Mito
Riflettere oggi sul mito significa anzitutto riconoscere, e in parte subire, il fascino che la mitologia e il suo immaginario, nel senso più comune della parola, hanno sempre esercitato ed esercitano tuttora su di noi e sulla storia delle nostre conoscenze più recenti: fascino nato da una lettura che non conosce interruzioni e che, dopo gli inizi in Grecia, si nutre di ogni analogia offerta dal corso della storia. In sé il vocabolo 'mito' non è equivoco; ma se lo seguiamo con maggior attenzione nei suoi slittamenti semantici, la sua trasparenza si offusca irrimediabilmente, e ciò induce a un atteggiamento di riflessione che non distoglie certamente l'analisi dei miti dal suo oggetto, ma la invita con fermezza a rendersi conto della complessità del materiale di cui è costituito.
All'inizio del XVIII secolo la mitologia e la sua natura sono oggetto di un dibattito che riguarda gli Amerindi e i Greci, o più precisamente i primi abitanti del Nuovo Mondo e i popoli della prima antichità classica. Il dibattito, avviato fin dal XVI secolo con la scoperta dell'aborigeno d'America, si sviluppa tra Bernard de Fontenelle e Joseph-Francçois Lafitau, che nello stesso anno, il 1724, pubblicano il primo l'opuscolo De l'origine des fables e il secondo il saggio Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs des premiers temps: nasce così una prima etnologia comparata che prende in esame l'attività intellettuale dei primitivi americani e degli antichi attraverso le favole e la mitologia degli uni e degli altri, così singolarmente affini. La somiglianza di forma e di contenuto fra i racconti degli Irochesi e quelli dei Greci di Esiodo porta già a tracciare una sorta di mitologia comparata. Dappertutto e sempre gli uomini inventano favole, ma occorre capire a quale stadio del pensiero esse appartengano. L'originalità di Lafitau consiste nel mostrare la singolare 'conformità' di costumi e di usanze esistente tra i primitivi d'America e gli antichi nelle pratiche di astinenza, nelle modalità di iniziazione, nei gesti del sacrificio o nella forma delle capanne: tutti elementi che configurano un 'insieme di doveri' e una 'religione civile' in cui le pratiche cultuali si dispongono in una funzione pubblica, in un servizio utile alla società. Sul grande corpus di consuetudini che si estende dal Vecchio al Nuovo Mondo sono impressi i segni di una 'religione santa' primigenia: i geroglifici, i simboli e gli emblemi, figure arcane che hanno il compito di dispensare un insegnamento nel segreto delle iniziazioni e dei misteri. Al di là del cristianesimo e della Bibbia Lafitau scopre l'esistenza di una religione, quella dei primi pagani, che è alla base della conformità tra Greci e primitivi. Che cosa sono le favole e la mitologia tra gli aborigeni d'America e i popoli dell'antichità classica? Contrariamente alla religione, la mitologia prolifera con l'ignoranza, si sviluppa con le passioni, appare quando il culto si disgrega. Le favole nascono con la decadenza del primo paganismo: sono idee carnali, ugualmente grossolane e assurde tra i Greci come tra gli Irochesi, idee che segnano la decomposizione del nobile 'insieme di doveri' individuato nelle testimonianze religiose di un mondo primitivo.
Mentre il gesuita Lafitau riconosce all'umanità primitiva le virtù di una 'religione santa' precedente il cristianesimo, l'illuminista Fontenelle, altrettanto interessato a questo singolare prodotto dello spirito umano, non riesce a vedere nelle favole e nella mitologia altro che una medesima ignoranza condivisa inizialmente dal Vecchio e dal Nuovo Mondo. In quelle epoche rozze, che non conoscono ancora il linguaggio della ragione, un'umanità desiderosa di spiegare i fenomeni e il mondo inventa delle favole: la sua ignoranza le fa vedere dei prodigi e la spinge a raccontarsi chimere e strane fantasticherie. Certamente in queste società barbare e infantili - Greci, Irochesi, Cafri o Lapponi - c'è una sorta di primitiva attività filosofica; ma Fontenelle vi scorge solo balbettii e sciocchezze, che hanno ai suoi occhi il grave difetto di 'trasformarsi in religione', quanto meno presso la maggior parte dei popoli.
Mentre Lafitau pone all'origine la religione e ne osserva il degradarsi in favole, l'autore dell'Origine des fables si compiace di vedere in tanti racconti assurdi e insensati le prime forme di quella che diventerà la religione per gli antichi e i barbari di ieri e di oggi. A discolpa dei Greci e poi dei Romani Fontenelle afferma che presso di loro le favole si mutarono in qualcosa di affascinante ed ebbero la fortuna di suscitare dapprima il piacere dell'orecchio e poi quello dell'occhio, grazie alle immagini che ne proposero pittori e scultori. Ciò permette a questo spirito illuminato di giustificare se stesso e i suoi contemporanei, quando contemplano il soggetto mitologico di tante opere d'arte e leggono in molte opere letterarie le favole inventate dagli antichi.
Nel primo Settecento francese la mitologia non ha dunque né una sua collocazione, né una sua identità: nessuna mitologia comparata può nascere da un Fontenelle o da un Lafitau, concordi sul carattere fallace e inconsistente della favola. In quest'approccio sembra che il mito e la mitologia debbano essere visti in relazione a ciò che tra il XVIII e il XIX secolo s'impone all'attenzione generale: la religione, sia nella sua forma istituzionale predominante nel mondo cristiano, sia nella sua problematizzazione, emersa fin dal Cinquecento nel quadro delle guerre di religione e delle prime letture comparate. Solo nell'Ottocento, con la nuova riflessione sul linguaggio, s'inaugura in Europa un approccio alla mitologia come tale. Nei primi anni del secolo una serie di scoperte e di avanzamenti modificano lo status del linguaggio: vengono pubblicati i Veda e nasce la filologia sanscrita, appaiono i primi lavori francesi e inglesi sulle Gāthā e sull'Avesta, e nel 1816 Franz Bopp pubblica in Germania i primi elementi di una grammatica comparata. Sulle orme delle scienze naturali, la comparazione diventa un paradigma, un modello teorico che la nuova scienza del linguaggio estende ad altri oggetti di studio, tra cui il mito e la mitologia.
L'incontro tra mito e linguaggio avviene attraverso la fonetica e lo studio delle sonorità. Suoni, sillabe e radici, resi indipendenti dalle lettere che servono a trascriverli, diventano altrettanti elementi formali le cui modificazioni sono regolate da leggi fonetiche. D'altro lato, emerge l'idea del linguaggio come voce del popolo, della nazione, una voce il cui universo sonoro indica un'attività costante che sembra inseparabile dal movimento e dalla storia. A un livello più profondo, situato alle origini dell'umanità che il sanscrito dei Veda sembra svelare, appare un linguaggio primitivo che è al tempo stesso parola e canto e che ignora l'astrazione e la falsità. Questo linguaggio primitivo, anteriore alle lingue progredite, possiede l'energia e la grandiosità delle espressioni originarie e aderenti alla realtà. In questo nuovo spazio sonoro i miti degli antichi diventano oggetto di un sapere che utilizza la comparazione tra i racconti delle civiltà antiche e quelli delle società primitive di cui poco dopo cominciano a occuparsi i fondatori dell'antropologia.
L'indologo e comparatista Max Müller è il fondatore di una vera scuola di mitologia comparata. Nella sua opera The science of language (1861-1863) egli propone una stratigrafia della parola, distinguendo tre fasi: tematica, dialettale e mitopoietica. Mentre nelle prime due fasi si creano i vocaboli che esprimono le idee più necessarie, e il sistema grammaticale assume una volta per tutte i suoi caratteri specifici, nella fase mitopoietica fa la sua comparsa il discorso mitico, che non è affatto un prodotto cosciente del linguaggio. Secondo Müller, come le strutture grammaticali si formano in silenzio nelle profondità della lingua, così i primi miti emergono come bolle che si rompono alla superficie delle parole e delle frasi pronunziate dall'umanità delle origini. All'alba della sua storia l'uomo è in grado di articolare parole in cui si esprime direttamente l'essenza degli oggetti percepiti attraverso i sensi: le cose suscitano in lui dei suoni che si materializzano in radici e generano i tipi fonetici in base ai quali si forma progressivamente il corpus linguistico. Ma lo spirito umano non conserva a lungo questa facoltà di dare espressione articolata alle concezioni della ragione: dal momento in cui l'umanità cessa di 'risonare' di fronte al mondo, s'insinua nel linguaggio un elemento patologico, e ben presto l'uomo diventa vittima delle illusioni prodotte dalle parole.
C'è nel linguaggio alle sue origini una sorta di attività mitopoietica che permette all'umanità primitiva di essere sensibile al significato originario di vocaboli come 'notte e giorno' o 'mattino e sera', e al tempo stesso di concepirli come esseri potenti e sessualmente caratterizzati. Ma non appena la primitiva essenza dei vocaboli 'notte e giorno' e dei nomi 'Notte e Giorno' si altera e s'offusca, la sfera della rappresentazione è invasa da personaggi mitici: nella terza fase l'umanità si ritrova in preda alle illusioni prodotte da un linguaggio pervaso dallo strano e sconcertante discorso dei miti. Per Müller la mitologia - in primo luogo quella degli antichi - è una malattia del linguaggio. Il linguista, trasformatosi in clinico, scopre nelle favole e nei racconti della mitologia una forma patologica non del pensiero, ma anzitutto del linguaggio e dell'eccesso di senso di cui è stato gravato in un certo stadio del suo sviluppo. Ecco dunque tracciate le vie dell'interpretazione: restano solo da individuare, dietro i grandi racconti mitologici, gli aspetti della natura che hanno colpito l'umanità ai suoi inizi. I miti rimandano dunque, in India come in Grecia, a una visione tragica della natura, in cui le impressioni prodotte dagli uragani e dalle tempeste si alternano a quelle suscitate dallo spettacolo del sole e della luce.
La scienza del linguaggio, divenuta mitologia comparata, smonta i racconti mitici, li scompone, si compiace di rompere le bolle emerse alla superficie delle parole o delle frasi di un'umanità dimenticata. Una delle motivazioni della mitologia comparata è il senso di scandalo che sembra impadronirsi dei nuovi studiosi della condizione umana, gli antropologi degli anni ottanta del XIX secolo: scandalo di fronte ai discorsi osceni e ripugnanti della mitologia, ad esempio di quella greca quando narra l'evirazione di Urano o la morte di Dioniso sbranato e messo allo spiedo. Da Edward Burnett Tylor ad Adalbert Kuhn, da Andrew Lang a Paul Decharme, tutti coloro che si dedicano alla 'scienza dei miti', o alla 'mitologia comparata', sono concordi sulla necessità di spiegare non i racconti meravigliosi dell'umanità primitiva ma le storie selvagge e insensate sull'origine della morte o del Sole, o le vicende degradanti e assurde di cui sono protagonisti gli dei: incesti, omicidi, atti di cannibalismo. Tra il 1850 e il 1890, da Oxford a Berlino e da Londra a Parigi, la scienza dei miti parte dalla constatazione che le mitologie sono piene di invenzioni "di un'immoralità rivoltante", in ogni parte del mondo, certo, ma anche e soprattutto in molte società antiche che pure avevano raggiunto un livello di civiltà elevato. In questo senso di scandalo c'è come un riferimento ossessivo al selvaggio e all'irochese che si celano sotto l'uomo greco o sotto il sacerdote vedico.
La strategia di Tylor è molto diversa da quella di Müller. La prima antropologia si identificava col programma, derivante da Lafitau e Fontenelle, di mostrare la sorprendente concordanza tra le favole degli indigeni americani e quelle dei Greci. La comparazione, nata all'insegna dello scandalo, si estende ora all'insieme dei racconti diffusi tra gli Australiani e i Pellirosse, tra i Boscimani e nelle società antiche. I racconti che ancora oggi l'etnologo può riportare dalle sue spedizioni in paesi lontani non possono essere spiegati come il singolare risultato del fraintendimento di alcune frasi; lo studio dei popoli primitivi delle foreste e delle savane induce a cercare in un'altra direzione, che passa anch'essa per il linguaggio e per il potere che esso aveva, agli albori dell'umanità, di dar nome alle cose, di creare dei suoni e adattarli al senso. Anche qui l'esame di uno stadio primordiale dell'umanità, attestato ancor oggi dai popoli primitivi, permette di comprendere perché inizialmente tutte le lingue siano soggette alla stessa 'arte intellettuale'. Lingua e mito coincidono: è tipico di questa prima epoca dell'umanità, quando si attribuisce a tutta la natura una vita reale e il linguaggio esercita il suo pieno e incontrastato dominio sullo spirito umano. La mitologia si trova allora dappertutto, permea la grammatica, invade la sintassi, prolifera mediante le metafore. Ma questo suo potere vige solo per un certo tempo, quello dell'infanzia dello spirito umano, che con l'evolversi dell'umanità cederà il posto al tempo della maturità, quello della ragione e della filosofia. Nella mitologia si rivela lo stadio primordiale dello spirito: gli antropologi lo osservano in Africa, nelle Americhe, dovunque possono incontrare dei popoli primitivi, ossia quei rappresentanti della specie umana che vivono ancora in una fase di creazione mitica.
Abbiamo così un primo approccio fondante: ai suoi inizi lo spirito umano 'mitologizza' spontaneamente, mito e linguaggio sono concomitanti e testimoniano un primo stadio del pensiero che ha una sua autonomia e che va osservato e analizzato. Tylor afferma l'esistenza di una specie di pensiero mitico, abbastanza ben caratterizzato perché ogni antropologo o storico possa riconoscerlo subito là dove esso appare direttamente o indirettamente: il mito è infatti un prodotto naturale e costante dello spirito umano che reagisce a determinati fatti. Secondo Tylor lo spirito mitologizza in certe condizioni: tesi non troppo lontana da quella che sarà enunciata da Claude Lévi-Strauss negli anni sessanta del nostro secolo, ma con una differenza importante. Per Tylor questo prodotto culturale spontaneo dello spirito reca l'impronta dell'infanzia, della debolezza, e l'arte intellettuale dei miti si rivela una filosofia da nutrici; per Lévi-Strauss, invece, il pensiero selvaggio, che si manifesta allo stato libero nella combinazione dei miti, è un pensiero complesso e ricco di operazioni intellettuali. Certamente esso tende, per esempio in Grecia, a farsi da parte a favore di un pensiero filosofico che va emergendo come condizione preliminare della riflessione scientifica. A cominciare da Tylor la mitologia diventa qualcosa di essenziale per il funzionamento dello spirito umano; e tale rimane ancora oggi.
Gli antropologi non leggono spesso i filosofi, e viceversa; tuttavia è Schelling a pubblicare nel 1856 l'opera più profonda sulla mitologia. Nell'Einleitung in die Philosophie der Mythologie l'idealismo speculativo di Schelling mostra come nella mitologia si manifesti un orientamento originario dello Spirito, una specie di processo necessario della coscienza, estraneo a ogni invenzione: è un'idea che mira a conciliare in una mitologia razionale il monoteismo della ragione e il politeismo dell'immaginazione. In realtà Schelling elabora una teogonia dell'Assoluto, imponendo all'attenzione di Ernst Cassirer e di Marcel Mauss la necessità che un'interpretazione corretta della mitologia imbocchi la via 'tautegorica': il senso del mito sta in ciò che esso racconta, e non altrove.
In Germania, nell'ambito dell'operazione neokantiana di Cassirer, l'opera di Walter F. Otto metterà in luce i valori di epifania e di rivelazione del sacro che caratterizzano, ieri come oggi, il mito. I Greci sono per eccellenza uno di quei 'popoli del mito' che testimoniano ciò che Otto, come altri, chiama "l'esperienza primitiva divenuta manifesta", quella che per lui rende possibile anche il pensiero razionale. Accanto alla via filosofica e spirituale aperta da Schelling occorre indicare un tracciato parallelo, che costituirà uno dei percorsi più frequentati dalla filologia e dallo storicismo: è la via aperta all'inizio dell'Ottocento dallo storico e poeta Karl Otfried Müller. La mitologia è certamente una forma di pensiero segnata dall'ingenuità e dalla semplicità delle epoche primitive, ma viene lentamente modellata dagli eventi e dalle circostanze. Comprendere questo prodotto essenziale dello spirito umano significa ritrovarne il paesaggio primitivo, attingere lo strato più profondo della realtà che ha portato l'intelligenza ad articolare in un racconto originale certe relazioni in forma di azioni, accentrate per lo più intorno a un nome proprio. Per questo storico e viaggiatore romantico quello dei miti è un mondo dimenticato, il cui richiamo alla memoria si compie scoprendo il paesaggio che solo può autenticare il racconto prodotto da un dato territorio. Müller inaugura così un metodo di analisi mitologica che eserciterà un'attrattiva durevole sugli storici e sui filologi classici: si tratta di liberare le favole dalle incrostazioni che col tempo le hanno rese irriconoscibili, per accedere poi - attraverso Pausania o un altro viaggiatore antico che abbia visto e ascoltato di persona - ai racconti indigeni e ricollocarli nel loro ambiente storico e geografico.
Coscienza mitica, pensiero mitico: la sociologia di Durkheim troverà un seguito nella filosofia di Cassirer, alla quale trasmette la forza della sua convinzione. Già nel 1899, agli esordi dell'"Année sociologique", Durkheim enuncia quella che sarà una delle tesi principali delle Formes élémentaires de la vie religieuse: la mitologia (o la religione: Durkheim non le separa) "contiene in sé fin da principio, sia pure in modo confuso, tutti gli elementi che distinguendosi, definendosi e combinandosi fra loro in infiniti modi hanno dato origine alle varie manifestazioni della vita collettiva". Qualche anno dopo, nel 1912, Durkheim ridefinisce la natura della mitologia: essa è il pensiero dei pensieri, il grande involucro, è a un tempo se stessa e più che se stessa. Il pensiero mitico non è più uno stadio del pensiero, né un momento della coscienza dello Spirito: esso ha lo straordinario potere di generare le nozioni fondamentali della scienza e le principali forme della cultura.
Approccio sommario rispetto a quello filosofico di Cassirer, che dedica al pensiero mitico un intero volume della sua trilogia Philosophie der symbolischen Formen. Nella sua analisi, pubblicata nel 1924, il filosofo tedesco sostiene che la coscienza mitica determina un ordine di conoscenza autonomo, rappresenta un particolare modo di formazione spirituale della specie umana. Il pensiero mitico non è né infantile né debole: è una forma originale dello spirito, è un pensiero di 'concrescenza', le cui intuizioni temporali e spaziali sono concrete e qualitative. Il pensiero mitico, sedotto dall'intuizione, è affascinato dalla sfera della presenza sensibile immediata: tutto preso dal contenuto dell'intuizione, ignora la rappresentazione e rimane estraneo all'attività concettuale. L'Io del pensiero mitico, assalito dal desiderio o dal timore di ogni impressione momentanea, balbetta delle differenze, distingue, separa, ma senza mai sottrarsi veramente all'intuizione indifferenziata e originaria. Anche per Cassirer mito e linguaggio sono inseparabili, sono due modalità "di una sola e medesima pulsione verso la creazione di forme simboliche". Mito e linguaggio, ma anche religione: la mitologia unisce in sé le qualità originarie del parlare e del credere. La credenza su cui è fondata l'unità della sua esperienza fa della mitologia un pensiero religioso, o almeno una religione allo stato potenziale; nell'esperienza mitica è già presente per intero la religione. Alla mitologia, coesistente col linguaggio e con la religione, viene attribuita una funzione essenziale nella teoria dello spirito umano: essa è il luogo d'origine di tutte le forme simboliche, in cui sono connesse ab initio la coscienza pratica, la coscienza teorica, le varie modalità della conoscenza, del linguaggio, dell'arte, del diritto, dell'etica, nonché i modelli fondamentali della comunità e dello Stato. Quasi tutte le forme della cultura hanno le loro radici nel pensiero mitico: "Tutte appaiono rivestite e avvolte da una qualche immagine generata dal mito".
Né Durkheim, né Cassirer si dedicano all'interpretazione dei miti sulla base delle proprie riflessioni sul pensiero mitico. Se ne occupano, senza avere le stesse ambizioni teoriche, altri studiosi, ad esempio James George Frazer, che nel 1890 comincia a pubblicare l'opera destinata a diventare The golden bough, amplissima lettura in dodici volumi di miti provenienti da tutti i paesi del mondo, che concede uno spazio privilegiato ai racconti mitici tratti da autori greci e latini per compararli a quelli dei popoli primitivi. L'indagine di Frazer - che mette in risalto tutte le affinità e tiene in poco conto le differenze - procede secondo due orientamenti: da un lato egli privilegia il rituale, cioè i gesti e le pratiche che hanno plasmato durevolmente le culture, l'inconscio sociale, la memoria che è il fondamento delle grandi feste dell'umanità; dall'altro svolge una riflessione sul potere e sui modelli della sua trasmissione, e più precisamente sulle relazioni tra il simbolico e il potere. Proponendosi di dimostrare che le società umane si sviluppano in tre stadi - magia, religione e scienza - Frazer non fa della mitologia il luogo specifico di un pensiero dotato di una sua autonomia.
Ad alcuni storici sociologi, come in Francia Marcel Granet e Louis Gernet, l'analisi dei miti cinesi e greci sembra aprire una via maestra verso la comprensione delle forme di pensiero. I due studiosi condividono l'ipotesi, teorizzata da Antoine Meillet e da Émile Benveniste, secondo cui la lingua veicola nozioni dando forma essa stessa a certe istituzioni, e il vocabolario non è tanto un lessico quanto un sistema concettuale: esso si organizza intorno a nozioni che rimandano a istituzioni, cioè a schemi-guida presenti nelle tecniche, nei modi di vita, nei processi del linguaggio e del pensiero. Granet e Gernet, pur concordi nel vedere nelle istituzioni una specie d'inconscio storico, privilegiano il modo di pensare che essi chiamano talvolta mitico, talvolta mitico-leggendario o mitico-religioso. Sia in Cina che in Grecia il pensiero mitico, depositario delle strutture fondamentali del pensiero antico, può essere colto soltanto attraverso resti, frammenti, tracce di un pensiero unitario e globale testimoniato solo da alcuni miti e non dall'insieme di un corpus accessibile, almeno in Grecia, sotto forme mitografiche. Come nella Cina dei Regni Combattenti, anche nella Grecia arcaica l'indagine degli storici sociologi può scoprire dei dati mitici in cui è depositata buona parte dell'inconscio sociale. Le indagini di Gernet, così nuove tra i grecisti della prima metà del XX secolo, individuano dei dati mitici associati a tradizioni di antiche regalità e di fratrie contadine; per un trentennio quest'autore mette al centro della sua attenta lettura sia le tradizioni della sovranità con le loro immagini di doni, sfide, tesori, prove e sacrifici, sia tutto un substrato rurale di credenze e di pratiche in cui la gente fa baldoria, consuma cibi, si unisce in matrimonio, si affronta in competizioni. La mitologia greca, almeno in quei frammenti, sembra offrire al sociologo l'accesso a una società reale di cui il mito rispecchierebbe l'immagine senza alterarla, mentre propone allo storico dei comportamenti preistorici una riserva di nozioni religiose e giuridiche che si dispiegheranno poi nell'ambito della πόλις.
Per la natura stessa del suo campo di ricerca, il grecista mette in evidenza con la sua indagine la prospettiva comune agli interrogativi sulla mitologia e sul pensiero mitico posti da Tylor, Durkheim e Cassirer. Quando Gernet, nel saggio intitolato Les origines de la philosophie, mostra quanto sia importante definire "gli schemi che le concezioni mitiche, le pratiche religiose e le forme stesse della società hanno potuto fornire alla filosofia esordiente", egli si riferisce esplicitamente al contesto greco. Nella Grecia arcaica, e non in Oceania né in Africa, avviene per gli studiosi occidentali il 'superamento' del mito e del pensiero mitico. Per Tylor, Frazer, Durkheim, Cassirer e per tutti coloro che si volgono verso la mitologia come forma singolare di pensiero, la Grecia è il luogo privilegiato in cui si attua ciò che i grecisti chiamano semplicemente 'il passaggio dal pensiero mitico al pensiero positivo astratto', o addirittura 'dal mito alla ragione'. A cominciare almeno dal XVIII secolo i Greci occupano dunque una posizione strategica, dominando la linea di confine tra favola e religione, tra mito e filosofia. I Greci di Omero e di Parmenide controllano l'angusto varco del superamento del pensiero mitico in pensiero filosofico: si identificano anzi totalmente con questa posizione e con la sua descrizione concettuale. Come filosofo, Cassirer sa meglio di altri quanto i dati e la formulazione del problema siano greci e indissolubilmente legati tra loro.Ancora oggi, nonostante i progressi degli studi comparati sulla Grecia, la Cina e l'India, nessun altro contesto storico e intellettuale sembra offrire così chiaramente e con tanto vigore lo spettacolo dell'emergere di un nuovo pensiero filosofico su uno sfondo di mitologia e di tradizioni mitiche. Né l'antica Cina, né l'India vedica o brahmanica presentano come la Grecia arcaica una contiguità e un successivo distanziamento fra l'enunciazione di grandi miti e la creazione di forme di pensiero astratto o positivo. Vi sono tuttavia delle divergenze d'interpretazione, non solo tra i grecisti che analizzano da presso certe forme di frattura o di continuità, ma anche tra i sociologi, i filosofi e gli antropologi interessati a comprendere certe mutazioni intellettuali. Per Durkheim si tratta di un fenomeno 'generativo' in termini di disvelamento: grazie ai filosofi, in Grecia la mitologia genera un universo di concetti. Da parte sua Cassirer, più attento alle configurazioni locali del pensiero, parla di 'svista' della coscienza mitica e insiste sul superamento e sulla conoscenza: "l'autentico superamento del mito dev'essere fondato sulla sua conoscenza e sul suo riconoscimento".
Superamento, astrazione, emergenza: tre metafore che coesistono fianco a fianco in questa zona di confine. Fin dal 1966 Claude Lévi-Strauss scopre un pensiero mitico avviato verso l'astrazione, un pensiero capace di contemplare con le sue sole forze "un mondo di concetti [...] i cui rapporti si definiscono liberamente", e propone nelle Mythologiques l'elegante formula del 'ritiro': in questa regione di frontiera "la mitologia si ritira a favore di una filosofia che emerge come condizione preliminare della riflessione scientifica".Per Lévi-Strauss, come per Cassirer, lo scenario è più complesso di quello di un semplice superamento o di un discreto ritirarsi: per conoscere la mitologia e riconoscerne l'essenza bisogna possedere la padronanza intellettuale dei Greci, e soprattutto dei filosofi greci che per primi si dedicarono all'interpretazione di questo pensiero 'precedente la filosofia'. Il paradigma greco appare allora così pregnante da indurre Lévi-Strauss, in occasione di alcune interpretazioni di miti greci da lui ispirate, ad affermare che i Greci antichi "sembrano aver sentito e pensato la loro mitologia secondo una problematica assimilabile a quella utilizzata oggi dagli etnologi per cogliere lo spirito e il significato dei miti dei popoli senza scrittura". Il primato dei Greci tocca il suo culmine: la loro cultura offre infatti lo spettacolo di un pensiero mitico che, superando se stesso, accede a una logica delle forme in base alla quale l'uomo greco può cominciare a pensare la propria mitologia in termini di interpretazione. Una volta accettato - da Tylor a Lévi-Strauss - questo paradigma greco, converrà tornare a quegli uomini "pii e saggi" della Grecia delle origini che i fondatori della scienza dei miti indicavano come loro diretti predecessori: Senofane di Colofone e Platone. Per primi essi e i loro simili "hanno cercato di spiegarsi certe credenze che, pur strettamente legate alla religione, sembravano negare e la religione e la moralità". È appunto in questi termini che i contemporanei di Max Müller e di Tylor intendono la mitologia, come un insieme di racconti visti come credenze e oscillanti tra religione e irreligione. Si direbbe che i moderni imitino gli antichi, trovando nei loro atti le ragioni più valide per definire anch'essi certi racconti come miti e il loro complesso come mitologia, o addirittura come pensiero mitico.Per dirla in breve (riservandoci di tornare in seguito sull'argomento, a proposito dei metodi di analisi), può darsi che sia inevitabile credere, come fa Lévi-Strauss all'inizio del suo lungo e mirabile viaggio, che "un mito è sentito come tale da ogni lettore in tutto il mondo", ma forse non è inutile mostrare - ai lettori che siamo noi tutti - come la categoria del mito si sottragga presso gli stessi Greci a qualsiasi definizione semplice e positiva, quale vi sarebbe da attendersi da parte di coloro che per primi intrapresero una riflessione sulla propria mitologia.
Abbiamo accennato poc'anzi al fatto che l'interpretazione dei grandi racconti della tradizione comincia con i primi filosofi nel VI secolo a.C. Per esaminare l'interpretazione ai suoi inizi - almeno nell'antica Grecia - occorre anzitutto delimitarla rispetto all'esegesi. Quest'ultima è il commento che una cultura elabora di continuo sul proprio simbolismo, sui propri gesti, sulle proprie pratiche, su tutto ciò che la costituisce come un sistema in atto. L'esegesi si sviluppa dall'interno, è un discorso che alimenta la tradizione di cui fa parte, mentre l'interpretazione nasce quando c'è una prospettiva dall'esterno, quando in una società qualcuno comincia a discutere, a criticare la tradizione, a prendere le distanze dalle storie della tribù. Richiamare l'attenzione altrui su ciò che è universalmente recepito e accettato può assumere almeno due forme. Quella più ristretta si manifesta nella prosa di coloro che nel V secolo a.C. saranno chiamati 'logografi', e che già da un secolo dispongono nel nuovo spazio della scrittura i racconti e le storie tradizionali, dalle genealogie alle grandi epopee. Ma contemporaneamente a questa presa di distanza discreta e silenziosa, nata dal semplice atto dello scrivere, si fa strada un'altra forma più ampia, operante attraverso nuove conoscenze inscindibili dalla scrittura, come la prima filosofia di Senofane o il pensiero storico concettualizzato da Tucidide: conoscenze che mettono radicalmente in discussione una tradizione denunziata come inaccettabile o non più credibile, nel suo senso immediato o addirittura in ogni possibile significato.
Nel corso dell'interpretazione viene elaborata una nuova nozione di mito (μῦθος) e prende forma con i suoi caratteri specifici l'immagine della mitologia, nel senso del termine greco μυθολογία. Nel periodo compreso tra il VI secolo a.C. e l'inizio del IV, una serie di riferimenti permette di definire il modo in cui si organizza il territorio assegnato al μῦθος. Verso il 530 Senofane condanna senz'appello, in nome della filosofia esordiente, il corpus dei racconti - anche quelli di Omero e di Esiodo - riguardanti i titani, i giganti, i centauri: narrazioni scandalose in cui viene messo in scena, a proposito di divinità o di personaggi superumani, tutto ciò che nel mondo degli uomini è oggetto di onta e di biasimo: rubare, commettere adulterio, ingannarsi a vicenda. Senofane respinge tutti i racconti tradizionali di questo genere, attribuendo loro un duplice statuto: si tratta di invenzioni, di favole (πλάσματα), oppure di racconti barbari, di storie "degli altri" (fr. 14-16 Diels). Il termine μῦθος però - che dal tempo dell'epopea fa parte del lessico - non viene ancora adoperato per designare quei discorsi "degli altri" che la filosofia, appena nata ma già pronta a scandalizzarsi, denunzia così clamorosamente. Tuttavia all'incirca nello stesso periodo appare un significato nuovo di μῦθος, attestato da un frammento di Anacreonte di Samo. Tra il 524 e il 522 i ribelli samii insorti contro la tirannide di Policrate sono chiamati μυθιῆται: si tratta, come spiegano i grammatici antichi, dei faziosi, dei fomentatori di disordini o forse, più esattamente, di coloro che tengono discorsi sediziosi (fr. 21 Gentili). Contrapposto all'εὐνομία, alla legalità sostenuta da Policrate, il μῦθος denota la rivoluzione, la στάσις. Questo sviluppo semantico, di cui ci informa la testimonianza cronachistica di Anacreonte, si andrà definendo nel corso del V secolo nel lessico di Pindaro e di Erodoto, in cui il termine μῦθος, usato peraltro con discrezione, finisce con l'indicare semplicemente il discorso "degli altri" in quanto illusorio, inverosimile e insensato. In opere come gli epinici di Pindaro o le Storie di Erodoto, che sembrano lasciare ampio spazio a ciò che saremmo tentati di chiamare 'miti', le occorrenze del vocabolo μῦθος si contano sulle dita di una mano: tre nel corpus pindarico (Nemee, VII, 23; VIII, 33; Olympiche, I, 29) e due nei nove libri di Erodoto (II, 23,45). Quando Pindaro canta l'elogio di un vincitore dei giochi, pronunzia un λόγος; il mito si manifesta invece quando emerge la parola illusoria, la πάϱϕασις (Nemea, VIII, 32). Il μῦθος nasce con la diceria e cresce con i racconti ingannevoli, con le parole svianti, che seducono ma fanno violenza alla verità. Modellato come una statua di Dedalo, il μῦθος si riconosce dal suo corredo di menzogne variopinte: un'apparenza che falsa ciò che è degno di fede e tradisce indegnamente il manifestarsi dell'essere. Ma si tratta sempre dei racconti "degli altri", di coloro che hanno attribuito ingiustamente a Ulisse la fama meritata da Aiace o che ripetono la storia scandalosa del festino di Tantalo, in cui gli dei avrebbero mangiato avidamente le carni di Pelope tagliate a pezzi.
Erodoto fa la stessa distinzione: i suoi racconti sono sempre e soltanto 'discorsi', λόγοι, e anche quando accenna a tradizioni di particolare sacralità egli parla solo di λόγοι ?εϱοί, sacri. Questi famosi discorsi sacri, che noi siamo abituati a interpretare come miti (tanto più che si tratta spesso di tradizioni riferibili ad azioni e a gesti rituali), non sono mai μύθοι. Per Erodoto si è invece nel mito quando si pretende di spiegare le piene del Nilo con l'immensità di un fiume Oceano che scorrerebbe intorno alla Terra: questa è infatti pura fantasia, che esclude ogni forma di argomentazione e non lascia spazio all'indagine empirica. È un mito anche quello secondo cui il re d'Egitto Busiride avrebbe pensato di sacrificare Eracle: racconto sciocco e assurdo, perché gli Egiziani, i più pii fra gli uomini, non avrebbero nemmeno concepito una simile empietà.Parlare di mito è un modo per designare lo scandalo, per segnalarlo; μῦθος è una parola-gesto molto comoda, sufficiente a denunziare la stupidità, la finzione e l'assurdità e a smascherarle rapidamente. Ma il 'mito' non è ancora altro che una località, un sito lontano, indicato vagamente: perché arrivi a designare un discorso o una forma di sapere più o meno autonoma bisognerà aspettare gli ultimi anni del V secolo, quando tenderanno a diventare μύθοι sia i racconti degli antichi poeti, sia ciò che nel frattempo avranno scritto i logografi. Uno dei luoghi in cui avviene questa frattura è l'opera di Tucidide, che delimita il campo del sapere storico e ne definisce il territorio concettuale isolando il favoloso, il μυθῶδες; a sua volta quest'ultimo acquista, insieme ai propri limiti, un suo dominio specifico costituito da un diverso modo di raccontare e di memorizzare.
I logografi mettevano per iscritto le storie della tribù; Erodoto intendeva dare alla πόλις una nuova raccolta di memorie; Tucidide vuole invece costruire un modello dell'azione politica, una conoscenza del futuribile in cui lo storico concepisce se stesso come l'ideale del capo politico. Il suo intento non è di raccontare ciò che è accaduto, ma di attingere la verità di un discorso efficace, fatto di ragioni così ben disposte da costituire il mezzo migliore per agire nell'ambito della πόλις, oggi e in futuro. Tuttavia una storia del presente, come La guerra del Peloponneso, deve affrontare i problemi della memoria e della tradizione orale, e lo fa nel quadro di ciò che si suole chiamare 'archeologia', procedendo alla critica dei racconti tramandati a voce. La memoria è fallibile, ha dei vuoti, e per di più interpreta, sceglie e ricostruisce; essa è tanto più fragile quanto più i tempi sono agitati, il prodigioso prolifera e ogni cosa diventa credibile. Agli occhi di Tucidide tutto ciò che circola oralmente, le ἀϰοαί, è fondamentalmente erroneo, per mancanza di spirito critico da parte di chi racconta o riferisce avvenimenti occorsi, in un passato più o meno lontano, anche nel proprio paese, dove sarebbe facile informarsi, verificare e correggere la narrazione. La memoria tradizionale è ritenuta colpevole di accogliere i preconcetti e di trasmettere, nella sua credulità, fatti non controllati che vanno a ingrossare il flusso del favoloso. Nel processo intentato alla tradizione orale i poeti e i logografi compaiono sul banco degli accusati: le dicerie, i preconcetti che già appartengono all'inverosimile non sono assolutamente più credibili quando i poeti ne fanno dei racconti, aggiungendo agli eventi bellezze che li nobilitano, o quando i logografi mettono insieme idee preconcette più per compiacere l'orecchio che per stabilire la verità. Con Tucidide la separazione è netta: da un lato la tradizione, che continua a esprimersi nelle recitazioni pubbliche e nelle declamazioni fin nel tardo V secolo, dall'altro la scrittura, sicura di sé, che rifiuta il piacevole e il meraviglioso e intende rivolgersi solo al lettore silenzioso e solitario. L'autore della Guerra del Peloponneso è convinto che tutto ciò che è oggetto di trasmissione orale devia immancabilmente verso il favoloso, riducendo così l'efficacia di un discorso la cui azione politica è invece rafforzata dalla scrittura.
c) La mitologia della πόλις in Platone
Parallelamente e contemporaneamente a Tucidide, il sapere totalizzante della filosofia platonica procede in modo ancor più rigoroso a isolare ciò che Platone e i suoi contemporanei riuniscono sotto il nome di 'mitologia' e 'archeologia'. La critica radicale che la Repubblica muove, attraverso i poeti e gli autori di λόγοι, a tutta la tradizione riguarda soprattutto la natura mimetica della mitologia: le sue modalità espressive, con i loro aspetti ritmici e musicali e i loro formulari, rispondono alle esigenze della memorizzazione e della comunicazione orale, ma sono per il filosofo il segno infallibile della loro appartenenza al mondo multiforme e variegato di ciò che lusinga la parte inferiore dell'anima, il regno appartato in cui si scatenano passioni e desideri. Il discorso della mitologia non è soltanto scandaloso (nella Repubblica c'è tutto un catalogo di racconti osceni, selvaggi e assurdi), ma è anche pericoloso, per gli effetti illusori che la comunicazione orale implica quando non è sorvegliata e controllata. Tuttavia - differenza notevole rispetto a Tucidide -, mentre è facile nella città ideale interdire la memoria antica esiliando i poeti e censurando i racconti tradizionali, per riformare la πόλις in crisi secondo il programma platonico è necessario plasmare, inventare una mitologia nuova e diversa, una bella menzogna utile, capace di far compiere a ognuno, spontaneamente, tutto ciò che è giusto. C'è in Platone, specialmente nelle Leggi, un'analisi intuitiva e puntuale di ciò che costituisce una 'tradizione': la diceria, che va dai discorsi malevoli ripetuti da altri ai detti ispirati dagli dei, gli oracoli e gli elogi che creano le grandi reputazioni; le genealogie in continuo divenire; i racconti di fondazione delle città; le antiche storie, a cominciare da quelle di Deucalione e di Foroneo; i racconti delle nutrici, i proverbi, le massime, tutto ciò che continua a essere detto e a ottenere il consenso generale. Appena liberata dalla memoria antica, la nuova πόλις si sforza di ritrovare l'intima unità della tradizione. Una società, anche se concepita e governata da filosofi, ha bisogno infatti di ciò che solo può darle una coesione: un sapere condiviso e implicito grazie al quale - nelle Leggi (664a) si insiste su questo punto - la comunità possa esprimere lungo tutto l'arco della sua esistenza, nei canti, nei racconti e nelle storie, un unico sentire.
All'inizio del IV secolo, sotto l'azione concomitante di due tipi di sapere, quello storico e quello filosofico, ciò che era designato con circospezione come mito è scomparso, passando a far parte di un nuovo scenario indicato col nome di 'mitologia', in cui si andrà dispiegando l'attività scrittoria di mitografi ormai professionali.Senza dubbio i fondatori della scienza dei miti avevano buone ragioni per riconoscere in Senofane e nei sapienti dell'antica Grecia i promotori di una separazione che essi, uomini di scienza del XIX secolo, si limitavano a ratificare: troviamo infatti anticipato in Platone e in Tucidide quel senso di scandalo da cui Müller e Lang vengono colti quando appare loro chiaro che il linguaggio della mitologia è quello tipico di una mente in preda a una temporanea follia. Ma la perspicacia degli artefici della nuova scienza ha un suo rovescio, perché nessuno di essi (e nessuno dei loro successori del XX secolo) si è accorto della singolarità di una nozione come quella di mitologia, che - nata da antichi atti di separazione - continua a suscitare gli interrogativi più svariati.
Platone dà una valida definizione di che cosa sia la tradizione nel senso più comune del termine: è ciò che si ritiene vero, che si tramanda oralmente, che proviene dagli antichi. Tutto ciò che si trasmette e che appare credibile da sempre, egli lo chiama 'mitologia'; e di essa indica in Grecia sia i 'raccoglitori', cioè Esiodo e Omero, sia quelli che chiama i 'curiosi', gli amatori che vanno alla ricerca delle antiche tradizioni. In effetti tra i Greci la messa per iscritto dei racconti e della tradizione è avvenuta gradualmente e seguendo percorsi ramificati, mentre in altre società essa ha potuto compiersi improvvisamente e produrre effetti singolari sulla forma di storicizzazione, o addirittura sul passaggio a un sapere storiografico.
La messa per iscritto delle tradizioni in Giappone costituisce un caso limite. Nell'VIII secolo d.C., nel giro di dieci o quindici anni, si ha in questo paese una serie di cambiamenti, di fratture e di inizi fondamentali: nasce un potere centrale che si dà una capitale stabile, impone leggi scritte, decreta censimenti, catasti, nuovi modi di misurare il tempo, e infine nomina due commissioni per mettere per iscritto "i fatti e i racconti del passato". Sebbene il Giappone si affermi in contrapposizione alla Cina, la scrittura delle sue tradizioni (cosmogonie, storie degli dei e dei primi sovrani) avviene in due maniere distinte, l'una autoctona e l'altra cinese: in questa fase iniziale, infatti, la Cina domina nettamente il Giappone con la sua lunga esperienza di amministratori colti e di redattori di annali. La prima stesura scritta delle tradizioni viene fatta in giapponese nel Kojiki (Memorie dei tempi antichi), compilato da un funzionario di medio rango che mette per iscritto ciò che recita o legge un personaggio privo di una posizione a corte. Dopo la sua redazione il Kojiki viene depositato a quanto sembra in uno scrigno, dove rimane fino al XVIII secolo, quando riappare come forma di opposizione alla supremazia culturale cinese. La seconda stesura scritta, nota col nome di Nihonshoki (o Nihongi, Annali del Giappone), è invece opera di letterati cinesi. Formatisi nella cultura annalistica, essi narrano la storia del paese del Sol Levante fino al più recente passato, ma al tempo stesso hanno cura di registrare in tutte le loro varianti i racconti mitici. Mentre il Kojiki vuol essere un'opera chiusa, che circoscrive la tradizione evitando date e riferimenti al Giappone del suo tempo, la redazione cinese si presenta come un'opera aperta, con avvenimenti datati e orientati verso il futuro di una società che si dà degli annali e intende custodirli. Nel Nihonshoki i segni della storicizzazione della tradizione sono forti e ripetuti e sottolineano l'originalità della stirpe imperiale di ascendenza divina; si preferisce partire dal presente e colmare il tempo che separa questo presente dalle origini con eventi storici autenticati da date. Nasce una nuova forma di storicità contemporaneamente a un sapere storiografico, alla maniera cinese.
Un altro esempio di passaggio alla scrittura è offerto da una popolazione della Melanesia: qui la stesura per iscritto, agendo più lentamente e per vie non istituzionali, trasforma in profondità i racconti orali, conferendo loro un diverso status e procedendo direttamente verso una storicizzazione intenzionale. Presso i Canachi della Nuova Caledonia, come più o meno dappertutto in Oceania, i grandi o piccoli racconti hanno una realtà e un senso solo in quanto sono detti, recitati, salmodiati o declamati con forza in determinati luoghi e in contesti appropriati. La forma narrativa specifica di questi racconti non è adatta a una notazione scritta, tanto che essi, una volta che siano stati colti e fissati nella scrittura, non sono più riconosciuti dalla gente del racconto, che non esita a rifiutarli. Le autorità coloniali di un tempo, che prendevano accuratamente nota dei racconti ascoltati a proposito di diritti contestati o rivendicati, erano profondamente scandalizzati da questo fatto, e non senza motivo. Ed ecco che negli anni trenta del nostro secolo alcuni etnologi introducono nella Nuova Caledonia, insieme ai loro costumi moderni, l'usanza di scrivere, anche su se stessi o a proposito di se stessi: antica prassi delle culture occidentali cattoliche e protestanti, diffusa qui da missionari protestanti che sono anche etnologi, come Maurice Leenhardt. Attratti o convertiti da questi visitatori di pelle chiara, alcuni melanesiani prendono l'abitudine di annotare i loro racconti e le loro storie e cominciano a redigere dei 'quaderni di mitologia', facendo passare così i loro miti da un'enunciazione locale a una leggibilità generale: questi 'intellettuali' indigeni, mettendo insieme parole che fino allora avevano avuto solo valore deittico, costituiranno nel corso degli anni una prima mitologia comune, centrata su coloro che sono chiamati ormai Canachi. Impegnati nel movimento indipendentista, i nuovi mitografi cominciano negli anni settanta a plasmare l'identità del loro popolo, unificato dal movimento di decolonizzazione: sotto l'influsso carismatico di Jean-Marie Tjibaou, questi melanesiani mettono in evidenza i grandi temi della loro tradizione e creano ex novo un personaggio mitico autoctono, Kanaké, l'uomo originario, rappresentante primordiale di tutti i Canachi. Viene così inventata, in pieno XX secolo, una storia per metà mito e per metà memoria.
Tradizioni, oralità e scrittura: dall'esame di un gran numero di società si può vedere come un modo di fissare le tradizioni più vincolante che non la memoria o i supporti pittografici trasformi in misura più o meno grande ciò che viene trasmesso. Da questo punto di vista la scrittura è un fenomeno assai più complesso di quello che ci appare a prima vista.Non sembra che agli inizi della sua storia la Cina abbia costituito dei grandi archivi di racconti. Le prime scritture cinesi che formano una parte essenziale della tradizione antica servono a registrare informazioni relative ai sacrifici e a interpretarle in funzione di un complesso sistema divinatorio. In seguito, un modo di scrivere più elaborato viene messo al servizio del potere imperiale per redigere gli annali, ma sempre secondo le procedure e la mentalità proprie di questa attività divinatoria così pregnante: non per nulla i primi annalisti sono chiamati 'indovini' e discendono direttamente dagli 'scribi delle divinazioni'. Comunque scrivano, però, gli annalisti sono inseparabili dalle corti signorili o imperiali e si dedicano ad annotare minuziosamente, giorno per giorno, i fatti e le imprese del signore o del sovrano, come pure altri avvenimenti casuali: singolarità di una storia evenemenziale che intende accertare ciò che ogni evento può rivelare circa il senso dell'evoluzione generale del mondo, e al tempo stesso il senso che ciascun evento può ricevere da tale evoluzione.
Roma presenta un altro scenario, in cui si pongono contemporaneamente questioni di tradizione, di mitologia e di scrittura basata su un certo modello del tempo. Gli studiosi della storia della Roma arcaica si chiedono perplessi se i grandi miti di questa città siano implicitamente sistemati all'interno di alcune tradizioni orali e figurative o siano invece contenuti, come alcuni ritengono, nella tradizione annalistica più antica. La singolarità di Roma e della sua tradizione sembra consistere nella volontà di mettere per iscritto gli avvenimenti importanti della comunità politica, e in questo è determinante il ruolo svolto nella sfera pubblica da sacerdoti-magistrati come i pontefici, dotati di libertà di movimento e di iniziativa. Al principio di ogni mese, sul Campidoglio, essi annunziano pubblicamente e ad alta voce le none, che precedono di nove giorni le idi; quest'annunzio ufficiale provoca l'intervento del rex sacrorum, il secondo personaggio della gerarchia religiosa romana, al quale spetta indicare in occasione delle none tutti gli eventi religiosi del mese. A questa autorità sul tempo a venire si assomma nei pontefici una competenza sul tempo trascorso: sono loro a custodire la memoria di certi fatti o eventi occorsi, come spedizioni militari, successi e insuccessi, sacrifici esemplari, prodigi di ogni genere, segni inviati dagli dei. Alla fine dell'anno il pontefice massimo ha l'abitudine di notificare su una tavoletta affissa a un muro della sua dimora gli avvenimenti salienti dell'anno, una specie di rapporto sullo stato delle cose fra gli dei e gli uomini. Quest'attività in parte rituale e in parte storiografica dei pontefici, esercitata al momento del passaggio tra due mesi lunari o tra due anni civili, sembra aver aperto la strada agli scritti dei primi annalisti e poi degli storici come Tito Livio. A Roma ha dunque inizio, senz'alcun riferimento alla tradizione o ai 'racconti dei tempi antichi', un'operazione storiografica destinata ad avere successo: raccontare, nel bene e nel male, i grandi avvenimenti della nazione.Nel contesto romano la storia scritta non è certamente in relazione diretta col mito: tuttavia, sebbene la mitologia appaia estranea agli inizi di Roma, e i racconti su tali inizi poco espliciti, alcuni analisti attenti, e particolarmente Georges Dumézil, hanno rintracciato nelle opere di Tito Livio e di altri storici certi modelli mitici che improntano di sé la narrazione delle gesta eroiche e la storia dei grandi personaggi del mondo romano.
All'inizio del nostro secolo gli etnologi (soprattutto gli americanisti, come Franz Boas) nel raccogliere i miti autoctoni hanno registrato alcuni racconti di tono prevalentemente storico. Lévi-Strauss ha rilevato che il corpus mitologico dei popoli senza scrittura si presenta per lo più sotto due forme contrastanti, e cioè o come coacervo di brani disparati, ognuno dei quali conserva la propria individualità, o come sistema di racconti concatenati e orientati verso una specie di passato prossimo. Da una trentina d'anni sistemi di questo secondo tipo vengono utilizzati direttamente dagli Indiani del Nordamerica per rivendicare i loro diritti su alcune terre (baia di James, provincia del Québec, Columbia britannica) e all'interno di una storia che culmina nell'incontro con gli invasori bianchi. In questo contesto di mitologie dell'identità nasce tra gli Indiani istruiti - come tra i Canachi o nel mondo africano - una letteratura in cui ai grandi racconti obbligati se ne mescolano altri scelti per convalidare rivendicazioni territoriali, economiche o politiche. È questo un terreno particolarmente adatto per confrontare tra loro i diversi modi di fare storia e per accostarsi a forme di storicizzazione nuove, inedite rispetto a quelle a noi familiari della storia occidentale. Lévi-Strauss ha studiato gli effetti di ciò che egli chiama "degradazione del mito in storia": sparizione dei racconti sulla creazione del mondo e sulle attività illusionistiche del trickster, apparizione di avvenimenti che, pur distribuiti in diacronia, servono a fondare il nome, il rango, le prerogative del personaggio che assume il posto centrale nella storia, una storia scritta sulla base delle tradizioni orali di più famiglie i cui antenati hanno vissuto all'incirca gli stessi avvenimenti.
Per chi osservi attentamente i modi di scrivere le tradizioni in Grecia è evidente oggi che nella Grecia arcaica nulla testimonia a favore di quella 'grande separazione' di cui Erodoto o altri dovrebbero costituire la prova inconfutabile. Coloro che ben presto saranno chiamati logografi - quelli cioè che mettono per iscritto discorsi e racconti - redigono genealogie, intraprendono indagini non ordinate dalle città e possono anche, come Ecateo di Mileto, dedicarsi occasionalmente alla comparazione tra le varie versioni di uno stesso racconto, ma non per questo approdano senz'altro alla registrazione di un passato sentito come radicalmente separato dal presente: il distacco critico nei riguardi di certe tradizioni non significa l'ingresso trionfale in una nuova forma di storicità. Per quanto importanti e numerosi, i mutamenti nella vita sociale dei Greci non sono bastati a far nascere un pensiero storico capace di organizzare quell''assenza-presente' che è il passato della comunità. Certamente in Grecia il principale ostacolo al riconoscimento di una separazione tra passato e presente è Omero: l'epopea ha rappresentato per molto tempo, e ancora per Tucidide, la memoria e il racconto del passato, un passato eroico per le gesta indimenticabili degli uomini di un tempo. Per i Greci l'epopea omerica incarna sia la mitologia, sia la storia dei tempi antichi: Platone trova in Omero la silloge di miti più nota, e ai poemi omerici si rifà Tucidide quando vuole ricostruire uno stadio di civiltà anteriore al tempo presente, che egli giudica il solo meritevole dell'attenzione dello storiografo. Per lo sviluppo del pensiero storico uno degli atti decisivi è costituito dal programma di Erodoto: separare il più nettamente possibile la storia degli dei da quella degli uomini, lasciare a Omero e a Esiodo il passato eroico mescolato alle storie degli dei, e far cominciare la propria indagine dalle guerre persiane, dalle "grandi e meravigliose imprese compiute sia dai barbari che dai Greci". È questa la prima frattura tra un passato prossimo diverso dal presente e le tradizioni mitiche ed eroiche, lasciate a Omero ed Esiodo.
Tra il 1958 e il 1964 Claude Lévi-Strauss effettua - da principio nella sezione di Scienze religiose dell'École Pratique des Hautes Études - una lettura radicalmente nuova dei racconti mitici. Alcuni interpreti frettolosi ne vorranno esprimere in poche formule la filosofia implicita, che, nata dalla voga strutturalista, diventerà quasi subito d'ostacolo a una riflessione sui metodi di quest'analisi del tutto nuova di racconti ben noti. L'ignoranza e la vanità di coloro che nella confusione innalzeranno il vessillo del post-strutturalismo aggraveranno il malinteso, così che oggi è preferibile parlare dei metodi di analisi dei miti anziché impantanarsi nei dibattiti sul segno o sul testo.
Pensiero mitico, pensiero selvaggio; la mitologia intesa nella sua universalità è per Lévi-Strauss un insieme di forme della tradizione orale prodotte dallo stesso spirito, "uno spirito che si rifiuta di accettare una risposta parziale e aspira a spiegazioni che abbraccino la totalità dei fenomeni". Da un lato c'è lo spirito messo di fronte a un problema, dall'altro c'è il modo di procedere: concepire quel problema come omologo di altri problemi che si pongono su piani diversi (sul piano cosmologico, fisico, giuridico, sociale, morale, ecc.) e spiegarli tutti insieme. Questa prima definizione del mito insiste sulla pluralità dei piani, dei livelli di significato, senza però fermarsi alla diversità dei contesti da analizzare. Essa non esclude un'altra definizione, che Lévi-Strauss avrebbe fatto volentieri propria, data da un narratore indiano d'America: "Una storia dei tempi in cui uomini e animali non erano ancora distinti". Un 'prima', una condizione cosmogonica, un racconto che precede gli inizi, senza fissarsi in discorso prima della filosofia. Vi sono dunque due maniere d'intendere la mitologia e, a quanto pare, di analizzarla: come un sistema di rappresentazione che va sempre al di là del genere narrativo per un suo aspetto particolare, oppure come un genere narrativo, un ambito organizzato secondo certe modalità di espressione. È sembrato prevalere quest'ultimo modello, con l'idea - così presto accolta e condivisa senza riserve - che 'il mito è linguaggio', che un mito deve scomporsi in mitemi, ossia in unità distinte che un'analisi semiotica dei miti ricondurrà direttamente a una grammatica narrativa. Ci è sembrato, come abbiamo detto prima, che la scommessa iniziale delle Mythologiques - "un mito è sentito come tale da ogni lettore in tutto il mondo" - potesse essere accettata, purché non si cadesse nel tranello del genere narrativo e dei mitemi di un metalinguaggio naturale (secondo la formula di A.J. Greimas).
In realtà, dopo le esperienze semiotico-linguistiche sembra aver prevalso la prima maniera d'intendere la mitologia, grazie ai metodi d'analisi sviluppati da Lévi-Strauss a partire da La geste d'Asdiwal fino agli ultimi libri di argomento mitologico, La potière jalouse e Histoire de Lynx. Possono aiutarci a definire questo tipo d'analisi tre concetti - 'relazione', 'trasformazione', 'contesto' - che comportano tre principî: 1) i termini considerati isolatamente non sono mai portatori di un senso intrinseco, ma il senso consegue dalla maniera in cui essi si contrappongono, emerge da una relazione; 2) analizzare un mito equivale a studiare i rapporti di trasformazione tra le sue differenti versioni, come pure tra il mito in esame e miti affini, il che significa che né una sola versione né una sintesi di più versioni costituiscono un oggetto di studio adeguato; 3) (ma forse questo terzo punto potrebbe essere in realtà il primo in una forma 'modesta') questo tipo di analisi richiede la conoscenza del contesto etnografico, un contesto indipendente dalla materia mitica in sé e aperto a tutto l'insieme degli oggetti, dei valori, delle istituzioni che formano la cultura della società in cui vengono narrati i miti scelti dall'analista. Piante, animali, usanze, dati geografici, sistemi ecologici, fenomeni astronomici, tecniche, tutto deve conoscere, quasi fosse un enciclopedista indigeno, il lettore-decifratore di miti: si tratta infatti di riconoscere, al di sotto di particolari a volte curiosi e a volte appena rilevabili, la pluralità dei livelli di significato che compongono lo spessore del racconto mitico. Vegetali, animali, cibi, tecniche di caccia e di pesca, calendari astronomici: tutte le componenti di una cultura devono essere utilizzate dall'analista, e all'interno di tutte le società che la comparazione tra miti affini o contrastanti lo induca a esplorare. Contrariamente all'idea che se ne fanno coloro che non l'hanno né praticata né compresa, l'analisi strutturale dei miti vuol essere al tempo stesso conoscenza del concreto e sperimentazione delle strutture intellettuali, in combinazioni locali o di portata più vasta. Conviene dunque lavorare su più livelli di significato: su ognuno di essi certe proprietà latenti vengono per così dire estratte da una sfera di esperienza e permettono di compararla con altre sfere.
Una simile analisi è combinatoria, ma non è detto che sia interminabile. Come ogni interpretazione, anche l'analisi strutturale dei miti pone a se stessa dei vincoli e dei limiti: in primo luogo quelli di una cultura, se questa, con la ricchezza dei suoi miti e delle versioni che si riecheggiano l'un l'altra, offre all'analista un terreno abbastanza vasto per consentirgli di ricostruire un milieu semantico organizzato e di dare un'articolazione a elementi che sembrano far parte di uno stesso contesto. Senza dubbio questo metodo arricchisce i miti, anziché impoverirli riducendoli a poche contrapposizioni scheletriche. E se l'indagine si limita, per propria scelta, a considerare una data società, c'è da sperare che restringendo il campo della comparazione a una costellazione di miti e alle loro differenti versioni essa trovi un maggior numero di differenze e di distinzioni possibili e arricchisca la cultura in questione con un nuovo insieme di relazioni qualitativamente diverse.
Un'analisi di questo tipo, attenta alle corrispondenze tra i vari livelli semantici e decisa ad aprire ogni racconto mitico ad altre tradizioni o ad altri racconti affini, non si accontenta di scoprire qua e là dei meccanismi concettuali, ma suggerisce che le storie mitiche si trasmettano trasformandosi le une nelle altre. L'ipotesi del 'mitico' introdotta da Lévi-Strauss permette forse di superare l'idea che il pensiero mitico pensi se stesso. Supponiamo che ogni storia raccontata sia opera di un solo individuo: non appena uscita dalle labbra del primo narratore, essa entra nella tradizione orale, o almeno subisce la prova della trasmissione orale da parte di altri individui. Per spiegare in che modo una storia diventa 'indimenticabile', Lévi-Strauss propone una distinzione tra livelli strutturati e livelli probabilistici: i primi, fondati su basi comuni, rimarranno stabili, mentre i secondi, che dipendono dal consenso, risulteranno quanto mai variabili in relazione alla personalità dei successivi narratori. In altri termini, nello sviluppo di quello che si affida alla memoria ciò che appartiene in proprio al singolo narratore - il suo modo di aggiungere o di sopprimere certi particolari, di amplificare certi episodi o di ometterne altri - non avrebbe la stessa natura di ciò che permette a una storia di radicarsi nella tradizione, una tradizione che la produce e di cui essa diventa a sua volta produttrice. Nel corso della trasmissione orale, lungo la catena continua dei narratori, i livelli probabilistici si scontrano fra loro, si logorano e fanno emergere progressivamente dall'insieme del discorso quelle che si potrebbero chiamare le 'parti cristalline', ossia ciò che dà a un racconto tradizionale una struttura più regolare o ciò che conferisce a una storia una più vasta portata simbolica. Come Lévi-Strauss scrive nel finale dell'Homme nu (1971), "le opere individuali sono tutte potenzialmente dei miti, ma è la loro adozione a livello collettivo ad attualizzare eventualmente il loro mitismo".
Riconoscere nel mitico uno dei fenomeni più importanti del processo di fissazione nella memoria all'interno delle culture della parola significa cominciare a mettere tra parentesi l'idea del mito come genere letterario o come racconto di un tipo determinato, significa scoprire la varietà delle produzioni affidate alla memoria: proverbi, racconti, genealogie, cosmogonie, epopee, canti d'amore o di guerra. Sono tanti registri diversi - tra i quali ogni società è libera di scegliere quelli da teorizzare - esposti tutti al lavorio della variazione nella ripetizione e a uno stesso processo di decantazione. Come è illusorio, in questa prospettiva, postulare il riconoscimento immediato di un mito in quanto tale, così la mitologia di una società non coincide sempre e senz'altro con ciò che sembra essere la sua mitologia, e nemmeno con ciò che talvolta quella società considera nel proprio intimo 'mitologia'. L'analista strutturale in cerca del dato concreto che gli permetterà di accedere ai vari livelli di significato di racconti appartenenti spesso a generi molto diversi sa benissimo che un proverbio, la cantilena di una nutrice, un episodio di un rito sacrificale sono spesso elementi essenziali per capire nei particolari una storia divenuta esemplare o per costruire lo schema concettuale che metterà in luce le articolazioni tra due versioni di uno stesso racconto.
Platone, grande studioso dell'uomo, è perfettamente consapevole di quanto sia esteso il campo di ciò che va chiamato 'mitologia': e questo anche in Grecia, dove la mitologia diventa una categoria come insieme dei racconti sugli dei e sugli eroi per opera di coloro che saranno chiamati 'mitografi' e che compongono raccolte di questi racconti separandoli dagli altri detti tradizionali. Poiché proprio nel mondo greco ha origine questa categoria, converrà insistere sulla coesistenza nella patria di Platone e di Pindaro di due tipi di mitologia: una mitologia-quadro e una mitologia-sapere. La prima è il sistema di pensiero che viene rivelato (o meglio ricostruito) dall'analisi strutturale, l'involucro più o meno complesso che ingloba l'intera cultura greca con le sue credenze, le sue pratiche e i diversi tipi di racconti, dei quali i poemi di Omero e di Esiodo sono soltanto le sillogi più note. Per contro la mitologia-sapere, elaborata dai 'teologi' greci, occupa l'area compresa tra i primi logografi o storici e gli autori delle opere mitografiche riunite verso il 200 d.C. nella Biblioteca attribuita ad Apollodoro, che testimonia la ricchezza culturale della mitologia nella società greca nel corso di sette o otto secoli.Quanto più si svilupperanno questi metodi di analisi dei miti, tanto meglio comprenderemo certi meccanismi mentali sottostanti alla 'competenza culturale', cioè a quel complesso di rappresentazioni che un individuo deve possedere per pensare e agire come membro di una società; e tanto più gli antropologi interessati alle culture politeistiche scopriranno la complessità nascosta dei sistemi di divinità e delle rappresentazioni di potenze soprannaturali spesso sovrapposti nelle architetture dei miti o dei grandi 'racconti indimenticabili' di molte società.
(V. anche Cosmologia; Tradizione).
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