Cultura politica
Il tentativo di spiegare la dottrina e l'azione politica attraverso la teoria della cultura politica risale alle origini stesse della scienza politica. Gli storici, i poeti e i drammaturghi greci e romani esprimono il loro giudizio sulla condotta tenuta in tempo di guerra come in tempo di pace da Spartani, Ateniesi, Corinzi, Parti, Caledoni, Ebrei e così via. I concetti e le categorie che utilizziamo nell'analisi della cultura politica - subcultura, cultura politica d'élite, socializzazione politica, mutamento culturale - sono presenti anche negli scritti dell'antichità classica. Le grandi famiglie e tribù di Atene e Roma ebbero le loro divinità fondatrici, i loro fuochi sacri, le loro tradizioni e le loro inclinazioni civiche e politiche. Nell'antico regno di Israele almeno quattro culture politiche d'élite si trovarono in conflitto: la corte reale, relativamente cosmopolita, impegnata sul terreno della guerra e della diplomazia, si oppose ai profeti e ai loro seguaci che erano invece convinti sostenitori della rivelazione e dell'alleanza stretta sul Sinai, e il clero di Gerusalemme, insieme alla burocrazia del Tempio, si oppose ai superstiti capi locali del culto dei 'luoghi alti'.
La nozione di mutamento della cultura politica è uno dei temi più efficaci della letteratura classica. Ognuna delle città-Stato della Grecia conservava la memoria di un austero passato solonico o licurgico sul quale commisurare la corruzione del presente. I Catoni celebrarono le virtù frugali, marziali e civiche della prima Repubblica romana. I Greci ebbero una teoria ciclica del mutamento politico, e spiegarono l'ascesa e la caduta delle costituzioni politiche in termini sociopsicologici.
Platone afferma nella Repubblica: "Anche di temperamenti umani ci sono per forza tante specie quante ce ne sono di costituzioni. Credi forse che le costituzioni nascano da una quercia o da una roccia, anziché dai caratteri dei cittadini, caratteri che, come pesi, si trascinano dietro tutto il resto?" (544 d). Non esiste un argomento più forte, per l'importanza del processo di socializzazione politica, di quello avanzato da Platone. "Tra tutti gli animali il giovinetto è quello più ingovernabile, poiché la fonte della ragione che è in lui non è ancora regolata; egli è il più insidioso, perspicace e insubordinato degli animali. Pertanto dev'essere tenuto da molte briglie"(ibid.). Madri e nutrici, padri, tutori e governanti hanno tutti il dovere di guidare e costringere quell'animale incorreggibile entro il sentiero della virtù civica.Rispetto a Platone, Aristotele è un teorico della cultura politica più moderno e scientificamente rigoroso, poiché non solo attribuisce importanza alle variabili politico-culturali, ma ne considera esplicitamente le relazioni con le variabili della stratificazione sociale da un lato, e con quelle politico-strutturali e attinenti allo svolgimento della vita politica, dall'altro. Egli sostiene che la miglior forma di governo attuabile in una società in cui la classe media predomina è la forma mista aristocratico-democratica. Aristotele si esprime così: "Poiché si ammette che la misura e la medietà sono sempre la cosa migliore, è chiaro che un possesso medio di ricchezze è la condizione migliore di ogni altra, perché in essa è più facile obbedire alla ragione [...]. E la classe media è la classe meno incline a rifuggire dai pubblici incarichi o a desiderarli smodatamente, ed entrambe queste tendenze sono pericolose per gli Stati. Quelli che godono di un'eccessiva fortuna, forza, ricchezza, amicizia, e altre cose del genere, non vogliono e non sanno obbedire [...] hanno assimilato questo modo di comportarsi sin dalla fanciullezza, nell'ambito della vita familiare, che era così piena di agi da indurli a non sottomettersi all'autorità nemmeno nelle scuole, mentre quelli che difettano troppo di questi vantaggi sono in un grado troppo basso di miseria" (cfr. Politica, libro IV, cap. 8).
Una società in cui la classe media è ristretta produce uno Stato "di servi e di padroni, non di uomini liberi, di gente che invidia e di gente che disprezza. Questa condizione è molto lontana dalla solidarietà e dalla comunità politica", che Aristotele riteneva rappresentassero la base culturale della migliore e più durevole forma di governo (ibid.).Plutarco, nella sua biografia di Licurgo, riferisce sul modo in cui il legislatore spartano progettò di modellare il carattere degli Spartani sin dalla nascita, per così dire, consigliando alle donne di lavare i propri neonati nel vino anziché nell'acqua, al fine di temprare i loro corpi. Le nutrici spartane non usavano "fasce; i bambini crescevano liberi nelle membra e nell'aspetto, e non erano schizzinosi o di gusti difficili quanto al cibo; non avevano paura del buio o di esser lasciati soli; e non erano irritabili, ombrosi o facili al pianto".
Tra i teorici della politica posteriori, Machiavelli, Montesquieu e Rousseau offrirono il proprio contributo al formarsi della cultura politica. Machiavelli e Montesquieu trassero insegnamento dalla storia di Roma circa l'importanza dei valori e dell'educazione morale e religiosa per la formazione del carattere dei Romani; era il carattere che a sua volta spiegava il costante progredire e il comportamento eccezionale della Repubblica in tempo di guerra come in tempo di pace. Con l'espansione territoriale e l'aumento delle ricchezze, e con l'assommarsi di altre spinte culturali, sopraggiunsero la decadenza e il collasso di questo grande Impero. Ma entrambi gli autori, se da un lato attribuivano un particolare rilievo ai temi della cultura politica e della socializzazione, dall'altro tendevano a trattarli in forma aneddotica e illustrativa piuttosto che in forma analitica, come avevano fatto Platone e Aristotele.
I termini utilizzati da Rousseau (v., 1762) per connotare la cultura politica sono "costumi", "usanze", e "opinione". Egli li considera come un genere di legge più importante della legge propriamente detta, un genere di legge che "s'incide nei cuori dei cittadini; che fa la vera costituzione dello Stato; che si arricchisce ogni giorno di nuovo vigore; che, quando le altre leggi invecchiano o vengono meno, le rianima o ne fa le veci, conserva il popolo nello spirito della sua costituzione, e sostituisce un po' alla volta la forza dell'abitudine a quella dell'autorità. Parlo dei costumi, delle usanze, e soprattutto dell'opinione" (ibid., p. 41).
L'analisi compiuta da Tocqueville della democrazia americana e delle origini della Rivoluzione francese è fra le trattazioni più approfondite di questi argomenti. Nella Democrazia in America egli precisa: "Considero i costumi come una delle grandi cause generali a cui si può attribuire la conservazione della repubblica democratica negli Stati Uniti. Intendo qui la parola costumi nel senso che gli antichi attribuivano alla parola mores; la applico non solo ai costumi propriamente detti, che si potrebbero definire le abitudini del cuore, ma alle varie nozioni che gli uomini possiedono, alle diverse opinioni che hanno corso in mezzo a loro, e all'insieme delle idee con cui si formano le abitudini dello spirito. Comprendo, dunque, con questa parola tutta la disposizione morale ed intellettuale di un popolo" (v. Tocqueville, 1835-1840). Tocqueville aveva una sensibilità ugualmente spiccata per la subcultura politica. La sua analisi delle tendenze politiche dei contadini, dei borghesi e degli aristocratici francesi alla vigilia della Rivoluzione costituisce un analogo capolavoro di indagine della cultura politica (v. Tocqueville, 1856).
Se la nozione di cultura politica ci ha in un certo senso sempre accompagnati, come si spiega la sua improvvisa popolarità negli anni sessanta e la proliferazione di ricerche che negli ultimi decenni sono state dedicate a essa? Ritengo che il fallimento delle aspettative illuministiche e liberali relativamente allo sviluppo politico e alla cultura politica abbia posto il problema esplicativo al quale l'indagine sulla cultura politica è stata una risposta, e lo sviluppo della teoria sociale nei secoli XIX e XX, nonché quello della metodologia della scienza sociale dopo la seconda guerra mondiale (in particolare della survey methodology, o metodologia del rilevamento), offrì l'opportunità di risolvere questo problema. La sfida intellettuale, sommata agli sviluppi teorici e alle invenzioni metodologiche, spiega l'emergere di questo campo d'indagine nella sua forma moderna.
Nella seconda metà del XIX secolo tale fiducia nel progresso intellettuale, materiale e morale, stimolata dalla rivoluzione industriale, rafforzata dal successo delle riforme politiche e sociali attuate in Gran Bretagna nonché dall'esempio americano, e ulteriormente corroborata dallo sviluppo delle idee evoluzionistiche in biologia, assunse un carattere d'inevitabilità. Per il liberalismo, lo studio della cultura politica era inutile dal momento che tutti i segnali indicavano la crescita di società colte, orientate verso l'impegno civile e la partecipazione alla vita politica. La cultura politica non rappresentava un problema. Neanche per il marxismo la cultura politica si presentava come un problema. Marx si trovava sicuramente nell'alveo della tradizione illuministica, se si eccettua il fatto che egli dispose in maniera diversa le variabili teoriche e concepì il processo storico in termini dialettici piuttosto che in termini di crescita. Invece di un progresso intellettuale che porta con sé, secondo una sequenza favorevole, il progresso materiale e quello etico-politico, nella concezione marxista l'avanzamento materiale produce tre subculture politiche: quella di una classe capitalistica sfruttatrice e sempre più concentrata; quella di una classe lavoratrice sfruttata, soggetta alla propaganda e alla coercizione; e quella di una organizzazione di rivoluzionari illuminati. Il risultato finale è una cultura illuministica universale e una società di generale benessere, razionalità e creatività.
Vi è stata, certo, una scuola di orientamento scettico e cinico - Mosca, Pareto, Michels e altri - che ha attaccato le aspettative illuministiche nelle loro varianti liberale e marxista, dipingendo al loro posto un futuro di permanente sfruttamento da parte di élites, e di regimi autoritari basati su un diverso insieme di premesse psicologiche e sociologiche. Mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti prevaleva il punto di vista più ottimisticamente illuministico, vi furono studiosi e pubblicisti, come Graham Wallas (v., 1908) e Walter Lippmann (1922), che misero in discussione il facile assunto di una crescente razionalità di massa. Ma nei decenni che vanno dalla metà del XIX secolo fino alla prima guerra mondiale, i processi di tipo illuministico sembrarono progredire, e l'interesse per i modelli culturali parve accantonato.
L'enormità e l'irrazionalità della prima guerra mondiale, l'avvento del fascismo, ma soprattutto del nazismo, la tragica portata distruttiva della seconda guerra mondiale scossero radicalmente queste compiaciute aspettative. Lo sforzo di trovare una soluzione intellettuale a questi tragici enigmi storici - sul piano delle teorie come su quello dei metodi - fu prodotto in primo luogo dalla scienza sociale americana nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. La scienza sociale, dopo la guerra, fu portata avanti soprattutto da studiosi americani. Essa era stata arricchita da studiosi tedeschi e italiani rifugiatisi negli Stati Uniti, i quali portarono con sé le proprie tradizioni sociologiche, sociopsicologiche e psicoantropologiche. Non dovremmo mai dimenticare questa forte influenza europea, e in particolare tedesca, sulla ricerca nel campo della cultura politica.
Vi furono varie componenti intellettuali che alimentarono la ricerca nel campo della cultura politica: la tradizione sociologica di Weber, Durkheim, Mannheim, Parsons e altri; la tradizione sociopsicologica di Graham Wallas, Walter Lippmann, William McDougall, E. L. Thorndike, Paul Lazarsfeld e altri; la tradizione psicoantropologica influenzata originariamente da Freud e comprendente Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Else FraenkelBrunswik, Nevitt Sandford, Ruth Benedict, Margaret Mead, Harold Lasswell, Alex Inkeles, Daniel Levinson e molti altri.
Tuttavia, per il sorgere della moderna ricerca sulla cultura politica, più importante fu lo sviluppo di una metodologia e di una tecnologia di survey research. Come spesso accade nella storia della scienza, il progresso viene stimolato più dallo sviluppo di nuove capacità tecniche ed empiriche che da teorie e ipotesi sostantive. Le teorie rimangono mere speculazioni in assenza di rigorosi metodi di convalida. La rivoluzione nel campo della tecnologia della survey research ebbe in sostanza quattro componenti: 1) lo sviluppo di metodi di campionamento sempre più precisi, che hanno consentito di raccogliere dati rappresentativi su grandi popolazioni; 2) la crescente sofisticazione dei metodi di intervista, per garantire una maggiore affidabilità dei dati ricavati con tali metodi; 3) lo sviluppo di tecniche di valutazione secondo un punteggio e di gradazione secondo una scala, che hanno permesso di selezionare e organizzare le risposte in dimensioni omogenee, e di rapportarle a variabili teoriche; 4) la crescente sofisticazione dei metodi di analisi statistica e di inferenza, a partire da statistiche meramente descrittive per giungere alle analisi bivariata, multivariata, della regressione e del percorso causale, applicate alle relazioni tra variabili di tipo contestuale, attitudinale e comportamentale. L'invenzione della tecnologia della survey research può essere paragonata all'invenzione del microscopio, poiché se quest'ultimo ha reso possibile una scomposizione fortemente accresciuta e accurata dei dati biologici, la prima ha raggiunto lo stesso risultato per i dati sociali, psicologici e politici.
Tre decenni dopo questi primi sviluppi, è chiaro che la cultura politica ha trovato la sua collocazione nel vocabolario concettuale della scienza politica. Essa è parte della strategia esplicativa della scienza politica e fornisce l'occasione per una persistente polemica all'interno della disciplina, non feconda quanto la polemica sul pluralismo, ma abbastanza consistente in senso quantitativo. Ci sono forse fra i trentacinque e i quaranta saggi della lunghezza di un libro dedicati alla cultura politica, d'impostazione sia empirica che teoretica; forse un centinaio di saggi della lunghezza di un articolo, nelle riviste e nei convegni; e più di un migliaio di citazioni nella letteratura.Una parte considerevole di talento professionale è stata profusa in queste polemiche, che hanno visto coinvolti Samuel Beer, Samuel Barnes, Brian Barry, Archie Brown, Dirk Berg-Schlosser, Harry Eckstein, Richard Fagen, Ronald Inglehart, Max Kaase, Dennis Kavanagh, Joseph La Palombara, Robert Lane, S. M. Lipset, Herbet McCloskey, Carole Pateman, Robert Putnam, Lucian Pye, Irwin Scheuch, Robert Tucker, Aaron Wildavsky, Stephen White e altri. Il tema generale che attraversa tale letteratura è quello dell'importanza di valori, sentimenti e credenze per la spiegazione del comportamento politico. I valori, i sentimenti e le convinzioni politiche non sono i semplici riflessi di una determinata struttura sociale e politica; e nemmeno sono riducibili all'individualismo fondato sulla scelta razionale. L'insieme delle idee e dei valori politici, presente nelle menti di cittadini e di élites politiche, è più complesso, persistente e autonomo di quanto il marxismo, il liberalismo e la teoria della scelta razionale vorrebbero far credere.
La prima risposta data dalla scienza sociale al 'problema tedesco' fu una risposta psicologico-culturale. I fenomeni della politica tedesca parvero invitare le scienze dell'irrazionale e del non razionale a unire le rispettive forze nel tentativo di spiegarli. Vi è un intero scaffale pieno di libri e articoli di riviste che interpretano il nazionalsocialismo e il 'problema tedesco' in termini psicologico-culturali. La teoria psicologico-culturale interpretò la politica tedesca (nonché quella giapponese, americana, russa, francese e britannica) in termini di struttura familiare e di socializzazione infantile. Fu il carattere patriarcale e autoritario della famiglia tedesca a spiegare la miscela di obbedienza servile e di ostilità verso l'esterno che produssero in Germania il nazionalismo, l'etnocentrismo e l'antisemitismo. In tale interpretazione psicologico-culturale della politica tedesca poco spazio fu concesso all'esperienza adulta, all'impatto della storia e a processi cognitivi autonomi.
In questa forma estremizzata l'approccio psicologico-culturale venne presto screditato e respinto: non leggiamo più Fatherland di Schaffner (v., 1948) e Post-war German di Rodnick (v., 1948). Ma il rilievo dato da tale approccio ai fattori soggettivi nella spiegazione politica sopravvive in due programmi di ricerca: gli studi sulla leadership che continuano a enfatizzare i fattori legati alla personalità, e la ricerca di cultura politica che si occupa delle tendenze di gruppo ed è basata in misura sostanziale, sebbene non interamente, sulla survey research.
La teoria della cultura politica definisce tale cultura nei seguenti quattro modi: 1) essa consta dell'insieme di orientamenti soggettivi nei confronti della politica, entro una popolazione nazionale o un suo sottogruppo; 2) essa ha componenti cognitive, affettive e valutative; include conoscenze e credenze relative alla realtà politica, sentimenti riguardo alla politica e impegni rispetto a valori politici; 3) il suo contenuto è il risultato della socializzazione, dell'educazione e dell'esposizione ai media che si verificano durante l'infanzia, nonché delle esperienze compiute in età adulta rispetto alle prestazioni del governo, della società e dell'economia; 4) essa influisce sulla struttura e sulle prestazioni politiche e governative - le vincola -, ma sicuramente non le determina. I nessi causali fra struttura e prestazioni politiche procedono in entrambe le direzioni.
La teoria della cultura politica è stata attaccata da quattro differenti prospettive. La critica avanzata da Brian Barry (v., 1970, pp. 47 ss.) e Carole Pateman (v., 1980, pp. 57 ss.) attribuisce alla teoria della cultura politica una tendenza deterministica, in quanto assume che la socializzazione politica produca gli atteggiamenti politici, il che è a sua volta causa del comportamento politico ed è alla base della struttura politica. Barry e Pateman ritengono che la causalità possa operare, ed effettivamente operi, in direzione inversa, e cioè che le istituzioni e le prestazioni politiche influenzino gli atteggiamenti politici. Anche i primi sostenitori della spiegazione in termini di cultura politica ammettevano che la causalità operava in entrambe le direzioni, che gli atteggiamenti politici influenzavano la struttura e il comportamento politici, e che a loro volta la struttura e le prestazioni politiche influenzavano gli atteggiamenti. Si trattava essenzialmente di una polemica artificiosa.
La critica di orientamento marxista riflessa nell'opera di Jerzy Wiatr (v., 1980, cap. 4) e di altri sostiene che il cambiamento di atteggiamento risulta dal cambiamento della struttura economica e sociale; in altre parole, vi è un nesso causale tra la struttura di classe e gli atteggiamenti, le prestazioni e la struttura politici. Gli atteggiamenti politici hanno un contenuto strutturalmente necessario, e pertanto hanno un potere esplicativo assai poco indipendente o autonomo. Questa critica non viene più sostenuta seriamente dai marxisti contemporanei, i quali negli ultimi decenni hanno scoperto che la politica e lo Stato hanno un certo grado di autonomia, e che i fattori etnici, nazionali e religiosi non facilitano la risocializzazione.
Un terzo filone critico, che fa capo soprattutto a studiosi del comunismo - Richard Fagen (v., 1969), Robert Tucker (v., 1973), Stephen White (v., 1979 e 1984) e altri -, ritiene che sia inammissibile separare gli atteggiamenti politici dal comportamento. Restringere il concetto di cultura politica al suo aspetto psicologico equivale a una radicale 'soggettivazione' del fenomeno. Tale separazione conferisce una connotazione conservatrice alla teoria della cultura politica. Essa minimizza la malleabilità degli atteggiamenti in risposta al cambiamento strutturale. A differenza delle critiche del primo e del secondo tipo, questo punto di vista mantiene il concetto di cultura politica, ma ne modifica il contenuto per includervi il comportamento politico. Ciò che viene tralasciato, in questa critica, è il fatto che la separazione della dimensione psicologica da quella comportamentale ci consente di accertare ciò che tali relazioni realmente sono. Se non si riesce a operare tale separazione diviene impossibile analizzare la complessità della relazione tra pensiero politico e azione politica.
Un quarto filone critico è stato alimentato dalla scuola di pensiero della scelta razionale o dell''individualismo metodologico'. Ronald Rogowski (v., 1974) e Samuel Popkin (v., 1979) sostengono che la struttura e il comportamento politici possono essere spiegati dal calcolo degli interessi materiali a breve termine degli attori politici. In alcune versioni di questo approccio teorico non c'è posto per valori, norme, sentimenti e componenti cognitive più complesse. La storia, la memoria, il contesto culturale non hanno alcun potere esplicativo. Il semplice ricorso alla scelta razionale, in qualsiasi situazione politica, fornisce tutto il potere esplicativo di cui si ha bisogno. Altri studiosi appartenenti alla stessa scuola utilizzano l'assunto della scelta razionale semplicemente come strumento euristico, come un modo per ricavare in maniera sistematica e cumulativa delle ipotesi, e riconoscono il potere esplicativo delle variabili culturali e sociologiche.
Le opere degli studiosi contemporanei di cultura politica sono incentrate su tre campi d'indagine: 1) la cultura politica delle società industriali avanzate; 2) il ruolo della cultura politica nello sviluppo delle società comuniste; 3) il ruolo della cultura politica, economica e religiosa nella modernizzazione dei paesi asiatici. Il primo tema consiste in realtà di due parti: una letteratura che tratta delle scoperte che sono connesse a The civic culture di G. Almond e S. Verba (v., 1963), e una letteratura legata principalmente all'opera di Ronald Inglehart e Samuel Barnes, che si occupa del cambiamento della cultura politica nelle società industriali avanzate. A partire dalla pubblicazione di The civic culture, nel 1963, vi è stato un numero consistente di studi, in quella stessa linea di pensiero, sugli atteggiamenti politici negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, nella Repubblica Federale Tedesca e in Italia. Sono stati fatti rilevamenti per più di due decenni e alcuni dei dati ricavati si trovano in The civic culture revisited (v. Almond e Verba, 1980). Da questa e da altre fonti possiamo trarre una qualche indicazione sulla stabilità della cultura politica e sui fattori che possono trasformarla. Recenti studi sulla cultura politica americana - compreso The confidence gap di Lipset e Schneider (v., 1983), basato su svariate centinaia di rilevamenti d'opinione condotti negli Stati Uniti a partire dagli anni quaranta - mostrano un consistente declino della fiducia nei confronti della leadership e delle istituzioni politiche, economiche e sociali americane. L'alto grado di fiducia e di legittimazione attestato da The civic culture sembra essere stato sostituito da scetticismo quanto all'efficienza e all'integrità dei centri di potere politico, militare, economico e di altro tipo in America. Quantunque nessuna di queste testimonianze rivelasse una crisi di legittimazione, sicuramente gli Stati Uniti degli anni ottanta non possedevano più la fiduciosa cultura civica dei primi anni sessanta. E, a dimostrare quanto siano mutevoli questi indicatori di fiducia, uno studio del 1985, dopo alcuni anni di amministrazione reaganiana, ha mostrato che il miglioramento della situazione economica, e un livello di moralità più alto della leadership politica, hanno ridotto in misura significativa questa alienazione e questa sfiducia.
Per quanto riguarda la Gran Bretagna, Dennis Kavanagh, in The civic culture revisited (1980), parla di un "declino degli elementi di rispetto e di sostegno", nella cultura politica britannica, nel periodo 1960-1980. Ma egli rileva che c'è un'insoddisfazione maggiore verso le prestazioni politiche che non nei confronti del sistema nella sua globalità. "Gli anni recenti di rallentata crescita economica hanno portato a tensioni sociali più intense, a rivalità tra gruppi, e a una crescente insoddisfazione nei confronti delle autorità in carica [...]. I legami tradizionali di classe sociale, di partito e di identità nazionale sono andati declinando, e con essi gli antichi vincoli di gerarchia e deferenza" (v. Kavanagh, 1980, p. 170).
Kendall Baker, Russell Dalton e Kai Hildebrandt (v., 1981), nelle loro analisi dei dati rilevati in Germania dagli anni cinquanta fino ai settanta, documentano una radicale trasformazione della cultura politica tedesca, dal modello apolitico e passivo rappresentato in The civic culture, alla cultura filodemocratica, politicizzata e orientata verso la partecipazione, propria degli anni settanta e ottanta. La declinante cultura civica degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e l'emergente cultura civica della Repubblica Federale Tedesca dimostrano che la cultura politica è una variabile relativamente mutevole, influenzata in misura significativa dall'esperienza storica nonché dalla struttura e dalle prestazioni politico-governative. Il trauma del nazionalsocialismo, una struttura politico-governativa abilmente organizzata e un sistema economico efficiente sembrano aver prodotto in Germania una democrazia stabile. D'altro lato, negli Stati Uniti la guerra del Vietnam, la cultura alternativa e il caso Watergate hanno seriamente compromesso la cultura civica; e gli scarsi successi dell'economia, in aggiunta al declino del prestigio internazionale, hanno finito per ridurre la legittimazione delle istituzioni politiche britanniche.
La plasticità della cultura politica nelle società industriali avanzate è sostenuta anche dagli studi empirici di Ronald Inglehart (v., 1975 e 1989), Samuel Barnes e Max Kaase (v., 1979) e dei loro collaboratori. Inglehart dimostrò, muovendo da un insieme di rilevazioni che egli condusse in Europa e negli Stati Uniti per più di un decennio, negli anni settanta e nei primi anni ottanta, che i cambiamenti generazionali nelle democrazie industriali avanzate hanno trasformato il modo di far politica ovvero le istanze culturali proprie di tali democrazie, e che tali nuove istanze hanno cominciato a modificare i loro sistemi partitici. Nella sua prima versione la teoria di Inglehart sosteneva che le generazioni nate in Europa e negli Stati Uniti nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni settanta hanno avuto una pace ininterrotta, una rapida crescita economica, crescenti opportunità d'istruzione e una maggiore esposizione ai media. Questa socializzazione politica aveva indotto ad attribuire minore importanza alle precedenti tematiche relative alla sicurezza economica, politica e militare che avevano influenzato gli atteggiamenti delle precedenti generazioni, e ad attribuire un peso maggiore a un nuovo insieme di tematiche relative alla partecipazione politica, alla qualità della vita e all'ambiente. In seguito le rilevazioni di Inglehart e di altri, durante il periodo di 'stagflazione' tra la seconda metà degli anni settanta e i primi anni ottanta, registrarono una ripresa delle preoccupazioni economiche, ma i più recenti atteggiamenti rispetto alla qualità della vita sopravvissero comunque. Barnes e Kaase (v., 1979), proseguendo sulla via intrapresa da Inglehart, nel loro studio sugli atteggiamenti nei confronti dell'azione politica in cinque paesi, hanno dimostrato che questa nuova cultura politica delle società industriali avanzate comprende anche delle modificazioni in questo tipo di atteggiamenti: si ricorre con facilità a modi non convenzionali di partecipazione politica quali dimostrazioni, marce, sit-in e simili, a fianco dei modi convenzionali. Pertanto, una combinazione di esperienza storica e di mutati modelli di socializzazione politica - che sono effetti generazionali e specifici di un'epoca - ha alterato in modo significativo la cultura politica delle democrazie avanzate.
Nel suo libro più recente Inglehart (v., 1989) valuta la continuità e il cambiamento nello sviluppo dei valori e degli atteggiamenti europei; tale valutazione è basata su una serie diacronica di rilevazioni effettuate per più di quindici anni. "Rilevazioni condotte a più riprese e per molti anni mostrano il perdurare di differenze trasversali tra le diverse nazioni, nei livelli complessivi di appagamento vitale, felicità, soddisfazione politica, fiducia interpersonale e sostegno all'ordine sociale esistente. Questi attributi sono parte di una sindrome coerente, con date nazionalità che assegnano costantemente un posto relativamente alto (o relativamente basso) a ciascuno di essi. Punteggi bassi o alti in questa sindrome hanno conseguenze importanti sul comportamento politico e sociale di dati popoli, delineando, tra le altre cose, le prospettive per una democrazia vitale. Come abbiamo osservato, grandi differenze tra culture diverse, in questa sindrome di atteggiamenti, persistevano nel periodo compreso tra il 1973 e il 1988, e ulteriori dati a carattere frammentario suggeriscono che tali differenze possono esser fatte risalire agli anni cinquanta" (ibid., cap. 13, p. 1).
Inglehart prosegue quindi mettendo in evidenza come si siano verificati cambiamenti significativi negli atteggiamenti europei. Così l'autore mette in rilievo i notevoli cambiamenti prodottisi negli ultimi due decenni negli atteggiamenti politici tedeschi, connessi ai crescenti livelli di vita e alle positive prestazioni del governo.Gli studi sugli atteggiamenti politici nei paesi comunisti (v., tra gli altri, Brown e Gray, 1977; v. Brown, 1984; v. White, 1979 e 1984; v. Almond, 1983) hanno messo in rilievo come, nonostante gli sforzi sistemici e durati molti decenni da parte dei movimenti comunisti per organizzare, manipolare e indottrinare, i sentimenti nazionalistici sono sopravvissuti mantenendo sostanzialmente la stessa forza; anche le identità culturali e religiose hanno conservato grande vitalità. Il crollo del comunismo non ha fatto che confermare tutto ciò.
Anche un altro gruppo di sviluppi storici - lo straordinario tasso di crescita economica dei paesi confuciani dell'Est asiatico, in contrasto con altri paesi asiatici che si trovano sotto l'influsso dell'islamismo e dell'induismo - indica l'importanza della cultura nel modellare il comportamento economico e politico. Hofheinz e Calder (v., 1982) avanzano la tesi secondo la quale l'enfatizzazione della lealtà, dell'educazione, della reciprocità e del rispetto per l'autorità poggia sulle prescrizioni del confucianesimo. Spengler (v., 1980) attribuisce al pensiero sociale confuciano la presenza in Giappone di una classe imprenditoriale orientata verso il mercato. Bellah (v., 1957) sostiene che i valori religiosi dell'epoca Tokugawa determinarono il decollo economico dell'era della restaurazione Meiji. Winston Davis (v., 1987) compendia parte della letteratura, offrendo una versione modificata della teoria weberiana della relazione tra l'etica economica delle religioni e la crescita economica. Anziché concepire l'etica religiosa come condizione necessaria della crescita economica, Davis asserisce che la prima può influenzare la seconda, facilitandola o tollerandola, da un lato, oppure ostacolando lo sviluppo di atteggiamenti e valori che tendono a promuovere la disciplina e il buon andamento dell'economia, dall'altro lato. Le questioni che dovremmo porre, secondo Davis, non sono di tipo dilemmatico, ma piuttosto: "La religione ha stimolato il cambiamento economico? Lo ha tollerato? Ha promosso una tranquilla accettazione dei costi sociali imposti dallo sviluppo?" (ibid., p. 226). Davis mette in rilievo il caso del contributo dato dal confucianesimo alle tendenze, proprie dei paesi dell'Est asiatico, verso una forte crescita economica.Lucian Pye (v., 1985), in un ampio e intelligente studio sulla cultura e sulla politica in Asia, mostra come il confucianesimo, l'induismo e l'islamismo contribuiscano, sebbene in modi diversi, alla formazione di quei modelli politici paternalistici, 'familistici', consensuali e clientelari che si incontrano nell'Est, nel Sudest e nel Sud dell'Asia. Egli sostiene che l'area asiatica può avere modelli propri di modernizzazione, che l'istruzione e la crescita economica non conducono necessariamente alla democratizzazione, o che, se ciò si verifica, quest'ultima può presentare tali tendenze paternalistiche, consensuali e clientelari. L'imprevisto rovesciamento della tendenza alla modernizzazione e l'emergere di un fondamentalismo islamico a carattere populistico, in Iran e in altre regioni del Medio Oriente, provano in maniera analoga la forza che posseggono le variabili della cultura politica tradizionale e della socializzazione.
La testimonianza offerta dalla storia sembrerebbe a prima vista ambigua. Per un verso, la cultura politica può cambiare con relativa rapidità; per un altro verso, essa parrebbe in grado di sopportare un vero e proprio martellamento senza subire troppe alterazioni. Che cosa possiamo apprendere da queste esperienze storiche e dagli studi che si sono accumulati negli ultimi decenni, relativamente a due delle questioni fondamentali sollevate dalla teoria della cultura politica: in primo luogo, circa la stabilità della cultura politica, la sua persistenza e autonomia, e quindi il suo potere esplicativo nell'analisi politica; e, in secondo luogo, circa l'importanza relativa dei fattori che determinano la cultura politica, in particolare l'importanza della prima infanzia, del luogo di lavoro degli adulti, della comunità, dell'esperienza fatta per il tramite dei media, e dell'esperienza diretta delle prestazioni politiche e governative?
Quanto alla stabilità, o alla persistenza, della cultura politica, i dati in nostro possesso suggeriscono che gli umori politici, come la fiducia verso i politici in carica e le istituzioni politiche e sociali, sembrano essere alquanto suscettibili di cambiamento, poiché variano a seconda dell'efficienza delle prestazioni di questi leaders, dirigenti e organismi governativi. Le opinioni e i valori politici basilari sono più resistenti, sebbene rimangano soggetti al cambiamento. Così, negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna degli anni sessanta e settanta, la fiducia nei leaders e nelle élites politiche, economiche e sociali subì un netto declino. Ma non venne rilevato alcun serio logoramento nella legittimazione fondamentale delle istituzioni politico-sociali, nonostante le mediocri prestazioni dell'economia e del governo riscontrate in entrambi i paesi.
La trasformazione degli atteggiamenti politici fondamentali dei Tedeschi sembra essersi attuata come conseguenza di tre cause principali: 1) le tragiche esperienze storiche che hanno direttamente coinvolto la popolazione (tracollo militare, bombardamenti, occupazione, divisione territoriale, emigrazione coatta, umiliazione internazionale); 2) un'accorta opera di ingegneria costituzionale (un sistema elettorale che favorisce i maggiori partiti politici, il voto di sfiducia costruttiva, il federalismo); 3) rimarchevoli prestazioni politiche, che hanno prodotto una ricostruzione e una crescita considerate un 'miracolo'. È impossibile separare dal resto, assegnandogli un peso specifico, il ruolo svolto dai cambiamenti nei modelli culturali di base, prodotti da trasformazioni nella struttura familiare, nella socializzazione dell'infanzia e nella risocializzazione degli adulti. Tutto quello che possiamo affermare è che questi fattori, presi nel loro insieme, hanno prodotto una cultura politica mutata, caratterizzata da una legittimità democratica e da una legittimità del sistema politico, e inoltre una cultura politica orientata verso la partecipazione.
Negli Stati Uniti il declino della politica basata sulla fiducia e sul consenso sembra essere stato causato da più fattori, quali la costosa e demoralizzante sconfitta nella decennale guerra del Vietnam, un conflitto razziale su larghissima scala, decisivi cambiamenti nelle norme sociali e culturali, in parte indotti dalla 'controcultura' e dagli avvilenti scandali dell'amministrazione Nixon. Ma questi potenti colpi non hanno minato in maniera significativa la legittimità delle istituzioni governative, politiche ed economiche americane.I dati storici a nostra disposizione, pertanto, evidenziano il fatto che le credenze politiche fondamentali, come la legittimazione del sistema politico, godono di una considerevole stabilità. Soltanto le catastrofi sembrano essere in grado di modificare rapidamente questi atteggiamenti; in loro assenza il processo di trasformazione procede con relativa lentezza.
Quelli che più resistono al cambiamento, infine, sono gli atteggiamenti, le identità e le scelte di valore connessi ai fattori etnici, nazionali e religiosi. Si tratta di vincoli primordiali di tipo assiologico, che sembrano pressoché indistruttibili. Sono essi, insieme ai processi di socializzazione che li sorreggono, a spiegare il fallimento della Russia sovietica e dei tentativi comunisti di trasformare le culture politiche dei paesi dell'Est europeo e della stessa Russia, soprattutto all'esterno dell'area della Grande Russia.
La teoria della socializzazione politica ha registrato alcuni progressi negli ultimi decenni. Generalmente parlando, v'è la prova che l'autorità familiare è cambiata nel senso di una maggiore partecipazione. È difficile stabilire quale contributo autonomo cambiamenti di questo genere possano aver apportato alla democratizzazione della cultura politica nelle società industriali, dal momento che così tante altre influenze sono andate, in questi ultimi decenni, nella stessa direzione. È inoltre dimostrato che livelli crescenti di istruzione nelle società industriali avanzate hanno elevato la percentuale di cittadini politicamente attivi e trasformato in senso partecipativo le culture politiche di queste società (v. Hyman, 1975).
Uno dei cambiamenti più significativi nel processo di socializzazione politica è l'emergere dei media elettronici, in particolare della televisione. Studi sul comportamento elettorale negli Stati Uniti, alla fine degli anni quaranta e nel corso degli anni cinquanta, produssero la teoria del 'flusso di comunicazioni a due gradi', avanzata da Katz e Lazarsfeld (v., 1955). Questa teoria sosteneva che l'influsso dei mass media sugli atteggiamenti e sul comportamento era mediato dalle élites d'opinione (individui ritenuti degni di fiducia, ministri del culto, insegnanti, membri anziani della famiglia e via dicendo). I messaggi trasmessi dai media venivano interpretati da questi opinion leaders, e si supponeva che la gente comune fosse protetta dalla manipolazione di massa.
La televisione ha indebolito l'influenza degli opinion leaders, accentuando l'importanza dei mass media nella formazione dei valori e degli atteggiamenti. La maggiore immediatezza con la quale la comunicazione televisiva si impone alla percezione e il moltiplicarsi di influenti commentatori e personaggi televisivi hanno eroso, secondo Austin Ranney (v., 1983), l'importanza dell'opinion leader intimo e 'familiare', con significative conseguenze sulla coesione della famiglia, della comunità, dei gruppi d'interesse e dei partiti politici. Sidney Verba e i suoi collaboratori (v., 1987), nel loro recente studio sugli atteggiamenti delle élites negli Stati Uniti, in Svezia e in Giappone, dimostrano che in tutti e tre questi paesi i vari gruppi direttivi dei politici, dei burocrati, degli imprenditori, dei sindacalisti e via dicendo situano i media al più alto livello di influenza politica. Nel precedente studio di Verba sugli atteggiamenti delle élites in America (v. Verba e Orren, 1985), i media erano visti dalle altre élites non solo come influenti, ma addirittura come troppo influenti. L'evoluzione del carattere dei media, pertanto, sembra aver modificato la relazione tra élites politiche e opinione pubblica nelle società industriali avanzate. Il tasso di discrezionalità accordato ai leaders è stato ridotto, gli stili e le tecniche politiche hanno subito una trasformazione.
Dall'esperienza politica tedesca e francese appare anche evidente che l'ingegneria costituzionale e politico-strutturale può avere effetti significativi sulla cultura politica. In Germania gli adattamenti costituzionali hanno fatto sì che Bonn non fosse una seconda Weimar. Certamente la più che trentennale stabilità politica tedesca, attribuibile in misura sostanziale agli adattamenti costituzionali, ha fornito un contributo importante alla legittimazione del sistema tedesco. L'esperimento francese, con il 'governo presidenziale-parlamentare' a struttura mista e il suo sistema elettorale, ha anch'esso fornito un contributo importante alla stabilità e all'efficienza della Quinta Repubblica, e ha ridotto il cinismo e l'alienazione che caratterizzavano i Francesi.
La cultura politica che oggi sopravvive, quindi, non è quell'insieme di idee dominate dalla famiglia, dall'infanzia e dall''inconscio' proprie degli anni quaranta, ma piuttosto una teoria che enfatizza il livello cognitivo, gli atteggiamenti e le aspettative influenzate dalla struttura e dal funzionamento del sistema politico e dell'economia. Ma se in essa molto vi è di fluido e di plastico, vi sono pure componenti durature e stabili, quali le credenze politiche, le scelte di valore fondamentali, e i legami primordiali che influenzano e determinano il nostro comportamento politico e le nostre azioni pubbliche.
Ci sono state molte polemiche circa il contenuto della cultura politica. Quali sono le sue componenti, e che relazioni hanno l'una con l'altra? La tesi sostenuta da Fagen, Tucker e White ci farebbe allontanare dalla frammentazione concettuale, in direzione di un concetto più unitario. Lowell Dittmer (v., 1977, p. 581) critica la definizione prevalente della cultura politica come "percezione soggettiva di una realtà politica oggettiva, [...] concezione confusa non distinta dalla [...] struttura politica per un verso, e dalla psicologia politica per un altro". Egli propone una più nitida messa a fuoco per la definizione di cultura politica, nel quadro di un approccio semiologico di tipo sistemico. Ma ammette che la superiorità teorica di un tale approccio deve ancora essere dimostrata.
Nel saggio scritto da me insieme a G. Bingham Powell (v. Almond e Powell, 1978²), si sostiene che se la cultura politica rappresenta la dimensione soggettiva del sistema politico, essa allora dev'essere costituita da un insieme suddivisibile di orientamenti verso le varie strutture e i vari aspetti del sistema politico. I membri del sistema politico sono a conoscenza di queste diverse parti e strutture; nutrono dei sentimenti nei loro confronti; e le giudicano o le valutano in base a varie norme. Pertanto, dalla articolazione del sistema politico nei tre livelli di sistema, processo e azione politica consegue che ciascun sistema politico possiede una cultura del sistema, del processo e dell'azione politica. La cultura del sistema consta di conoscenze, sentimenti e valutazioni rispetto alle autorità politiche, ai detentori del potere; conoscenze, sentimenti e valutazioni nei confronti del regime, ovvero della struttura istituzionale; e conoscenze, sentimenti e valutazioni verso la nazione. Pertanto, quando parliamo di legittimazione di un sistema politico, dobbiamo precisare se stiamo parlando dei leaders e della burocrazia, oppure del regime, della nazione, o di qualche combinazione di questi elementi.
La cultura del processo consta di quelle conoscenze, sentimenti e valutazioni che i membri del sistema politico hanno verso se stessi in quanto attori politici, e verso altri attori politici, compresi altri raggruppamenti quali partiti e gruppi di interesse, nonché determinate élites politiche e governative. La cultura dell'azione politica consta di quelle conoscenze, sentimenti e valutazioni che i membri del sistema politico hanno verso gli esiti (outputs) del sistema: la sua politica interna (impositiva, regolativa e distributiva) ed esterna (militare, diplomatica ed economica).
Scomponendo la cultura politica in questi termini sistemici, siamo in grado di esplorarne la struttura logica o interattiva. Questo ci può condurre da un lato a porre rimedio ad alcuni dei limiti concettuali esplicitati da Lowell Dittmer, evitando nello stesso tempo, dall'altro lato, buona parte dell'enfasi che caratterizza l'approccio semiologico. È evidente che questi tre livelli di cultura politica sono strettamente connessi. A un livello relativamente ingenuo, è chiaro che l'insoddisfazione verso gli esiti di una determinata azione politica può anche condurre all'insoddisfazione verso le autorità politiche responsabili di tali esiti. L'insoddisfazione verso il processo politico può portare all'insoddisfazione verso il regime. L'insoddisfazione prolungata verso gli esiti dell'azione politica può, in taluni tipi di sistemi politici, condurre a un cambiamento delle autorità politiche; proprio come l'insoddisfazione prolungata verso il processo politico può portare al cambiamento del regime o della struttura politica. Un peggioramento delle prestazioni, a livello sia di processo che di azione politica, in paesi che comprendono al loro interno differenti gruppi etnici, può portare col tempo a un declino nella legittimazione nazionale e al sorgere di movimenti autonomisti e secessionisti, com'è accaduto in anni recenti in Gran Bretagna, Canada e Spagna.
D'altra parte, una prestazione efficace e adeguata alle aspettative, a livello di azione politica e di processo, può accrescere nel tempo la legittimazione delle autorità politiche, dei regimi politici e delle nazioni. In questa interazione tra prestazione a livello di processo e di azione politica da un lato e legittimazione del sistema dall'altro, c'è qualcosa di simile a un processo di accumulazione e dissipazione di capitale.
La trattazione della cultura politica nei termini di questi tre livelli getta luce su taluni aspetti di strategia politica. Le minacce rivolte a un regime a causa dell'insoddisfazione a livello di processo possono essere affrontate direttamente, come è avvenuto in occasione del processo di democratizzazione nella Gran Bretagna del XIX secolo. Il processo del negoziato si mosse non nella direzione del dilemma se concedere o meno il suffragio universale, ma piuttosto in quella di concessioni limitate e graduali, che corrispondevano alle aspettative di quelle componenti della popolazione che più delle altre si erano mobilitate. In Germania la strategia di Bismarck mise a tacere le diffuse aspettative per un pieno affrancamento della classe media e del proletariato grazie a un'accorta politica di incentivi - una politica sociale per la classe lavoratrice, una politica commerciale per gli industriali e i grandi proprietari terrieri, e una politica estera aggressiva per tutti. Questa strategia bismarckiana, consistente nel ricorso a una politica distributiva come mezzo per mitigare e contenere le aspettative di partecipazione, è stata adottata al giorno d'oggi da molti paesi del Terzo Mondo - in particolare dalla Corea del Sud e da Taiwan.
Un approccio sistemico allo studio della cultura politica, che segua le linee qui tracciate, ha il merito di mantenerlo saldamente radicato nella struttura e nelle prestazioni del sistema politico. Esso si presta a un'analisi formale, logica, e produce interessanti ipotesi su aspetti importanti della politica. (V. anche Politica e Politica, scienza della; Simboli politici; Socializzazione).
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