Cultura greca
Scriveva Ruggero Bacone intorno al 1271 nel suo Compendium studii philosophiae (1859) che la condizione critica in cui versavano gli studi tanto teologici quanto filosofici nell'Occidente latino al suo tempo era dovuta in buona parte all'ignoranza di lingue dotte come l'ebraico e il greco. L'uso di pessime traduzioni latine ‒ quelle che vi erano Bacone di sua mano le avrebbe bruciate tutte ‒ era deleterio per la comprensione di autori che non potevano essere letti in originale. La conoscenza di Aristotele ne risultava completamente falsata, ma anche una parte degli stessi testi sacri e dei loro commentatori attendeva di essere scoperta o riscoperta: Bacone citava espressamente i due libri dei Maccabei e poi Origene, Basilio Magno, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Damasceno e Crisostomo. Non doveva allora sembrare eccessivo recarsi in Italia ove clero e popolo erano greci in molte località, mentre i vescovi, i magnati e i potenti potevano mandare a prendere colà testi e una o più persone che sapessero il greco, come soleva fare il suo maestro Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln (m. 1253), tanto che alcuni suoi collaboratori italo-greci ancora vivevano in quei giorni in Inghilterra.
Non solo dunque per l'Inghilterra, legata al Regno di Sicilia dalla comune eredità normanna, ma per l'Occidente latino in generale l'Italia meridionale all'epoca di Federico II rappresentò il terreno più propizio per il mantenimento e lo sviluppo dei contatti con la cultura greca classica e bizantina. Ciò era dovuto alla tradizione culturale dell'Italia meridionale e insulare, con una componente greca molto forte e radicata, al favore accordato, all'interno del Regno, dalla Corona ai suoi sudditi di origine greca e infine alla circostanza, sopraggiunta nella prima metà del XIII sec., per cui il Regno, di fatto, era l'unica potenza occidentale in buoni rapporti con tutti gli stati greci succeduti allo smembramento crociato dell'Impero bizantino. Alla crociata contro Bisanzio, infatti, il Regno stesso non aveva preso parte e ciò rappresentava, dal punto di vista dei greci, un suo merito.
A differenza della cultura mediolatina, cui si offrivano diversi canali di diffusione, i centri di conservazione e diffusione della cultura greca nel Regno, intesa come cultura letteraria, erano essenzialmente ecclesiastici, più specificamente monastici: ad essi veniva affidato l'insegnamento e la produzione libraria. Tra gli altri, i monasteri del Ss. Salvatore di Messina, di S. Maria di Rossano in Calabria, noto come il Patir, e di S. Nicola di Casole presso Otranto, con i loro scriptoria e le loro preziose biblioteche, si presentavano come roccaforti della cultura greca in terra latina. Da quegli scriptoria, così come anche da altri di monasteri meno prestigiosi, proveniva la maggior parte dei testi greci in uso nel Regno, andando essi ad arricchire in primo luogo il patrimonio delle stesse biblioteche monastiche. La produzione libraria italo-greca si era contraddistinta fin dalla fine del X sec. per un certo provincialismo e conservatorismo nella scelta delle opere riprodotte, nelle loro tradizioni testuali e nella esecuzione materiale dei codici; a tale produzione si aggiungevano poi i testi provenienti direttamente dall'Oriente bizantino, ma in proporzione variabile secondo i contatti che il singolo monastero poteva vantare al di fuori del Regno svevo. Sotto questo aspetto il XIII sec. segnò una evoluzione che oppose i monasteri greci di Puglia, maggiormente esposti ai contatti con l'Oriente bizantino, ai monasteri calabresi e siciliani, tendenzialmente più isolati.
Nella biblioteca monastica erano presenti soprattutto le Sacre Scritture, i testi liturgici, agiografici e i trattati dottrinari, ma anche sezioni, molto più modeste, di letteratura tecnica e profana. Il XIII sec. registrò anzi in questo senso una svolta perché, mentre le collezioni monastiche di letteratura religiosa, raggiunta la massima espansione nel XII sec., cominciarono a invecchiare senza essere adeguatamente reintegrate, si mantenne e si superò invece il precedente livello di riproduzione e diffusione di testi della letteratura profana. Furono trascritti nel Regno, oltre a un buon numero di lessici, sempre utili, e ai manuali di retorica, le Etiopiche di Eliodoro, le opere antologiche e dossografiche di Apollodoro di Atene, Claudio Eliano e Diogene Laerzio, già al loro tempo concepite per rendere fruibili materiali altrimenti rari, e ancora due grandi classici come l'Iliade e l'Odissea, alcune tragedie di Euripide e quelle di Sofocle, le opere filosofico-morali di Aristotele, come i Magna moralia, l'Ethica Nicomachea, l'Ethica Eudemea, e l'Isagoge del neoplatonico Porfirio. Modesta, rispetto al XII sec., la riproduzione di testi giuridici, che comprese però la versione in greco delle Costituzioni di Melfi di Federico II, mentre circolarono ancor meno le opere di storia e cronografia, come la cronaca di storia universale di Michele Glica, di valore peraltro modesto. In Terra d'Otranto, in particolare, l'interesse per filosofia e scienza si manifestò, per esempio, con la trascrizione di opere di Aristotele e di Giovanni Italo in un unico codice, il palinsesto membranaceo Vat. Gr. 316, e dei Fenomeni di Arato nel Par. Gr. 2841: il grande filosofo dell'antichità, un neoplatonico del XII sec. e un'opera di poesia didascalica incarnarono allora il compendio degli interessi culturali prevalenti. Sempre al Duecento in Terra d'Otranto, inoltre, risalgono le trascrizioni di grandi classici della letteratura greca antica, come l'Odissea, le Opere e i giorni di Esiodo e la Batracomiomachia, di cui il XII sec. curiosamente, sebbene caratterizzato già da un notevole interesse per la letteratura profana, soprattutto in Sicilia, ci ha lasciato pochi testimoni di probabile origine italo-greca.
Un discorso a parte merita la letteratura di contenuto tecnico-scientifico, per la quale si può pensare almeno in parte a un'attività di trascrizione ad opera di una ristretta cerchia di colti laici. Ciò viene suggerito dall'uso nella riproduzione dei testi di scritture semicorsive, irregolari e molto più personali, ossia 'scritture d'uso' di soggetti che utilizzavano anche professionalmente i testi che trascrivevano. Questa letteratura è suddivisibile in un filone di medicina e di scienza naturale e in un altro più strettamente scientifico-matematico. Il primo, molto ricco per l'area calabro-sicula nel XII sec., vi aveva prodotto molti codici contenenti trattati medici, ricettari ed erbari di autori dell'antichità, dell'Oriente bizantino od originari del Regno. Filippo Xero, medico nell'area dello Stretto, possessore di raccolte mediche e autore di ricettari egli stesso, ci appare come una delle personalità più interessanti della Scuola medica di Reggio. Il XIII sec. per questo tipo di produzione mantiene l'attività di trascrizione dei testi al livello dell'epoca precedente, ma, significativamente, segna l'incremento relativo in questo settore della trascrizione e circolazione di quella parte della produzione aristotelica (o pseudo-aristotelica) dedicata allo studio della natura, cui appartengono le opere Physica, De caelo, Meteorologica, De generatione et corruptione e vari testi di zoologia. Lo studio della materia passò dunque da un approccio empirico-pratico ad uno maggiormente teorico-deduttivo. Continuarono comunque ad essere trascritti testi di autori greci di varia provenienza, di cui un esempio molto interessante è il ricettario De compositione medicamentorum di Nicola Mirepso, modellato a sua volta sull'Antidotarium di Nicola Salernitano, del quale sarebbe secondo alcuni un'ampliata traduzione in greco, conservatasi in un codice di origine sicula. Questo testo rappresenterebbe allora l'elemento di raccordo tra la produzione della Scuola medica salernitana del XII sec. e l'Oriente bizantino del XIII sec., dove Nicola Mirepso fu attuario a Nicea al tempo dell'imperatore Giovanni III Duca Vatatze. L'altro filone della letteratura esaminata, quello scientifico-matematico, rappresentato da testi di matematica, fisica e astronomia, molto apprezzati in epoca normanna, subì invece un netto declino.
Se dal campo dello studio e della preservazione del sapere passiamo a quello della produzione intellettuale coeva, la cultura italo-greca del XIII sec. manifesta subito, almeno sulla base di quanto ci è pervenuto, i suoi limiti. Il secolo rappresentò, fondamentalmente, un periodo di transizione. I generi letterari religiosi, in particolare l'omiletica e l'agiografia, iniziarono la fase del declino, non immediatamente sensibile per il grande numero di testi ancora in circolazione. Forse solo la trattatistica di teologia espositiva o controversiale conservò una certa vitalità, stimolata dal confronto o dallo scontro vero e proprio della comunità italo-greca con la Chiesa latina.
L'interesse per la letteratura profana di tipo propriamente umanistico, manifestatosi già in epoca precedente, divenne allora trainante, ma non ancora sufficientemente maturo per generare una significativa produzione originale. Per il diritto, in particolare, l'impegno anche solo per il reperimento e la trasmissione del materiale utile al suo studio fu molto modesto rispetto al secolo precedente. A ciò probabilmente contribuì il fatto che, rispetto all'epoca normanna, divenne indispensabile per gli uomini di legge italo-greci, che volevano fare carriera nella pubblica amministrazione, conoscere e saper usare il lessico giuridico latino, per cui essi presero a studiare diritto sempre più su testi latini. La storiografia e la cronachistica come oggetto di studio furono trascurate; come argomento per la produzione letteraria del tempo, ignorate. Weiss (1953, pp. 38-39) ha sottolineato come nei monasteri italo-greci di allora la redazione di Typica, regole molto dettagliate per la vita claustrale, contenenti anche altre informazioni, rappresentasse l'equivalente della cronaca monastica mediolatina.
Quanto alla letteratura di carattere tecnico-scientifico, l'affermarsi dell'approccio teorico di tipo matematico-deduttivo, ispirato agli Analytica posteriora e ad altri testi aristotelici allora in voga, non favorì particolarmente la nuova produzione di testi di medicina o scienza della natura che si rifacessero alla precedente tradizione empirico-pratica. Ciò sarebbe particolarmente spiaciuto proprio a Ruggero Bacone, citato all'inizio, che a partire dagli stessi Analytica, di cui in Inghilterra Roberto Grossatesta aveva composto un celebre commento, promuoveva un nuovo concetto di scienza, in cui il procedimento deduttivo e i modelli matematici aristotelici offrivano una dimostrazione razionale che doveva essere necessariamente convalidata dall'esperienza.
È chiaro che il languire di una originale produzione letteraria, in particolare profana, nel XIII sec., mentre, al contempo, si rileva una crescente riproduzione e circolazione di opere profane del passato, stupisce. Si è poi notato che, a parte i medici che diedero un loro personale contributo alla letteratura medico-scientifica, altri professionisti, come gli insegnanti di scuola, i giudici e i notai, ossia gli intellettuali della coeva cultura mediolatina, non mostrarono molta iniziativa al di là dello studio personale. È probabile che ciò si possa in parte attribuire a un certo disagio e disorientamento in cui vennero a trovarsi allora le classi colte delle comunità italo-greche all'interno del Regno di Sicilia. Si trattava in sostanza di una perdita dei punti di riferimento attraverso i quali poter ricondurre la propria cultura letteraria entro l'orizzonte dell'esistenza quotidiana, dove il confronto con la cultura latina si faceva via via più impari (cf. Cavallo, La cultura italo-greca, 1982, p. 587). Sebbene la dinastia sveva stimasse e favorisse i suoi sudditi italo-greci, i quali nell'ora dello scontro con il papato la ricambiarono con il loro incondizionato sostegno, erano l'evoluzione stessa della storia del Regno e l'avanzata dell'Occidente latino che riducevano lo spazio professionale, religioso e culturale dei greci nell'Italia meridionale. Il ricorso ad essi come intermediari da parte di intellettuali occidentali per potersi accostare alla cultura greca classica evidenzia allora la fragilità della loro posizione di minoranza etnico-culturale al confine tra Oriente e Occidente, tra passato e presente, tutelata soprattutto per la sua funzione intermediatrice. Il quadro di questa crisi dell'identità italo-greca comprendeva la Sicilia e la Calabria. La Puglia, o meglio la Terra d'Otranto, vi rappresentò una singolare eccezione. Qui il favore di Federico II verso i greci si combinò, in parte stimolandolo, con il loro sentimento di appartenenza ad una comunità che vedeva nella propria lingua, nei propri riti liturgici e nella propria letteratura gli strumenti per la resistenza all'assimilazione, contro la quale valevano anche gli stretti rapporti del Salento con l'altra sponda dell'Adriatico. Il monastero di S. Nicola di Casole presso Otranto non solo ricoprì allora un ruolo importante quale centro di diffusione della cultura letteraria greca sia religiosa che profana, ma rappresentò anche un punto di riferimento per una ristretta cerchia di colti ecclesiastici e laici che diedero un loro originale contributo alla stessa produzione letteraria. Il ruolo dello scriptorium del monastero casolano rispetto alla complessiva produzione libraria in Terra d'Otranto è stato in effetti almeno in parte ridimensionato, ricordando che contemporaneamente ad esso fiorirono nel Salento altri centri scrittorii, in particolare Maglie e Nardò. Di notevole importanza rimane invece la biblioteca di Casole come centro di diffusione della cultura letteraria greca, ben al di là delle mura del monastero: vi si trovavano opere profane della tarda antichità allora ben poco conosciute come i Posthomerica di Quinto Smirneo e il poemetto in esametri di Colluto intitolato Rapimento di Elena e, secondo una lista dei prestiti pervenuta fino a noi, conservava un prezioso codice delle commedie di Aristofane e i SophisticiElenchi di Aristotele; essa prestava i suoi volumi con notevole liberalità a religiosi e laici residenti anche a una certa distanza dal monastero. Nettario (al secolo Nicola), settimo egumeno di S. Nicola di Casole (dal 1219/1220 al 1235), aggiunse al patrimonio della biblioteca una copia della cronaca di Giorgio Cedreno da lui portata al ritorno da un viaggio a Costantinopoli.
Nettario viene indicato come la mente più brillante che mai governò il monastero. Quando ne ebbe l'occasione, si sforzò di favorire il confronto con la Chiesa latina, traducendo per essa i testi della liturgia greca, come quello di Basilio Magno per l'arcivescovo latino di Otranto. Con i suoi Tria syntagmata si dimostrò però anche efficace polemista per la difesa delle peculiarità dottrinarie, liturgiche e disciplinari della sua Chiesa contro la dottrina latina del filioque, gli azzimi, il digiuno del sabato e a favore del matrimonio dei preti. Nel 1232 era presso la Curia romana per difendere il rito battesimale italo-greco dagli attacchi latini. Il suo atteggiamento di campione dell'ortodossia greca non gli impedì, al contrario, di essere in buoni rapporti con Federico II, che gli affidò negli anni 1223-1224 una missione alla corte dell'Impero di Nicea, una iniziativa diplomatica apparentemente allora isolata, cui sarebbe seguita però a distanza di anni, ben dopo la morte dell'egumeno nel 1235, una stabile alleanza.
Nettario fu però anche poeta e a lui si fa risalire l'origine di un circolo poetico salentino di cui fecero parte alcuni personaggi più o meno legati al monastero di Casole. Furono autori che, adottata la struttura metrica del dodecasillabo bizantino, versificarono impiegando una lingua colta che faceva sfoggio della conoscenza degli autori antichi, ma che era anche aperta all'uso di ricercati neologismi, soprattutto passando disinvoltamente dal genere profano classicheggiante al sacro. In questa prospettiva, il mito antico, quando viene riesumato, non è fonte di ispirazione per il suo contenuto, ma rappresenta piuttosto una cornice, a volte pretestuosa, per il componimento.
Giovanni Grasso, discepolo di Nettario e notaio imperiale, per qualche tempo anche uditore delle petizioni indirizzate a Federico II, è l'autore che mostra bene come lo studio dei classici si sia mescolato alla letteratura successiva, compresa quella religiosa. Suo il carme Lamento di Ecuba sulle rovine di Troia (Poeti bizantini, 1979, carme IX) nel quale, ispirandosi a Omero e alle tragedie di Euripide Troiane ed Ecuba, tradisce però la difficoltà di gestire le fonti e finisce per perdere il senso della misura, affastellando con poco criterio i termini tragici. Ma Giovanni è anche autore di un componimento su di un passo dell'Epistola agli Ebrei (ibid., carme II), di cui fa l'esegesi contrapponendo polemicamente il maggior valore del Nuovo Testamento rispetto all'Antico. La scelta dell'argomento e il tono della trattazione potrebbero essere spiegati con la grande ammirazione di Giovanni per il suo maestro Nettario, che era stato tra l'altro autore di un dotto Dialogo contro gli Ebrei, considerato da qualcuno la sua opera migliore. Giovanni scrisse poi un componimento in onore di s. Arsenio, metropolita di Corfù (ibid., carme IV), rappresentato nel suo scontro vittorioso contro una flotta di pirati etiopi. Qui l'azione è rappresentata con efficacia e anche la scelta dell'argomento sembra degna di nota, in quanto riflesso degli stretti contatti del circolo poetico salentino con Corfù, di cui fu vescovo Giorgio Bardane, grande amico di Nettario di Casole. Nella sua corrispondenza con Nettario, Bardane fa riferimento più volte, anche in tono quasi canzonatorio, alla grande erudizione di cui Giovanni avrebbe mostrato di essere "infarcito". L'attaccamento del notaio imperiale alla causa sveva gli fa poi pronunciare una elaborata, ma non per questo meno aspra, invettiva contro Parma (ibid., carme XIII) nel 1247, al momento della sua ribellione contro Federico II.
Nicola di Otranto, altro poeta del gruppo salentino, figlio di Giovanni Grasso, è autore di epigrammi dalla struttura molto rigida, ciascuno di una strofe tetrastica di dodecasillabi, nello spazio della quale trovano posto artifici stilistici, giochi di parole e la creazione erudita di avverbi e aggettivi composti. L'argomento è sempre religioso: si tratta di lodi in onore di Cristo, dei santi o della Vergine. Il VII carme (ibid.) è in onore di Stefano protomartire, ma si attarda a descrivere il destino infelice cui gli ebrei andarono incontro macchiandosi del sangue di Stefano: la terra (ossia le pietre) scagliata contro l'innocente si sarebbe poi rivoltata contro gli omicidi, causandone la diaspora. Per quanto la polemica contro gli ebrei sia stata in generale un argomento ricorrente nella letteratura religiosa greca come latina in diverse epoche, è interessante notare che, nella limitata quantità di testi della produzione di questi poeti a noi pervenuta, detta polemica sia così ben rappresentata con un filo diretto che lega Nettario al suo allievo Giovanni Grasso e al figlio di questi Nicola.
Giorgio di Gallipoli, archivista della chiesa della sua città, è l'autore che per stile poetico si allontana di più dalle caratteristiche del gruppo di poeti cui appartiene. Il lessico usato, così come i frequenti riferimenti a personaggi dell'Antico Testamento, fanno pensare a una formazione condotta su testi non soltanto religiosi, ma propriamente scritturistici. La letteratura greca classica, alla quale comunque non doveva essere proprio estraneo, non lasciò in lui un segno profondo. Autore di componimenti di vario genere, anche d'occasione, trae però ispirazione in particolare dalla sua fede religiosa e soprattutto da quella politica. Il suo è un ghibellinismo dichiarato che lo porta a superare le posizioni di Giovanni Grasso. Egli dà voce, in forma esasperata, al risentimento italo-greco contro l'invadenza del clero latino e saluta in Federico II, così fiero nella lotta contro la Curia romana, l'antico modello di maestà imperiale: il riferimento alla regalità biblica di Davide si mescola allora con il ricordo della Roma dei Cesari. Qui Giorgio trova anche il suo punto di contatto con i temi della propaganda federiciana del circolo di Pier della Vigna. Come Giorgio potesse attingere da essa spunti non solo per attaccare la Curia romana, tema scontato, ma anche per esaltare la Chiesa greca rimane un aspetto curioso e interessante, da confrontare con un passo della lettera in greco di Federico II a Michele II Angelo despota d'Epiro: "[…] i Greci, nostri affini ed amici, per i quali il suddetto sedicente Papa per via del nostro affetto e amicizia con loro, sebbene cristianissimi e piissimi nei loro sentimenti per Cristo, ha scagliato la sua parola senza freni contro di noi, chiamando più che empi i piissimi Greci, nonché eretici, loro che sono ortodossi oltre ogni modo" (Festa, 1894, pp. 15-16). Con un componimento, il X (Poeti bizantini, 1979), in occasione dell'inaugurazione di una porta monumentale per l'episcopio voluta dal vescovo della sua città, Giorgio celebra la gloria dell'Impero di Federico, di cui la porta stessa sormontata dall'aquila e da altri animali simbolici sarebbe l'immagine. Nel suo carme XI (ibid.) si scaglia contro i preti latini che hanno saccheggiato le chiese della sua città, con l'invocazione tragica alla terra madre perché li punisca. Questo evento, che per Marcello Gigante, nonostante la sua drammatica descrizione, rappresentava un episodio della lotta intestina alla città tra la comunità greca e la Chiesa latina, è ricollegato da Augusta Acconcia Longo a un momento veramente tragico per la storia di Gallipoli, ossia l'assedio della città nel 1268-1269 da parte di Carlo I d'Angiò per schiacciare la resistenza dei partigiani dello sconfitto Manfredi. In quell'occasione la comunità italo-greca locale, filosveva, avrebbe subito la reazione delle forze clerico-angioine. È noto, d'altro canto, che con l'avvento degli Angioini nel Regno iniziarono le prime vere difficoltà per gli italo-greci nel praticare la propria fede secondo l'ortodossia bizantina. Con il carme XIV (ibid.) anche Giorgio maledice Parma per la sua ribellione, giudicando, al pari di Giovanni Grasso, come certa, anzi già in atto, la conseguente rovina della città, il che non fu a causa del fallimento dell'assedio, un vero smacco per le truppe di Federico. Nel XIII componimento (ibid.), infine, in cui la personificazione di Roma rivolge un lungo monologo a Federico perché venga a soccorrerla, Giorgio celebra l'imperatore con accenti ormai chiaramente mistici come benefattore, come liberatore, come redentore, come l'Unto del Signore.
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