Croce: socialismo, democrazia, massoneria
Il pensiero filosofico di Croce è intrinsecamente politico, ma non solo in quanto ‘filosofia civile’ attenta alle questioni della vita pratica e formulata in diretta corrispondenza con i mutamenti storico-sociali del suo tempo che lo conducono a contrapporre il liberalismo, da un lato, al socialismo e alla democrazia dall’altro. Il suo pensiero filosofico è politico perché si fonda sulla consapevolezza dell’inseparabilità di filosofia e storia, che comporta la riflessione critica sulla storia intesa come «storia contemporanea»; e anche perché fa coincidere la storia con la politica, cioè la storia del passato con la storia nel suo farsi, nell’ottica di un realismo politico che rifiuta l’annullamento delle diverse forme di vita in un’unità astratta (come invece avviene, secondo Croce, con l’«atto puro» di Gentile) o in una verità trascendente. Ma se l’attività teoretica implica una tale riflessione critica sulla conoscenza della storia, questa conoscenza nasce, a sua volta, dalla domanda di un presente che è storia politica nel suo divenire, assicurato dalla circolarità di «svolgimento» delle diverse figure dello spirito in cui pensiero e azione sempre si individuano e si concretano: il permanere dei distinti (logica, arte ecc.) permette infatti un mutamento che non è semplice ripetizione circolare, bensì accrescimento della vita interno alla storia della libertà. Tale accrescimento, però, non è condotto da alcuna forza trascendente astrattamente spiritualistica o naturalistica, che lascerebbe spazio o alle «fole» dell’individualismo edonistico (secondo cui ognuno potrebbe, in autonomia, «fabbricare» la realtà: è il caso della democrazia e del razionalismo illuministico che si trova a fondamento della mentalità massonica) o ai «dogmi» del costruttivismo positivistico (secondo cui esistono «leggi naturali» che agiscono meccanicisticamente nella storia: è il caso del socialismo di impianto marxiano). È pertanto in questa prospettiva profondamente filosofica, non legata solo all’emergenza di contingenze storiche o di polemiche politiche, che deve essere analizzato il rapporto di Croce con il socialismo, la democrazia e la massoneria, così da individuare le caratteristiche filosofiche che distinguono queste tradizioni dal suo liberalismo e dalla sua filosofia dello spirito.
L’attenzione che il giovane Croce rivolge al problema della conoscenza storica, coltivata in un’ottica chiaramente antipositivistica, lo conduce a interessarsi della rielaborazione del materialismo storico avviata da Antonio Labriola e, su questa via, a un confronto con Karl Marx e Friedrich Engels che, nei saggi scritti tra il 1895 e il 1899 e raccolti in Materialismo storico ed economia marxistica (1900), assorbe molte delle sue energie filosofiche nell’ottica di un originale e indipendente ‘revisionismo’ delle tesi marxiane. Con intenti «costruttivi» il giovane Croce si accinge infatti all’interpretazione della «forma scientifica del materialismo storico» (Materialismo storico ed economia marxistica, 2001, pp. 17 e segg.), contestando l’idea che il marxismo sia una filosofia dogmatica e aprioristica della storia fondata su una concezione teleologica della realtà: la pretesa di stabilire una legge generale della storia non è caratteristica del materialismo storico, ma del «materialismo metafisico» (esemplificato da Georgij V. Plechanov), che intende capovolgere la teoria hegeliana, sostituendo la materia all’idea, conservandone tuttavia l’impianto metafisico e trascendente. Al contrario, il materialismo storico, consapevole che è impossibile ridurre la varietà dei fatti storici a un unico principio o a una direzione teleologica del divenire, è caratterizzato per il giovane Croce da una prospettiva realistica e immanente che non pretende di dedurre una determinata condotta pratica (per es., la lotta di classe) da una pretesa necessità storica (la crisi finale del capitalismo), ma soltanto di sottolineare il ruolo concreto del fattore economico nel divenire storico: lungi dall’essere «scienza» oppure «metodo», il materialismo storico contribuisce alla conoscenza della storia offrendo – anche grazie all’abbandono delle utopie giusnaturalistiche e illuministiche – una prospettiva concreta attraverso la quale è possibile guardare il mondo storico in cui viviamo, il mondo della realtà e dell’attività pratica (quel mondo che Croce successivamente definirà il mondo dell’«utile», inteso come modalità dell’attività processuale dello spirito).
L’importanza del materialismo storico consiste allora nel fornire «una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico» (p. 25), cioè nel contribuire a comprendere la società moderna in modo più compiuto e meno astratto, senza tuttavia pretendere di spiegare ogni avvenimento prendendo come riferimento i soli rapporti di produzione. Il giovane Croce critica pertanto tutti i marxisti che interpretano – utilizzando la forma «astratta» della dialettica hegeliana – il materialismo storico come una filosofia della storia o come una teoria generale della società: la storia è sempre «circostanziale» e non ha un fine ultimo o necessario, né un unico fondamento. Per questo motivo la storia non può essere ridotta alla storia economica (come risulta evidente dal fallimento del progetto di riduzione dell’uomo reale a homo œconomicus tentato da Achille Loria, pp. 35 e segg.), ma deve tenere in relazione diretta l’etica, la politica e l’economia. Salvaguardare la storia significa difendere la concretezza rispetto all’astrazione e alla semplificazione:
Tutte le leggi scientifiche sono leggi astratte; e fra l’astratto e il concreto non c’è ponte di passaggio, appunto perché l’astratto non è una realtà, ma uno schema del pensiero, un nostro modo di pensare, direi quasi, abbreviato (p. 107).
Solo se propone questo effettivo richiamo alla realtà storico-politica, il materialismo storico – contro il positivismo e l’hegelismo deteriore della logica, della metafisica e della teologia – è da tenere in considerazione come strumento di analisi e di indagine per la conoscenza concreta della realtà storico-sociale; ma se esso pretende di costituirsi schematicamente come guida per l’azione pratica, come teoria generale della storia e della società, come metafisica «economicistica» della storia, come utopia «definitiva» del divenire o come epistemologia dell’oggettivazione scientifica, allora esso è da rifiutare nel suo complesso. Lo sviluppo della riflessione sul materialismo storico mostra ben presto al giovane Croce che sono queste ultime posizioni dogmatiche a caratterizzare in realtà il materialismo storico, il cui tentativo di «revisione» è pertanto considerato impossibile: fin dai primi anni del Novecento Croce giunge dunque ad affermare l’inutilità del marxismo sul piano della comprensione della realtà storico-politica, visto che le sue tesi sono caratterizzate da astrazioni utopiche e da fantasie dogmatiche – quali l’idea di fine necessaria della storia – logicamente e storicamente insostenibili, i cui esiti catastrofici sono resi evidenti dalla drammatica realtà sociale della Russia sovietica (Conversazioni critiche, serie IV, 1932, pp. 61 e segg., e serie V, 1939, pp. 227 e segg., 348 e segg.).
La traiettoria critica di Croce nei confronti del materialismo storico, che vede mutare il suo moderato elogio in una serrata critica, è la stessa che caratterizza il suo giudizio sul socialismo di ispirazione marxista. Consapevole della complessità sociale ed economica che caratterizza la nuova società di massa, il giovane Croce guarda inizialmente al socialismo come possibile forma di nazionalizzazione delle masse popolari o, almeno, di educazione e integrazione politica dei movimenti sociali nelle forme della rappresentanza moderna. In quest’ottica il socialismo potrebbe contribuire non solo a esaltare l’istanza di liberazione dell’uomo, ma anche a razionalizzare le nuove istanze sociali in un’epoca dominata dall’irrazionalismo e dal decadentismo, i frutti avvelenati del positivismo. Tutto ciò, però, non accade, soprattutto a causa dell’incapacità del socialismo a comporre un’adeguata mediazione tra i valori liberali, le questioni socioeconomiche e le dinamiche contraddittorie della società di massa. Naturalmente ciò non significa che il ruolo storico del socialismo sia per Croce inutile o dannoso, tutt’altro: esso è infatti importante per abbandonare le utopie egualitarie e ottimistiche, per combattere il positivismo e i movimenti reazionari, per migliorare le condizioni sociali del proletariato e frenare le derive imperialistiche.
Ma tutto ciò non impedisce a Croce – anche contro Labriola, che ha ceduto alla seduzione dell’utopia e della filosofia della storia proprio nel momento in cui interpreta il materialismo storico come socialismo – di verificare l’impossibilità di un rapporto necessario tra dottrina e movimento, cioè tra la teoria marxista e l’azione politica dei socialisti. È infatti illusorio dedurre un programma sociale – un qualsiasi programma sociale, compreso quello socialista – da proposizioni puramente teoriche, visto che tutti i programmi sociali devono essere giudicati sul terreno empirico e morale delle opinioni, dei sentimenti e delle persuasioni che spingono gli uomini alla realizzazione degli ideali considerati buoni e giusti, che però non possono essere dimostrati scientificamente:
Quale relazione intercede tra materialismo storico e socialismo? Il Labriola inclina a connettere strettamente, e quasi a identificare, le due cose: tutto il socialismo è, a suo parere, nell’interpretazione materialistica della storia, ch’è la verità stessa del socialismo; e chi accetta l’una e rifiuta l’altro, non ha inteso né l’una né l’altro. Io credo queste affermazioni alquanto esagerate […]. Spogliato il materialismo storico di ogni sopravvivenza di finalità e di disegni provvidenziali, esso non può dare appoggio né al socialismo né a qualsiasi altro indirizzo pratico della vita. Solamente nelle sue determinazioni storiche particolari, nella osservazione che per mezzo di esso sarà possibile fare, si potrà eventualmente trovare un legame tra materialismo storico e socialismo. L’osservazione sarà, per esempio, la seguente: la società è ora così conformata che la più adatta soluzione, che contiene in sé, è il socialismo. Osservazione la quale, per altro, non potrà diventare azione e fatto senza una serie di complementi, che sono motivi di interesse economico non meno che etici e sentimentali, giudizi morali ed entusiasmi di fede. Per se stessa, è fredda e impotente e non basterà a muovere l’indifferente, lo scettico, il pessimista (Materialismo storico, cit., p. 31).
Tutto ciò significa che la valutazione del socialismo – inteso come movimento politico animato da una nuova fede sociale – deve avvenire sul piano della verità etica e storica, che costringe a constatare il suo fallimento: non si tratta solo di confutare la dimensione «scientifica» del marxismo – di per sé priva di fondamento in quanto non esistono termini di continuità tra l’astrazione delle teorie scientifiche e la concretezza della realtà sociale –, ma soprattutto di considerare i reali limiti del ruolo sociale e politico svolto dal socialismo nella vita moderna. Per affermare la crisi irreversibile del socialismo, Croce non ha bisogno di attendere l’avvio della guerra, da cui risulta evidente che le lotte internazionali primeggiano su quelle sociali e che gli attori della storia sono i popoli e gli Stati, non le classi: infatti non sempre esistono lotte di classe e, quando esistono, non sempre le classi seguono, nelle loro azioni, lo schema marxiano. La lotta di classe non è dunque intrinsecamente necessaria allo svolgimento storico, e viceversa.
Nell’articolo La morte del socialismo (Discorrendo con Benedetto Croce) (pubblicato sotto lo pseudonimo di Falea di Calcedonia, «La Voce», 1911, 3, 6, pp. 501-502, poi in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 1993, pp. 147 e segg.), Croce afferma che tale morte non è dovuta a ragioni solo politiche, bensì anche filosofiche, evidenti nella superiorità etica, politica e storica del liberalismo: infatti, da un lato, è impossibile ridurre il valore della libertà a un principio economico, proprio perché è la sfera dell’eticità a governare e indirizzare il processo storico; dall’altro lato, l’essenza del mondo moderno non consiste nell’affermazione di un soggetto astratto e assoluto (il proletariato, nel caso del socialismo), ma nell’opera di molti e diversi soggetti che costruiscono la civitas hominum. Socialismo e liberalismo appartengono pertanto a sfere diverse – economia vs etica – di pensiero filosofico e di agire storico-politico.
Naturalmente Croce è ben consapevole della differenza tra socialismo utopistico e socialismo «scientifico», ma entrambi cadono sotto la sua critica. Il socialismo utopistico tradizionale è fondato su un «ingenuo e quasi bambinesco desiderio della regolarità o dell’eguaglianza. E la vita, invece, è ineguale e irregolare: sicché quel desiderio non rappresenta neppure un bell’ideale, essendo opposto alla vita e alla realtà» (p. 148). Tutti gli antichi «disegni astratti» di società ideali, fondate sulla comunione dei beni, diventati programmi di alcuni riformatori o rivoluzionari, sono pertanto solo «aneddoti» o «rozzi episodi» all’interno della storia sociale e della storia letteraria.
Ma, nonostante la specificità della sua indagine storico-politica, anche il socialismo marxiano è solo un aneddoto o un episodio della storia sociale. Il passaggio tra le due forme di socialismo consiste senza dubbio nel passaggio da un ideale astratto alla concretezza della storia, cioè da una concezione «aritmetica e geometrica» dell’eguaglianza a una concezione «biologica» fondata sulla consapevolezza che la vita è disuguaglianza e asimmetria: questo passaggio – che nell’ottica del socialismo marxiano comporta lotta di classe e dominio sulle forze naturali attraverso la tecnica – non impedisce però di constatare la morte del socialismo, soprattutto perché è stata la storia a dimostrare la sconfitta della sua concezione teleologica e deterministica del divenire e della sua capacità di previsione, cioè della sua errata interpretazione delle condizioni e delle tendenze della società moderna. L’astrattezza e il dogmatismo sono pertanto i dati centrali del socialismo moderno, così come lo erano del materialismo storico. Nelle vicende del socialismo emerge tuttavia più chiaramente l’elemento «profetico» che caratterizza la lezione marxiana: il «vero» Marx del socialismo non è infatti il Marx filosofo o economista, ma il Marx uomo pratico, rivoluzionario e agitatore politico («il Machiavelli del proletariato») che vede alle sue spalle lo spettacolo grandioso dei rivolgimenti sociali promossi dalla Rivoluzione francese in vista della liberazione finale dell’umanità dalla schiavitù del dominio e del bisogno:
Il secolare feudalismo, spazzato via; una nuova classe, la borghesia, padrona della ricchezza sociale e dello stato: idee, sentimenti, religione, profondamente mutati. E [a Marx] parve che la borghesia avesse creato, al tempo stesso, altrettanti e più problemi che non ne aveva risoluti, e avesse suscitato forze produttrici che non era in grado di dominare, come comprovavano le grandi crisi periodiche, la necessità di una sovrapopolazione, tutta l’anarchia morale, economica e sociale del liberismo, che si nutriva del sopralavoro e sopravalore, e, continuamente squilibrantesi, si rimetteva in equilibrio solo mercé immani distruzioni di ricchezza. Gli parve vedere, uscente dal seno medesimo della borghesia, qualcosa di analogo a ciò che la borghesia era stata rispetto al feudalismo, un elemento di corrosione e di sostituzione: il proletariato o la classe operaia. E gli parve altresì che la vita della società moderna si fosse fatta, per opera della borghesia industriale, oltremodo rapida e intensa; sicché quel processo di dissoluzione e ricomposizione sociale, che aveva occupato secoli nel periodo feudale e semifeudale, si sarebbe dovuto ora svolgere con intensità e rapidità assai maggiori; e che perciò il proletariato avrebbe sostituito in un tempo ben prossimo la borghesia nella direzione della vita sociale, creando una nuova società, la società lavoratrice, nella quale l’altra si sarebbe sciolta (pp. 150-51).
Per Croce è semplice bollare questo progetto socialista sotto l’etichetta della «fede» o del «fantasma di sogno»: esso è un’immaginifica previsione (una previsione morfologica, nelle parole di Labriola), simile a una delle tante previsioni analogiche che gli uomini effettuano quotidianamente, inferendo arbitrariamente realizzazioni future da eventi passati. Per questo motivo è più giusto parlare del socialismo utilizzando termini religiosi (palingenesi, profezia, compimento, redenzione dell’umanità, «sermone della montagna» ecc.) che non filosofici.
Questa inclinazione «religiosa» è evidente non solo in Marx – e, per certi aspetti, anche in Labriola – ma, secondo Croce, anche nell’esponente del socialismo più importante di inizio Novecento, Georges Sorel, che fornisce al movimento operaio il «conforto» del mito (lo sciopero generale) e l’arma della «scissione» (nel senso «cristiano» del termine). Croce elogia la prospettiva antideterministica attraverso cui Sorel tenta di riformare il socialismo: il sindacalismo proletario costituisce infatti la risposta del socialismo etico-politico sia alle degenerazioni scientiste del materialismo dialettico, sia alle derive riformistiche del socialismo parlamentare, corrotto dalle derive «camorristiche» del moderno Stato democratico. Nonostante ciò, esso non riesce tuttavia a sottrarsi all’esito di costruire una «nuova ecclesia» popolata da «apostoli e martiri della nuova fede». Un tale esito – catastrofico in breve tempo anche agli occhi dello stesso Sorel – non fa che confermare per Croce la morte del socialismo, sepolto sotto gli errori contrari del riformismo e del dogmatismo, del democratismo e del messianismo, del demagogismo e del positivismo, del determinismo e dell’utopismo che ne hanno caratterizzato la vita politica e le interpretazioni filosofiche. Tali errori saranno tanto più evidenti nell’Europa postbellica e nella Russia sovietica, quando il socialismo contribuirà a incentivare, in prospettiva «scientifica» e deterministica, la tensione ideologica all’«attivismo» e alla realizzazione di nuove religioni di massa in chiave dispotica (Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932, pp. 352 e segg.), negando il problema della libertà e perdendo sempre più i caratteri realistici che costituiscono l’unico contributo offerto alla filosofia dello spirito dal materialismo storico.
Al contrario di quanto accade in numerosi filosofi e intellettuali della prima metà del Novecento – basti pensare, per es., ad Hans Kelsen e Joseph Alois Schumpeter – in Croce democrazia e liberalismo non appartengono allo stesso paradigma filosofico-politico e non condividono lo stesso giudizio. È noto l’elogio crociano per il liberalismo, inteso come tendenza generale dello sviluppo della società moderna e, soprattutto, come esplicazione politica del principio filosofico secondo cui la storia è storia della libertà. Ma, così come il liberalismo di Croce non equivale al liberismo di Luigi Einaudi (né al liberalsocialismo di Guido Calogero), allo stesso modo il liberalismo è ben distinto dalla democrazia. Questa differenza – cui corrisponde la superiorità del liberalismo sulla democrazia – viene individuata da Croce sia sul piano storico-politico sia su quello filosofico, e rimane stabile lungo tutto l’arco della sua carriera, benché in alcuni momenti (soprattutto in coincidenza con le sue critiche al fascismo) emergano toni e giudizi più positivi nei confronti dell’ideale democratico.
Democrazia e liberalismo appartengono a diversi alberi genealogici e a diverse tradizioni culturali. Il liberalismo riposa sulla tradizione della scienza politica italiana – in particolare di Niccolò Machiavelli – che non separa l’affermazione «concreta» della libertà dal necessario riconoscimento del ruolo della forza, del conflitto e della potenza nel corso della storia. Sul principio democratico pesa invece, agli occhi di Croce, l’eredità negativa del giusnaturalismo, dell’illuminismo e della Rivoluzione francese, la cui principale caratteristica dottrinaria è l’«astrattismo», che conduce a pensare la realtà in termini dualistici di storia e ragione su cui incombe il rischio del «giacobinismo» abbracciato da folle impulsive: una tale visione razionalistica della politica costruisce un sistema di pensiero che distrugge i vivi tessuti del corpo sociale, trasformando arbitrariamente valori determinati sul piano storico in valori universali a cui fare retoricamente appello in ogni questione etica e politica.
È il caso, per es., del diritto naturale che, da prodotto della cultura europea del Seicento e del Settecento, si trasforma in un criterio assoluto di verità per la politica; è il caso, inoltre, dell’eguaglianza, un’utopia dogmatica e irrealistica che appiattisce l’individualità storica e fonda l’ideologia democratica negando il nesso tra idealità e concretezza che caratterizza la storia della libertà; è il caso, ancora, della facile demagogia attraverso cui si instaura una mistica del popolo e delle masse che rischia di condurre a instaurare «tirannie popolari»; è il caso, infine, dell’aspirazione «internazionalistica» a costruire una giustizia tra gli Stati da conseguire con una pace che metta fine ai conflitti grazie all’opera della Società delle nazioni. Per Croce tutte queste sono «fole» dei democratici, che non accettano l’idea dello Stato come potenza, la concezione della politica come conflitto e l’immagine della storia come unica giustizia (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928, pp. 8 e segg., 264 e segg., 296 e segg.).
Del giusnaturalismo e dell’Illuminismo Croce rifiuta la pretesa di imporre una verità astratta, eterna e universale considerata come principio normativo dell’azione politica, che invece – nell’ottica del suo «storicismo assoluto» – è libertà creatrice, insensibile «alle alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che mentiva le sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia e della Dea Umanità» (Materialismo storico, cit., p. 14). Naturalmente ciò non significa che i principi «umanitari» del 1789 e l’idea di libertà siano opposti; significa che quei principi devono essere ricompresi all’interno di una più generale concezione «dinamica» della storia morale e civile (Cultura e vita morale, cit., pp. 41 e segg., 185 e segg., 271 e segg.). Democrazia – come imperialismo, socialismo, conservatorismo o progressismo – è pertanto una categoria astratta che non rende giustizia della realtà storica degli uomini, lo scopo dei quali è quello di volere il bene (l’accrescimento della libertà, della dignità e della conoscenza) o di volere il male (il raggiungimento dell’interesse individuale e il soddisfacimento del desiderio personale): la democrazia (così come l’imperialismo, il socialismo ecc.) è solo uno strumento da porre al servizio di tali fini.
Il giudizio sostanzialmente negativo espresso da Croce sulla democrazia non gli impedisce però di constatarne alcuni aspetti positivi che giungono addirittura a prefigurare la possibilità di instaurare una «democratica libertà» (Scritti e discorsi politici (1943-1947), 1° vol., 1963, pp. 89, 117). Risulta infatti non contestabile la richiesta di partecipazione alla vita politica che giunge dalle masse: le limitazioni antidemocratiche che si sono avute nel corso della storia hanno riposato su criteri empirici e contingenti, non razionali. L’affermazione del suffragio universale – che è il risultato delle battaglie condotte dalle forze democratiche «per partecipare al maneggio delle cose umane» – appartiene alla logica della vita politica perché, pur essendo espressione di un’ideologia «arretrata» come quella democratica, consente il passaggio a una forma politica più alta (Terze pagine sparse, raccolte e ordinate dall’autore, 1° vol., 1955, pp. 289 e segg.).
L’ideale democratico svolge inoltre il suo ruolo attivo contribuendo a evitare le degenerazioni conservatrici del liberalismo, proprio mentre il liberalismo contribuisce a evitare le degenerazioni demagogiche e dispotiche della democrazia. Altre valutazioni positive dell’idea di democrazia emergono in Croce quando affronta la questione della lotta al fascismo, sottolineando come i liberali e i democratici si trovino spesso sulla stessa lunghezza d’onda nell’opposizione alle forze che minacciano la vita libera e la civiltà dell’Europa (Scritti e discorsi politici, 1° vol., cit., pp. 7 e segg., 16 e segg., 58 e segg., 77 e segg.):
Se è possibile un accordo tra i liberali d’Italia e le cosiddette masse? C’era prima della guerra del 1914, a segno che fu largito dai liberali il suffragio universale estendendolo fino agli analfabeti, e la pace sociale non fu per questo in nulla turbata. Anche dopo la guerra il ministero del Giolitti del 1920-21 aveva ristabilito l’equilibrio e ridotto il comunismo a pochi rappresentanti nella Camera, privi di vigore e di autorità. I liberali non sono stati soverchiati in Italia dalle masse, ma dalla banda degli avventurieri chiamati fascisti (p. 60).
Pur appartenendo ad alberi genealogici diversi e a differenti paradigmi filosofici, liberalismo e democrazia hanno comunque alcuni tratti in comune che ne fanno due momenti centrali e indispensabili per contribuire al progresso dello Stato moderno:
Lasciando da parte le differenze teoriche e storiche tra liberalismo e democrazia – sulle quali io stesso ho molto battuto e che tengo ferme – sta di fatto che, nell’uso sempre nuovo che assumono le parole, “democrazia” nei paesi liberi di Europa e America è diventata sinonimo di ciò che noi chiamiamo “liberalismo” (Scritti e discorsi politici, 2° vol., cit., p. 62).
Tali tratti comuni sono però difficili da individuare: la ragione di questa difficoltà è che queste due tradizioni per certi aspetti coincidono, per altri divergono; e per alcuni aspetti sono alleate, per altri nemiche (Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., pp. 99 e segg., 152 e segg., 253 e segg.; Scritti e discorsi politici, cit., 1° vol., pp. 85 e segg., 97 e segg., 115 e segg., 119 e segg., 2° vol., pp. 199 e segg.). Esse coincidono perché entrambe rifiutano ogni forma di dominio assolutistico (sia teocratico sia laico) in nome della libertà individuale, dell’eguaglianza politica e della sovranità popolare, così che in molti casi è possibile verificare il frequente confluire dei loro sforzi contro le tirannie. Ma proprio in questa comune difesa della libertà, dell’eguaglianza e della sovranità popolare si annidano per Croce le differenze tra liberalismo e democrazia. Per i democratici gli individui sono «centri di forze» a cui bisogna assegnare un’eguaglianza di fatto, mentre per i liberali gli individui sono persone la cui eguaglianza ideale risiede nella loro umanità, così che il popolo non è una somma di forze eguali, ma un organismo differenziato, complesso e vario nei suoi componenti da cui hanno origine le diverse associazioni e i diversi livelli organizzativi. I democratici postulano una «religione della quantità» e plaudono alle forme della ragione calcolante e della filosofia «meccanica»; i liberali parlano invece di una religione della libertà e di un’«attività spirituale» che impedisce ogni forma di dittatura, anche di quella popolare (Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., pp. 35 e segg., 355-56).
Croce ribadisce così la superiorità del liberalismo sulla democrazia per quanto riguarda il piano filosofico e culturale: l’ideale liberale è l’unico che permette alla storia umana di rinnovarsi continuamente in un equilibrio che non nega i suoi continui squilibri e che affronta l’«assoluto» senza pretendere di chiuderlo in una forma particolare e contingente. L’affermazione di questa superiorità filosofica e culturale del liberalismo non impedisce però a Croce di verificare una certa utilità del principio democratico sul piano pratico e dell’attività politica, tanto che – facendo riferimento alle condizioni che permisero la prosperità dell’Italia e dell’Europa di metà Ottocento – sottolinea l’importanza di una concordia discors tra liberalismo e democrazia:
La democrazia ha della libertà un concetto astratto, naturalistico e intellettualistico, e il liberalismo un concetto storico e concreto; l’una deriva dal pensiero del secolo XVIII, l’altro da quello del XIX […]. Delle due posizioni mentali, quella storica del liberalismo è più forte dell’altra, astratta, del democratismo […]. Se in questa sfera dottrinale il contrasto tra liberalismo e democratismo non può altrimenti conciliarsi che con la risoluzione del secondo nel primo, col dominio del pensiero e della teoria criticamente più adatta, tutt’altra è la questione che sorge nel campo pratico e politico, in cui le parole “liberalismo” e “democratismo” non rappresentano più mere antitesi di concetti, ma aggruppamenti o partiti di uomini che […] non sono trattabili secondo lo schema dell’inferiore e del superiore, ma secondo l’altro delle determinazioni diverse e opposte che tra di loro si compiono a vicenda e che sono necessarie, le une e le altre, alla vita sociale e politica. Il liberalismo ha la sua forza e la sua debolezza nel suo procedere cauto, che tende a farsi timido; il democratismo, per contrario, nel suo radicalismo e semplicismo, che tende a sostituire alla qualità la quantità, all’effettualità della libertà la parvenza formalistica, e che, spingendosi all’estremo, senza volerlo, provoca e agevola l’intervento delle risoluzioni autoritarie, da esso aborrite in principio (Scritti e discorsi politici, 1° vol., cit., pp. 117-18).
Il giudizio ambivalente di Croce sulla democrazia assume toni ben più critici ogni volta che all’ideale democratico vengono associate l’attività della massoneria e la «mentalità massonica». In più occasioni (soprattutto tra il 1910 e il 1918, con una convinzione che appartiene però all’intera sua carriera) Croce definisce l’ideologia democratica e l’ideologia massonica come sinonimi, tanto da potersi chiamare «ideologia democratico-massonica» (Pagine sparse, raccolte da G. Castellano, 2° vol., 1919, pp. 260 e segg.). La critica di Croce, però, si appunta decisamente sulla mentalità massonica, che continua a ripetere con «formule trite e triviali» la filosofia del Settecento condensata nell’enciclopedismo e nel giacobinismo: questa ideologia ha infatti avuto il suo massimo successo in coincidenza con l’affermazione dell’Illuminismo e della sua «astratta filosofia razionalistica» (che rivive nel positivismo), incapace di senso storico, perché concorda con la forma iniziale («ingenua») di riflessione sulle cose sociali e politiche che è caratterizzata dall’«astrattismo» e dal «semplicismo», dal naturalismo, dal cosmopolitismo, dall’intellettualismo e dai «sogni» dell’universalismo «a buon mercato» messo a servizio della «democrazia radicale».
In questa sua vuota astrattezza, l’ideologia massonica è contraria non solo al liberalismo, per Croce l’unico vero faro dell’agire politico moderno in grado di cogliere l’universale nel particolare, ma anche al socialismo. Tra massoneria e socialismo vi è infatti la stessa differenza che intercorre tra universalismo e particolarismo, tra illuminismo e idealismo, tra Immanuel Kant e Georg Wilhelm Friedrich Hegel, tra Voltaire e Marx: concetti quali umanità, tolleranza e fratellanza esprimono una visione «povera» della realtà e appartengono all’enciclopedismo e al giacobinismo, contro cui combattono il socialismo e, più in generale, tutte le filosofie «storiche» e anti-intellettualistiche dell’Ottocento. Per Croce la mentalità massonica costituisce un’ideologia che appartiene ai piccolo-borghesi di «mezzana cultura» che conferma la loro mediocrità, oltre che la loro incapacità di attuare gli scopi universalistici che sono nei loro programmi, i cui esiti sono in verità imperialistici e non «umanitari» (come dimostrano le guerre napoleoniche).
Anche l’anticlericalismo massonico ha carattere ideologico ed è frutto di una mancanza di cultura, non di una posizione filosofica giustificata da una reale consapevolezza storica. Tutto ciò non riguarda però solo il passato: benché la mentalità massonica sia incapace di fornire una solida cultura storica e politica, essa è comunque diffusa nell’Italia contemporanea, tanto da ostacolare il radicamento dei valori risorgimentali e la comprensione della complessità dei problemi storico-sociali. L’ideologia massonica – sostanzialmente importata dalla Francia – è del tutto ignara della circolarità tra vita, storia e verità: anche per questo motivo essa non si fonda su un sostrato sociale e culturale che ne permetta la crescita e una solida diffusione, ma si limita a proporre generici («messianici») vagheggiamenti di giustizia universale che non sanno attenersi agli impegni severi e drammatici della storia.
È soprattutto nell’articolo La “mentalità massonica” («La Voce», 1910, 2, 50, pp. 441-42, poi in Cultura e vita morale, cit., pp. 141 e segg.) che Croce rende esplicito il doppio binario su cui si muove la sua critica, centrata appunto sull’ideologia massonica e non sulla massoneria in quanto istituzione associativa: da un lato, la cultura massonica esprime un anacronismo che impedisce l’affermazione di una consapevolezza storico-politica e filosofica all’altezza dei tempi (in grado cioè di rileggere i valori risorgimentali alla luce dei problemi posti dalla società di massa, compito che invece è svolto dal liberalismo); dall’altro lato, la mentalità massonica costituisce un «ritardo» storico (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, cit., pp. 259 e segg.; Cultura e vita morale, cit., pp. 157 e segg.), cioè un freno alla costruzione di una nuova cultura sociale e politica nell’Italia di inizio Novecento che ha bisogno di ricostruire un rapporto tra i valori del Risorgimento e la moderna società industriale e di massa, obiettivo che Croce cerca di realizzare anche con la pubblicazione della rivista «La Critica» a partire dal 1903.
Nella sua lotta contro la mentalità massonica Croce non si limita dunque a ripetere i luoghi comuni contro l’appartenenza settaria e segreta alla massoneria. Certamente esiste un serio problema di appartenenza civica e politica, cioè di lealtà alla nazione: non tutti i massoni sono infatti esperti di congiure, ma i massoni «ingenui» sono strumentalizzati e manipolati dai massoni «furbi» («perniciosa accolta d’intriganti e affaristi» (Cultura e vita morale, cit., p. 142) che fondano il proprio agire sull’ipocrisia e sulla «gretta solidarietà», spesso degenerata in un’illecita associazione di mutua assistenza. Tuttavia la questione è più ampia e non riguarda solo i «vanti» e le accuse indirizzate alla massoneria sul piano dell’agire politico: la questione è infatti storico-culturale e filosofico-politica, visto che è la mentalità massonica – più della stessa massoneria – a costituire un pericolo per la cultura e per la politica italiana:
La mentalità massonica semplifica tutto: la storia che è complicata, la filosofia che è difficile, la scienza che non si presta a conclusioni recise, la morale che è ricca di contrasti e di ansie. Essa passa su tutte queste cose trionfalmente, in nome della ragione, della libertà, dell’umanità, della fratellanza, della tolleranza. E, con coteste astrazioni, si argomenta di distinguere a colpo d’occhio il bene dal male e viene classificando fatti e uomini per segni esteriori e per formole [...]. L’Italia fece già triste esperienza degli effetti di essa, al tempo dell’invasione francese e delle repubbliche italo-francesi, quando apparve in modo brutale il contrasto tra le massime democratico-umanitarie, e coloro che le predicavano, e le popolazioni alle quali erano predicate. Vincenzo Cuoco, che aveva partecipato all’eroica Repubblica napoletana del 1799, fece nel suo stupendo Saggio storico la confessione dell’errore fondamentale che si era commesso nell’abbandonare il cauto indirizzo scientifico e politico italiano per quello francese. Si può dire che tutto il moto del risorgimento italiano si sia svolto come reazione a quell’indirizzo francese, giacobino, massonico (pp. 143-44).
Nonostante il ruolo concreto che la massoneria ha svolto per la costituzione dei movimenti carbonari esplicitamente contrari alla Restaurazione, Croce considera del tutto contrari la mentalità massonica e i valori del Risorgimento. La mentalità massonica è cosmopolitica e ‘giovanilistica’, cioè connotata da un astratto ideale di fratellanza e da una fretta mentale che impedisce di comprendere la dimensione concreta della libertà e quindi impedisce di operare nella storia. Per un tale operare è necessario discernimento, non manicheismo, e bisogna rinunciare a credere nel valore taumaturgico della parola: mostrare il giusto non è sufficiente per realizzarlo perché è segno di astrattezza e di immaturità pensare a una distruzione e ricostruzione della realtà ab imis in grado di realizzare, ex novo, una società fondata sulla ragione e sulla filantropia. La mentalità massonica viene dunque criticata per ragioni non tanto politiche, quanto filosofiche: in quanto sopravvivenza anacronistica di una forma di pensiero che rende impossibile la comprensione del flusso reale degli avvenimenti, essa è l’esatto contrario dello «storicismo assoluto», che legge la continuità del movimento storico senza false illusioni nella realizzazione di innovazioni istantanee. Nella storia i problemi e le loro soluzioni nascono all’interno della storia stessa, così che una verità non è mai superata in assoluto, ma arricchita di nuove relazioni. La libertà è l’ideale morale dell’umanità, ma non in un senso astratto e universalistico, perché essa è il principio esplicativo del corso storico.
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