndembu, che rispondono alle situazioni di conflitto e di crisi richiamando e riaffermando i principî e i valori su cui si fonda la società, al fine di suscitare un coinvolgimento emotivo e morale nei partecipanti.
Molti riti possono essere paragonati a una rappresentazione teatrale, alla messa in scena di un'azione drammatica. Un'opera teatrale mira a influire sia emotivamente che intellettualmente sugli spettatori, e lo stesso vale per il rituale. In entrambi i casi, le reazioni degli spettatori variano a seconda degli interessi, dei livelli di attenzione o di distrazione, del grado di istruzione, dell'abitudine alla riflessione, ecc.Sia i riti di passaggio che i riti riparatori richiedono l'allestimento di una scena o di un luogo della rappresentazione, la preparazione di materiali, l'addestramento degli attori, una regia in base alla quale si svolge l'azione. Nell'arena rituale, così come su un palcoscenico, relazioni e rapporti possono essere mostrati o modificati mediante determinati movimenti o contatti, e nuovi significati o associazioni possono essere suggeriti da uno spostamento o da una congiunzione particolari. Un esempio particolarmente interessante a questo riguardo è offerto da un rituale di guarigione dei Ndembu descritto da Turner (v., 1969, cap. 1), il quale dimostra come la struttura drammatica del rituale venga usata per comunicare un complesso di significati attinenti alla sterilità femminile e alla sua guarigione. Il rito in questione, chiamato isoma, viene celebrato quando una donna ha avuto un aborto o non è in grado di concepire, e ha lo scopo di ripristinare l'armonia coniugale, rappacificando in questo modo gli antenati matrilineari che hanno punito la coppia rendendo sterile la donna. Per la rappresentazione del rituale viene scelto un punto del terreno in cui un formichiere gigante ha iniziato a scavare una buca per poi interrompere l'opera - in evidente analogia con la situazione della donna, la cui fertilità ha subito anch'essa un'interruzione. Poco distante viene scavata un'altra buca, che viene collegata a quella del formichiere con un tunnel sufficientemente largo da consentire alla coppia di strisciare da un'apertura all'altra. La buca del formichiere è 'calda' e associata alle forze che hanno causato il male; la seconda buca, situata nei pressi della sorgente di un torrente, è 'fredda'. Successivamente l'arena rituale viene recintata con un bordo di frasche che delimita lo spazio sacro. A questo punto gli anziani raccolgono certe piante che serviranno per preparare medicine 'calde' e 'fredde'. Il marito costruisce per la moglie una piccola capanna in cui verrà reclusa, analoga a quella in cui vengono segregate le fanciulle nell'età puberale: la donna infatti - ed è questo il significato simbolico di questa parte del rito - deve 'riacquistare' la fecondità perduta, così come l'aveva 'acquistata' dopo la cerimonia della pubertà. Nella fase iniziale del rito isoma i divinatori intercedono presso le ombre dei morti in favore della donna, supplicando le forze ostili di restituirle la fertilità. Una zucca contenente le medicine 'calde' è collocata accanto alla buca scavata dal formichiere, mentre vicino alla seconda buca viene posta una zucca con le medicine 'fredde'. Gli sposi sostano presso questa imboccatura 'fredda' del tunnel - la 'fossa della vita' - dove vengono aspersi con i due tipi di medicine; poi strisciano attraverso il tunnel sbucando dall'estremità 'calda' - la 'fossa della morte' o della stregoneria - dove vengono nuovamente aspersi con i due tipi di medicina. Nell'imboccatura 'calda' del tunnel vengono versati il sangue e le piume di un gallo rosso decapitato, che simboleggia il maleficio o la sofferenza della donna e deve essere quindi 'ucciso'. Prima che si cali nel tunnel attraverso l'imboccatura 'fredda', alla donna viene data una pollastra viva di colore bianco che simboleggia la fortuna, la forza, la purezza e i buoni auspici. Essa terrà l'animale sempre stretto al petto, sia quando attraversa il tunnel passando dalla 'vita' alla 'morte', sia quando lo percorre in senso inverso per tornare alla 'vita', emergendo dalla seconda imboccatura scavata nei pressi della sorgente che simboleggia la fertilità, la vita, la freschezza e la salute. Anche senza soffermarci su altri particolari del rito - le proprietà delle piante medicinali, le preghiere e i canti intonati dagli adepti del culto, ecc. -, la struttura narrativa delle azioni simboliche risulta abbastanza chiara: si tratta di un processo di supplica per la guarigione, di purificazione e di rimozione del male, di rinascita e di liberazione attraverso il passaggio dalla vita alla morte. È lecito supporre che i significati simbolici e le esperienze sensoriali nettamente contrastanti della rappresentazione rituale abbiano un forte impatto emotivo sulla coppia (il percorso stretti l'uno contro l'altro attraverso il tunnel, l'aspersione con le medicine 'fredde' e 'calde', il passaggio tra i due estremi della vita e della morte, del basso e dell'alto, il sacrificio del gallo rosso, la pollastra bianca, viva e palpitante che la donna tiene stretta al petto, ecc.). A sottolineare l'idea dei passaggi e dei contrasti contribuisce in parte la stessa arena rituale, che concentra rapporti spaziali e movimenti in un luogo limitato e in un arco di tempo ristretto.
5. La sopravvivenza del rituale nella società industriale
L'importanza del rito nella vita dell'uomo è stata ribadita da alcuni autori contemporanei (v. ad esempio Bell, 1992; v. Douglas, 1970; v. Luhrmann, 1989), secondo i quali attraverso i drammatici rovesciamenti dell'esperienza quotidiana, le prove ordaliche e gli eccessi che li caratterizzano, i riti possono avere effetti significativi sugli atteggiamenti, sulla conoscenza, sui legami di fedeltà, sulla percezione di sé, sull'identità e sulle credenze degli individui. L'impatto psicologico di alcuni riti emerge chiaramente dai commenti degli attori e degli spettatori. Le società che hanno subito radicali trasformazioni sociopolitiche e hanno cercato di abolire i riti per eliminare i valori sorpassati che questi rappresentano - come la Francia e la Russia dopo le rispettive rivoluzioni (v. Lane, 1981) - hanno dovuto constatare che questi continuano a ripresentarsi, o si sono viste costrette a creare nuove forme rituali. Il tentativo di costruire una società priva della dimensione rituale è naufragato di fronte al bisogno di offrire un'istituzione in grado di esprimere e sacralizzare l'ordinamento sociale, di ottenere il consenso sui suoi sistemi di valori e di segnare i passaggi fondamentali del ciclo di vita. I riti continuano a esistere nella società industriale moderna, sia come espressione di una 'religione civile' (v. Bellah, 1967), che associa valori religiosi tradizionali e valori politici, sia nei riti legati alle religioni politiche, che mirano in modo più esplicito ad assicurare il consenso sui fini e sui valori della sfera macropolitica. Come osserva Geertz (v. 1968, p. 7) i riti rappresentano sia un 'modello di' relazioni sociali, sia un 'modello per' tali relazioni. Nonostante le controversie teoriche e i confini incerti del concetto di rito, esso continua a sopravvivere ai suoi detrattori. ( V. anche Credenze e culti; Iniziazione; Magia; Mito; Religione; Religioni primitive; Sciamanesimo).
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