CRISTO
Per la narrazione della nascita, della vita e morte, dei miracoli e della parola di C., cardine della fede cristiana, i testi-base sono costituiti dai quattro vangeli, libri destinati a perpetuare il kérygma primitivo degli apostoli. Le prime elaborazioni dottrinali su Gesù e la sua opera sono invece le opere di s. Giovanni (oltre al Vangelo, le Epistole e l'Apocalisse) e, in maniera più sistematica, i testi di s. Paolo (Epistole) e di uno dei suoi discepoli, l'anonimo autore dell'Epistola agli Ebrei, opera che nel Medioevo fu generalmente considerata autografa di s. Paolo; elementi importanti della cristologia degli apostoli si trovano anche in altri scritti del Nuovo Testamento.Sulla base dell'insegnamento apostolico la Chiesa dei secc. 2°-5° elaborò il dogma cristologico rimasto come fondamento del cristianesimo; quest'opera di elaborazione dottrinale, iniziata dai Padri apostolici (l'autore della Didaché, l'Epistola di Barnaba, il Pastore di Erma, Clemente I, Ignazio di Antiochia) e dagli apologisti dei secc. 2°-3° (Giustino, Melitone di Sardi, Ireneo di Lione, Tertulliano, Origene, Clemente di Alessandria), fu perfezionata dai grandi autori dell'epoca classica della patristica (Atanasio di Alessandria, Ilario di Poitiers, Cirillo di Gerusalemme, Gregorio Nazianzieno, Gregorio di Nissa, Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino, Cirillo di Alessandria e Leone Magno). Gli elementi essenziali del dogma cristologico furono poi formulati nelle dichiarazioni ufficiali della Chiesa in occasione dei concili ecumenici di Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431) e Calcedonia (451) e riassunti nella professione di fede di Nicea.Già negli scritti neotestamentari vengono riferiti a Gesù nomi e appellativi che definiscono l'aspetto teologico della sua persona e della sua missione, taluni dei quali utilizzati da lui stesso; fondamentali per il dogma cristologico sono gli appellativi che lo designano come Salvatore promesso da Dio nell'Antica alleanza: Messia o C. (gr. ΧϱιστόϚ), l'Unto inviato da Jahvè (Mt. 16, 16; 16, 20; Mc. 8, 29; Lc. 4, 16-21; 4, 41; 24, 26; Gv. 1, 41; 4, 25; 11, 27), appellativo che divenne in seguito suo nome proprio; Figlio di Dio (Mt. 16, 16; Lc. 23, 46; Gv. 1, 49; 10, 24-38; At. 9, 20; Gal. 2, 20), Figlio di Davide (Mt. 9, 27; 21, 9; 22, 41-46; Lc. 1, 32; At. 2, 29-36), Figlio dell'Uomo (Mt. 26, 24; Mc. 8, 31; 9, 31; Gv. 3, 14; 12, 23; 12, 34; Ap. 1, 12-16); Servitore sofferente di Jahvè (Mt. 12, 17-21; At. 3, 13; 4, 27); Agnello offerto in sacrificio a Dio (Gv. 1, 29; At. 8, 31-35; 1 Pt. 1, 19; Ap. 5, 6-14; 7, 9-14; 22, 1); Nuovo Adamo (Rm. 5, 12-21; 1 Cor. 15, 45-49).Il termine Lógos, Verbo (Gv. 1; 1 Gv. 1, 1), sottolinea la divinità di C. e il fatto che egli è incarnazione della parola di Dio, mentre gli appellativi di Pietra angolare (Mt. 21, 42-45; At. 4, 11; Ef. 2, 20; 1 Pt. 2, 6), Testa del corpo (Col. 1, 18; Ep. 1, 22-23) e di Sposo (Mc. 2, 19-20; Gv. 3, 29; 2 Cor. 11, 2; Ef. 5, 25-32; Ap. 21, 2; 21, 9) descrivono il rapporto intercorrente tra Gesù C. e la sua Chiesa. Nel Vangelo di Giovanni è C. stesso a proporre simboli e allegorie per spiegare meglio il senso della sua venuta nel mondo e il suo messaggio: egli è la Luce (8, 12 e 12, 46), la Via (14, 6), la Porta (10, 9), l'Acqua viva (4, 14 e 7, 37), la Vite (15, 1), il Pane vivente (6, 51), il Buon Pastore (10, 11).Secondo la fede cristiana, C., vero Dio e vero uomo, partecipa di due nature, la divina e l'umana, entrambe riunite in una persona (unione ipostatica), quella del Figlio di Dio, seconda persona della Trinità, che preesisteva nell'eternità al fianco del Padre. Per salvare l'umanità decaduta, egli venne in questo mondo e nacque, in quanto uomo, da Maria, una vergine della stirpe di Davide. Crocifisso, risuscitò e salì al cielo; il suo regno è eterno.C. esercita un triplice potere nei confronti dell'umanità: è re (Mt. 25, 34; Gv. 18, 37) che legifera (Mt. 28, 20) e che giudica (Mt. 25, 31-46; Gv. 5, 22; 2 Co. 5, 10) e il suo potere è totale e universale (Mt. 28,18); è sacerdote che, offrendo se stesso in sacrificio, ha riconciliato l'umanità con Dio divenendo l'unico mediatore tra la terra e il cielo (Eb. 8-9; Clemente I, Ep. ad Cor. I, 16ss., PG, I, coll. 239-242; s. Ambrogio, De fide, III, 1, PL, XVI, coll. 590-591); infine è profeta che ha predetto la propria morte, la propria risurrezione e l'affermarsi sulla terra del regno di Dio (Mt. 12, 38-40; 16, 21; Gv. 12, 32-33; Mt. 13, 24-51) e ha insegnato la dottrina del Padre che lo ha inviato (Gv. 7, 16-18; 8, 18).Nel Nuovo Testamento e, in seguito, nella letteratura cristiana dei primi secoli, due sono le categorie utilizzate per descrivere l'opera di C. e per esaltarne la figura: la vittoria e la gloria. Avendo subìto il supplizio sacrificatorio della croce, C. ha conseguito la vittoria sulla morte, sul peccato e su Satana (1 Cor. 15, 12-27; 15, 54-56; Col. 2, 15; Eb. 2, 14; Leone Magno, Sermo LIX, PL, LIV, coll. 337-342); da ciò deriva la gloria che lo circonda (Eb. 2, 9; Giovanni Crisostomo, Hom., 2, PG, LI, coll. 31-40). La doxa Christi, annunciata da lui stesso (Mt. 24, 30; 25, 31; Mc. 8, 38), si manifesta già nel momento pasquale della risurrezione e ascensione (Lc. 24, 26; At. 1, 9-11; 1 Tm. 3, 16) e si manifesterà compiutamente al momento del suo ritorno e dell'avvento del suo regno escatologico (1 Pt. 5, 10; Ap. 21-22). Le dossologie dell'Apocalisse (5, 13; 15, 3-4), che riassumono questa idea, costituiscono uno dei cardini del culto liturgico di Cristo. In connessione a questo aspetto tropaico e dossologico dell'opera di C. è l'assimilazione frequente della sua figura a quella dell'imperatore: lo scettro o lo stendardo di C.-imperatore diventa allora la croce (Minucio Felice, Octavius, 29; Tertulliano, Adv. Iudaeos, X, PL, II, coll. 665-678; Gregorio Nazianzieno, Oratio VII, 12-13, PG, XXXV, coll. 770-772).Fin dall'epoca apostolica, tema essenziale della predicazione della Chiesa fu la fede in C. risorto; la sua vita storica non rappresentava che un tema secondario e poco sviluppato nelle narrazioni evangeliche, ma a partire dal sec. 2° i vangeli apocrifi iniziarono a colmare questa lacuna e, ispirandosi a pie leggende e a differenti tradizioni letterarie, aggiunsero nuovi dettagli alla storia terrena di C., nota fino ad allora unicamente attraverso i vangeli canonici. Nonostante non siano mai stati inclusi dalle autorità ecclesiastiche nel novero dei libri ispirati, gli apocrifi del Nuovo Testamento ebbero vasta diffusione e contribuirono largamente a determinare l'idea complessiva che i credenti ebbero della vita di C. e la loro influenza non si limitò solo agli ambienti popolari. Verso il 170, nel Diatessáron, Taziano riunì le quattro narrazioni evangeliche in un solo racconto ininterrotto. La sua opera, ben conosciuta in tutta la Chiesa grazie a numerose traduzioni, diede inizio a un nuovo genere della letteratura religiosa, le c.d. armonie evangeliche.Il concilio di Calcedonia segnò il termine del periodo formativo del dogma cristologico. Gli autori della fine dell'epoca patristica (secc. 6°-8°) si adoperarono per meglio definire alcuni punti della dottrina - come, per es., la relazione tra la natura umana e quella divina nella persona di C. - ed elaborarono le prime grandi sintesi (Leonzio di Bisanzio, Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia, Beda). Essendo ormai definito il dogma, i teologi orientarono la propria attenzione sugli aspetti della cristologia che rivestivano un interesse particolare nel contesto morale, sociale e politico dell'epoca, o su alcune questioni che non apparivano sufficientemente sviluppate nell'opera dei Padri della Chiesa. In epoca carolingia, la teologia elaborata dagli ambienti vicini al potere centrale, riprendendo peraltro in ciò alcune idee dell'epoca costantiniana (Eusebio di Cesarea), insistette sull'idea di C.-re, modello dell'imperatore posto a capo dell'ordine terrestre (Alcuino, Ep., 121, Bibliotheca rerum Germanicarum, VI, Berlin 1873, p. 493; Cathwulf, Ep. ad Carolum, ivi, IV, Berlin 1867, pp. 336-341).Una grande svolta si produsse con la nuova presa di coscienza nei confronti del tema dell'umanità di Gesù Cristo. L'incarnazione, dogma già molto approfondito dagli ultimi Padri, divenne progressivamente il motivo dominante della cristologia medievale, in particolare di quella occidentale dei secc. 11°-14° (Anselmo d'Aosta, Pietro Abelardo, Pietro Lombardo, Tommaso d'Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Giovanni Duns Scoto). Il dibattito verteva principalmente sulla modalità dell'unione delle due nature della persona di C. e sul ruolo svolto dalla natura umana negli atti del Salvatore. Se le formulazioni precise di questi problemi si modificarono nel corso dei tempi, una verità dogmatica di carattere generale andò sempre più affermandosi, emergendo rafforzata dalle discussioni: quella della pienezza della natura umana di C.; giacché la riparazione per l'offesa fatta a Dio non poteva che venire dall'uomo in quanto tale, libero nella sua capacità di azione e radicato nel genere umano. Il Medioevo latino intese l'umanità di C. in una prospettiva storica e psicologica dell'uomo e approfondì la questione del legame intercorrente tra l'incarnazione e la redenzione: questa rivalutazione dell'umanità di C. si accompagnò a mutamenti considerevoli nell'insegnamento dogmatico della Chiesa, nella sua pedagogia e nella spiritualità dei credenti. A partire dal sec. 11°, il culto di C.-uomo divenne infatti il tema principale della pietà cristiana (Giovanni di Fécamp, Pier Damiani), mentre il sec. 12° vide il riaffermarsi e l'approfondirsi della dottrina della presenza reale del corpo (caro) di C. storico nell'eucaristia; in seguito il quarto concilio lateranense formulò nel 1215 il dogma della transustanziazione e sempre nel sec. 13° nacque il culto di C. eucaristico con la celebrazione, a partire dal 1264, della festività del Corpus Domini. Questa nuova prospettiva della cristologia si manifesta in una vasta produzione letteraria che ha per soggetto la vita terrena del Salvatore. Pietro Comestore (Historia scholastica) pose la venuta di C. nel mondo nel contesto della storia del genere umano, colmando le lacune della Scrittura con i dati forniti dai Padri, dagli storici antichi e dai geografi. Una prima vita di C. che supera lo schema delle armonie evangeliche è quella redatta dal certosino Ludolfo di Sassonia (m. nel 1378; Vita Iesu Christi a quatuor evangeliis); segnata dalla pietà dell'autore e dalla sua volontà di scoprire l'aspetto umano nell'opera del Salvatore, essa ebbe un grande successo ed esercitò una forte influenza sul pensiero religioso della fine del Medioevo.A partire dall'inizio del sec. 13° si sviluppò e si diffuse in Europa un nuovo genere letterario dedicato alla vita di C. e, in particolare, alla sua passione, assunta in qualche caso a unico oggetto di meditazione. Queste opere, all'inizio relativamente brevi (pseudo-Anselmo, Dialogus beatae Mariae et Anselmi de passione Domini; Meditatio in passionem et resurrectionem Domini), andarono particolarmente ampliandosi, sviluppando il tema della passione, presentata spesso in modo estremamente realistico. Le Meditationes Vitae Christi, opera francescana della fine del sec. 13° (in cui la narrazione della passione risulta tributaria del pensiero di Bonaventura), la Vita beatae Virginis Mariae et Salvatoris rhytmica, poema della Germania meridionale del sec. 13°, e il Christi Leiden in einer Vision Geschaut, testo tedesco del sec. 14°, costituiscono gli esempi più rilevanti di questo genere letterario. L'ultimo dei testi citati inaugura i racconti della passione, assai numerosi nel sec. 15°, in cui abbondano le crude descrizioni delle sofferenze e dell'umiliazione di Cristo. La kénosis divenne alla fine del Medioevo l'idea dominante del pensiero cristologico.
La complessità della figura di C., così come è stata presentata dalla Chiesa, è sfuggita ai mezzi figurativi propri delle arti visive; solo gli episodi narrativi della sua vita riportati dalle fonti letterarie canoniche o alcuni altri aspetti particolari della dottrina cristologica, come per es. quello dei poteri di C., si prestarono alla rappresentazione. L'essenza della fede in C., ossia la sua dimensione divina e soteriologica, si collocò di fatto al di fuori della portata dell'arte: i teologi, gli ideatori e gli artisti ne furono ben coscienti; lo provano sia gli scritti dei Padri della Chiesa che prepararono il movimento iconoclasta sia alcuni commenti scritti che accompagnarono l'immagine di Cristo. Nell'Evangeliario della badessa Hitda, eseguito in uno scriptorium di Colonia intorno al 1000 (Darmstadt, Hessische Landes- und Hochschulbibl., 1640, cc. 6v-7r), l'iscrizione che precede la figura di C. in maestà sottolinea l'opposizione tra l'immagine visibile e l'invisibilità di Dio: "Hoc visibile imaginatum figurat illud invisibile verum".Nonostante queste difficoltà, le rappresentazioni cristologiche ebbero un ruolo privilegiato, già a partire dal sec. 3°, nella decorazione di domus ecclesiae e di catacombe. Malgrado l'ostilità dimostrata verso le immagini da alcuni ambienti ecclesiastici, il loro uso fu sancito dai Padri della Chiesa, che ne sottolinearono l'utilità per la catechesi (Basilio il Grande, Hom., XVII, 3, PG, XXXI, coll. 487-490; Hom., XIX, 2, ivi, coll. 507-510); l'Occidente latino, pragmaticamente, vide anzi nelle immagini un mezzo per istruire gli illetterati (Paolino di Nola, Carm., XXVII, PL, LXI, coll. 648-663; Gregorio Magno, Ep., XI, 13, PL, LXXVII, col. 1128); al centro di questo vasto progetto pedagogico, non potevano mancare le rappresentazioni di C., centro della fede; era però necessario elaborare temi e formule iconografiche in grado di evocare gli elementi fondamentali del dogma cristologico. Questa operazione fu intrapresa fin dagli inizi dell'arte cristiana: lo provano le più antiche immagini di C., che testimoniano la stretta connessione tra il soggetto della rappresentazione e la sua collocazione. Questo conferma che i temi rappresentati nelle immagini di C. erano interpretati in maniera fedele dal punto di vista teologico ed è proprio in funzione di questa interpretazione che esse venivano scelte per decorare un determinato spazio cultuale: per es., le scene dei miracoli di C. e l'immagine allegorica del Buon Pastore nelle catacombe riproponevano il tema della salvezza offerta da Cristo.Risalgono ai secc. 4°-5° alcune formulazioni fondamentali dell'iconografia di C., sviluppate sino alla fine dell'età romanica; la complessità iconografica di alcune di queste formule, così come il numero considerevole delle loro varianti, permette di comprendere la ricchezza degli insegnamenti di carattere dottrinale che le immagini di C. erano tenute a trasmettere. Per arrivare a decifrare questi significati è necessario riferirsi ai dati della cristologia, alla funzione delle rappresentazioni e al loro contesto iconografico. Poche e limitate sono le fonti letterarie conservate che possono spiegare direttamente le immagini di C. e le loro particolarità iconografiche dal punto di vista dottrinale, ma esse giustificano l'approccio che tende a scoprire nelle rappresentazioni del Salvatore le idee fondamentali del dogma. Guglielmo Durando (Rationale divinorum officiorum, Venezia 1568, I, 3), verso il 1286-1296, per chiarire l'immagine del C. in maestà (Maiestas Domini), utilizza termini che traducono la nozione della presenza eterna e trascendente la realtà terrena per definire una delle proprietà principali del Figlio di Dio.Lo scarto tra il linguaggio dell'arte e il carattere eminentemente spirituale della fede in C. non rimase senza conseguenze per la vita della Chiesa: già nel sec. 4° alcuni Padri, pur accettando la presenza di temi cristiani nella decorazione delle chiese, si schierarono contro l'idea di rappresentare Cristo. Si trattava senza alcun dubbio della raffigurazione di C. isolato, che divenne in seguito il soggetto di icone. Secondo Gregorio Nazianzieno (Hom. II in Pasch.), il corpo del Salvatore è inseparabile dalla sua natura divina e, come tale, non può essere reso con i mezzi della pittura. L'argomento fu ripreso in seguito dagli iconoclasti: una immagine di C. riproduce solo la sua natura umana e perciò mette in discussione l'unione ipostatica. L'iconoclastia (726-787, 815-843), come movimento religioso e sociale, era diretta contro il culto delle immagini e si proponeva di difendere la purezza della religione; dal punto di vista teologico, essa si basava sull'idea della non trasmissibilità del divino attraverso il visibile, secondo una prospettiva che risaliva all'Antico Testamento e che proibiva ogni rappresentazione di Jahvè (Es. 20, 4; Dt. 27, 15). Risulta sintomatico della presa di posizione degli iconoclasti il fatto che una delle prime manifestazioni di questo movimento fosse la distruzione, nel 726, dell'icona di C. posta sulla porta della Chalké del palazzo imperiale di Costantinopoli. Agli iconoclasti la teologia iconodula replicò che tutte le cose create da Dio sono in realtà immagini del mondo invisibile e che proprio attraverso di esse lo spirito può elevarsi verso Dio. Allo stesso modo C., che ha acquisito il corpo umano, rivela sotto questa forma la verità relativa a Dio e, parallelamente, la sua rappresentazione dipinta diviene mezzo per la conoscenza della natura divina del Salvatore; C., nella veste di immagine di Dio, è allora da collocarsi al vertice della gerarchia di tutte le immagini (Giovanni Damasceno, Contra imaginum calumniatores orationes, I, 21-22; PG, XCIV, coll. 1251-1256). Secondo questa dottrina, il fenomeno della somiglianza unisce strettamente l'immagine e il suo prototipo. I difensori più strenui del culto delle immagini giunsero fino ad affermare che la rappresentazione del Salvatore partecipa in una certa misura dell'originale (Niceforo, Antirrheticus, I, 24; PG, C, coll. 259-262) e che la divinità è già presente nell'immagine di C. (Teodoro Studita, Antirrheticus, I, 12; PG, XCIX, coll. 341-344).Questa concezione dell'immagine di C., all'origine della teologia dell'icona nella Chiesa greca, non ebbe seguito nel pensiero latino. La Chiesa occidentale concepì infatti, come si è detto, l'immagine come strumento pedagogico - alcuni testi accentuano proprio l'idea che la rappresentazione di C. conduce alla visione oculare del Signore, la quale risveglia nello spirito del fedele l'amore per il Salvatore - ma tralasciò di trattare dell'immagine in termini ontologici (Prudenzio di Troyes, Sermo de vita Maurae; PL, CXV, coll. 1369-1376).Si trassero in questo modo conseguenze pratiche dalla dottrina neoplatonica secondo la quale, attraverso le forme visibili, lo spirito umano si eleva alla contemplazione delle verità invisibili. Tutta una corrente della teologia latina, basata sul pensiero dello pseudo-Dionigi, si dedicò allo sviluppo di questa idea (per es. Ugo di San Vittore) e presiedette certamente all'elaborazione di numerosi programmi iconografici imperniati sulla persona di Cristo. Ne è testimonianza per es. una delle iscrizioni della patena e del calice di Wilten, dell'ottavo decennio del sec. 12° (Vienna, Kunsthistorisches Mus.), dove un articolato complesso di immagini vetero e neotestamentarie è riunito intorno all'idea della salvezza in C.: "Hic quodcumque vides res signat spirituales".Negli anni dell'iconoclastia si ebbe in Oriente l'interruzione pressoché totale dell'attività degli artisti nel campo della rappresentazione della figura umana. In Occidente, le idee iconoclaste ebbero invece solo un'eco parziale nei Libri Carolini del 791 e si concretizzarono probabilmente in alcune imprese isolate, come quella di Teodulfo d'Orléans, che, intorno all'806, nell'abside del suo oratorio di Germigny-des-Prés fece rappresentare l'arca dell'alleanza, soggetto considerato dallo stesso Teodulfo - supposto autore dei Libri Carolini - più consono di una immagine antropomorfa di Dio per la decorazione di una chiesa.Le fonti canoniche non descrivono l'aspetto fisico di C.; nei secc. 3°-4° si determinarono coesistendo due diverse versioni tipologiche della sua figura, dapprima quella di un uomo giovane, imberbe (per es. nel sarcofago detto della figlia di Giairo, dell'inizio del sec. 4°; Arles, Mus. Lapidaire d'Art Chrétien), e, in seguito, quella di un uomo maturo, barbato, dai lunghi capelli ricadenti sulle spalle (Roma, catacomba di Commodilla, cubicolo nr. 4, della seconda metà del sec. 4°). Nel corso dei secc. 5°-6° si diffuse e affermò il secondo tipo, che si costituì come immagine canonica, peraltro difficilmente assimilabile a qualsiasi altra figura umana: è la raffigurazione di un uomo dai tratti regolari, dall'espressione calma e soave ma al tempo stesso grave (per es. S. Caterina sul monte Sinai, icona del C. Pantocratore, del sec. 6°). Il tipo del C. giovane non scomparve però del tutto; fu infatti adottato negli ambienti che si ispiravano direttamente alla tradizione antica, come per es. le botteghe di lavorazione dell'avorio dell'inizio dell'età carolingia (Oxford, Bodl. Lib., Douce 176, piatto di legatura) e, in periodo romanico, presso gli scultori del Midi francese (Tolosa, Saint-Sernin, rilievo di C. in maestà).Il tipo canonico del volto di C. fu ripreso nelle repliche del mandilio e ciò contribuì alla sua diffusione, giacché questo - l'immagine acheropita di C. inviata al re di Edessa dallo stesso Gesù, secondo la leggenda di Abgar - godeva di un prestigio particolare. L'apparizione nel sec. 6° delle prime repliche di questa reliquia coincise con il crescente culto dell'immagine di C., rispondendo all'esigenza dei fedeli di conoscere il vero aspetto del Salvatore. Il mandilio, trasferito da Edessa a Costantinopoli nel 944, fu costantemente copiato e nemmeno la sua sparizione nel 1204 interruppe la produzione di repliche, il cui esempio più antico, forse del sec. 6°, è conservato nella cappella Matilde nei palazzi Vaticani. Un'altra reliquia determinante per la persistenza di questo tipo iconografico del Salvatore fu quella della Veronica, il telo sul quale C. avrebbe lasciato l'impronta del suo volto durante la salita al Calvario; questa, conservata in Vaticano dall'inizio del sec. 13° al 1527, era largamente conosciuta in Occidente grazie a innumerevoli repliche. Il C. del mandilio e quello della Veronica rappresentavano essenzialmente lo stesso tipo fisionomico.
Secondo Jean Beleth, teologo e liturgista del sec. 12° (Rationale divinorum officiorum, 85; PL, CCII, col. 89), C. deve essere rappresentato in tre maniere: sulle ginocchia della Madre, sulla croce e assiso sul trono; questi tre generi di rappresentazione, già conosciuti da Gregorio Magno (Ep., IX, 52; PL, LXXVII, coll. 991), corrispondevano ai tre grandi temi dogmatici della cristologia insegnati dai Padri - l'origo, la passio e la glorificatio, secondo la formulazione successiva di Bonaventura nel suo Lignum vitae (Prologus, 2) - e si accordavano anche con alcune pratiche religiose del Medioevo (Prudenzio di Troyes, Sermo de vita Maurae; PL, CXV, coll. 1369-1376). La produzione artistica superò di fatto largamente questo genere di considerazioni teoriche e l'iconografia di C. si distinse per una notevole ricchezza di formule e per la complessità dei contenuti teologici.La più antica immagine di C. destinata a trasmettere un messaggio dottrinale diretto fu la rappresentazione del Buon Pastore, i cui primi esempi sono databili alla prima metà del sec. 3° (Roma, catacomba di Domitilla, cubicolo del Buon Pastore); essa illustrava una delle più importanti allegorie utilizzate da C. stesso e traduceva l'idea dell'amore di Dio per l'uomo, fondamento principale della salvazione. Questa immagine, assai frequente nei secc. 4°-5°, scomparve progressivamente dal repertorio dei temi cristologici e nel Medioevo ebbe solo un ruolo marginale. Per la maggior parte le raffigurazioni di C. nei secc. 4°-5° ebbero invece diretta continuità nell'iconografia medievale o giunsero comunque a influenzarla indirettamente attraverso trasformazioni successive. Queste immagini denotano il grande sforzo prodotto nell'epoca costantiniana e nel secolo seguente per proporre i temi principali della cristologia tramite adeguate formulazioni del linguaggio visivo.Una delle prime formulazioni fu quella del Christus victor, con la figura di C. che calpesta gli animali mostruosi descritti in Sal. 91 (90), 13; essa forniva l'interpretazione messianica del salmo, presentando C. come vincitore sulla morte, sul peccato, su Satana e sull'Anticristo. Raffigurato in una prima fase come retore o filosofo togato (Gerona, Sant Feliu, sarcofago degli inizi del sec. 4°), questo tipo di C., a partire dal sec. 5°, venne frequentemente rappresentato come un guerriero abbigliato con tunica corta, mentre porta sulla spalla una croce-trofeo: è il caso del rilievo in stucco nel battistero degli Ortodossi a Ravenna (450 ca.). Il tema della vittoria proprio di questa immagine fu ulteriormente rafforzato dalla figurazione di C. con l'armatura e assimilato all'imperatore o a un capo militare: un esempio è il mosaico della cappella del palazzo Arcivescovile di Ravenna (od. Mus. arcivescovile; 500 ca.). Le due versioni, di C. con la veste lunga e del guerriero, coesistettero nel Medioevo: tra i vari esempi si ricordano la legatura dei Vangeli di Lorsch, dell'810 ca. (Roma, BAV, Mus. Sacro), e il reliquiario di Saint Hadelin, della seconda metà del sec. 11° (Visé, collegiata di Saint-Martin). A partire dal sec. 13°, il C. che calpesta gli animali mostruosi fu spesso rappresentato come il Salvatore risuscitato, parzialmente nudo, che mostra le sue piaghe e gli strumenti della passione (Pistoia, pulpito di S. Andrea di Giovanni Pisano); al tema della vittoria si aggiunsero così quelli della passione e della risurrezione.Il potere profetico di C. fu rappresentato a partire dall'epoca costantiniana con l'immagine del Salvatore seduto, docente, circondato dagli apostoli, anch'essi seduti (Roma, catacomba di Domitilla, cubicolo degli Apostoli); questa scena, ispirata all'antico tema iconografico del filosofo accompagnato dai suoi allievi, ebbe ampio favore nella scultura dei sarcofagi, nella decorazione a mosaico e nelle arti suntuarie del 5° secolo. Nel Medioevo essa non fu ripresa testualmente, ma contribuì alla genesi di diverse versioni dell'immagine di C. seduto e accompagnato da santi (per es. le pitture murali della navata sinistra di S. Maria Antiqua a Roma, del 757-767).Intorno alla metà del sec. 4° si determinarono le prime immagini direttamente connesse con il tema della regalità: C. raffigurato frontalmente, in trono, con ai piedi un simbolo della dimensione cosmica del suo regno (Caelus), affiancato dagli apostoli Pietro e Paolo (talvolta seguiti da altri discepoli) che, come senatori o alti funzionari dell'impero, erano raffigurati stanti, leggermente discosti dal sovrano e spesso in un gesto di acclamazione. Questa scena, ispirata all'iconografia imperiale della liberalitas Augusti e del congiarium, la distribuzione di liberalità e di donativi da parte dell'imperatore, aveva quale ulteriore, più preciso soggetto C. nell'esercizio del suo potere: il Salvatore consegna in effetti un rotulo all'apostolo Pietro (Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte, sarcofago nr. 174). Poco dopo (360-370 ca.) andò consolidandosi una seconda versione dell'immagine del potere regale di C., che è raffigurato ancora frontalmente, affiancato da Pietro e Paolo, nell'atto di consegnare a Pietro un rotulo; ma in questo caso il Salvatore è in piedi, nel gesto dell'adlocutio, e su di una sfera celeste o sul colle del paradiso. Questa scena, detta Traditio legis o Christus legem dat (la definizione deriva dall'iscrizione spesso presente sul rotulo), si ispirava a un altro tema dell'iconografia imperiale: l'oratio Augusti, il discorso solenne pronunciato dall'imperatore al momento della presa del potere; il gesto dell'adlocutio di C., presto sostituito da quello della benedizione, trova ugualmente le sue origini in questa scena imperiale. Benché queste due immagini del potere regale di C. non fossero prive di rapporto con il tema del Salvatore che affida la sua missione agli apostoli (Mt. 28, 19-20; Gv. 20, 21-23; 21, 15-17), esse rappresentano soprattutto il regno di C. nella e con la sua Chiesa e, di conseguenza, il suo regno eterno. Le due versioni dell'immagine del Salvatore finirono in seguito per costituire il fondamento di tutte le rappresentazioni di C. al di fuori dell'ambito narrativo. C. raffigurato frontalmente, stante o seduto, poteva essere accompagnato da simboli, da attributi o da personaggi diversi ma, indipendentemente dal contesto iconografico immediato, trasmetteva invariabilmente l'idea del Signore dai poteri trascendenti la realtà umana.Le figure di C. stante o seduto, affiancato dagli apostoli Pietro e Paolo, costituirono uno schema con diverse varianti: una fu quella della Consegna delle chiavi a s. Pietro (Traditio clavium); essa si sviluppò probabilmente in parallelo alla scena della Traditio legis, ma il suo massimo sviluppo si ebbe più tardi, in epoca carolingia, quando il papato affermò energicamente il primato della sede romana (per es. nel piatto della legatura di un codice databile al terzo quarto del sec. 9°; Parigi, BN, lat. 323).Nella rappresentazione principale del dogma della maternità divina di Maria, la Theotókos, Gesù Bambino raffigurato in posizione frontale seduto sulle ginocchia della Madre è ancora una volta essenzialmente la figura di un sovrano nell'esercizio del suo potere: egli esibisce il gesto della adlocutio/benedictio e regna da un trono costituito dal corpo di Maria. Il tema della regalità della Vergine espresso dalla Maria regina, una delle varianti della Theotókos, deriva esso stesso dall'idea del potere regale del Figlio.La rappresentazione di C. in trono come un sovrano passò nelle illustrazioni delle teofanie dell'Apocalisse, immagini del trionfo escatologico del Salvatore per eccellenza. Fu verosimilmente in epoca carolingia che la figura seduta di C. sostituì un altro motivo precedentemente utilizzato nello stesso contesto tematico e tratto anch'esso dall'iconografia imperiale: il busto di C. in un medaglione. Un attributo particolare, come per es. la corona, sottolineava talvolta, in queste visioni apocalittiche, la regalità di C. (Moissac, Saint-Pierre, portale sud; post 1115). La testimonianza più compiuta del contenuto escatologico della figura di C.-re assiso sul trono fu resa da Jan e Hubert van Eyck nel pannello centrale del polittico dell'Agnello mistico (Gand, S. Bavone; 1432).L'immagine di C. in trono poteva occupare anche il centro della composizione del Giudizio universale, rappresentazione determinatasi nella seconda metà del sec. 8° e poi nel corso del 9°, come testimoniano, per es., gli affreschi di S. Giovanni a Müstair, databili forse intorno all'800. In questo modo, la scena, che in principio doveva illustrare il dettato di Mt. 24, 27-31; 25, 31-46, integra la composizione dottrinale, la quale denota i temi del potere cosmico e del trionfo escatologico del Salvatore, giacché tale restò sempre il significato primario della figura di C. in trono. Questo aspetto dell'immagine del Giudizio universale fu sottolineato anche dalla disposizione 'gerarchizzata', in registri, dei personaggi che circondavano il C.-giudice, ovvero degli angeli e degli apostoli, suoi fiduciari.Ugualmente la figura di C. in piedi, anch'essa radicata nell'iconografia del potere imperiale, conferisce una forte impronta dottrinale alle scene o agli insiemi iconografici di cui fa parte. Le raffigurazioni di C. in posizione stante, sul fiume Giordano, incoronato dalla mano di Dio e accompagnato dalla fenice, simbolo della risurrezione (Roma, Ss. Cosma e Damiano, mosaico absidale, 530 ca.; S. Prassede, mosaico absidale, 817-824), servivano a rappresentare l'atto fondamentale della proclamazione del Messia: l'unzione del Figlio da parte del Padre; la corona simboleggiante il regno e la vittoria sostituisce l'unzione, atto di origine semitica sconosciuto a Roma.Attorno a una tale figura di C. trionfante sono disposti gli apostoli che ricevono dal maestro la missione di evangelizzare le nazioni (Mt. 28, 19-20); l'immagine, creata a Roma intorno all'800 in linea con la politica pontificia tesa ad assicurare alla sede romana una supremazia incontrastata all'interno di tutta la cristianità (per es. lo scomparso mosaico del triclinio Lateranense), si perpetuò senza grandi cambiamenti fino alla fine del Medioevo, come per es. nell'altare di Windsheim scolpito da Tilman Riemenschneider (Heidelberg, Kurpfälzisches Mus.; 1509-1512). Negli esempi più tardi il Salvatore tiene in mano un globo sormontato da una croce, altro simbolo del suo potere universale, passata in questa scena dall'immagine di C. benedicente a mezza figura, il Salvator mundi (Roger van der Weyden, trittico Braque, 1451 ca.; Parigi, Louvre).La figura di C. stante, grazie alla rilevanza teologica che le si connetteva, fu inserita dagli scultori delle cattedrali gotiche nella decorazione del trumeau del portale; questo C. dall'aspetto umano e armonioso - da cui l'appellativo corrente di Beau-Dieu - era sostanzialmente latore di un messaggio dottrinale ben preciso: accennava al gesto della benedizione, portava il libro dei vangeli, che è anche il libro della vita, e insieme calpestava gli animali mostruosi di Sal. 91 (90), 13 (Chartres, cattedrale, portale sud; 1210 ca.).La composizione della Maiestas Domini, che presenta al centro C. seduto in posizione frontale, venne concepita nel sec. 5° sulla base del dettato delle Scritture e dell'esegesi successiva. L'immagine, ispirata alla visione di Jahvè descritta in Ez. 1, 4-28 e alla descrizione della gloria escatologica di C. secondo Ap. 4, 1-11, presentava C. in trono, in genere benedicente con la mano destra, posto entro una mandorla che rappresentava la volta di cristallo di Ez. 1, 22, circondata dai quattro esseri del tetramorfo di Ez. 1, 10, o dai quattro viventi di Ap. 4, 6-7; questi ultimi, se recanti un libro, divenivano simboli degli evangelisti. Altri motivi iconografici derivati dalle Scritture, come per es. l'arcobaleno (quale trono di C.), il carro del tetramorfo, il fuoco e i lampi, non sono invece sempre presenti; entrano talvolta in questa rappresentazione alcuni elementi collegati all'iconografia imperiale e già assimilati nel sec. 4° nelle rappresentazioni di C., come per es. la sfera celeste, la croce-trofeo o la croce-scettro.La Maiestas Domini riunisce in un'unica formulazione la visione della gloria che ricevono Jahvè dall'Antica alleanza e C. dal Nuovo Testamento, proclamando in questo modo l'identità consustanziale del Padre e del Figlio. La Maiestas Domini costituiva dunque l'immagine per eccellenza della teofania di Cristo. L'idea dell'identità delle due persone divine spiccava già dalle parole che l'autore dell'Apocalisse riprendeva dal testo di Ezechiele nella sua descrizione della gloria del Salvatore. Essa venne in seguito sviluppata nei commentari esegetici di Ireneo di Lione (Adv. haer., III; PG, VII, coll. 841-972), di Efrem Siro (In Ezechielem, I, in Opera Omnia, II, Roma 1740, pp. 165-167), di Ambrogio (In Lucam, 7-8; PL, XV, col. 1532), di Girolamo (In Ezechielem, I, PL, XXV, coll. 15-52; In Matthaeum, 5-6, PL, XXVI, coll. 19-20) e di altri Padri. Secondo Ireneo e altri autori, i quattro esseri del tetramorfo di Ezechiele, che sono identici ai quattro viventi dell'Apocalisse, si ricollegano ai vangeli, rendendo così simbolicamente gli elementi essenziali del messaggio dei loro autori circa C., cioè la regalità del Salvatore, il suo sacerdozio, la sua incarnazione e la sua eterna unione con Dio nello Spirito Santo. Nella Maiestas Domini il C. del Nuovo Testamento si confonde dunque con il Dio dell'Antica alleanza.L'immagine, nata in relazione alle controversie cristologiche dei secc. 4° e 5°, proponeva gli argomenti dell'ortodossia diretti contro le eresie che negavano la consustanzialità del Figlio e del Padre, in particolare contro l'arianesimo, affermando inoltre l'unità dei due Testamenti nella persona di C., altra questione sollevata nel dibattito cristologico. La rilevanza dei messaggi teologici in essa contenuti ne fece una delle raffigurazioni più diffuse; il suo declino iniziò solo con l'arte gotica, epoca in cui prese il sopravvento il tema della kénosis.L'origine dell'iconografia della Maiestas Domini è tuttavia poco nota: il tema andò formandosi contemporaneamente alle due immagini di C. tematicamente vicine ma non antropomorfe: la Maiestas Crucis (Roma, S. Pudenziana, registro superiore del mosaico absidale; inizi del sec. 5°) e la Maiestas Agni (Roma, battistero Lateranense, mosaici della cappella di S. Giovanni Evangelista; 461-467 ca.). Un suo precedente fu verosimilmente la rappresentazione di C. stante inserita in una mandorla sorretta dai quattro viventi, documentata nella porta lignea di S. Sabina a Roma (432 ca.). Il più antico esempio conosciuto di Maiestas Domini è quello del mosaico absidale della chiesa di Hosios David a Salonicco, della metà o della seconda metà del sec. 5°, dove sono presenti anche le figure di Ezechiele e Giovanni, i cui testi furono all'origine del tema.Già nei secc. 5°-8° la scena della Maiestas Domini ebbe numerose varianti: nelle regioni dell'Oriente cristiano essa comparve frequentemente in versioni complesse che seguivano fedelmente i dettagli della visione di Ezechiele (Bāwīt, Saqqāra, cappelle monastiche dei secc. 6°-7°); talvolta entrò anche a far parte integrante del tema dell'Ascensione.A Costantinopoli, dopo la crisi iconoclasta, si registrò una ripresa dell'immagine di C. in trono, il Kosmokrátor, come talvolta è definito dalle iscrizioni, molto spesso accompagnata da cherubini (Ez. 10, 1-17) o serafini (Is. 6, 1-3), che in questo modo identificano C. con Jahvè dell'Antico Testamento e lo presentano nella sua gloria celeste (Cosma Indicopleuste, Topographia christiana; Roma, BAV, Vat. gr. 699, c. 72v). Tuttavia la Maiestas Domini, così come era stata formulata alla fine dell'Antichità, appare di fatto quasi completamente abbandonata, tranne che in alcune regioni come la Cappadocia.In Occidente, al contrario, la scena ricomparve in epoca carolingia e si affermò come immagine fondamentale di C.; nelle botteghe degli intagliatori d'avorio del primo terzo del sec. 9° e nelle scuole di miniatura di Tours, di Lotario I e di Carlo il Calvo, essa assunse una struttura pressoché definitiva. Questa versione occidentale della Maiestas Domini presenta C. assiso in trono che, racchiuso in una mandorla dagli apici appuntiti, schiaccia con le sue dimensioni i quattro viventi disposti diagonalmente agli angoli della composizione; i quattro viventi, salvo rare eccezioni, sono ormai rappresentati con un libro e dunque trasformati nei simboli degli evangelisti (Evangeliario di Lotario I, dell'849 ca.; Parigi, BN, lat. 266, c. 1r). Lo schematismo di questa composizione la differenzia dalle redazioni tardoantiche, più vive e più vicine alle fonti letterarie. Sul piano dottrinale è riconoscibile l'immagine di C. dell'Apocalisse, le cui connotazioni veterotestamentarie, così importanti all'epoca della sua formazione, divengono sempre meno evidenti. In epoca carolingia venne prodotto un certo numero di varianti della composizione distinte tra loro per un impiego diversificato di specifici motivi, tra i quali la sfera celeste che serve da trono a C. e la mandorla costituita da due cerchi o da due ovali. Nell'arte carolingia la Maiestas Domini costituì spesso il centro di un diagramma iconografico colto, concepito a partire da un'idea teologica precisa (per es. il tema della quaternitas che regge l'universo divino nelle bibbie carolinge di Tours): questo ruolo di punto focale fu mantenuto fino agli inizi dell'epoca gotica, per es. nei portali occidentali della cattedrale di Chartres (1150 ca.), dove un ciclo della salvazione circonda la figura di C. in maestà nella lunetta centrale, o ancora in un calice e una patena databili al 1220-1230 (Colonia, St. Aposteln), dove temi cristologici ed ecclesiologici sono presenti intorno al C. in maestà.Il tema di C.-re in trono passò, come si è detto, nelle illustrazioni del Giudizio universale, dove lo stretto legame tra il contenuto dell'immagine di C. in maestà e il potere del Salvatore di giudicare tutto l'universo è espresso, per es., nell'iscrizione che accompagna la Maiestas Domini nell'Evangeliario di Abdinghof, scritto e miniato a Colonia nel 1080 ca. (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kupferstichkab., 78.A.3, cc.13v-14r): "Maiestas Domini celsum sedet ecce tribunal".Le immagini di C. in piedi in posizione frontale o in trono e quelle della Maiestas Domini, in modo particolare le rappresentazioni che decorano le absidi e i timpani delle chiese romaniche, erano frequentemente accompagnate da iscrizioni che evidenziavano i diversi aspetti della persona del Salvatore. Queste iscrizioni, composte da citazioni del Nuovo Testamento o addirittura talora da piccole opere autonome di letteratura teologica, presentavano C. come luce del mondo, vita, porta, pastore, verità, risurrezione, inizio e fine, fonte di acqua viva; esse trattavano inoltre dell'esistenza eterna del Figlio di Dio e della sua duplice natura. Le immagini di C. che avevano per soggetto il suo potere universale e la sua divinità erano dunque ritenute adatte a trasmettere i differenti temi della dottrina cristologica: la formula iconografica rimaneva pressoché immutata, mentre variava il commento teologico che l'accompagnava. A partire dall'epoca carolingia la Maiestas Domini si integra nelle illustrazioni dell'Apocalisse, uno dei testi all'origine del tema iconografico. In questi cicli, essa si conforma al racconto della visione teofanica e si distingue abitualmente dalla versione propria delle composizioni autonome che decorano absidi, timpani, libri e oggetti liturgici.In rapporto alle rappresentazioni di C.-docente e alle diverse immagini della sua eterna regalità, quelle del suo sacerdozio sono meno frequenti: il tema compare per la prima volta nel sec. 6° nella versione liturgica dell'Ultima Cena che mostra C.-sacerdote che distribuisce la comunione agli apostoli (per es. nella patena di Riha, Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.). Questa iconografia traduceva la fede della Chiesa nell'identità del corpo eucaristico e del corpo sacrificato di C., dottrina sancita già dai Padri apostolici (Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, VII, 3; SC, X, 1969, pp. 116-117) e sostenuta da alcuni autori dell'Oriente cristiano (Efrem Siro, Sermones in Hebdomadam Sanctam, IV, 4; CSCO.SS Syri, CLXXXI, p. 27). La formula andò perpetuandosi nell'arte bizantina fino alla fine del Medioevo e anche oltre; nell'Occidente essa ebbe invece deboli echi, sia in forme vicine a quella orientale (cofanetto-reliquiario cruciforme di Pasquale I, 817-824; Roma, BAV, Mus. Sacro) sia in composizioni narrative (Sacramentario di Drogone, 845 ca.; Parigi, BN, lat. 9428, c. 44v). Sono note altre raffigurazioni di C.-sacerdote, che presentano interpretazioni diverse del tema, come per es. C.-sacerdote e re crocifisso (Evangelistario della badessa Uta, primo quarto del sec. 11°; Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 13601, c. 3v), o C.-sacerdote e re che sostituisce il suo sacrificio a quelli imperfetti dell'Antico Testamento (Hortus deliciarum; manoscritto distrutto noto attraverso copie; già a Strasburgo, Bibl. Mun.).Nel corso dei secc. 9°-12° comparvero importanti innovazioni nelle immagini che intendevano trasmettere un messaggio dottrinale diretto, in particolare in quelle del Giudizio universale e in quelle del trionfo escatologico del Salvatore. Il cambiamento più significativo avvenne nella figurazione di C. stesso: infatti, pur conservando l'aspetto del sovrano in trono, il Salvatore fu sempre più frequentemente rappresentato con i segni e gli attributi della passione; con il corpo in parte scoperto, che mostra la piaga sul fianco e le mani ferite dai chiodi, seduto in giudizio, circondato dagli strumenti della passione (Salterio di Aethelstan, secondo quarto del sec. 10°; Londra, BL, Cott. Galba A. XVIII, cc. 2v, 21r). A partire dal sec. 12°, questa nuova versione di C.giudice si andò affermando, per divenire alla fine del Medioevo la formulazione esclusiva del tema. Secondo la fede cristiana è la sofferenza che conferisce a C. il diritto al regno universale e, di conseguenza, il potere di giudicare (Mt. 25, 34-40; Lc. 24, 26; Gv. 12, 31-32; Ap. 5, 5-10). Lo stretto legame tra la passione e la gloria di C. aveva costituito già nel sec. 4° il tema dei sarcofagi c.d. della passione (Roma, Mus. Vaticani, Mus. Pio Cristiano, sarcofago nr. 171; 350 ca.), ma l'iconografia di queste opere era dominata dal pensiero tropaico e dossologico: il C. trionfante era rappresentato da una croce-tropáion. È solamente la raffigurazione medievale di C. assiso in trono e, insieme, segnato dalla passione a esprimere lo stretto legame tra il tema della sofferenza di C. e quello del suo trionfo escatologico. Il Salvatore che mostra le sue piaghe ricorre ugualmente in altre composizioni di contenuto dottrinale, ove si sostituisce alla Maiestas Domini o al C. in trono (Dialogus de laudibus Sanctae Crucis, 1170-1180 ca.; Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 14159, c. 5v).Nella prima metà del sec. 12° nacque un'immagine totalmente incentrata sul tema dell'espiazione sofferente di C.: la Trinità sofferente (dolorosa) o thronus Gratiae (Gnadenstuhl). Essa presenta Dio in trono che tiene tra le braccia C. crocifisso; la colomba dello Spirito Santo collega tra loro le teste delle due persone divine (messale del secondo quarto del sec. 12°; Cambrai, Médiathèque Mun., 234, c. 2r). La redenzione è chiaramente presentata come opera della Trinità ed è lo stesso Padre a mostrare il Figlio morto sulla croce; già all'epoca della sua formulazione questo schema trinitario venne raffigurato in stretta associazione con l'arca dell'alleanza dell'Antico Testamento (Saint-Denis, abbaziale, vetrata delle allegorie di s. Paolo; 1140-1144). La definizione thronus Gratiae, tratta da Eb. 4, 16, traduceva anche lo stretto rapporto tipologico intercorrente tra questa specifica visione della morte di C. e l'arca dell'alleanza, il più venerato tra gli oggetti di culto veterotestamentari, considerata luogo della presenza di Jahvè tra gli ebrei. La Trinità sofferente fu in effetti ispirata dall'idea fondamentale di Eb. 9, 1-14, secondo la quale C., perfetta vittima propiziatoria, sostituisce definitivamente i sacrifici che il gran sacerdote dell'Antica alleanza offriva a Dio nel giorno delle Espiazioni (Yom Kippur) sul propiziatorio dell'arca (kapporet, hilastérion, propitiatorium); C. morto sulla croce nelle braccia del Padre diveniva così l'immagine di quel nuovo e unico sacrificio espiatorio accettato da Dio. La Trinità sofferente non avrebbe certamente avuto forte carattere di messaggio soteriologico se la rappresentazione della morte di C. non avesse fatto parte integrante di questa iconografia. In effetti, il tema prese forma in un'epoca in cui la raffigurazione di C. morto si andò affermando nell'iconografia del Crocifisso: nel corso della seconda metà del sec. 10° la rappresentazione di C. morto sulla croce cominciò a soppiantare le formule più antiche di C. trionfante e vivente.La riflessione teologica del Medioevo sulla redenzione condusse all'elaborazione di altre immagini che trasmettevano un messaggio soteriologico diretto: una delle più originali fu la rappresentazione della Trinità che salva il genere umano e ne affida la missione a C. (Ratschluss der Erlösung). Nel sec. 12° il tema era espresso ancora nel quadro dell'iconografia della Trinità; alla fine del Medioevo invece - epoca di vivaci dispute teologiche circa il rapporto tra la creazione dell'uomo, la sua caduta, l'incarnazione e la redenzione - il tema venne a caratterizzarsi come soggetto iconografico autonomo (Libro d'ore di Caterina di Clèves, del 1440 ca., New York, Guennol Coll., c. 83v; Veit Stoss, tomba del re Casimiro IV, del 1492 ca., Cracovia, cattedrale): C. fu allora raffigurato in atteggiamento di sottomissione, segnato dall'avvilimento e dalla sofferenza che annunciavano la sua passione (Gv. 14, 31; At. 2, 23; 4, 28; Ef. 1, 11).L'interesse che la teologia successiva ai Padri della Chiesa portò al tema dell'incarnazione di Dio si manifestò in maniera particolare nell'immagine della paternità: Dio Padre con il Figlio Gesù sulle ginocchia. La formula si ispirava alla raffigurazione della Teothókos, ma metteva in rilievo la filiazione paterna, in conformità con Gv. 1, 18: "Il figlio unigenito, che è nel seno del padre". Questa rappresentazione di origine bizantina penetrò nell'arte occidentale nel sec. 12° (Bibbia di Saint-Bénigne, secondo quarto del sec. 12°; Digione, Bibl. Mun., 2, c. 442v).
A eccezione dell'esempio isolato costituito dalla decorazione dipinta del battistero di Dura Europos, della metà del sec. 3° (New Haven, Yale Univ. Art Gall.), le più antiche immagini narrative della vita di C. si sono conservate nelle pitture delle catacombe e nelle sculture dei primi sarcofagi cristiani (sec. 3°-primo quarto del 4°). Inserite in un contesto funerario, queste rappresentazioni esprimevano la fede del cristiano nella salvezza promessa da Cristo. Da ciò derivò la preponderanza, nel repertorio tematico, dei miracoli, considerati sempre come pegno dell'intervento divino (per es. la risurrezione di Lazzaro, le guarigioni seguite dalla remissione dei peccati), e dei soggetti collegati alla speranza nella vita eterna (per es. il battesimo di C., C. e la Samaritana); il repertorio andò progressivamente arricchendosi nel corso del sec. 4° (per es. la comparsa delle scene della passione).Le più antiche scene cristologiche - così come avveniva anche per tutti gli altri soggetti dell'arte paleocristiana - prevedevano solamente la presenza dei protagonisti e dei dettagli indispensabili della narrazione, riuniti in composizioni semplici e facili da identificare; lo schematismo di queste immagini derivava anche dalla volontà di disporre un numero considerevole di scene su una superficie limitata (per es. nei sarcofagi decorati a rilievi disposti a fregio). Le scene cristologiche inoltre costituivano soltanto in via eccezionale immagini indipendenti: raggruppate insieme ad altri soggetti biblici, esse costituivano parti di grandi insiemi governati da un'idea direttrice generale, la promessa della salvezza. Anche nel caso dei sarcofagi c.d. della Passione, le scene che si limitavano ai momenti della passione di C. non costituivano alcuna sequenza narrativa, ma erano scelte per valorizzare l'immagine simbolica principale, quella del trionfo della croce e di C. risuscitato (Roma, Mus. Vaticani, Mus. Pio Cristiano, sarcofago nr. 171).Questa prima iconografia del vangelo subì profonde trasformazioni nella prima metà del sec. 5°, a causa dei mutamenti artistici di carattere più ampio derivati dalla perdita delle costrizioni subìte da una produzione artistica confinata alla decorazione di catacombe e sarcofagi. Nella seconda metà del sec. 4° le scene bibliche furono ormai elaborate sulla base dei sistemi narrativi derivati dalla grande tradizione dell'arte classica e iniziarono a rendere con realismo l'ambiente dell'avvenimento rappresentato. Questo fenomeno segnò anche i soggetti cristologici nei quali, pur mantenendosi i semplici schemi compositivi già adottati, vennero a essere meglio definiti proprio l'azione e lo spazio (cofanetto d'avorio, del 360-390 ca.; Brescia, Civ. Mus. Cristiano); l'aspetto narrativo dell'iconografia cristologica andò accentuandosi con la costituzione dei primi cicli. Nacquero così i primi cicli dell'Infanzia (Roma, S. Maria Maggiore, mosaici dell'arco trionfale; 432-440) e quelli della Passione e della Risurrezione (placche di un cofanetto, del 420 ca.; Londra, British Mus.); si composero anche serie che avevano per soggetto l'Infanzia e la Vita pubblica di Gesù, in particolare i miracoli (dittico smembrato, del primo quarto del sec. 5°; Parigi, Louvre; Berlino, Staatl. Mus.); apparvero infine cicli che illustravano l'intera Vita di C., dall'Infanzia alla Passione, associati anche ad altri soggetti biblici o a rappresentazioni simboliche (Roma, S. Sabina, porta lignea, 432 ca.; Milano, Tesoro del duomo, dittico d'avorio, post 450). Nel sec. 6° il numero degli episodi compresi in un ciclo cristologico andò aumentando, rendendo il racconto maggiormente articolato; la tendenza si nota particolarmente nei cicli della Passione, che meglio si prestavano a un racconto continuo.La scelta dei soggetti fu spesso il prodotto di una profonda riflessione teologica o di considerazioni di carattere liturgico, sulla base del valore didattico delle immagini. L'esempio più eclatante di un ciclo in cui le scene cristologiche furono scelte e raggruppate tematicamente in serie di due, tre o quattro pannelli per evidenziare gli aspetti principali dell'insegnamento e dell'opera del Salvatore è costituito dalla decorazione a mosaico di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, dell'inizio del sec. 6°, con tredici pannelli che narrano la Vita pubblica di Gesù e altri tredici dedicati alla Passione. Gli artisti ravennati, pur rispettando pienamente le esigenze della narrazione, misero in rilievo in ogni scena la posizione preminente di C., differenziando gerarchicamente i vari personaggi. Oltre ai cicli più articolati, in epoca tardoantica furono prodotte anche serie cristologiche che riassumevano la vita del Salvatore in poche immagini, scelte per illustrare i grandi temi dogmatici dell'incarnazione, della morte di C. e della sua gloria (Roma, BAV, Mus. Sacro, reliquiario dipinto e illustrato con cinque scene, proveniente dalla cappella del Sancta Sanctorum, della seconda metà del sec. 6°).Nei secc. 5° e 6° i cicli cristologici presentano una grandissima varietà tematica, corrispondente alla diversità dei programmi teologici e delle funzioni cultuali. Il numero crescente degli episodi utilizzati portò alla comparsa di nuovi temi. La produzione di evangeliari miniati, iniziata verosimilmente nel sec. 5° e già fortemente sviluppata nel secolo seguente, contribuì all'aumento del numero delle immagini cristologiche. I nuovi modelli iconografici, una volta adottati, si diffusero largamente e con stupefacente stabilità; alcuni temi si manifestarono nel sec. 6° in diverse varianti, anch'esse peraltro persistenti, come per es. una versione realistica dell'Ultima Cena, che mostra C. e gli apostoli distesi intorno a una tavola, in una versione ugualmente narrativa ma basata su di una disposizione simmetrica dei protagonisti e in una composizione assimilata a una scena liturgica.La fine dell'Antichità vide dunque costituirsi un grande repertorio di immagini cristologiche, con formule che si protrassero almeno fino agli inizi dell'epoca gotica, quando i vecchi schemi vennero lentamente modificati, anche se non ovunque; alcuni schemi iconografici, infatti, furono conservati anche negli ambienti più innovatori: per es., la composizione del Bacio di Giuda dipinta da Giotto (Padova, cappella degli Scrovegni, 1304) appare fondata su un tipo iconografico esistente già all'inizio del sec. 6° (Ravenna, S. Apollinare Nuovo).Alla continuità delle formule iconografiche contribuì anche l'imitazione dei modelli tardoantichi e successivamente bizantini, pratica corrente nei grandi centri del rinnovamento artistico del Medioevo, che consentì di conservare sia la struttura degli originali sia l'iconografia delle singole scene. La sopravvivenza di schemi tardoantichi impronta per es. la serie delle sei cristofanie che decorano il dittico di Aquisgrana (Domschatzkammer, inizio del sec. 9°); questo avorio testimonia un nuovo atteggiamento nei confronti della tematica cristologica, che si esprime particolarmente in alcuni cicli che comprendono molti episodi di una parte precisa della narrazione evangelica. Gli avvenimenti della passione, della risurrezione e le cristofanie sono in questi casi fortemente privilegiati, come esemplificato da un altro dittico degli inizi del sec. 9° (Milano, Tesoro del duomo) e dal cofanetto-reliquiario di Pasquale I (Roma, BAV, Mus. Sacro).In epoca carolingia apparvero infine le prime serie di immagini narrative della Vita di C. concepite quali illustrazioni dirette di un testo e integrate nel manoscritto sotto forma di miniature a piena pagina (Otfrid di Wissenbourg, Evangelienharmonie, dell'868; Vienna, Öst. Nat. Bibl., 2867). Gli artisti carolingi elaborarono anche nuove immagini cristologiche, come per es. le Tentazioni di C. o alcune parabole (Stoccarda, Württembergische Landesbibl., Bibl. Fol. 23, c. 107v, salterio del sec. 9°; Monaco, Schatzkammer der Residenz, altare portatile del re Arnolfo, fine del sec. 9°).I cicli cristologici divennero la componente iconografica fondamentale della decorazione delle chiese, degli arredi e degli oggetti liturgici sia in Occidente sia in Oriente; i secc. 10° e 11° videro in particolare la costituzione di serie che avrebbero influenzato per lungo tempo le scelte tematiche. Per l'Oriente i grandi cicli dipinti delle chiese rupestri della Cappadocia, incentrati soprattutto sull'infanzia di C. (con scene tratte dai vangeli apocrifi) e sulla sua passione - alcuni di essi estesi a oltre trenta episodi (Göreme, cappella nr. 29, prima metà del sec. 10°) -, sono senz'altro i più noti; il desiderio di evidenziare ai fedeli la vita terrena e le opere di C., associato alla volontà di illustrare le Feste della Chiesa, portò alla costituzione di cicli eortologici, che si manifestarono sia nelle decorazioni monumentali delle chiese (Hosios Lukas, mosaici del sec. 11°) sia nelle arti suntuarie, in particolare nei dittici e trittici in avorio (San Pietroburgo, Ermitage, dittico delle Dodici feste, del sec. 10°-11°). In Occidente, l'arte tardoantica cristiana e l'arte carolingia rimasero le due fonti principali del repertorio delle immagini cristologiche, contribuendo largamente alla continuità della tradizione iconografica; nella seconda metà del sec. 10° Milano ebbe forse un ruolo rilevante nella trasmissione di modelli verso gli ambienti artistici d'Oltralpe, come attestano l'antico antependium della cattedrale di Magdeburgo, che presentava originariamente oltre quaranta tavolette - oggi disperse in collezioni diverse (Compiègne, Mus. Vivenel; Darmstadt, Hessisches Landesmus.; Liverpool, Merseyside County Mus.; Londra, British Mus.; Monaco, Bayer. Nationalmus.; New York, Metropolitan Mus. of Art; Parigi, Louvre) -, e la situla Basilewsky, decorata con dodici scene (Londra, Vict. and Alb. Mus.). Sulla base di questa tradizione, spesso arricchita da apporti bizantini, si formarono i cicli cristologici nella Germania ottoniana.Campo privilegiato per lo sviluppo dell'iconografia cristologica fu l'illustrazione degli evangeliari, in cui gli scriptoria di Treviri, Reichenau, Echternach e Colonia ebbero un ruolo primario. Elaborazioni nuove e originali, tuttavia, si ebbero anche nella scultura monumentale, come provano le ventinove scene della colonna reggicroce di Hildesheim (1020 ca.), e nella pittura murale, come nel ciclo di St. Georg a Reichenau-Oberzell (fine del sec. 10°), che presenta Miracoli di Cristo.L'iconografia cristologica ebbe nuovo impulso con la produzione artistica legata a Montecassino, che, nella seconda metà del sec. 11°, derivò largamente i propri modelli da Costantinopoli; le oltre quaranta scene neotestamentarie che decorano la navata centrale della chiesa di S. Angelo in Formis (1072-1087) testimoniano sia la complessità dei cicli realizzati in questo ambiente sia il valore e il significato dell'ispirazione bizantina nel determinarsi della loro iconografia.A partire dalla fine del sec. 11° i cicli cristologici entrarono anche nella decorazione dei capitelli: i documenti più cospicui sono in Francia e in Spagna, nelle grandi cattedrali (Autun, Saint-Lazare, 1125-1135 ca.) e anche in edifici di minore rilevanza (Vigeois, 1125-1135).Già forse nel sec. 4° (per es. nei perduti mosaici della cupola di S. Costanza a Roma) le scene cristologiche potevano costituire parte integrante di un vasto insieme di immagini aventi per soggetto globale la salvezza: uno dei primi esempi è costituito dai mosaici di S. Maria Maggiore a Roma, dove le otto scene dell'Infanzia di C. che si sviluppano sull'arco trionfale rappresentano il compimento della promessa di salvezza fatta ai patriarchi, la cui storia, articolata in quarantaquattro scene, occupa la navata centrale. Elpidio Rustico, nella prima metà del sec. 6° (Carmina, a cura di D. H. Groen, Gröningen 1942), parla di un ciclo neotestamentario in cui queste otto scene erano poste in concordanza con altrettante immagini tratte dall'Antico Testamento; altre fonti dell'Alto Medioevo (Beda, Hist. Abbatum, I, 9, in Bedae Opera Historica, a cura di J. E. King, London-Cambridge 1954, II, pp. 412-415) confermano l'esistenza di tali cicli paralleli basati sull'applicazione dell'esegesi allegorica; è probabile però che le giustapposizioni tipologiche delle scene narrative fossero sporadiche prima dell'epoca romanica. Sono invece noti numerosi programmi iconografici che presentano l'unità dell'Antico e del Nuovo Testamento: a S. Giovanni a Müstair il ciclo della Vita di C. è preceduto da una serie di venti scene che narrano la storia di Davide, antenato di Gesù nella sua natura umana; sulla porta di bronzo di Hildesheim (1015) le due serie parallele di rilievi, raffiguranti l'una la storia dei progenitori (dalla Creazione di Eva all'Uccisione di Abele) e l'altra la storia di C. (dall'Annunciazione all'Apparizione di C. risorto), presentano il tema della caduta dell'uomo e della riparazione del suo errore.Nell'iconografia tipologica, diffusasi a partire dal secondo quarto del sec. 12°, sia le scene particolari della Vita di C. sia i cicli cristologici furono sempre l'elemento costitutivo dell'insieme della composizione iconografica e determinarono la scelta delle rappresentazioni veterotestamentarie corrispondenti. Essa si manifesta in innumerevoli tipi e varianti: sull'altare portatile di Stavelot (Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire, metà del sec. 12°) le sei scene della Passione e della Risurrezione di C. sono accompagnate da sei diversi tipi veterotestamentari, ma qui non si può ancora parlare di una esatta correlazione tra i due gruppi di immagini. Una corrispondenza tipologica rigorosa esiste, invece, tra le quindici scene del ciclo cristologico (sub gratia) e le due serie di immagini veterotestamentarie (ante legem, sub lege) inserite sull'antico ambone a smalto di Nicola di Verdun nell'abbaziale dei Canonici regolari di Klosterneuburg (1181). Spesso intorno all'immagine cristologica era disposto un vasto gruppo di tipi veterotestamentari e di profeti; una serie di tali composizioni spiegava quindi sistematicamente tutta l'opera di C. come preparata e annunciata dall'Antica alleanza (per es. nella Biblia pauperum, redatta nell'ultimo quarto del sec. 13° nella Germania meridionale e diffusa in seguito attraverso dozzine di esemplari assai in voga fino alla fine del sec. 15°).Nel portale dei Re della cattedrale di Chartres, le quarantadue scene della Vita della Vergine e di C. sono disposte sui capitelli che separano i piedritti con le statue-colonna dalla zona dei timpani e degli archivolti. La storia del Salvatore è qui posta tra i due ordines storici di Israele (il regnum e il sacerdotium) e l'esaltazione solenne del dogma di C. congiuntamente a quello della Vergine. Questa disposizione costituisce uno dei più raffinati esempi dell'attenzione dottrinale alla vita terrena di Cristo. Il fregio istoriato composto dai capitelli corre al di sopra delle statue-colonna; la venuta del Salvatore viene quindi integrata nella storia della salvezza; ma, in parallelo alla funzione strutturale dei capitelli, la narrazione, benché assai dettagliata, è solo un passaggio verso ciò che sostiene: il trionfo eterno di C. e Maria. A Chartres, la Vita di C. è preceduta da undici scene che narrano la storia della Vergine: si tratta di uno dei più antichi esempi di un lungo ciclo cristologico associato a un'importante serie di immagini mariologiche. Questa particolarità si spiega innanzitutto con un culto della Vergine assai radicato a Chartres, ma esprime anche i cambiamenti intervenuti nei secc. 10°-12° nella teologia, ormai rivolta verso i temi dell'incarnazione e del ruolo di Maria nella redenzione. A partire dal sec. 13° i cicli che associano la vita di C. a quella della Vergine si fecero sempre più frequenti e presero il sopravvento su quelli unicamente cristologici; la diffusione di questi nuovi insiemi narrativi fu agevolata da alcuni grandi modelli, per es. gli affreschi della cappella degli Scrovegni di Padova, che presentano trentotto scene, dodici delle quali narrano la Vita della Vergine.La fusione dei temi cristologici e mariologici contrassegnò soprattutto l'iconografia delle pale della Vergine; nelle più antiche, la disposizione del ciclo della Vergine dava spesso a quest'ultimo una certa autonomia in rapporto alla Vita di C., come per es. nella Maestà di Duccio, degli anni 1308-1311 (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), dove le nove scene mariologiche sono nettamente separate dai pannelli dedicati alla storia di Cristo. In seguito, in particolare nel sec. 15°, nella maggioranza dei casi i due cicli arrivarono a fondersi, talora in modo così stretto da costituire un tema narrativo unitario, come nella pala d'altare della Dormizione della Vergine di Veit Stoss (1477-1489) nella chiesa di Nostra Signora a Cracovia. I due principali temi mariologici integrati nei cicli cristologici furono l'Infanzia e la Glorificazione, che nell'ordine dottrinale corrispondevano rispettivamente all'Immacolata Concezione e all'Assunzione. In tal modo, questi due grandi soggetti della mariologia medievale furono inseriti nel loro preciso contesto dottrinale, quello del dogma cristologico.Numerosi cicli cristologici della fine del Medioevo prevedevano scene dettagliate degli oltraggi e delle sofferenze subìte da C., derivate dalle meditazioni e dai racconti della passione; in alcune di queste raffigurazioni è presente anche la figura della Vergine addolorata, che esprimeva l'idea teologica della compassio Mariae e della corredemptio. L'esempio più significativo di questa iconografia è costituito dall'illustrazione delle Meditationes, eseguita negli anni 1520-1530 (Cracovia, monastero delle Carmelitane, 287), dove settantuno delle centodiciassette miniature del ciclo includono la figura della Vergine negli avvenimenti della Passione; benché realizzata nel sec. 16°, questa decorazione è tributaria delle forme del Tardo Gotico e risulta profondamente legata al culto della passione proprio dei secc. 14° e 15°, testimoniato anche, per es., da un'incisione su legno del 1480 ca. proveniente dalla Germania meridionale raffigurante le Cadute di C. (Vienna, Graphische Sammlung Albertina).Tra i soggetti, i miracoli e gli altri avvenimenti della vita pubblica di C. si fecero progressivamente più rari a fronte dell'espandersi dell'iconografia dell'Infanzia e della Passione. La Chiesa europea dei decenni finali del Medioevo non aveva più bisogno di convincere e di convertire, ma intendeva trasmettere un messaggio più profondo e più delicato, quello di C. umiliato.
Nei secc. 12°-15° ebbero origine le immagini che mostrano il Salvatore in rapporto a un momento preciso della sua vita terrena, ma che, al tempo stesso, isolano la sua figura dal contesto dell'avvenimento e la presentano come esterna alla narrazione evangelica o apocrifa: questa nuova formulazione dell'immagine cristologica corrispondeva alla crescente devozione per C.-uomo. Essa evidenzia la persona del Salvatore che si sottomette volontariamente alle sofferenze della vita e a una morte ignominiosa; il soggetto è quindi C. stesso e ciò che egli dovette subire in quanto uomo, non l'avvenimento nella sua totalità narrativa. Queste rappresentazioni costituiscono il gruppo più importante di una categoria definita 'immagini devozionali'. Benché la definizione ponga questioni delicate, che consentono l'uso del termine solo con le dovute riserve, essa appare utile per distinguere le immagini di C. che non sono strettamente né storiche né dottrinali. Tra le immagini devozionali quelle che presentano C. sofferente o morto sono le più numerose, perché il culto della passione fu all'origine di questa nuova visione della persona del Salvatore e della sua opera. Le immagini devozionali di C. ebbero origine in ambiti culturali diversi. Benché siano state proposte classificazioni iconografiche sulla base del soggetto o di un preciso aspetto della figura di C., le immagini si presentano in serie di varianti spesso mutuate da altri soggetti e tipi iconografici: è proprio nelle rappresentazioni del C. della passione che si rilevano con maggiore frequenza questi slittamenti iconografici e, di conseguenza, il maggior numero di varianti.La più antica rappresentazione del C. della passione fu l'immagine di Gesù nudo, morto, in posizione stante ma ritratto a mezza figura, con il fianco ferito e le mani incrociate sul petto o ricadenti lungo il busto; questa figura, che riunisce i temi di C. crocifisso (una croce si trova spesso raffigurata sullo sfondo) e del Salvatore deposto nel sepolcro, nacque a Bisanzio e nelle regioni sottoposte alla sua influenza. Gli esempi più antichi sono databili al sec. 12°: una piccola icona in steatite proveniente da Novgorod (Mosca, Gosudarstvennyj Istoritscheskij Muz.); l'Evangeliario di Karahissar (San Pietroburgo, Saltykov-Ščedrin, gr. 105, cc. 65v, 167v). La scena fu definita ὁ βασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ (Rex Gloriae) e ἡ ἄϰϱα ταπείνωσιϚ τοῦ Χϱιστοῦ ('l'estrema umiliazione di C.'); i titoli rendevano con precisione i due aspetti fondamentali del significato della rappresentazione: la sofferenza estrema che consente di entrare nella gloria del regno universale (Lc. 24, 26; Fil. 2, 9-11) e l'umiliazione - predetta in Is. 52, 13-53, 12 ed esaltata da s. Paolo (Fil. 2, 6-8) - che costituisce il fondamento della passione e morte di Cristo. Un'altra definizione era anche attribuita all'immagine del βασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ: ἡ ἀποϰαθήλωσιϚ ('la discesa dalla croce'), che esprimeva l'associazione che veniva stabilita tra l'immagine e l'episodio finale della passione di Cristo. L'Occidente latino assimilò assai presto questo tipo iconografico, probabilmente già nella prima metà del sec. 13°; tuttavia i più antichi esempi conservati sono databili alla seconda metà del secolo: una miniatura staccata da un corale (già Milano, Coll. Hoepli); un libro di preghiere (Firenze, Laur., Plut. 25.3, cc. 183v e 384r). Un'icona era conservata nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma e una leggenda nota attraverso un manoscritto del 1475, e che certamente contribuì alla diffusione dell'immagine, riferisce che papa Gregorio Magno avrebbe avuto la visione di C. in questo aspetto durante la celebrazione della messa. In Occidente questo tipo iconografico fu detto Imago Pietatis, Pietas Christi e Misericordia Domini, definizioni anch'esse aderenti al senso teologico dell'immagine, giacché fu per l'infinito amore nei confronti dell'umanità (pietas, misericordia) che C. si offrì quale vittima propiziatoria (Ef. 5, 2). Ma se le definizioni greche (l'umiliazione, il re, la gloria) erano legate direttamente alla persona stessa di C., quelle latine si riferivano innanzitutto a ciò che il Salvatore sofferente aveva offerto all'uomo decaduto e a quello che fu il motivo profondo della sua passione redentrice: il suo amore. Occorre tuttavia sottolineare che queste denominazioni non si riferiscono sempre a un solo soggetto o tipo iconografico. Il titolo di βασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ o di Rex Gloriae, che in principio definiva C. che traeva il proprio potere e la propria gloria dalla morte (1 Cor. 2, 8; Gal. 6, 14), poteva essere legato all'immagine di C. crocifisso (Parigi, BN, trittico in avorio, sec. 10°-11°; Colonia, Wallraf Richartz Mus., crocifisso del Maestro dei Crocifissi blu, 1265 ca.). Durante i secc. 13°-15° i primi modelli del βασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ e dell'Imago Pietatis furono trasformati continuamente: si intervenne soprattutto sulla figura del Salvatore, rappresentato in un sarcofago per mettere così in rilievo il tema della morte da lui patita. C. fu talvolta raffigurato con gli occhi aperti e dunque maestro di vita nonostante la morte, o ancora nell'atto di distribuire ostie che escono dal fianco ferito o che emergono da un calice; egli così diviene il C. eucaristico. L'immagine presentava talora intorno a C. con il capo coronato di spine gli strumenti della passione e spesso lo stesso C. indicava con la mano la piaga nel fianco mostrando le palme ferite all'osservatore (ostentatio vulnerum); in questo modo l'immagine sottolineava il tema delle sofferenze.Spesso il C. della passione era accompagnato da altre figure, quali la Vergine, s. Giovanni, angeli; la composizione con la Vergine e s. Giovanni ricorda l'Imago Pietatis delle fonti iconografiche primarie, cioè le rappresentazioni tratte dai racconti della passione, e quanto più i mezzi artistici utilizzati erano realistici, tanto più questa immagine essenzialmente non-narrativa assumeva l'aspetto di una scena 'storica' (Giovanni da Milano, Pianto sul C. morto, 1365; Firenze, Gall. dell'Accademia). Talvolta l'iscrizione poteva anche fare dell'Imago Pietatis l'illustrazione di un episodio della Passione (Londra, British Mus., Ecce Homo, incisione su legno stampata da William Caxton, 1487 ca.). La scelta di motivi iconografici che arricchirono costantemente l'Imago Pietatis originaria variava da un esemplare all'altro, dando così origine a un considerevole numero di varianti; queste innovazioni testimoniano della volontà di mostrare la kénosis di C. nelle sue diverse connotazioni teologiche, liturgiche e cultuali.Deriva direttamente dall'Imago Pietatis originaria la rappresentazione di C. nudo, in posizione stante (Vir Dolorum); essa nacque verosimilmente in Germania nella prima metà del sec. 14°, diffondendosi poi soprattutto nell'Europa centrale.Tra gli altri tipi iconografici del C. della passione legati direttamente a episodi narrativi, uno dei più diffusi fu quello del C. seduto, in attesa della morte, anch'esso definito C. in Pietà; l'immagine, che ebbe origine probabilmente nella Germania settentrionale nel sec. 14°, deriva forse dalle descrizioni della salita al Calvario che narrano del riposo di C. prima della crocifissione.Un caso particolare tra le immagini devozionali che dipendono direttamente dal racconto della passione è costituito dalla rappresentazione di C. che abbraccia s. Giovanni piegato sul suo petto (Christus-Johannes Gruppe); l'iconografia nacque in Svevia alla fine del 13° secolo. Il Maestro e il discepolo, isolati dal contesto narrativo dell'Ultima Cena (Gv. 13, 23), sono portatori del messaggio essenziale che il Salvatore trasmise agli apostoli nel corso del loro ultimo incontro, il comandamento dell'amore.Esistevano anche immagini devozionali del C. della passione sganciate dalla descrizione 'storica' ed elaborate in comunione a spiegazioni dottrinali o esegetiche del senso delle sofferenze e della morte del Signore; è il caso di C. nel torchio, immagine che compare all'inizio del sec. 12°, a presentare l'esegesi allegorica di Is. 63, 3 (si veda anche Ap. 19, 15).La Pietas Domini, l'immagine di Dio Padre che tiene nelle sue braccia il C. morto (Christus passus), esprimeva l'idea teologica della propiziazione come le rappresentazioni più antiche della Trinità sofferente. Ma in questa composizione, nota a partire dal 1400 ca., il corpo accasciato e stremato del C. della passione, formulazione cara alla mentalità del Tardo Medioevo, sostituì la figura più solenne e ieratica del crocifisso.Tra le immagini devozionali di C. indipendenti dal tema della passione, una delle più diffuse fu quella di Gesù Bambino; gli esempi italiani e tedeschi più antichi, della prima metà del sec. 14°, mostrano il piccolo Gesù in piedi, nudo o seminudo, come per es. in una scultura senese conservata a Berlino (Staatl. Mus.) o in una figura viennese nella chiesa domenicana di Maria Medingen. In seguito, in particolare nel sec. 15°, l'immagine subì alcune trasformazioni (il Bambino compare seduto) e si arricchì di altri motivi (per es. la figura di Gesù è circondata dagli strumenti della passione o tiene nella mano un globo, simbolo del potere universale); essa esprime il culto dell'incarnazione nel suo aspetto più umano, quello della tenerezza che circonda il neonato. La particolare devozione alla Natività fu propria, a partire dalla fine del sec. 13°, di numerosi conventi femminili, i quali ebbero certamente un ruolo rilevante nella formazione e nella diffusione delle varianti di questa immagine.Nel corso dei secc. 14°-15° si afferma una linea di tendenza inversa a quella che fino ad allora aveva dato origine alle immagini devozionali di C., dove la raffigurazione del Salvatore era separata dal contesto dell'avvenimento evangelico; all'interno di cicli complessi, infatti, furono introdotti tipi iconografici propri delle grandi immagini devozionali, adattati però al carattere narrativo dell'insieme. Frequenti, per es., sono i polittici della Passione che presentano un pannello con la figura di C. seduto presso la croce, in attesa del supplizio, tema che svolgeva parallelamente la funzione di immagine devozionale autonoma (Hannover, Niedersächsisches Landesmus., Goldene Tafel, ante 1418, proveniente dalla chiesa di S. Michele di Lüneburg). Altri cicli presentano, all'interno di una serie unitaria di scene, immagini devozionali di C. ed episodi della sua vita; essi costituiscono un fenomeno parallelo a numerose Meditationes, nelle quali il racconto degli avvenimenti della passione si alterna a riflessioni sulle sofferenze del Salvatore e sul loro effetto salvifico per l'uomo. Un esempio di questa particolare variante dell'iconografia di C. è costituito dallo sportello di un polittico realizzato in Germania occidentale nell'ultimo quarto del sec. 14° (Colonia, Wallraf Richartz Mus., inv. nr. 333); vi compaiono contemporaneamente la Trinità sofferente, compianta dalla Vergine e s. Giovanni e troneggiante sopra C. morto deposto nel sepolcro, l'immagine di C. risorto che risuscita Adamo ed Eva e li libera dalle fauci del Leviatano, il Noli me tangere, l'Incredulità di s. Tommaso e, alla fine del ciclo, l'Imago Pietatis, il C. in piedi, circondato da angeli che recano gli strumenti della passione.
Alcune rappresentazioni simboliche di C. nacquero e si propagarono ancora prima dell'apparizione delle più antiche immagini antropomorfe di Gesù; tra esse è da annoverare il pesce (gr. ἰχθύϚ), simbolo che sottintende l'acrostico di ᾽ΙησοῦϚ ΧϱειστὸϚ Θεοῦ ῾ΥιὸϚ Σωτήϱ (per es. Roma, catacomba di S. Sebastiano, epitaffio di Ancotia, sec. 2°-3°). Con un cesto pieno di pani sul dorso (Roma, catacomba di Domitilla, cripta di Lucina, cubicolo Γ, ante 250), il pesce evoca il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt. 14, 15-21; Gv. 6, 5-13) e simboleggia lo stesso C., che si definì Pane di vita (Gv. 6, 35); il pesce come simbolo di C. scomparve pressoché totalmente dall'iconografia cristiana alla fine della Tarda Antichità e non svolse alcun ruolo significativo nel corso del Medioevo.L'agnello, anch'esso tra i più antichi soggetti decorativi delle catacombe (Roma, catacomba di S. Callisto, epitaffio di Faustinianum, prima metà del sec. 3°), venne impiegato senza soluzione di continuità come il principale tra i simboli cristologici; la sua importanza nell'arte corrisponde all'importanza del tema nella Bibbia. L'agnello, infatti, era l'animale del sacrificio della pasqua ebraica, simbolo della liberazione degli Ebrei (Es. 12, 1-14) e, secondo Is. 53, 7, immagine del Messia sacrificato; con tale valenza esso fu accolto nel Nuovo Testamento e identificato con C., Agnello di Dio (Gv. 1, 29). È soprattutto il contesto iconografico a fornire a questo simbolo di C. il preciso senso dottrinale; posto alla sommità di una collina rappresentante il paradiso, esso divenne l'immagine del sacrificio salvifico (per es. Roma, catacombe di Pietro e Marcellino, cubicolo nr. 3, affresco dell'ultimo quarto del sec. 4°, in cui l'agnello è acclamato dai martiri ed è sovrastato da C. nel regno eterno). La Maiestas Agni, l'agnello circondato dai quattro viventi dell'Apocalisse - in seguito dai quattro evangelisti -, rappresenta C. che, in ragione del suo sacrificio, riceve la gloria e l'onore riservati a Dio (Ez. 1, 1-28; Ap. 4, 1-11; 5, 6-14). A partire dall'epoca carolingia, l'Agnello di Dio fu posto in relazione con il tema della passione: venne circondato dagli strumenti della passione (Bamberga, Staatsbibl., Bibl. 1, c. 339v, Bibbia proveniente da Tours, 840 ca.), oppure associato con l'immagine di C. crocifisso (Tournai, Trésor de la Cathédrale Notre-Dame, legatura in avorio, fine del sec. 9°); talora il sangue che sgorga dal costato dell'agnello è raccolto dall'Ecclesia (Aschaffenburg, Hofbibl., 2, c. 1v, lezionario ottoniano di Fulda, ultimo quarto del sec. 10°). Nella maggior parte degli esempi, lo stretto legame con il tema della morte redentrice di C. sostiene il significato preciso dell'Agnello di Dio e il suo ruolo in immagini isolate o all'interno di più vasti insiemi iconografici. Nell'arte romanica e in quella gotica l'Agnello di Dio fu presto introdotto nel contesto dell'iconografia eucaristica; in alcuni casi esso poteva evocare sia il tema dell'agnello pasquale ebraico consumato da C. e dai discepoli nel corso dell'Ultima Cena sia il simbolismo del sacrificio dello stesso C. (Vienna, Kunsthistorisches Mus., patena della chiesa di S. Pietro a Salisburgo, 1160-1180). Nell'illustrazione dell'Apocalisse la disposizione e la formulazione iconografica dell'agnello seguivano invece il testo, in particolare i passi di Ap. 5-8, 21-22.Dopo l'agnello, il leone fu probabilmente l'altro più importante simbolo cristologico: in Ap. 5, 5 C. viene definito Leone di Giuda in quanto ha portato a compimento la promessa del regno eterno formulata al suo antenato Giuda, anch'egli paragonato a questo animale in Gn. 49, 9. Il leone aveva assunto significato cristologico già intorno all'inizio del sec. 3° nel Physiologus, ma le immagini più antiche connotate dalla relazione C.-Leone di Giuda risalgono solo all'epoca carolingia; esse illustrano proprio il Physiologus (Berna, Burgerbibl., 318, c. 7r, miniato a Reims, secondo quarto del sec. 9°) e l'Apocalisse (Londra, BL, Add. Ms 10546, c. 449r, Bibbia di Moûtier-Grandval, metà del sec. 9°); più raramente esse costituiscono un 'ritratto' simbolico a sé stante di C. (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 14000, c. 16v, Evangeliario di Carlo il Calvo, 870). Alla tradizione iconografica di C.-Leone di Giuda si rifanno le figurazioni romaniche e gotiche del leone, che sempre in connessione al Physiologus, poteva anche significare C. risuscitato; con questo valore, a partire dal sec. 12°, fu inserito tra altri simboli e tipi veterotestamentari della Risurrezione (Liegi, Bibl. Univ., 363 C, c. 57r, Evangeliario di Averbode, 1165-1175).Un altro animale simbolo di C., sempre secondo il Physiologus, è il pellicano che si lacera il petto per nutrire del suo sangue i piccoli. Prima dell'epoca romanica la figurazione è rara e il suo significato cristologico non sempre certo ma, a partire dal sec. 13°, il pellicano entra spesso nelle rappresentazioni del Crocifisso o della Crocifissione, dove sintetizza ed esprime la ragione essenziale del sacrificio e della morte di C., l'amore di Dio per i suoi figli.Altri simboli di C. potevano essere l'aquila, l'unicorno, la fenice, la vigna; il loro significato cristologico risale alla Bibbia, per quanto riguarda la vigna, e a scritti diversi quali per es. il Physiologus e i commentari esegetici degli autori ecclesiastici, per l'aquila, l'unicorno e la fenice.Un altro importante elemento iconografico che rinvia direttamente alla seconda persona trinitaria è la mano di Dio raffigurata al centro di una croce o circoscritta da un nimbo crucifero; gli esempi più antichi risalgono all'epoca carolingia, ma la diffusione di questo motivo inizia solo alla fine del 10° secolo.La croce va considerata come un segno e non come un simbolo, ma alcuni Padri affermano che C. in persona si rivela nello strumento della sua passione (Girolamo, Ep., CVIII) e, nel caso di una tale antropomorfizzazione, il segno principale del cristianesimo si trasforma in un simbolo dello stesso Salvatore. La croce monogrammatica fu certamente la variante più vicina a questo concetto; il suo braccio verticale, che assume la forma della lettera greca Ρ del chrismon, assimila tale croce alla stessa figura di C. crocifisso. Questo carattere di simbolo antropomorfo si rivela soprattutto nella composizione in cui essa è posta sotto la mano di Dio che tiene una corona (Napoli, battistero di S. Giovanni in fonte, mosaici della prima metà del sec. 5°). Rivelano lo stesso carattere antropomorfo e simbolico le croci decorate da una testa di C. posta all'intersezione dei bracci (Ravenna, S. Apollinare in Classe, mosaico absidale, ante 549; Parigi, BN, fibula di Linon, fine del sec. 6°; Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus., croce processionale da Basilea, 1018 ca.).Tranne la croce monogrammatica e la croce decorata dalla testa del Salvatore, i soggetti simboleggianti C. potevano denotare anche altri temi cristiani; essi rinviano alle azioni compiute da C. o a concetti e nozioni dogmatiche di carattere generale. La vigna in particolare poteva simboleggiare l'eucaristia, la Chiesa e, in maniera più generale, lo spazio della salvezza. L'agnello rappresentava frequentemente un apostolo, un santo, oppure tutti i credenti; l'aquila e il leone alludevano anche alla risurrezione. Al tempo stesso, alcuni di questi simboli potevano assumere una connotazione negativa: l'unicorno e soprattutto il leone rappresentavano spesso il male nelle sue diverse manifestazioni (la morte, il peccato, Satana). Questa polisemanticità comporta che il significato cristologico di un simbolo non possa essere definito se non a partire dal suo contesto iconografico o dall'iscrizione che lo accompagna; spesso tuttavia questi dati mancano e sono quindi numerose le rappresentazioni simboliche il cui esatto rapporto semantico con la figura di C. pone problemi interpretativi.Il simbolo cristologico poteva essere posto al centro di un ampio contesto di rappresentazioni e fungere da immagine-chiave dell'intero programma iconografico, come per es. l'agnello (Ravenna, S. Vitale, volta del presbiterio, 547 ca.); a volte però sono testimoniate disposizioni in cui il simbolo cristologico occupa una posizione secondaria in rapporto alla figurazione principale, costituendo così una sorta di commentario figurato (per es. il pellicano sul crocifisso).Nell'arte paleocristiana e in quella dell'Alto Medioevo un intero programma iconografico era spesso costruito attorno a un solo simbolo cristologico; in epoca romanica e gotica invece i simboli cristologici spesso si moltiplicavano all'interno di una stessa opera, in particolare nelle composizioni dell'iconografia tipologica.Un vero e proprio trattato di cristologia esposto in linguaggio simbolico è costituito dalla decorazione di un'arcata della recinzione del coro della cattedrale di Treviri (fine del sec. 12°): il pesce che porta sul dorso i pani, il leone, il pellicano, la fenice, l'unicorno e l'aquila sono accompagnati qui dai simboli degli evangelisti; in tal modo i diversi aspetti della persona e dell'opera di C. sono correlati al tetramorfo, tema che, fin dal sec. 5°, era parte integrante dell'immagine teofanica di Cristo.
Le immagini di C. ebbero non solo il posto principale nel repertorio tematico, ma furono anche il terreno privilegiato delle più significative innovazioni iconografiche, così che i modelli dell'iconografia di C. si ripercossero costantemente in tutta l'arte figurativa. L'importanza dei temi cristologici si evidenzia anche nella collocazione privilegiata che la Chiesa assegnò loro nella decorazione degli edifici di culto, degli arredi e degli oggetti liturgici, cioè nelle parti più esposte e visibili dello spazio liturgico nonché degli oggetti di culto. Un'iscrizione che accompagna la Maiestas Domini nell'Evangeliario di Echternach, databile al 1030 ca. (Norimberga, Germanisches Nationalmus., 156142, cc. 2v-3r), spiega così la posizione dell'immagine all'inizio del libro: "Hinc positus primus, quia non precesserat ullus".È probabile che una Traditio legis decorasse l'abside della basilica di S. Pietro in Vaticano già nel terzo quarto del sec. 4°; altre rappresentazioni a carattere dottrinale (C.-docente, C. in trono, Maiestas Domini) occupavano la maggior parte delle calotte absidali a partire dal sec. 5°, rimanendo tema principale della decorazione fino al termine del periodo romanico. Negli edifici a pianta centrale un C. trionfante raffigurato in posizione stante (Salonicco, S. Giorgio) o un busto di C. in un medaglione (Santa Maria Capua Vetere, S. Prisco) - iconografie dalla forte connotazione imperiale - fecero la loro comparsa nel sec. 5° nella sommità della cupola o della volta centrale. Nelle chiese bizantine dell'epoca posticonoclasta l'immagine di C., spesso il Pantocratore, occupava abitualmente la cupola centrale (Kiev, Santa Sofia, 1042-1046; Dafni, chiesa del monastero, 1100 ca.). In questo modo, un'immagine che presentava il Figlio di Dio nella sua forma umana e metteva in evidenza il suo potere universale dominava l'edificio e, in particolare, lo spazio liturgico principale. La posizione della raffigurazione corrisponde all'idea secondo la quale il C. della gloria eterna è sempre presente nel sacrificio eucaristico della sua Chiesa e stretti legami uniscono la liturgia terrena con quella celeste (Gregorio Magno, Dialoghi, IV, 60; PL, LXXVII, coll. 428-430).Il desiderio della Chiesa di evidenziare il tema dell'umanità di C. fu certamente all'origine della preponderanza di immagini antropomorfe del Salvatore poste nei punti focali degli edifici. Le rappresentazioni simboliche e la croce furono meno numerose, benché se ne conoscano esempi nei grandi cicli della fine del sec. 4° e degli inizi del 5° (Roma, battistero Lateranense, cappella di S. Giovanni Evangelista; Cimitile, basilica scomparsa); in questi casi l'accento dottrinale si spostava verso il tema del sacrificio o verso quello del trionfo di C. sulla morte.Nell'arte carolingia, preromanica e romanica si continuarono a ubicare le rappresentazioni simboliche di C., in particolare l'agnello, nella parte centrale della decorazione monumentale ma, tranne casi isolati, esse facevano parte integrante di un insieme iconografico che presentava più temi cristologici, come per es. l'illustrazione di Ap. 4-5 nel mosaico oggi perduto di Aquisgrana (800 ca.), o il tema composito dell'Ascensione-Parusia-Missione degli apostoli nelle pitture murali del battistero di Poitiers (1110 ca.).Una grande rappresentazione a contenuto dottrinale era posta nell'abside o alla sommità della cupola, scene cristologiche tratte dai vangeli e dagli apocrifi si sviluppavano nella navata che conduceva direttamente verso lo spazio liturgico principale. Negli edifici a pianta centrale erano le pareti che sostenevano la cupola a essere riservate all'esposizione di questi temi, ma, pur essendo questa disposizione seguita in linea generale, un vero e proprio sistema rigoroso non si sviluppò né in Occidente né a Bisanzio, dove gli schemi programmatici appaiono tuttavia piuttosto ripetitivi.L'insegnamento del dogma cristologico era dunque suddiviso tra le immagini che facevano appello alle capacità interpretative del credente e le rappresentazioni che gli illustravano direttamente il racconto desunto dalle Scritture. Le prime presiedevano il clero officiante, le seconde accompagnavano i fedeli nel loro avanzare verso l'altare. I più antichi esempi della decorazione monumentale cristiana non si sono conservati nel loro stato originale, ma è probabile che questa distribuzione dei due generi all'interno della chiesa fosse già largamente in uso nel 5° e 6° secolo. Anche nei programmi che prevedevano altri cicli e rappresentazioni, per es. nei vasti insiemi iconografici incentrati sul tema della concordanza tra Antico e Nuovo Testamento, questa ripartizione dei soggetti cristologici costituiva, nella maggioranza dei casi, il principio ordinatore della decorazione monumentale; ciò è evidente a partire dall'epoca carolingia, come testimoniano le pitture murali della chiesa di S. Giovanni a Müstair: in questo caso la vita terrena di C. (accompagnata dalla storia di Davide) occupa le pareti della navata, sviluppandosi tra le due immagini teofaniche del Salvatore poste nella parte orientale dell'edificio (una Maiestas Domini e una Ascensione) e il Giudizio universale sul muro ovest, scena che, pur appartenendo a pieno titolo all'ordine storico della salvazione, comporta al tempo stesso la visione di C. assiso nella sua gloria eterna. Il fedele veniva a trovarsi, dunque, letteralmente circondato dalla presenza di C., al tempo stesso uomo, sottomesso alle leggi dell'esistenza terrena, e Dio, padrone assoluto del tempo e dell'universo, sue creazioni. L'onnipresenza di C. risultava ancora più manifesta nelle chiese la cui navata centrale era riservata unicamente alle scene del Nuovo Testamento (Sant'Angelo in Formis).Nella decorazione delle chiese bizantine di epoca posticonoclasta, in maggioranza edifici a pianta cruciforme con cupole, C. è inteso soprattutto come capo della Chiesa: i temi cristologici a carattere narrativo riuniti intorno al Pantocratore della cupola centrale erano, salvo rare eccezioni, scelti per illustrare le feste liturgiche; la Maria orans (Blacherniótissa) che, posta nell'abside principale, pregava il Figlio, lo faceva a nome della Chiesa; il Signore che distribuiva la comunione agli apostoli, raffigurato nella stessa abside, era il C. dell'eucaristia e presentava dunque il sacramento che costituisce il fondamento dell'unione della Chiesa.Le sculture che si disponevano intorno all'ingresso principale delle grandi chiese romaniche continuavano la concezione della decorazione monumentale organizzata intorno alla teofania di Cristo. Nei grandi portali una Maiestas Domini o una figura di C.-giudice occupavano abitualmente il timpano, mentre un busto di C. segnava spesso la chiave di volta; significative differenze distinguono però il contesto della cristologia dei portali romanici da quello delle pitture murali e dei mosaici dei secoli precedenti. L'epoca delle grandi sintesi teologiche, che in Occidente abbraccia gli anni 1050-1250, introdusse nelle considerazioni sulla salvezza un numero considerevole di soggetti inerenti la natura, la storia e le condizioni dell'uomo. Questa vasta e nuova materia si fece strada anche nella decorazione dei portali, la cui complessa struttura offriva inedite possibilità per una presentazione gerarchizzata e differenziata di un gran numero di soggetti. C. teofanico nei portali romanici e C.-giudice nei portali gotici presiedevano un universo celeste e terreno di notevole ricchezza tematica.Analoga evoluzione si osserva nella decorazione degli arredi, dei vasi eucaristici, dei reliquiari, delle legature e degli altri oggetti di uso liturgico. Al centro della composizione iconografica si trovava abitualmente un'immagine a contenuto dottrinale, il cui preciso significato corrispondeva a uno dei grandi temi cristologici indicati al momento della realizzazione dell'opera. Così il lato principale del cofanetto di Brescia (Civ. Mus. Cristiano, fine del sec. 4°), uno dei più antichi oggetti liturgici decorati con una lunga serie di scene cristologiche, è dominato dall'immagine di C.-docente, nell'esercizio del suo potere profetico, tema che era allora uno dei più importanti nell'iconografia del Cristo. Negli oggetti liturgici dei secc. 5° e 6° la posizione centrale poteva anche essere occupata da un simbolo di C. (per es. l'agnello) o da una croce (Milano, Tesoro del Duomo, dittico d'avorio). A partire dall'epoca carolingia il programma decorativo si costruì abitualmente intorno alla Maiestas Domini degli antependia (Milano, S. Ambrogio, altare di Vuolvinio, 824-859; Aquisgrana, Cappella Palatina, antependium dell'inizio del sec. 11°; Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya, antependium da Seu d'Urgell, inizio del sec. 12°), degli altari portatili (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus., altare di Eilbertus di Colonia, 1150 ca.) e dei vasi eucaristici (Fritzlar, Domschatz und Mus. des St. Petri-Domes, patena e calice, primo decennio del sec. 13°). Ma anche altri temi cristologici e altre tipologie iconografiche erano prescelti quali immagini centrali di un programma: per es., la Traditio legum et clavium (Milano, S. Ambrogio, ciborio, fine del sec. 10°) o C. stante (Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny, antependium della cattedrale di Basilea, 1020 ca.; abbaziale di Grosskomburg, fronte d'altare, 1104-1139). Nei programmi basati sull'esegesi tipologica, i temi cristologici, fossero essi singole scene o vasti cicli, costituivano il centro della composizione iconografica (per es. il registro mediano dell'antico ambone di Nicola di Verdun, Klosterneuburg, 1181).Lo sviluppo dell'architettura gotica mise progressivamente fine a questa concezione polarizzata, assiale e centripeta della decorazione; le nuove absidi a nervature non si prestavano più alla collocazione di una teofania di C., mentre le pareti della navata centrale, via via sempre più smaterializzate, non permettevano di sviluppare una serie di grandi pannelli a carattere narrativo. Le decorazioni cristologiche di vecchio tipo sopravvissero, ridotte e trasformate, sulle chiavi di volta degli edifici costruiti al di fuori della grande corrente delle cattedrali gotiche classiche, per es. nelle chiese di stile plantageneto (Saint-Jouin-de-Marnes nel Poitou, 1220 ca.) o nelle chiese dell'Europa centrale (Salem, abbaziale cistercense, prima metà del sec. 14°). Nella decorazione monumentale dipinta si continuavano certamente ad allestire cicli della Vita di C., spesso arricchiti peraltro di temi mariologici e di altro genere; ma queste serie, disposte ormai sulle pareti delle chiese od oratori a navata unica e sulle pareti delle cappelle laterali annesse ai grandi edifici, non facevano più parte di un insieme basato su un grande tema dottrinale: esse costituivano unità narrative a sé stanti, sviluppate su una vasta superficie allo scopo di attirare l'attenzione del fedele sulla vita terrena del Salvatore.A partire dal sec. 13° la sede privilegiata per la rappresentazione cristologica fu la tavola d'altare, erede, in qualche misura, della funzione dell'antica immagine absidale, di cui tuttavia trasformava interamente il messaggio. Tranne alcuni casi isolati - il polittico di Soest (Berlino, Staatliche Mus., metà del sec. 13°), il polittico Stefaneschi di Giotto (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca), la pala Strozzi di Andrea Orcagna (Firenze, S. Maria Novella, 1357) -, le tavole dei secc. 13°-14° non presentavano immagini di connotazione dottrinale forte come quelle che decoravano un tempo le absidi e le cupole. L'immagine centrale del polittico, come del resto la sua stessa dimensione, evidenziava un soggetto di culto preciso e definito, ma che non si isolava in alcuna misura dal resto delle raffigurazioni: costituendo la sommità tematica dell'intera sequenza, vi era profondamente incorporato. Poiché il programma era disposto su di una superficie piana, il fedele poteva abbracciare con un solo sguardo sia il soggetto principale sia l'insieme delle scene.I polittici del Tardo Medioevo raramente presentano temi unicamente cristologici; spesso essi sono uniti ad altri temi, per lo più mariani, e proprio questi ultimi divennero sempre più spesso il soggetto principale. Anche le rappresentazioni a contenuto puramente cristologico (la Crocifissione, l'Imago Pietatis, la Pietà) erano meno numerose delle immagini della Vergine e delle scene evangeliche o apocrife con forte connotazione mariana (la Vergine con il Bambino, la Dormizione e la Glorificazione della Vergine, la Sacra Conversazione, l'Annunciazione, l'Adorazione dei Magi, la Famiglia della Vergine, la Pietà). Alla fine del Medioevo il culto di C. divenne inseparabile da quello della Vergine, risultando spesso addirittura secondario rispetto a quest'ultimo; testimonia emblematicamente questa tendenza la variante iconografica dell'Assunzione della Vergine dove C. e la Madre, due personaggi delle stesse dimensioni, abbracciati, circondati da una mandorla o da un nimbo, sono posti al di sopra degli apostoli riuniti intorno al sepolcro vuoto o intorno alla Vergine morente. Il gruppo rappresenta l'assumptio animae et corporis, ma le particolarità iconografiche, la mandorla, attributo cristologico, e la paritarietà dei due personaggi esaltano anche il tema della glorificazione, di cui godono allo stesso titolo sia il Salvatore sia la Madre. Il creatore di questa iconografia fu probabilmente Cimabue (Assisi, S. Francesco, basilica superiore); essa penetr'o in seguito nelle tavole d'altare (Beato Angelico, Assunzione della Vergine, Filadelfia, Mus. of Art, Johnson Coll.) e la realizzazione più monumentale è quella della citata Dormizione della Vergine di Veit Stoss (Cracovia, chiesa di Nostra Signora); qui il tema della gloria inscindibile della Vergine e di C. è al centro della composizione. Al tempo stesso, le immagini di C., cui in precedenza era affidato il compito di trasmettere grandi temi dogmatici, persero di importanza; su un trittico per uso domestico attribuito a Berlinghiero e datato al 1230 ca. (Cleveland, Mus. of Art) un C.-giudice in maestà è relegato tra i santi raffigurati sugli sportelli laterali, mentre a un'immagine della Vergine del tipo della Panaghía Eleúsa è riservata la totalità del pannello centrale. Alla fine del Medioevo le necessità del culto finirono per prevalere sulle considerazioni dottrinali e il trittico lucchese illustra efficacemente questo fenomeno.La stessa compenetrazione di temi cristologici e mariologici si può osservare in altri campi artistici. La decorazione delle chiese si sviluppava dapprima soprattutto in stretto rapporto con la liturgia eucaristica, ma assai presto, verosimilmente nel sec. 5° e sicuramente nel successivo, le immagini di C. acquistarono un posto importante anche all'interno di altre pratiche di culto della Chiesa; esse, in una prima fase veicolata unicamente dalle icone, erano destinate in particolare alla devozione privata e venivano utilizzate in determinati offici delle chiese locali. Diversi fattori contribuirono a conferire alle icone di C. una posizione privilegiata tra gli oggetti devozionali; per i sostenitori più radicali della dottrina iconodula esse ponevano il fedele direttamente al cospetto del Figlio di Dio. Anche se la reale portata di questa concezione va limitata solo ad alcuni ambienti ecclesiastici, l'icona, in quanto erede del ritratto antico, trasmetteva in qualche misura l'idea della presenza reale della persona raffigurata e perciò ne stimolava largamente la venerazione. In effetti le rappresentazioni del busto di C. isolato possono essere messe in relazione con questo genere artistico: nei secc. 5°-6° esse sono poste in un clipeo, inquadramento riservato in precedenza alle effigi degli imperatori. L'icona, oggetto di un culto particolare, e l'icona di C. in misura ancora maggiore, divenne oggetto sacro. Un'immagine di C. in trono (forse del sec. 6°-7°), conservata nel Sancta Sanctorum del Laterano, alla vigilia della festa dell'Assunzione veniva portata in processione alla basilica di S. Maria Maggiore, per permettere a C. di 'incontrare' la Madre: in questo caso l'icona svolgeva la funzione della persona fisica del Salvatore. Il Pantocratore della Chalké di Costantinopoli segnava la presenza del Salvatore nella capitale dell'impero, a protezione della città. L'identificazione tra effigie e persona rappresentata non era però la stessa in ogni caso e in tutti gli ambiti culturali, ma era senz'altro più forte a Bisanzio e nell'Oriente cristiano che non in Occidente. Ovunque l'icona di C. era senza alcun dubbio il mezzo più potente per incoraggiare l'espressione di un'intima devozione del fedele nei confronti di Gesù.In Occidente, negli ultimi tre secoli del Medioevo, il ruolo di mezzo per sviluppare la devozione fu largamente ricoperto dalle immagini devozionali: alcune di queste, raffiguranti C., decoravano anche lo spazio del culto liturgico pubblico; così l'Imago Pietatis (e le sue varianti) era talvolta posta al centro della pala d'altare o sul tabernacolo. Lo stretto rapporto dell'immagine con l'Eucaristia si spiega con la circostanza che il suo tema riassumeva l'idea del sacrificio di C., quindi del fondamento della messa. È possibile inoltre che la funzione cultuale di questa rappresentazione a Bisanzio abbia influenzato l'Occidente: un'icona ἡ ἄϰϱα ταπείνωσιϚ era utilizzata nella Santa Sofia di Costantinopoli durante l'ufficio del Sabato Santo e il βασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ costituiva spesso la decorazione absidale, per es. della protesi, dove il celebrante preparava le offerte eucaristiche; ma la maggioranza delle immagini devozionali di C. serviva in Occidente per il culto individuale o per la devozione di piccoli gruppi della società medievale.
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