Politica
di Nicola Matteucci e Angelo Panebianco
Politica di Nicola Matteucci
Politica - nella lingua italiana - è generalmente un aggettivo femminile sostantivato, del tutto analogo al tedesco Politik e al francese politique, mentre in inglese abbiamo politics, ma anche policy per indicare le politiche pubbliche. Alla parola politica segue in genere un aggettivo, come estera, interna, economica, sociale, un aggettivo che non sempre però riguarda la vita pubblica: si parla anche della politica aziendale. L'uso del termine è decisamente neutrale: si parla anche della politica razziale di Hitler. Manca, nella lingua italiana, una parola equivalente all'inglese polity per indicare una società bene ordinata, un buon governo.Tuttavia politica può essere inteso come un neutro plurale, per indicare le cose politiche, analogamente al greco τὰ πολιτιϰά o al tedesco die Politik. Esiste anche il sostantivo il politico (Politiker, politique, politician) per indicare l'uomo politico; nel linguaggio scientifico, però, è entrato in uso per indicare l'essenza della politica o la politicità, riproducendo il neutro tedesco das Politische o il neutro plurale inglese politics. Questo uso sostantivato di valore neutro serve o dovrebbe servire a distinguere il politico dal privato e dal sociale. Esiste anche l'aggettivo politico, che si accompagna a un'infinità di parole, come partito, élite, partecipazione, cultura, regime, sistema. Talvolta serve anche per indicare virtù private come la prudenza.Come si vede, questo termine, sia per l'inflazione del suo uso generico, sia per il suo uso improprio, è suscettibile dei significati più diversi e più disparati, e non esprime più un concetto univoco e forte: la sua estensione semantica indebolisce il concetto. La nostra parola di origine greca si precisa solo con l'aggettivo che la segue o con il sostantivo che la precede. Con riferimento ad altri concetti politici moderni - soprattutto, ma non solo, dell'Ottocento - essa diventa un termine subordinato al concetto di Stato (o di governo). Nella lingua tedesca appare il concetto di Herrschaft che, in una traduzione debole, significa potere, in una traduzione forte, indica il dominio. Per Max Weber la politica è la lotta per il potere, per il monopolio legittimo della forza; per la Scuola di Francoforte il dominio materiale e totale della società esclude ogni possibilità della politica, che non sia un radicale rovesciamento del sistema.Per tentare di pervenire a una definizione concettuale di 'politica' è necessario - in prima istanza - procedere ad alcune distinzioni. La politica si riferisce all'azione umana, che si dà in un mondo di azioni: ciò implica una molteplicità di soggetti agenti in una situazione sempre precaria e mutevole. Questa azione vuole mutare l'esistente (non importa in che senso) e non ha pertanto obiettivi conoscitivi: essa è soltanto prassi, una prassi mossa da valori e/o interessi. È un'azione cosciente, dato che a essa è immanente un sapere pratico che i Greci chiamavano ϕϱόνησιϚ; il termine latino prudentia è rimasto in età moderna, mentre oggi usiamo diverse parole, fra cui senso, arte, fiuto politico. Le massime per l'azione sono poi state nel tempo passato raccolte in manuali di precettistica.Il concetto di politica è dunque strettamente collegato alla prassi, all'azione, e questo ci permette di distinguere radicalmente la politica come prassi dalla politica come oggetto di conoscenza: in primo luogo dalla scienza empirica della politica, che ha come campo d'indagine l'osservazione delle azioni e perviene alla compilazione di complesse tipologie; in secondo luogo dalla filosofia politica, che cerca gli universalia dell'agire politico (pensiamo a Croce, Weber, Schmitt); in terzo luogo dalla storia del pensiero politico, che è una storia di valori politici: molti - o troppi - che hanno cercato di definire la politica si sono ridotti poi a stendere una storia del pensiero politico, un pensiero che spesso non è collegato con la prassi. Più utile è seguire la storia della parola coniugata alla storia del concetto, anzi allo svuotarsi del suo significato, per capire - nelle grandi rotture epocali - le più profonde trasformazioni sociali e istituzionali nelle quali si dà il fenomeno politico. Detto questo, resta pur sempre ineludibile il compito di definire - oggi - nel vasto oceano delle azioni, quali siano ritenute politiche e quali no. I Greci distinguevano radicalmente la sfera pubblica della politica da quella privata della casa (οἶϰοϚ); nel Medioevo si distinse la politica dalla morale, dal diritto, dall'economia, dalla cultura, ciascuna avendo ambiti istituzionali e principî suoi propri. Ma una vera rottura fra politica e morale si ha solo in età moderna. Oggi si parla, invece, di politica della famiglia, politica del diritto, politica economica, politica culturale: la politica sembra essere dappertutto, investendo e sbriciolando ogni sfera autonoma. Lo Stato contemporaneo sembra aver distrutto tutte quelle differenziazioni istituzionali, tutte quelle autonome arene nelle quali si era formato lo Stato moderno.
Per comprendere il significato autentico di una parola bisogna risalire alle sue origini. Politica deriva da πόλιϚ, la comunità cittadina greca. La πόλιϚ fu il risultato di un lento, spontaneo sviluppo, dovuto al concorso di più forze e di più circostanze. Con ciò s'intende che questa forma della convivenza civile radicalmente nuova e originale non fu il risultato di un progetto o di una imitazione: fu il frutto casuale e spontaneo della storia sociale e politica greca. È unita al termine πόλιϚ con un legame assai stretto - ora perduto - una famiglia di parole: tutte, da un lato, sottolineano lo stesso concetto, dall'altro si riferiscono a un'esperienza storica comune e hanno, quindi, uno stretto legame con la prassi.La πόλιϚ è una città autonoma perché indipendente, autarchica perché basta a se stessa. Essa è abitata dai cittadini (πολῖται), che hanno il diritto di cittadinanza (πολιτεία): proprio perché uniti in una comunità, in una ϰοινωνία, essi si occupano permanentemente della cosa pubblica, della vita della πόλιϚ in pace e in guerra, e la loro presenza costituisce l'identità politica della città. Vi è anche il politico, il πολιτιϰόϚ (al maschile), per indicare chi ha rilevanza o eccelle nel disbrigo degli affari della città, ma senza appartenere a una separata classe politica: per il cittadino l'essere partecipe e non destinatario della politica implica una completa partecipazione e politicizzazione. Passando alla riflessione filosofica, τὰ πολιτιϰά indica le cose pubbliche, πολιτεία - oltre il diritto di cittadinanza - indica la costituzione e spesso la costituzione giusta. Inoltre, per indicare la scienza che ha come oggetto la politica c'è l'espressione πολιτιϰὴ ἐπιστήμη.
Uno dei primi a suggerire in che cosa consista la politica fu Protagora (ca. 480-410 a.C.). Nel famoso mito (DK 80 C 1) mostra come gli uomini, pur avendo avuto da Prometeo l'arte tecnica, non riuscissero - uscendo dai boschi - a convivere fondando una città, perché erano privi dell'arte politica (πολιτιϰὴ τέχνη). Allora Zeus mandò loro Giustizia (δίϰη) e Rispetto (αἰδώϚ) e incaricò Ermes di distribuirli a tutti, perché altrimenti la città non sarebbe potuta esistere. In quest'ottica la politica è, dunque, un dono degli dei. Al democratico Protagora si contrappone Platone (427-347 a.C.), che vede la scienza politica (πολιτιϰὴ ἐπιστήμη) posseduta soltanto da pochi o da uno solo. Nel Politico fa tuttavia un'affermazione interessante: paragona il πολιτιϰόϚ al tessitore, che con la sua scienza (ἐπιστήμη) o la sua arte (τέχνη) con cose diverse (le concause o cause ausiliari) riesce a costruire un solo ordito. Certo il protagonista è il πολιτιϰόϚ, mentre gli altri sono soltanto materia passibile della sua forma; ma è solo un protagonista, non certo un creatore. Questa definizione del politico come tessitore è importante nella misura in cui indica la capacità di unire gli uomini in una comune prassi. Platone resta, tuttavia, dominato da un'esigenza assoluta e indeclinabile: quella dell'unità politica. È per questo che viene criticato da Aristotele (384-322 a.C.), che condanna proprio quel fine dell'unità che la πόλιϚ dovrebbe raggiungere come suo bene supremo: questa unità infatti distruggerebbe la πόλιϚ che per sua natura è pluralità, πλῆθοϚ (Pol. II 2, 1261a, e III 1, 1275a).
È nota la definizione aristotelica dell'uomo distinto dalle bestie e dagli dei (Pol. I 2, 1253a): egli è per natura un animale politico (πολιτιϰὸν ζιῶον). Se "la natura è il fine" (Pol. I 2, 1252b) l'uomo ha la possibilità di tendere alla realizzazione delle proprie potenzialità naturali soltanto nella comunità politica. Si è detto che con questo Aristotele definisce l'uomo, non la politica, ma l'affermazione è valida solo se estrapoliamo la citazione dal contesto. Infatti l'uomo, solo tra gli animali, ha la parola (ζιῶον λόγον ἔχον) e la voce gli serve per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l'ingiusto, per cui la giustizia (διϰαιοσύνη) è il fine della πόλιϚ (Pol. I 2, 1253a). La πόλιϚ, infatti, è una comunità che si costituisce in vista di un bene (Pol. I 1, 1252a) e solo in essa si realizza il fine naturale dell'uomo (Pol. I 2, 1253a). Nell'Etica Nicomachea Aristotele definisce l'azione politica come πϱᾶξιϚ e la differenzia dall'azione produttiva o fabbricatrice (ποίησιϚ) (Eth. Nic. VI 2, 1139a-b). Si tratta di agire secondo la retta ragione (Eth. Nic. II 2, 1103b) e la retta ragione è la saggezza o ϕϱόνησιϚ (Eth. Nic. VI 13, 1144b), la quale non è la tecnica (τέχνη) propria del sapere produttivo.La πόλιϚ è composta da una molteplicità di uomini liberi ed eguali (Pol. III 1, 1275a): la libertà, però, non è del singolo, ma della πόλιϚ, l'eguaglianza (ἰσονομία) è solo nella cittadinanza, e a tutti è consentito - come afferma Erodoto (490/480-ca. 424 a.C.) - il diritto di parola (ἰσηγοϱία). Ciascuno è, a vicenda, governante e governato e l'autorità del πολιτιϰόϚ si esercita su uomini liberi ed eguali (Pol. I 7, 1255b).
Le cariche, infatti, sono limitate nel tempo e quindi c'è una circolazione nelle funzioni di governo. In questo contesto non appare una vera e propria classe politica, non si può parlare di un dualismo fra società e potere.Tutti i cittadini partecipano ai lavori dell'assemblea, pochi accedono alle funzioni di giudice e alle cariche (Pol. III 1, 1275a): un giusto titolo alle cariche è dato da valori diversi, come la nobiltà, la libertà, la ricchezza, la giustizia e la virtù (Pol. III 12, 1283a). Aristotele, ancora una volta, mescola il principio democratico e quello aristocratico, la giustizia aritmetica, dove vige un'eguaglianza aritmetica, e la giustizia geometrica, dove vige un'eguaglianza proporzionale (Eth. Nic. V 5, 1130b-1131a). Ma di che cosa si occupano i cittadini, in che cosa consiste il loro fare politica? Potrà sembrare strano, ma per loro non rientra nella politica la nostra politica estera - anche se è l'uomo politico che decide la pace e la guerra - e tanto meno la politica sociale, che è diretta a soddisfare i bisogni per fornire sicurezza alla mera vita materiale.
Nella sua netta distinzione fra πόλιϚ e οίϰοϚ, la casa che è sede dell'attività economica, Aristotele parla delle diverse relazioni di autorità che si danno nell'amministrazione della famiglia, dove troviamo i rapporti fra padrone e servo (o schiavo), fra padre e figli, fra marito e moglie (Pol. I 3, 1253b), nei quali si comanda in modo diverso. Questo tema lo ritroveremo agli inizi dell'età moderna. Lo schiavo è un oggetto, uno strumento di mera proprietà, mentre sui figli il capofamiglia ha l'autorità paterna del re, e con la moglie ha un rapporto - anche se attenuato - politico (Pol. I 12, 1259b). L'autorità del padrone e quella del politico sono radicalmente diverse, dato che quest'ultima si esercita solo su uomini liberi (Pol. I 7, 1255b). La prima - ovviamente - è un'autorità dispotica e tutta la Politica è percorsa da un'opposizione al dispotismo e alla tirannide.La Politica è una vasta analisi delle costituzioni delle πόλειϚ greche, un'analisi di scienza politica proprio per il suo fondamento empirico e per il suo metodo comparato. Essa sarà letta e interpretata nei secoli posteriori soprattutto nei passi che abbiamo ora indicato: quelli sulla natura dell'uomo come animale politico, nei quali è presente una forte carica polemica contro la tirannia e il dispotismo, e quelli sulle diverse forme di autorità dispotica, paterna, politica. Erano, questi, dei concetti che corrispondevano a un'esperienza storica comune, a una prassi condivisa: quella, appunto, della πόλιϚ.
L'aggettivo politicus è raro nella lingua latina, anche se è usato da Cicerone; irrompe soltanto nel Medioevo, dopo la traduzione in latino della Politica di Aristotele (ca. 1260) fatta da Guglielmo di Moerbeke, nei diversi commenti di Tommaso (1221-1274). Si inserisce, però, in una costellazione di parole assai mutata: le parole dominanti sono civis, civitas; l'aggettivo civilis spesso s'accompagna - o lo sostituisce - all'aggettivo politicus quando si parla di communitas, societas, scientia, prudentia, e si usa anche il civiliter vivere. Questo si spiega facilmente col fatto che è scomparso il referente forte, la πόλιϚ, alla quale gli stoici (e anche Cicerone) contrappongono la nuova μεγαλόπολιϚ. I termini per indicare l'unità politica sono altri: regnum, regimen, dominium, principatus. Quell'organica costellazione di parole, propria dei Greci, si sfalda e si perde così il concetto autentico che la parola politica sottintendeva.Tommaso è incerto nel tradurre l'aristotelico πολιτιϰèον ζιῶον: nel De regimine principum lo rende con "animal sociale et politicum", nella Summa theologiae parla sia di animal sociale, sia di animal politicum, mentre nella Sententia libri politicorum è l'aggettivo - già visto - civile che prevale. Si è persa l'autentica dimensione del πολίτηϚ. A riscontro basta vedere l'esigenza - anche se in forma non moderna - dell'unità, che domina non soltanto il De regimine principum, con il quale s'inaugura un genere politico destinato ad avere fortuna sino alla fine del Cinquecento: al principe, che rappresenta l'unità politica, si deve solo obbedienza. La communitas politica o civilis ha certo un fine, ma il vivere bene aristotelico è assai lontano da quel bonum commune che Tommaso iscrive in una gerarchia di fini che hanno il loro fondamento ultimo nella teologia e come realizzatore il principe stesso.
Ma tramite Tommaso qualcosa dell'eredità aristotelica entra a far parte della cultura medievale e moderna. La distinzione aristotelica fra πολιτιϰή ἀϱχή e δεσποτιϰèη ἀϱχή resta al centro della speculazione politica di Tommaso, tutta costruita nell'opposizione fra il principatus politicus e il principatus despoticus. L'aggettivo politicus resta, ma non per indicare l'azione o la prassi del πολίτηϚ: esso indica un ordinamento conforme a una giusta costituzione, non al vivere politico. Il significato del termine πολιτεία o politia resta con un accento esclusivamente assiologico. Si ricollega a Tommaso John Fortescue (ca. 1409-1476), che tanta influenza avrà sul costituzionalismo inglese: mentre il primo aveva fatto anche la distinzione fra regimen regale e regimen politicum, riferendosi rispettivamente al regnum e alla civitas, il secondo nel De laudibus legum Angliae distingue il dominium regale, proprio della monarchia assoluta francese, e il dominium politicum et regale, proprio della monarchia limitata inglese. Con quel politicum di Fortescue inizia la problematica del moderno costituzionalismo, che è assai debitore ad Aristotele.Tracce dell'eredità aristotelica sono rinvenibili anche nei tempi moderni. Niccolò Machiavelli (1469-1527) nei Discorsi usa frequentemente l'espressione "vivere politico" assieme a quelle di "vivere civile" e "vivere libero". Ma mentre le prime due sono usate sia per le repubbliche, sia per i regni ove ci sia la supremazia della legge, l'ultima è usata solo per le repubbliche. Il concetto greco emerge con più forza nella Politica methodice digesta di Johannes Althusius (1557-1638), il quale afferma sin dall'inizio che "la politica è l'arte per mezzo della quale gli uomini si associano allo scopo di instaurare, coltivare e conservare tra di loro la vita sociale. Per questo motivo essa è definita 'simbiotica'".In età moderna ritorna la tripartizione aristotelica delle forme di potere, delineata a proposito dell'amministrazione della casa: abbiamo un potere dispotico, un'autorità paterna (sui figli) e una 'politica' sulla moglie. Thomas Hobbes (1588-1679) distingue due tipi di Stato (in realtà chiamati o city o common-wealth): quelli naturali (natural) e quelli per 'istituzione', definiti anche political (De cive, V 12). Quelli per istituzione nascono dal contratto di unione, mentre gli altri sono appunto naturali e sono il dominio (dominion) paterno e quello dispotico (Leviathan, II 20). Ci si aspetterebbe una radicale distinzione fra il primo, 'politico', e gli altri due, 'naturali', ma Hobbes risolve il problema con una semplice affermazione: "i diritti e le conseguenze del dominio, sia paterno che dispotico, sono proprio gli stessi di un sovrano per istituzione" (Leviathan, II 20). John Locke (1632-1704), invece, diverge radicalmente da ciò: esclude che la famiglia appartenga alla political or civil society (Two treatises of government, II 7), riconosce la legittimità del potere paterno sui figli sino alla loro maggiore età, ritiene contro natura il potere dispotico, mentre il potere politico (political power) è solo quello istituito da un contratto. In fondo Locke, il fondatore del moderno costituzionalismo, resta fedele al pensiero greco nell'usare la parola politica, ma non tanto ad Aristotele, anche se parte dalla sua tipologia, quanto all'idea della politica intesa come l'arte di associarsi (II 15). Una pari condanna del governo paterno c'è in Immanuel Kant (1724-1804), che non lo considera uno Stato giuridico o civile, come afferma nel saggio dal titolo Über den Gemeinspruch: das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis. L'imperium paternale viene contrapposto all'imperium civile, che è l'unico adeguato alla modernità (Zum ewigen Frieden).
Da ultimo non possono essere tralasciate alcune considerazioni sulla ricezione medievale e moderna della philosophia practica. Sempre interpretando Aristotele, Tommaso aveva diviso la filosofia morale in tre branche: "una analizza le azioni del singolo individuo ordinate al fine, e prende il nome di monastica. La seconda ha per oggetto le azioni della comunità domestica, e viene detta economica. La terza infine si occupa delle azioni nella comunità civile, e il suo nome è politica" (In decem libros ethicorum expositio, I 1).
Aristotele aveva distinto tre diverse forme di ϕϱόνησιϚ in relazione all'agire nella πόλιϚ, all'agire nell'οἶϰοϚ e all'agire dell'individuo (Eth. Nic., VI 8), ma aveva parlato di una sola ἐπιστήμη πϱαϰτιϰή. In realtà poi egli relativamente all'agire nella πόλιϚ distingue e unisce, perché fa interagire etica e politica e pone la scienza politica come regina di tutte le altre scienze pratiche (Eth. Nic., I 1, 1094b), mentre Tommaso non solo iscrive la sua philosophia practica nella teologia, ma subordina anche la politica all'etica.La philosophia practica non solo è presente nella Scolastica e nelle enciclopedie medievali, ma viene recepita nelle università tedesche dalla fine del Cinquecento alla fine del Settecento: l'ultimo grande esponente di questi studi fu Christian Wolff (1679-1754) con la sua Philosophia practica universalis, dove tratta in modo sistematico, ma anche eclettico, di etica, economia e diritto. Immanuel Kant segnò la fine di questa tradizione, già intaccata dalla scienza politica moderna di Hobbes e dalla cameralistica. Rientrano in questa tradizione le opere di Christian Thomasius (1655-1728), il quale, al posto dell'economia (ormai dominio incontrastato della cameralistica), pone il diritto. Egli individua tre valori: l'honestum per la morale, lo justum per il diritto, e il decorum per una politica senza coercizione (Fundamenta juris naturae et gentium, I, VI, 40-43). L'importanza della philosophia practica sta nell'aver ricercato (ma con scarsi risultati) di definire la politica - aristotelicamente - in termini di azione, di prassi, senza lasciarsi influenzare dal paradigma moderno, quello dello Stato. Oggi essa è ritornata in auge con la Rehabilitierung der praktischen Philosophie, una corrente di pensiero che in Germania ha tentato di riattualizzare l'etica e la politica di Aristotele.
Nel Cinquecento comincia a delinearsi un nuovo paradigma, con una sua propria costellazione di concetti: la parola politica non esce dal linguaggio comune, ma perde lentamente il suo peso e soprattutto il suo significato normativo. La continuità terminologica nasconde una rivoluzione semantica, perché il nuovo per prendere coscienza di sé ha bisogno di nuove categorie. Certo, nella Francia cinquecentesca il termine police ha una rilevanza costituzionale: per Jean Bodin (1529-1596) indica la complessa rete degli uffici, delle magistrature, dei commissari, dei corpi e dei collegi, delle assemblee degli Stati e dei Consigli che hanno come fine quello di mantenere il buon ordine, l'armonia nella società governata da una monarchie royale. Per dirla con Charles Loyseau (15661627), questa complessa rete metteva il re nella felice impotenza di fare il male.Chi per primo intuisce che le nuove realtà dei moderni non possono essere comprese con il vocabolario degli antichi è Niccolò Machiavelli: come si è visto l'espressione 'vivere politicamente' ricorre frequentemente nei Discorsi, ma la parola politica non compare mai nel Principe. Questa consapevolezza appare anche da alcuni capitoli dei Discorsi (I 25 e 26, ma anche 18). Dopo aver consigliato il rispetto della tradizione a "colui che vuole ordinare uno vivere politico, per via di repubblica o di regno", Machiavelli afferma: "ma quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide, deve rinnovare ogni cosa"; e nel capitolo seguente consiglia al "nuovo principe" di "usare modi crudelissimi e nemici d'ogni vivere non solamente cristiano, ma umano": "quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male". Questa è la lezione del Principe, che - non dimentichiamolo - ha come protagonista il "principe nuovo", che per fortuna e non per virtù ha acquistato il suo dominio. Egli ha bisogno soltanto di due virtù, la scaltrezza e la forza, quella della "golpe" e quella del "lione", ma queste capacità della "bestia" (Principe, XVIII) sono lontanissime dalla ϕϱόνησιϚ aristotelica come dalla prudentia o prudenza di coloro che l'avevano interpretata.Per indicare questa nuova realtà opposta alla politica Machiavelli usa frequentemente il termine Stato, ma anche signoria o dominio; e il dominio è l'opposto della politica. La parola Stato da Machiavelli non viene approfondita concettualmente, non è centrale nella sua riflessione, e ha, anzi, diversi significati: indica l'estensione territoriale, la popolazione soggetta al dominio del principe, ma anche il potere, la signoria, il dominio del principe. Siamo ancora lontanissimi dal concetto moderno di Stato, ma la parola comincia a entrare in uso, anche se in Europa incontra difficoltà dato che sino a Kant si preferisce restare fermi ai derivati di res publica. Saranno gli scrittori politici realistici, che annoveriamo sotto l'etichetta di 'teorici della ragion di Stato', a imporla: Giovanni Botero (1544-1617), sin dalle prime battute della sua opera dal titolo Della ragion di Stato (I 1), afferma che 'Stato' è "un dominio fermo sopra popoli, e ragion di Stato è notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio cosiffatto". La parola lentamente prende spessore concettuale, anche per opera dei giuristi, annettendosi il termine politico. Al termine di questo processo Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che ben conosceva il pensiero greco, nella Rechtsphilosophie definì il suo "uno Stato propriamente politico" (§ 267). Ma era soltanto l'uso di una parola del passato.
In questa storia la parola 'politica' mostra un'ambiguità semantica per la tensione dei significati a essa attribuiti. Ciò si verifica in maniera evidente durante le guerre di religione in Francia. Attorno al cancelliere Michel de L'Hospital (1505-1573) si era costituito un gruppo di legisti e di magistrati: sono i politiques che miravano soprattutto a salvare il Regno di Francia dai conflitti religiosi fra papisti e ugonotti e per questo miravano realisticamente a realizzare mediante editti di tolleranza una pace religiosa in nome del primato della politica. Il termine politique era forse legato ad Aristotele, dato che la Politica era stata tradotta nel 1658 da Louis Le Roy. Un esponente del gruppo, Étienne Pasquier (1529-1615), il più grande storico che ebbe la Francia nel Cinquecento, in un breve dialogo sulla miglior forma di governo, il Pourparler du Prince (1560), contrappone il 'cortigiano', che consiglia al re di ampliare il suo dominio anche a costo di diventare tiranno, al 'politico', che difende le antiche istituzioni del Regno, gli Stati Generali e i Parlamenti, facendo un'apologia degli antichi ordini ai quali tutti - dal popolo al principe - dovevano essere sottoposti. Pasquier non è certo lontano da Machiavelli, quando descrive il regno di Francia. Durante le guerre di religione il termine politique diventa per entrambi i partiti religiosi subito sospetto, perché in esso si afferma un primato della politica sulla religione: i politiques sono soltanto "libertins, épicuriens et athéistes". Dopo la strage della notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572) da parte ugonotta uscirono - tra gli altri - due volumi in cui la condanna di Machiavelli si accompagna alla giustificazione del tirannicidio: l'Anti-Machiavel (1576) di Innocent Gentillet, e le Vindiciae contra tyrannos (1579) di Stephanus Junius Brutus (pseudonimo di Hubert Languet o di Philippe Duplessis-Mornay).
Il dibattito sulla politica si intreccia, così, con la polemica su Machiavelli e anche con i teorici della ragion di Stato, i quali, lettori di Tacito, parlavano degli arcana imperii o dominationis, dell'arte della simulazione e dell'obiettivo di ottenere dai sudditi obbligazione e obbedienza. Ma non c'è nessun approfondimento concettuale e non si va oltre la contrapposizione fra una vera scienza politica e una scienza politica tirannica, già impostata da Innocent Gentillet. Si è ancora fermi all'ideale medievale del principe cristiano (che ha la sua fonte più in Platone che in Aristotele), senza prendere coscienza che la politica, per i Greci, possedeva una dimensione orizzontale, mentre nei tempi moderni si parla solo di un principe che esercita un dominio. Il dibattito fra moralisti e realisti è solo sulle virtù del principe: c'è chi vuole che governi secondo giustizia e secondo virtù; e chi, invece, vuole che, pratico delle cose mondane, sia attento alla ratio necessitatis.
La parola 'politica' diventa ambigua: può essere bella o brutta a seconda del giudizio morale che pronunciamo sulle azioni del principe. Nell'articolo Politique, contenuto nel XII volume dell'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert, si protesta contro l'abuso di coprire con il nome di politica le arti della tirannide: il vero principe deve avere "un cuore grande".
La parola 'politica' perde il suo peso concettuale, ma nell'età della secolarizzazione si aprono grandi dicotomie: dopo quella fra politica e religione, appaiono quella fra politica ed etica e quella fra politica ed economia, poi quella fra politica e amministrazione e, infine, quella fra politica e cultura.Per capire la nuova realtà, che poi prenderà il nome di Stato, era necessaria una radicale rottura con la tradizione aristotelica che, tramite Tommaso, continuava - anche se in modi diversi - a contrapporre il principe cristiano e il tiranno. Era necessario un nuovo paradigma, che segnasse radicalmente la fine della politica e usasse una nuova costellazione di parole incentrata su un nuovo concetto forte. Questo fu espresso dal termine 'sovranità', che col tempo, assieme a 'territorio' e 'popolo', costituirà la triade su cui si articola il moderno concetto di Stato.
A compiere questa radicale rottura fu Thomas Hobbes, che conosceva benissimo il greco. In un'opera minore, il Behemoth, indagando sulle cause delle guerre civili inglesi, ha parole durissime contro Aristotele: "Nessuno tra gli scritti dei filosofi antichi è paragonabile a quello di Aristotele, quanto alla capacità di confondere e invischiare gli uomini con le parole, e alimentare così le loro dispute".
Al πολιτιϰèον ζιῶον egli contrappone l'homo homini lupus dello stato di natura, nel quale l'individuo ha un diritto naturale all'autoconservazione. Lo Stato - a differenza della πόλιϚ - è soltanto una costruzione artificiale: è il suo imperium, il suo potere effettivo, a fondare la ϰοινωνία, l'unità e l'identità politica dei cittadini, ridotti però al silenzio sul destino della città perché è solo il sovrano a rappresentarli. Il sovrano non ha soltanto il monopolio della forza, ma anche quello dell'interpretazione, sia delle leggi naturali sia delle Sacre Scritture, quindi anche della morale.È la fine della politica: essa continua solo fra gli Stati, i quali sono fra loro in uno stato di natura e quindi di potenziale guerra (ma Hobbes non usa certo la parola politica). All'interno dello Stato il sovrano non fa politica: la sua azione, diretta a mantenere la pace, è ispirata da imperativi tecnici, da una razionalità meramente formale, e le sue decisioni devono essere funzionali al fine. Così il fine dello Stato assoluto è la neutralizzazione, cioè la spoliticizzazione della società. La politica interna appare come pura amministrazione in base a chiare leggi stabilite dal sovrano.L'amministrazione: nella lingua tedesca abbiamo nel Sei e Settecento il termine Polizey o Policei, del tutto analogo al francese police e all'italiano polizia (usato da Botero), dato che tutti derivano dal latino politia.
Ma ora tali termini indicano l'amministrazione. In Germania la Polizey ha un grande impulso scientifico tramite la cameralistica: questa nuova scienza - comprensiva, alle origini, di diversi ambiti disciplinari, sociali ed economici - era al servizio del principe per la buona amministrazione dei suoi territori e aveva come fine la sicurezza interna e il benessere dei sudditi. Essa è una scienza in quanto non parla astrattamente dell'arte di governare secondo giustizia, ma studia sul piano amministrativo i mezzi per la gestione finanziaria, per la politica economica, per realizzare il buon ordine in una società amministrata. C'è un disciplinamento sociale attraverso la scienza dell'amministrazione, criticata alla fine del Settecento per il suo eccessivo dirigismo legato a una concezione paternalistica dello Stato. Nella Policei domina un sapere empirico, non l'antica prudenza, una razionalità rivolta a un fine, non la proposta di una società virtuosa. Dall'arte del governo siamo passati alle scienze al servizio dello Stato.
L'antico significato di politia è del tutto scomparso, ma la parola politica riappare per indicare le diverse politiche interne dello Stato, come la politica amministrativa, finanziaria, agraria, fiscale, che fanno capo alle nuove diverse specializzazioni della cameralistica, perché queste scienze sono in funzione della legislazione del principe.Con la crisi dello Stato assoluto, in seguito alla rivoluzione democratica, appare un potere ascendente contrapposto al vecchio potere discendente. Nel 1848 si parla di emancipazione politica dei cittadini in uno Stato democratico, si contrappone la politica del popolo a quella del governo, si vede nell'agire politico la promozione della libertà e dell'eguaglianza. La Allgemeine Staatslehre compie un formidabile sforzo teorico per fondere Stato e popolo, la maiestas personalis e la maiestas realis. Dopo il fallimento di questo sforzo ci si accorge che la società - un tempo spoliticizzata - si ripoliticizza e appaiono nuovi soggetti, come i partiti, e nuovi fenomeni, come la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Gli uomini, per comunicare fra loro e discutere i problemi della loro vita associata, hanno bisogno di parole e così ritorna, con questo potere ascendente, il vecchio termine politica, ma l'estensione semantica finisce per indebolire il concetto e abbiamo le politiche e non la politica, politiche del tutto estranee alla politica greca.
Max Weber (1864-1920) nel saggio Politik als Beruf è consapevole dei pericoli di questa eccessiva estensione semantica della parola e propone una sua definizione: "Politica significherà dunque per noi aspirazione a partecipare al potere o a influire sulla ripartizione del potere, sia tra gli Stati, sia nell'ambito di uno Stato tra gruppi di uomini compresi nel suo territorio". D'altronde il concetto di potere è centrale nella sua grande opera sistematica Wirtschaft und Gesellschaft.
Questa definizione si iscrive nel tradizionale concetto di Stato (sintesi di sovranità, territorio, popolo), di cui sottolinea - alla Hobbes - il "monopolio legittimo della forza fisica": il suo concetto di Herrschaft suona spesso più come dominio (da dominus) dall'alto, che come potere (o meglio prassi) dal basso. Per quanto sia felice la sua definizione della politica, essa però rimanda ad altro, al potere (o al dominio), allo Stato. Eppure in Politik als Beruf Max Weber ebbe un'illuminante intuizione di sapore greco: l'autentico politico deve avere "passione, senso di responsabilità, lungimiranza", e questo lo differenzia dai professionisti della politica. Ma questa intuizione contiene un giudizio di valore, mentre la sua sociologia si basa su giudizi di fatto.
L'uso della parola politica si trasferisce, così, dallo Stato (con la sua politica estera e le sue politiche interne) alla società: si parlerà così di partecipazione politica e di partiti politici. Nel Novecento, però, con solidi ancoraggi al pensiero ottocentesco, appare nella prassi - una prassi munita di una ben precisa teoria, quella marxista - un nuovo concetto forte di politica, in cui questa si contrappone alla politica come routine, la quale si limita ad amministrare i meri interessi esistenti avendo soltanto fini immediati. È la 'politica assoluta', che mira alla totale trasformazione della società attraverso una prassi rivoluzionaria al fine di realizzare una società pacificata, nella quale - essendoci armonia - scompaia la politica. Su questa linea si muovono il socialismo marxista e il socialismo anarchico. Per raggiungere questo fine ha luogo una 'politicizzazione' di tutte le manifestazioni della vita e la politica tende a farsi totale: il nuovo principe - per Gramsci il partito rivoluzionario - incarna la stessa istanza etica. In realtà si tratta di una teologia laicizzata (o secolarizzata) della redenzione umana o della salvezza ultima, che mantiene però intatta la vecchia struttura concettuale escatologica: eliminare il male dalla storia per attuare il regno di Dio in terra, per realizzare una compiuta felicità terrena. Il fine ultimo è, così, la scomparsa della politica.
Nel linguaggio comune la parola politica si è profondamente consumata, o meglio svuotata del concetto che essa sottintendeva quando venne forgiata nell'età della πόλιϚ. Tuttavia le scienze sociali in senso lato, cioè quelle il cui interesse è rivolto essenzialmente all'azione dell'uomo, sentirono l'esigenza, proprio per dare ordine alle loro ricerche, di ridefinire la 'politica'. È necessario pertanto esporre tre definizioni, che si possono ritenere paradigmatiche o emblematiche perché colgono o situano la politica in tre campi diversi e lontani, senza alcuna pretesa da parte nostra di essere esaustivi. Queste tre definizioni risentono della formazione culturale dei loro autori, del campo delle loro indagini e, infine, delle loro opzioni politiche, ma sono illuminanti per il dibattito politico contemporaneo alla ricerca del concetto di politica.
Carl Schmitt (1888-1985) è l'erede - nonostante tutte le critiche che le rivolge - della grande scuola dell'Allgemeine Staatslehre, ma mentre questa aveva dissolto il concetto di politica in quello di Stato, egli con Der Begriff des Politischen (v. Schmitt, 1932³), per dare una definizione universale e non storicamente condizionata del 'politico', procede a una radicale dissociazione di Stato e politica; il che gli consente - come vedremo - di comprendere fenomeni nuovi di questo dopoguerra. Nell'età moderna, con l'affermazione dello Stato assoluto, si è rivolta l'attenzione soltanto allo Stato, che può essere però definito solo dal concetto di politico: lo Stato è quell'organizzazione del potere che ha, appunto, il monopolio del politico. Per approfondire un concetto - secondo Carl Schmitt - bisogna individuare il suo opposto, come in altre discipline dove vigono le coppie bello/brutto, utile/dannoso, buono/cattivo. Per definire il politico Schmitt propone l'antitesi amicus/hostis, dove il nemico è il nemico esistenziale, cioè il nemico in guerra, un nemico che deve essere ucciso, e la guerra può essere quella classica fra Stati, ma anche la guerra civile. Proprio questa antitesi determina il massimo grado di unione nel gruppo sociale e la massima divisione dall'altro gruppo. Se rompe con la tradizione dell'Allgemeine Staatslehre, Schmitt rompe anche con la più antica tradizione della philosophia practica. Questa, infatti, studiando l'azione, aveva individuato dei modi di agire diversi dalla politica, dei campi neutrali d'azione: la morale, l'economia, il diritto (ma Schmitt aggiungerebbe anche la religione e l'arte). Nella vita umana però non esistono - secondo Schmitt - campi neutrali, dato che l'antitesi amicus/hostis può investirli tutti, e quindi la politica può essere dappertutto.Sarebbe un grave errore interpretare questa definizione come se la guerra fosse lo scopo o la meta o il contenuto della politica: la guerra è solo il caso limite in cui meglio possiamo cogliere la vera natura di questa antitesi; o ancora la guerra è solo il "presupposto della politica, sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l'azione dell'uomo provocando così uno specifico comportamento politico".
Chi fa politica deve sempre sentire incombente la possibilità reale del momento dell'ostilità, della guerra. Se l'inimicizia è il concetto primario, essa però si palesa con intensità diversa, perché può essere relativizzata. La vecchia guerra fra gli Stati, dominante dal Cinquecento sino alla prima guerra mondiale, è stata relativizzata dal lento formarsi del diritto internazionale, che Schmitt chiama lo jus publicum europaeum (Der Nomos der Erde, 1950): esso, infatti, è riuscito a relativizzare le ostilità sino a quando - nelle moderne guerre ideologiche - il nemico è stato trasformato in delinquente e criminale.L'attenzione di Carl Schmitt si rivolge anche alla guerra civile, dove l'ostilità è assoluta: un tempo ci furono le guerre di religione, ma lo Stato assoluto riuscì a neutralizzare e a spoliticizzare la società, distinguendo radicalmente la vera politica, che è la politica estera, dalla politica interna che è soltanto Polizei, cioè amministrazione.
Lo Stato liberale poi (del quale il Nostro è avversario dichiarato) riesce a relativizzare i conflitti (e quindi la politica) al suo interno, conflitti dovuti all'esistenza dei partiti e dei sindacati; ma in questo Stato resta sempre la possibilità di una guerra civile, che si verifica quando appare il rivoluzionario di professione che - a differenza del vecchio partigiano - proprio per il suo impegno politico totale ha un nemico non reale, ma assoluto. Infine c'è una terza forma di ostilità, una ostilità assoluta che non si dà fra gli Stati o all'interno di uno Stato: è il terrorismo internazionale cui si accenna nella Theorie des Partisanen (v. Schmitt, 1963), nel quale è il terrorista che decide chi è il nemico: un nemico soltanto simbolico la cui identità empirica non interessa. Concludendo: in una riflessione durata per più di mezzo secolo Carl Schmitt, nonostante l'importante dissociazione fra il politico e lo Stato, resta nostalgicamente legato - come è dimostrato da tanti altri suoi lavori - alla realtà dello Stato moderno, per cui la vera politica è la politica estera che, nell'età classica dello jus publicum europaeum, sapeva relativizzare l'inimicizia internazionale. Ma è anche fedele all'impostazione iniziale, quando crede che - in ultima istanza - il vero sovrano, che ha il monopolio del politico, sia colui che decide lo stato di eccezione per fronteggiare il nemico: questo è possibile anche in uno Stato costituzionale quando è previsto - come nella Repubblica di Weimar - che ai vertici ci sia chi abbia questo potere di decisione per sospendere la validità dell'ordinamento giuridico al fine di fronteggiare un nemico esterno o interno.
Harold D. Lasswell (1902-1979) è stato il grande protagonista del rinnovamento delle scienze sociali in America e quindi anche della scienza politica. Uomo di vastissima cultura, è riuscito a combinare in modo non sincretistico varie correnti del pensiero politico contemporaneo, dalla filosofia analitica alla rivoluzione comportamentistica, con una particolare attenzione all'informatica, per i simboli e i messaggi che essa trasmette. Per quanto riguarda la scienza politica i suoi punti di riferimento sono Marx e Freud, e soprattutto i teorici italiani delle élites. In questo campo Lasswell svincolò la scienza politica dai vecchi compagni di strada (la storia, la filosofia e il diritto pubblico) per saldarla alla psicologia sociale. Studiò insieme la politica interna e la politica internazionale: il loro punto di connessione è posto nel concetto di insicurezza - quasi la hobbesiana paura fisica - da cui nasce la politica. Egli è un teorico della politica, ma le sue definizioni servono soprattutto a costruire griglie per la ricerca empirica.
Dal suo saggio del 1936, dal titolo Politics: who gets what, when, how, all'articolo Politica per l'Enciclopedia del Novecento, pubblicato nel 1980, c'è una profonda continuità di pensiero, anche se gli arricchimenti successivi mostrano oscillazioni nella sua prospettiva. Il primo saggio ora ricordato introduce quattro termini: chi prende, che cosa prende, quando e come. Questa impostazione ha le sue radici nella teoria delle élites: infatti ci sono attori attivi e attori passivi, anche se, proprio in base a quella generale definizione, c'è poi una complessità o un pluralismo di élites, di fronte sempre a diverse maggioranze, che cercano di massimizzare i propri valori. I valori sono per Lasswell i fini o i desiderata dell'individuo. Egli ne indica principalmente tre: il potere, il benessere, la reputazione; ma questa indicazione non è esaustiva, dato che in taluni scritti ne indica altri, come il sapere e la libertà personale. La scelta di questi valori è in funzione della concreta ricerca empirica. La politica è allocazione dei valori: qui l'analisi di Lasswell diventa più complessa, proprio per la diversità di questi valori e per la diversità delle situazioni storiche.
Agli estremi di un possibile continuum possiamo porre il governo e il mercato, perché nell'allocazione dei valori ci sono aree statizzate e aree liberiste. Ma possono esserci anche aree intermedie che non conoscono il 'come' o il modo delle prime ma neanche delle seconde, sicché è necessario introdurre una nuova distinzione, quella tra autorità e persuasione. Nell'articolo per l'Enciclopedia del Novecento Lasswell dà, invece, una chiara definizione della politica, assai più restrittiva perché si tratta solo della politica del governo: essa è una allocazione imperativa dei valori o, per citare le parole dell'Autore, è una "presa di decisioni assistite da sanzioni nell'ambito di una comunità politica".Tuttavia nel processo sociale, di cui quello politico è soltanto una parte, si danno altre allocazioni di valori con sanzioni meno forti di quelle dello Stato, restando però fermo il punto che la politica può influenzare l'intero processo sociale con decisioni che modificano la condotta degli altri con la minaccia di sanzioni. Tuttavia anche le grandi unità produttive, le istituzioni religiose, i mezzi di comunicazione di massa prendono decisioni che sono politiche quando producono effetti sulla distribuzione generale dei valori nella società. Il risultato di questa pluralità di élites è che la politica è dappertutto, e non ha un suo campo particolare e riservato, quello del governo. Ma Lasswell, proprio per la sua costruzione di una rete concettuale che serva alla ricerca empirica, deve porre una radicale distinzione, quella fra potere e influenza, dove soltanto nel primo caso c'è un reale monopolio delle sanzioni che consente un reale potere di decisione e di coercizione.
La definizione più ristretta di politica finisce per consistere o scivolare in quella di potere: non per nulla una delle opere più importanti di Lasswell, pubblicata nel 1950, porta come titolo Power and society. La politica è sempre ridotta a un potere discendente, anche se - da democratico - Lasswell auspica un ampliamento del numero delle persone che partecipano alle decisioni importanti nello sviluppo del processo sociale. Ma sia nella definizione ristretta di politica o di potere che in quella ampia, questo fenomeno ci si presenta come un fenomeno discendente, tutto ancorato alla decisione, per cui la sola alternativa resta o subire o partecipare. Nel suo sistema politico ci sono gli outputs del governo e non gli inputs dei cittadini.A sistemare la nuova impostazione di Lasswell è stato David Easton (n. 1917) con il concetto di 'sistema politico' e con la definizione della politica come distribuzione di valori: in The political system, del 1953, c'è una pari attenzione sia agli inputs che agli outputs, sia alle sfide che alle risposte del sistema politico. Molti degli eredi di Lasswell si sono invece dedicati a studiare empiricamente solo gli outputs del governo, con il risultato che è scomparsa la politica, anche nel nome: al posto della politics c'è la policy, anche se Lasswell ha cercato di vedere le interazioni fra politics, policy e polity.
Ma se la vita politica dello Stato è ridotta alla politica interna delle allocazioni dei valori, allora è giusto parlare di amministrazione, anche se ora si è coscienti della politicizzazione dell'amministrazione. L'attenzione privilegiata verso lo studio delle policies corrisponde all'espansione dell'intervento pubblico nella società e nell'economia, e forse è il segno di una raggiunta stabilità democratica nella quale è scomparsa la politica. Significa però anche ridurre il problema della legittimità di un governo solo e soltanto alla sua capacità di garantire il benessere alla popolazione, come era nei fini degli Stati assoluti. Contro questa idea paternalistica ci si rivoltò in nome della cittadinanza. La fine della politica può essere soltanto un'illusione accademica.
Hannah Arendt (1909-1975), allieva di Martin Heidegger, ha proceduto a decostruire il pensiero del maestro con le sue stesse categorie. Essa però non rompe soltanto con la tradizione metafisica, rompe con tutta la tradizione della filosofia politica europea (salva solo Tucidide, Machiavelli, Tocqueville), in quanto sussume l'esperienza politica sotto categorie filosofiche: Hannah Arendt nega, infatti, un qualsiasi primato della teoria sulla prassi, e così mette in questione concetti tradizionali che sono stati sempre collegati alla politica - come Stato, dominio, sovranità, rappresentanza - in quanto hanno radici nella metafisica. La filosofia politica occidentale ha obliato ciò che è veramente originario.Originario è l'essere dell'uomo nel mondo, che implica la coesistenza con il mondo e gli esseri che in questo mondo abitano. L'uomo non esiste, ma coesiste in uno spazio pubblico visibile e trasparente. In questa situazione l'uomo non ascolta l'essere, ma gli altri: la vita quotidiana non è banale se l'uomo è capace, partendo da questa sua situazione originaria, di ritrovare l'autenticità della vita proprio nell'azione o, meglio, nella prassi politica, una prassi basata sul discorso con il quale si comunica agli altri, in un mondo che è comune e che il filosofo non deve disprezzare.
Hannah Arendt presenta questo suo modo nuovo di pensare la politica in The human condition (1958) o Vita activa (nell'edizione italiana e tedesca), partendo dall'esperienza della πόλιϚ greca nella quale era netta la distinzione fra la sfera pubblica (ἀγοϱά) e la sfera privata (l'οἶϰοϚ, la casa), fra la politica e l'economia. Il mondo è caratterizzato non solo da una pluralità di soggetti, ma anche dalla fenomenicità e dalla contingenza legata all'irrompere del nuovo, che è sempre una 'nascita' dovuta all'azione, al discorso.In questo mondo dominato dall'incertezza e dall'instabilità, per definire la politica Arendt si fonda sul concetto di libertà e su quello di partecipazione. La libertà coincide con l'assenza del dominio, con l'assenza di una qualsiasi ἀϱχή: ciò consente - e qui è presente il motivo della partecipazione - all'uomo assieme agli altri uomini di creare un novus ordo contro il dominio ereditato dal passato - tema che sarà poi approfondito in On revolution (1963). In sintesi: la politica è azione discorsiva e, in quanto tale, è il momento più alto della vita activa, perché dà inizio al nuovo rompendo con la routine della passività umana e con la ciclicità della natura. Non è né violenza, né dominio, e in essa l'uomo dà un senso alla propria esistenza.Conviene sottolineare ancora un punto: in Vita activa, partendo dalla Politica di Aristotele, Arendt dice che il linguaggio caratterizza la politica, anzi, che è il linguaggio a fare dell'uomo un essere politico. Arendt è tornata sul problema nella sua ultima opera, The life of the mind (1978), in cui è chiara l'intenzione di rinsaldare il pensiero con l'azione tramite il "giudizio riflettente". Interpretando in modo piuttosto libero la Kritik der Urteilskraft di Immanuel Kant, Arendt vuole definire una razionalità pratica sottratta a ogni metafisica.
Il giudizio riflettente è svincolato dai comandi della ragione universale dei filosofi, perché è fondato sull'uso pubblico del proprio pensiero, cioè sulla comunicazione, che presuppone una pluralità di soggetti dato che richiede l'assenso degli altri: la verità comunicativa si basa su un mondo comune.Il pensiero di Hannah Arendt ha avuto una grande influenza: nel mondo inglese è apparsa un'appassionata Defense of politics (1962, 1964²) di Bernard Crick, che, professore di scienze politiche, non solo è un irriducibile avversario di Lasswell, ma anche degli accademici di scienze politiche per il loro linguaggio inutilmente tecnico: "Se un problema è d'importanza pubblica, deve essere trattato in modo intelligibile, sì che tutti possano comprendere: i governi incompetenti prosperano sul segreto; gli studiosi incompetenti su una terminologia pseudoscientifica".
Hannah Arendt ha poi influenza - ma minore - sia sui neoaristotelici americani sia sulla Rehabilitierung der praktischen Philosophie; si ha però la netta sensazione di ricadere nella vecchia 'filosofia' dei filosofi di professione, chiusi nel loro gergo tecnico: nella loro filosofia c'è alla fine la riduzione della molteplicità degli individui - categoria centrale nel pensiero della Arendt - in nome dell'unità, o a volte in nome del 'trascendentale'.
Unica eccezione è Dolf Sternberger (1907-1989), un non filosofo di professione capace di unire l'analisi del linguaggio alla storia delle idee, il quale dopo molti saggi è giunto a quella magistrale ricostruzione del pensiero politico occidentale che è Drei Wurzeln der Politik (1978), in polemica con Max Weber e Carl Schmitt.Sternberger, per scoprire il significato originario, o meglio il concetto sotteso alla parola politica, si rifà in modo più analitico ai testi aristotelici, nei quali sottolinea l'ἐπιστήμη πολιτιϰή, la concezione della politica come opposta alla tirannia (termine che in età moderna sarà sostituito da dominio), e mette in luce il governo misto, inteso come governo su uomini liberi. Ma l'opposizione categoriale fondamentale che regge tutta la sua analisi (non solo dei testi aristotelici) è quella fra unità e molteplicità: ma la molteplicità implica anche dissenso, conflitto, discordia, e non necessariamente un agire comune, che è l'aspetto rilevante della politica. Nella storia dell'Occidente si sono date altre forme di politica, con proprie specifiche strutture categoriali: alla forma greca, che egli chiama Politologik, si contrappongono la Dämonologik e l'Eschatologik. Con Machiavelli - il Machiavelli del Principe e non dei Discorsi - abbiamo l'emancipazione del tiranno e la politica intesa come dominio: tutta la successiva teoria dello Stato è dominata dal principio dell'unità, dall'esigenza di sopprimere le differenze, che generano conflitti. La Eschatologik è la trascrizione in chiave laica e immanentistica della teologia di Agostino, fatta dalle utopie rivoluzionarie: la fine dei tempi è posta su questa terra.
Anche in Sternberger c'è alla fine un elemento prescrittivo: riproporre la Politologik greca per le nostre società. Analizzando minutamente la Politica aristotelica egli mette a fuoco la costituzione mista: la πόλιϚ è certo una comunità di eguali nella cittadinanza, ma per la diversità dei ruoli e delle funzioni c'è una distinzione fra governanti e governati, fermo restando il principio che l'accesso alle cariche è libero a tutti: c'è una mistione di diversi modi di partecipare alla politica. Sternberger rielabora Aristotele facendo espressamente riferimento a Gaetano Mosca e al concetto di 'classe politica' e alla sua esigenza di combinare il principio aristocratico con quello democratico. L'ideale del governo misto è interno a tutta la storia del costituzionalismo, che conserva l'idea aristotelica di costituzione, una costituzione che riesce a mantenere al suo interno le diversità, le pluralità, ad armonizzare le differenze, senza ricorrere al dominio. È l'ideale del costituzional-pluralismo. Ma che cosa tiene insieme il tutto? È appunto la politica, una politica nutrita di prudenza, di ϕϱόνησιϚ. L'essenza della vera politica è così la pace, come l'essenza della pace è la politica. Non si tratta certo della pace a cui pensano i seguaci della Dämonologik o della Eschatologik, perché si tratta pur sempre di una pace provvisoria e instabile che non può non essere tale proprio perché vuole mantenere la pluralità, la diversità degli uomini. Come afferma Sternberger, l'unità è inumana, l'accordo è umano.
Oggi, proprio nel momento in cui si evidenzia la crisi dello Stato, lo scienziato politico, che studi empiricamente il fenomeno della politica, non può trascurare le tre prospettive ora esposte; si tratta però di prospettive che hanno presupposti concettuali assai diversi e lontani per cui è estremamente difficile - se non impossibile - costruire su di esse una teoria generale della politica. Tuttavia una conclusione non può essere meramente descrittiva dei vari significati che la parola politica ha - nel suo uso inflazionato - nel linguaggio comune e nel linguaggio scientifico, ma deve, invece, contenere elementi normativi. Infatti, dietro l'apparenza della parola, usata in ogni campo del nostro vivere in comune, la politica è assente, sicché alcuni parlano di estinzione, di esaurimento, di entropia della politica.
Quello che ci deve mettere in allarme è che, con l'uso neutro di questa parola, si possa anche parlare della politica razziale di Hitler o della politica dei gulag di Stalin.
Ripercorrendo questa lunga storia nata con la πόλιϚ potremo fare due osservazioni. In primo luogo, il termine politico viene usato in riferimento sia all'azione (del πολιτιϰèον ζιῶον), sia a una retta costituzione (la πολιτεία dei Greci o la polity degli Inglesi). In secondo luogo, la parola appare sempre in grandi opposizioni: il πολίτηϚ greco non può vivere in un regime tirannico o dispotico; nel V secolo dopo Cristo è chiara la distinzione fra res publica e dominatus; nel Medioevo è netta e costante la contrapposizione fra principatus politicus e principatus despoticus; nei tempi moderni (da Locke a Kant) si distingue il potere politico dal potere dispotico e dal potere paterno; oggi si vede nel dominio l'assenza della politica. Se, in base alle esperienze della vita vissuta, vogliamo ridefinire e ricollocare la politica, dovremo partire dalla radicale distinzione dei Greci fra vita privata e vita pubblica, fra l'οἶϰοϚ e la partecipazione.
Nel nostro secolo l'autonomia della vita privata è stata rivendicata con forza dagli scrittori, prima da Thomas Mann e poi dai rappresentanti più radicali del dissenso sovietico, come Solženicyn e Sinjavskij. Thomas Mann con le Betrachtungen eines Unpolitischen vuole mantenere l'arte e la cultura libere dal politico, anzi mostra il disprezzo dello spirito per la politica che "rende rozzi, volgari e stupidi, e non insegna altro che invidia, spudoratezza e avidità". Sta sulla stessa linea, ma con una ben più tragica esperienza alle spalle, il dissenso degli scrittori russi, nei quali il rifiuto della politica assume le forme più radicali: essi rifiutano ogni strategia politica e vogliono soltanto dare una testimonianza autentica di se stessi. Infatti il dissenso nasce dalla riscoperta del linguaggio, nel quale l'individuo esprime autenticamente la propria esperienza vissuta, ignorando i codici linguistici del potere che sono soltanto 'menzogna'. Al potere oppongono - volutamente impolitici - la poesia, consapevoli inoltre che la verità nasce solo nel gulag.
La politica dovrebbe riguardare l'ambito pubblico, ma a causa della sua espansione oggi è sempre più forte la rivendicazione del diritto alla privacy. Nell'ambito pubblico, però, bisogna procedere a ulteriori distinzioni. In contrasto con il rifiuto della politica, che si è dato nei regimi totalitari, c'è oggi nei paesi democratici la nostalgia per la politica, per la politica che non c'è più, una politica che dia senso all'esistenza. Se la scienza politica è - come ha affermato Aristotele - la regina delle scienze, perché è la "più architettonica" (Eth. Nic. I 2, 1094a), dobbiamo ricollocare le diverse azioni umane negli spazi loro propri per ridare alla politica il suo spazio autentico. La ricchezza del mondo moderno, rispetto a quello greco, è che la nostra è una società a più dimensioni, nella quale più sfere devono coesistere con chiare distinzioni, senza che nessuna possa sopraffare l'altra: abbiamo l'arte, la filosofia, l'economia, la morale e la religione. La storia dell'Occidente, sempre densa di tensioni e di conflitti, consiste nel continuo tentativo di istituzionalizzare queste differenze, che hanno codici diversi. La politica può essere una sintesi solo se rispetta la diversità di queste sfere. Non per nulla - ricordando Machiavelli - non esiste la politica dove non esiste la libertà e il "vivere libero" coincide con il "vivere politico".
(V. anche, oltre Scienza della politica, sotto, Ideologia; Politiche pubbliche; Potere; Simboli politici; Stato).
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Scienza della politica di Angelo Panebianco
1. Definizioni
Come nel caso di altre discipline sociali, le definizioni della scienza politica variano in funzione delle convinzioni epistemologiche e delle visioni dell'oggetto (in questo caso, la politica) proprie dei diversi studiosi.Nei manuali la scienza politica viene usualmente definita come lo studio, condotto con metodologie empiriche, dei fenomeni e dei processi politici. Questa definizione, tuttavia, è indubbiamente generica e può rischiare anche di apparire fuorviante, sia perché non è sempre identico - nei cultori di scienza politica - il significato attribuito al termine 'empirico' (è studio 'empirico', ad esempio, lo studio dell'azione 'dotata di senso'? Gli studiosi di scuola comportamentista lo negano), sia perché non c'è sempre concordanza sul significato di espressioni come 'fenomeno' o 'processo' politici. Impegnarsi in una definizione della scienza politica allora implica, preliminarmente, che vengano chiariti i significati attribuiti ai termini 'politica' (v. § 2) e 'scienza' (v. § 3).
Un modo tradizionale di scansare i delicati e complessi problemi di cui sopra consiste nel tentare di definire le specificità della scienza politica per differenza, ossia distinguendola dalle altre discipline che, in un modo o nell'altro, studiano la politica.
La scienza politica viene così abitualmente distinta, in primo luogo, dalla filosofia politica (dal cui grembo proviene) per la metodologia empirica cui ricorre e per il carattere descrittivo ed esplicativo, non normativo, dei suoi intenti (v. Bobbio, 1971). Viene distinta, in secondo luogo, dalla storia politica per l'enfasi posta sulla ricerca delle 'regolarità empiriche'. Viene, in terzo luogo, distinta dal diritto pubblico, per l'attenzione agli aspetti non giuridico-formali ma sostanziali del funzionamento delle istituzioni politiche. Viene, infine, distinta dalla sociologia politica per il fatto di operare con una presunzione di autonomia, sia pure relativa, dei fenomeni politici rispetto a quelli sociali (v. Sartori, 1970, 1979 ed Elementi..., 1987).
Questo modo tradizionale di definire la scienza politica, per differenza ed esclusione, presenta alcuni evidenti limiti. Il più importante consiste nel fatto che i confini fra le discipline che si occupano di politica sono fluttuanti e incerti (per esempio, la presunzione di autonomia della politica, se indubbiamente vale a differenziare la scienza politica dalle sociologie politiche di ispirazione durkheimiana o marxista, non è mai però servita granché a differenziarla dalla sociologia politica weberiana, anch'essa fondata sul principio dell'autonomia della politica) e cambiano in virtù delle ridefinizioni che ciascuna disciplina incontra nel corso della sua storia.La scienza politica contemporanea deve la sua nascita all'incontro fra un processo storico e un'innovazione culturale. Il processo storico è rappresentato dalla democratizzazione delle società occidentali. Si può dire che così come la sociologia nasce per fronteggiare cognitivamente l'avvento della società industriale, allo stesso modo la scienza politica si afferma, a cavallo fra Ottocento e Novecento, per rispondere alla sfida intellettuale rappresentata dalla democrazia. La democratizzazione delle società europee, nel corso dell'Ottocento, rende progressivamente obsolete le vecchie 'scienze dello Stato'.
Con la democratizzazione la politica 'deborda' dai confini dello Stato: l'identificazione fra 'Stato' e 'politica' propria dell'età predemocratica perde progressivamente di credibilità. Il problema della democrazia diventa così il problema centrale per gli studiosi di politica. Decifrare (e, nel loro caso, anche 'demistificare') la democrazia è, ad esempio, il compito principale affrontato dalle teorie degli elitisti italiani (Gaetano Mosca in primo luogo, ma anche Michels e Pareto) cui, correttamente, si fa risalire, per lo più, l'atto di nascita della scienza politica contemporanea (v. Stoppino, 1989).L'innovazione culturale è rappresentata dal positivismo e dall'impulso che il positivismo nell'Ottocento, e il neopositivismo in questo secolo, danno alle scienze sociali empiriche, sulla base dell'idea che sia possibile applicare al campo delle azioni e delle istituzioni sociali metodi di studio, se non identici, quanto meno analoghi a quelli sperimentati con successo nello studio dei fenomeni naturali. Come si vedrà (v. § 3), nella seconda metà di questo secolo, nella scienza politica, come in altre scienze sociali, emergeranno pressioni tese ad allentare i rigidi canoni del 'metodo scientifico' nella versione propria della tradizione positivista.
2. Che cosa è politica
La politica è stata variamente definita dalla filosofia politica (v. sopra, Politica). Anche gli scienziati politici, in questo secolo, hanno fatto ricorso a definizioni (e visioni) diverse di che cosa è la politica (v. Sartori, 1979; v. Pasquino, Natura..., 1986; v. Ornaghi, 1993; v. Stoppino, 1994). Si va dalle più classiche (e sbrigative) identificazioni fra 'politica' e 'potere' alle definizioni della politica in termini di processi decisionali volti alla distribuzione di valori-risorse: il "chi ottiene cosa, quando, come" di Harold Lasswell (v., 1936) o la "distribuzione imperativa di valori" di David Easton (v., A framework..., 1965).In generale, si può dire che esiste una tendenza prevalente, nella scienza politica, consistente nell'enfatizzazione di due aspetti della politica: 1) il fatto che la politica ha a che fare con decisioni 'collettive' o 'collettivizzate', ossia con decisioni i cui effetti ricadono, sia pure in modi e con intensità differenziate, sull'intera collettività e che sono vincolanti per tutti coloro che ne fanno parte; 2) il fatto che la politica rinvia comunque a un contesto in cui è sempre presente - almeno sullo sfondo, almeno potenzialmente - la possibilità del ricorso alla coercizione fisica, all'uso della forza.
Quest'ultimo punto è cruciale, perché rivela il debito contratto dalla scienza politica nei confronti di una specifica tradizione intellettuale: quella del 'realismo politico'. All'origine della scienza politica c'è una particolare (ancorché, secondo alcuni critici, unilaterale e riduttiva) lettura di Machiavelli quale viene consegnata alla scienza politica contemporanea da fonti differenti ma convergenti, come la dottrina della ragion di Stato (v. Meinecke, 1924), le teorie degli elitisti italiani, la sociologia weberiana della politica e dello Stato. La politica ha a che fare, per questa tradizione, con quella particolare forma di potere (in questo distinta da altre forme di potere sociale) cui è associato il monopolio tendenziale dell'uso della forza. Ciò dà ai detentori del potere politico una collocazione normalmente sovraordinata rispetto ai detentori di altre forme di potere, mentre conferisce ai conflitti che si accendono nella sfera politica una valenza particolare: dai loro esiti dipendono decisioni che si impongono con forza vincolante sulla collettività. È questa visione della politica che la scienza politica recepisce, per lo più, dalla tradizione del realismo politico.
Al di là di questi generalissimi presupposti il consenso svanisce o si indebolisce. Per i comportamentisti, ad esempio, studiare la politica significa studiare 'comportamenti politici'. Per i cultori di approcci sistemici significa ricostruire la rete delle interdipendenze fra i ruoli politici e i processi di scambio fra il sistema politico e il suo ambiente. Per i teorici dell'azione (di varia osservanza) - ad esempio, i cultori della teoria della scelta razionale - studiare la politica significa, soprattutto, studiare le 'azioni' politiche (intenzionali) e gli 'effetti di composizione' cui danno luogo, ossia le loro macro-conseguenze, spesso non intenzionali. Per gli istituzionalisti, infine, studiare la politica significa studiare la genesi, il funzionamento e la trasformazione delle istituzioni politiche e i vincoli che esse pongono all'azione degli individui e dei gruppi.
3. Che cosa è scienza
Nella scienza politica contemporanea è possibile, sostanzialmente, identificare tre fasi cui corrispondono modi almeno in parte diversi di rispondere alla domanda: 'In che senso è scienza la scienza politica?'. La prima fase precede la rivoluzione behaviorista. La scienza politica è concepita come 'scienza delle istituzioni' e delle istituzioni studia più la fisionomia e l'impalcatura formale che il funzionamento effettivo. In questa fase è assai stretto il legame con la filosofia politica e con il diritto pubblico. L'ispirazione prevalente è positivista (v. AA.VV., 1985).La seconda fase coincide con la cosiddetta rivoluzione comportamentista. Il comportamentismo (di origine psicologica, ma assai diversamente declinato nella scienza politica) è il veicolo mediante il quale lo studio della politica si adegua (o cerca di adeguarsi) ai canoni del 'metodo scientifico' così come vengono proposti dal neopositivismo. Il neopositivismo, o empirismo logico, fornisce un indispensabile supporto filosofico al comportamentismo, asserendo la riducibilità dei termini che hanno per oggetto stati mentali a termini riferibili a oggetti fisici (per definizione assunti come osservabili). Il comportamentismo è quindi il cavallo di Troia dell'adeguamento della scienza politica ai canoni scientifici neopositivisti. Soprattutto, grazie all'influenza e al prestigio che la scienza politica statunitense, nel corso degli anni quaranta (con la scuola di Chicago, di Charles Merriam e di Harold Lasswell) e poi cinquanta e sessanta, acquista anche in Europa, si può parlare per quegli anni, di un 'consenso comportamentista' nella scienza politica (v. Dahl, 1961). È l'immagine neopositivista della scienza quella che, trasmessa dal comportamentismo, è fatta propria dalla maggioranza dei cultori occidentali di scienza politica nel dopoguerra.
Due sono fondamentalmente i 'modelli di spiegazione' ritenuti coerenti con il 'metodo scientifico'. Il primo è il modello nomologico, o modello della legge di copertura (v. Hempel, 1942; v. Nagel, 1961): spiegare i fenomeni politici significa individuare le 'leggi' che governano i comportamenti politici. Il secondo è il modello funzionalista o teleologico: spiegare i fenomeni politici significa individuare le funzioni svolte dalle diverse istituzioni ai fini del mantenimento e dell'adattamento ambientale dei sistemi politici. Nell'età comportamentista si assume in genere che il compito principale della scienza politica sia quello di scoprire 'leggi universali' e di produrre teorie esplicative, sia generali che di 'medio raggio', della politica.La terza fase è quella che inizia con la crisi del comportamentismo; essa dura tuttora. Nella scienza politica, non molto diversamente da ciò che accade nella sociologia con la crisi del cosiddetto paradigma funzionalista (parsonsiano), la crisi del comportamentismo produce la fine del consenso. Gli scienziati politici cessano di essere d'accordo fra loro sul significato di termini come 'scienza' e 'metodo scientifico'. Anche la scienza politica comincia a essere scossa da 'dibattiti sul metodo' (v. Moon, 1975; v. Almond, 1990; v. Panebianco, Le scienze sociali e la politica, 1989).
Il declino del comportamentismo, per cominciare, riporta alla luce termini e concetti considerati in precedenza: si pensi alla riscoperta, per esempio, dell'idea della necessità della 'comprensione'. La spiegazione causale (o funzionale) non è più ritenuta da tutti sufficiente; recuperando la lezione weberiana, si ricomincia a concepire l'azione politica come azione dotata di senso che richiede di essere decifrata attraverso i metodi della sociologia comprendente (v. Moon, 1975).Come nelle altre scienze sociali (v. Hollis, 1994) anche nella scienza politica si affrontano sostenitori del cosiddetto olismo, o collettivismo, metodologico (per esempio, gli struttural-funzionalisti) e fautori dell'individualismo metodologico (per esempio, i cultori della teoria della scelta razionale). Inoltre, e soprattutto, svanisce il consenso intorno agli scopi dell'impresa scientifica: se una parte degli scienziati politici continua a difendere l'ambizione universalistica delle spiegazioni politologiche, altri scienziati politici ripiegano su una visione più modesta o più sobria: alla ricerca di 'leggi' sostituiscono l'individuazione di specifici 'meccanismi causali' (v. Elster, 1989); alla spiegazione tramite il modello della legge di copertura sostituiscono la spiegazione 'locale', con validità spazio-temporale delimitata (v. Boudon, 1984). La scienza politica, in questa visione, costruisce modelli e utilizza 'regolarità' (generalizzazioni empiriche) in vista di spiegazioni 'locali'. Si noti che questo spostamento porta anche, in taluni casi, a una sorta di riscoperta della storia. Nella visione 'nomotetica' non esistono oggetti storici: i cosiddetti oggetti storici vengono decomposti in fasci di variabili i cui rapporti sono indagati dalla scienza politica. L'abbandono della ricerca di leggi universali a favore di spiegazioni locali reintroduce, a pieno titolo, le specificità dei differenti percorsi storici di istituzioni, sistemi politici, ecc. nell'ambito degli interessi di ricerca della scienza politica. Ciò ha fatto parlare, con qualche fondamento, dell'affermazione di un movimento 'neostoricista' nella scienza politica.
L'opposizione fra le diverse tendenze appare evidente soprattutto nell'uso del 'metodo comparato'. Nella scienza politica, come in altre scienze sociali, la comparazione è - insieme al metodo statistico - il metodo principale di controllo delle ipotesi. È certo che la maggior parte dei migliori risultati conoscitivi che la scienza politica ha ottenuto si deve all'uso del metodo comparato (v. Collier, 1991; v. Rustow ed Erickson, 1991). È un fatto, tuttavia, che il metodo comparato può essere concepito in due diverse versioni (v. Ragin e Zaret, 1983; v. Panebianco, 1991). Nella prima, l'applicazione del metodo comparato utilizza la stessa logica del metodo statistico: si scelgono dei casi e si controlla se l'ipotesi di ricerca è valida o meno, utilizzando il canone logico delle variazioni concomitanti: ad esempio, si controlla, esaminando una pluralità di casi di regimi democratici, se è vero o meno che, nelle democrazie, la stabilità di governo dipende dal numero di partiti (v. Bartolini, 1986). L'ambizione è di approdare a una spiegazione 'generale' che leghi causalmente una o più variabili indipendenti (il numero dei partiti nell'esempio fatto) a una variabile dipendente (il quantum di stabilità governativa). La seconda versione del metodo comparato, invece, utilizza i canoni logici della concordanza e della differenza. Si parte dall'osservazione di un caso X in cui è presente un fenomeno B (l'explanandum) e attraverso confronti fra X e altri casi, dissimili da X, in cui B sia presente (oppure altri casi ancora simili a X, in cui B sia assente) si va alla ricerca dell'insieme di cause di B.
Nella prima versione il metodo comparato è utilizzato per elaborare una spiegazione generale dei rapporti fra certe variabili; nella seconda versione, invece, per costruire una spiegazione 'locale' in grado di identificare i meccanismi causali che presiedono all'insorgenza del fenomeno-explanandum. Se nella prima versione l'uso del metodo comparato è debitore della tradizione durkheimiana (il metodo comparato, in tal caso, è usato nel modo in cui Durkheim lo teorizza ne Le regole del metodo sociologico e lo applica nel Suicidio), nella seconda versione il debito è verso la tradizione weberiana (il modo in cui Weber, per concordanza e differenza, compara, ad esempio, gli effetti delle etiche economiche delle religioni universali).Se è certo che nella scienza politica contemporanea entrambe le varianti del metodo comparato vengono utilizzate a fini esplicativi, è altrettanto vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a un sensibile spostamento nella direzione del secondo modo di intendere il metodo comparato (si veda, ad esempio, la discussione in AA.VV., 1995). Anche questo fatto segnala la dislocazione di una parte almeno dei cultori della disciplina verso una visione meno ambiziosa del 'metodo scientifico' e degli scopi conoscitivi della scienza politica, rispetto ai traguardi che la rivoluzione scientifica comportamentista aveva indicato alcuni decenni fa.
4. Gli approcci
Nella scienza politica si confrontano diverse 'tradizioni di ricerca' (v. Laudan, 1977): tali tradizioni vengono talora anche definite frameworks teorici o 'approcci'.Possiamo distinguere fra approcci in declino, oggi meno utilizzati di un tempo, e approcci in ascesa, che riscuotono attualmente maggiore successo. Approcci in declino sono lo struttural-funzionalismo e la teoria sistemica. Approcci in ascesa sono la teoria della scelta razionale e il neoistituzionalismo. Tanto lo struttural-funzionalismo quanto la teoria sistemica si affermarono, nella scienza politica, sull'onda del comportamentismo, presentandosi apertamente come debitori delle idee-forza di tale indirizzo.Nella versione di Gabriel Almond (v. Almond e Coleman, 1960; v. Almond e Powell, 1966), che ne rappresenta l'esponente più prestigioso, lo struttural-funzionalismo era uno strumento per classificare i sistemi politici e per elaborare teorie esplicative (funzionali) dei comportamenti politici. Negli anni sessanta, quando questo approccio venne proposto e incontrò maggiore fortuna, esso servì a fornire un linguaggio e un quadro teorico unificati per la comparazione fra sistemi politici e per lo studio di quello che veniva allora chiamato lo 'sviluppo politico', vale a dire l'insieme dei processi di differenziazione strutturale e di specializzazione funzionale che - secondo uno schema evolutivo (che potremmo definire neospenceriano) allora in voga - tutti i sistemi politici, sia pure con modalità e tempi diversi, devono apparentemente fronteggiare (v., su questa letteratura, Pasquino, 1970). La crisi dello struttural-funzionalismo, nella scienza politica, fu parallela alla crisi del funzionalismo sociologico (a cui lo struttural-funzionalismo politologico era in larga misura ispirato).
La teoria sistemica più rigorosa ed elaborata venne proposta da David Easton (v. i contributi del 1965). Ancora oggi la sua teoria del sistema politico resta lo sforzo migliore che sia stato compiuto in questo campo (v. Morlino, 1989); l'esaurimento di questo approccio (nonostante alcuni successi applicativi, soprattutto nello studio della politica internazionale) è in larga misura dovuto alla difficoltà di utilizzare il sofisticato schema eastoniano nelle ricerche empiriche. Ciò spiega, almeno in parte, il suo declino. Ma, analogamente allo struttural-funzionalismo, l'approccio sistemico ha perso smalto e credibilità anche a causa della crisi del comportamentismo. Finché, infatti, l'azione politica era concepita come 'comportamento' (meramente reattivo a stimoli esterni), struttural-funzionalismo e approccio sistemico potevano apparire credibili nella loro pretesa di spiegare i comportamenti politici sulla base di vincoli strutturali e/o sistemici. Quando il comportamentismo si è esaurito, quando l'azione politica ha ricominciato a essere concepita come azione intenzionale, ossia guidata da motivi e scopi, gli approcci strutturali e sistemici hanno perso appeal. La scienza politica si è allora indirizzata alla ricerca di strumenti più adeguati allo studio dell'azione 'dotata di senso'. Questa è probabilmente la ragione principale dell'attuale successo di approcci come la teoria della scelta razionale o il neoistituzionalismo.
La teoria della scelta razionale fa parte di una più generale famiglia di 'teorie dell'azione' (v. Giglioli, 1989; v. Hollis, 1994; v. Sparti, 1995), ossia di teorie che assumono l'azione umana (e dunque, per ciò che qui ci interessa, anche l'azione politica) come azione teleologicamente orientata, guidata da 'scopi'. La teoria della scelta razionale rappresenta un'applicazione della teoria economica neoclassica ad ambiti extraeconomici. Essa è entrata nella scienza politica grazie ai lavori pionieristici di autori come Downs (v., 1957), Olson (v., 1965), Riker (v., 1962; v. Riker e Ordeshook, 1973). Si tratta ormai di una tradizione di ricerca affermata e in costante espansione; essa viene utilizzata nello studio dei comportamenti elettorali, della competizione fra i partiti, delle dinamiche coalizionali, dei movimenti collettivi, del funzionamento di governi e assemblee legislative, dei comportamenti burocratici (v. Martelli, 1989 e 1992), nonché nello studio delle decisioni in materia di guerra e di pace (v. Bueno de Mesquita, 1981).
Sub specie di 'teoria dei giochi' essa è utilizzata per studiare le azioni 'strategiche', le azioni in condizioni di interdipendenza fra due o più attori, ad esempio nell'ambito delle relazioni internazionali, nello studio del bargaining politico e in altri ambiti ancora. La teoria della scelta razionale gode sia di estimatori entusiasti (v. Martelli, 1989) che di critici feroci (v. Pappalardo, 1989). I fautori di questo approccio mettono in rilievo il rigore e l'eleganza delle spiegazioni rational choice. I critici normalmente contestano la nozione rigida di 'razionalità' con cui la teoria della scelta razionale opera e negano, in sostanza, che il modello dell'homo oeconomicus sia di qualche utilità quando si studia la politica (v. Green e Shapiro, 1995, per una valutazione critica ma equilibrata).
L'altro approccio in ascesa è il neoistituzionalismo. A differenza della teoria della scelta razionale (che si rifà all'economia neoclassica), il neoistituzionalismo è una tradizione di ricerca relativamente frammentata ed eterogenea. Rappresenta la ripresa, ma in forme aggiornate, della prospettiva politologica dominante nell'età pre-comportamentista. Pioniere dell'approccio neoistituzionale nella scienza politica è Samuel Huntington (v., 1968). Il più recente 'manifesto' del neoistituzionalismo lo si deve a March e Olsen (v., 1984 e 1989). A differenza della teoria della scelta razionale che assume l'azione come goaloriented e improntata alla razionalità strumentale (e le istituzioni rappresentano vincoli e opportunità per l'azione), il neoistituzionalismo, in quasi tutte le sue varianti, preferisce concepire l'azione come ruleoriented, orientata a conformarsi a norme istituzionali (v. Lanzalaco, 1995). Si badi che anche i neoistituzionalisti aderiscono a una variante della teoria dell'azione: le azioni politiche non sono concepite come comportamenti, in quanto tali passivamente reattivi a stimoli, ma sono pensate come azioni volontarie. La conformità alle regole istituzionali è però indicata come prevalente, data la pervasività delle istituzioni e la loro capacità di 'avvolgere' gli attori individuali, rispetto all'azione goal-oriented. Potremmo dire che, in forme aggiornate, l'alternativa resta quella, weberiana, fra le due principali azioni sociali dotate di senso: l'azione razionale rispetto allo scopo (dei teorici della scelta razionale) e l'azione razionale rispetto al valore (norme istituzionali, nella versione dei neoistituzionalisti).
Nella prospettiva neoistituzionale il problema principale è quello di identificare il funzionamento delle istituzioni politiche e i loro rapporti reciproci. Tale ricostruzione consente, tra l'altro, di mettere a fuoco la natura delle regole, spesso fra loro contrastanti, cui gli attori scelgono o meno di conformarsi. Per i neoistituzionalisti la competizione e i conflitti politici sono 'regolati', 'disciplinati' dalle istituzioni.Si noti che, anche se neoistituzionalismo e teoria della scelta razionale vengono spesso presentati dai rispettivi fautori come alternative e in conflitto, in realtà esistono anche tentativi di fondere le due prospettive e diverse ricerche empiriche sulla politica sono collocabili nel loro punto di incontro (v. Giannetti, 1993). 5. Campi di applicazione.
Oggetto di studio della scienza politica sono, ovviamente, tutti gli aspetti, nessuno escluso, della politica. Quando si tenta di mettere ordine, di classificare in qualche modo gli studi di scienza politica, ci si imbatte nella difficoltà di stabilire quali siano i migliori criteri di classificazione. Una tripartizione molto usata anni addietro distingueva, come settori-base, la politica comparata, le relazioni internazionali e la scienza dell'amministrazione. I manuali di scienza politica (v., ad esempio, Greenstein e Polsby, 1975; v. Finifter, 1983) ripartiscono la materia sulla base di varie distinzioni e sottodistinzioni.La scelta qui adottata è di classificare gli studi di scienza politica alla luce di due criteri. Il primo distingue gli studi che si concentrano sulla politica dagli studi che esplorano i rapporti fra la politica e altre sfere sociali (ad esempio, la sfera culturale o quella economica). Il secondo criterio distingue fra studi di politica interna e studi di politica internazionale. Naturalmente, non si tratta di una classificazione esaustiva (soprattutto perché, come vedremo, sono assai frequenti gli sconfinamenti).
Anche se questa tripartizione ha un valore puramente analitico è utile distinguere, in prima istanza, gli studi politologici a seconda che l'oggetto di ricerca sia costituito (prevalentemente) dalle istituzioni politiche e dai regimi (polity), dalla dinamica politica (politics), o dalle politiche pubbliche (policies). Gli studi sulla polity si concentrano sulla genesi, sul funzionamento e sul mutamento di singole istituzioni politiche, dell'organizzazione dello Stato nel suo complesso e dei regimi politici. Il focus è dunque sulle istituzioni. La distinzione principale che 'taglia' la letteratura sulle istituzioni è di ordine teorico.
Per una prima scuola studiare le istituzioni e i regimi (polity) significa studiare le reali 'determinanti' sia della politica che - indirettamente - delle politiche pubbliche, secondo il seguente schema causale: polity→politics→policy. In sostanza, la logica di funzionamento dei regimi e delle istituzioni politiche condiziona la dinamica politica e quest'ultima, a sua volta, condiziona le 'politiche pubbliche'. Ne consegue che, per comprendere la politica in tutti i suoi aspetti, è sufficiente studiare le istituzioni politiche. Questa è stata l'impostazione tradizionale della scienza politica; in parte, essa è oggi recuperata in alcune varianti del neoistituzionalismo.La seconda scuola è quella che assume che istituzioni e regimi da un lato, dinamica politica e politiche pubbliche dall'altro, si influenzino reciprocamente. In questa prospettiva le istituzioni condizionano ma sono anche condizionate dalle dinamiche politiche, così come pongono vincoli alle politiche pubbliche ma sono a loro volta influenzate e modificate da quest'ultime. Il testo classico di riferimento si deve a Lasswell e Kaplan (v., 1950): polity, politcs e policy vengono trattate come dimensioni interagenti dei processi politici.
Nell'ambito degli studi di polity rientrano le ricerche sulle istituzioni di governo, sulla pubblica amministrazione, sulle istituzioni giudiziarie, sul governo locale. È il campo tradizionalmente coperto da quel settore della scienza politica che viene denominato 'scienza dell'amministrazione' (v., Freddi, 1989).Sul piano 'macro' la scienza politica studia poi l'evoluzione degli Stati e le differenze/somiglianze fra i regimi politici. Lo Stato come oggetto di studio specifico rappresenta una sorta di 'grande ritorno' nella scienza politica e nella sociologia politica contemporanee (v. Evans e altri, 1985). Nell'età comportamentista, e sotto l'influenza della scienza politica statunitense, lo Stato si era visto in qualche modo espulso dall'orizzonte concettuale della disciplina. Si preferiva, con Easton (v., 1953), utilizzare il concetto di sistema politico, ritenuto libero dai condizionamenti eurocentrici che invece pesavano sul concetto di Stato e pertanto assai più capace di 'viaggiare' attraverso il tempo e lo spazio. In sostanza, a differenza del concetto di Stato, quello di sistema politico appariva assai più adatto per fini di classificazione e di comparazione fra unità politiche del presente e del passato.Con la perdita di attrattiva dell'approccio sistemico, lo Stato, sia pure tra polemiche (v. Almond, 1988), è rientrato a pieno titolo fra i temi di ricerca della scienza politica. Non si tratta solo di uno slittamento terminologico. La ripresa di interesse per lo Stato ha comportato anche una riscoperta della storia, inserendosi in quel rinnovamento degli studi politologici che coincide con il declino del comportamentismo. È stata così recuperata la lezione dei grandi studiosi classici dello Stato, da Max Weber a Otto Hintze, in un contesto nel quale è l'intera vicenda dello Stato moderno, nelle sue diverse incarnazioni e varianti, a essere posta sotto scrutinio. Da Tilly (v., 1975 e 1990) a Poggi (v., 1990), da Giddens (v., 1985) a Mann (v., 1993), sino a Finer (v., 1990), l'approccio statist si qualifica per la considerazione della 'lunga durata' e per la ricostruzione delle differenti traiettorie storiche degli Stati moderni. E poiché lo Stato esiste e si sviluppa solo all'interno di un 'sistema di Stati' (lo Stato, a differenza dell'Impero, è un singolare che rinvia sempre a un plurale), oltre che la riscoperta della storia, il 'ritorno dello Stato' porta con sé anche lo studio - sulla scia di Hintze - del rapporto che intercorre fra la vicenda 'interna' degli Stati, per esempio, l'evoluzione dei loro apparati amministrativi, e le dinamiche interstatali. Nello studio dello Stato si verificano dunque quegli 'sconfinamenti' fra studio della politica interna e studio della politica internazionale cui si è accennato in precedenza.
L'altro grande campo 'macro' riguarda l'analisi comparata dei regimi politici. Naturalmente, le sovrapposizioni con gli studi sullo Stato sono forti (v. Self, 1985) ma il settore mantiene tuttavia alcune riconoscibili specificità. Qui vengono studiate le influenze che esercitano sui conflitti e sulla competizione politica quegli insiemi di "valori, norme e strutture di autorità" (v. Easton, A framework..., 1965), i "regimi" appunto, che possono variare anche se e quando restano invariate, per esempio, le istituzioni amministrative, giudiziarie o militari (le istituzioni dello Stato-macchina, gli apparati statali).La letteratura ha prodotto varie classificazioni dei regimi politici (una delle tipologie più elaborate resta quella di Lasswell e Kaplan, 1950). In generale, la distinzione principale corre fra regimi poliarchici (democratici) e regimi autoritari (più una famiglia 'residuale' di regimi tradizionali). Ciascuna delle due principali 'famiglie' di regimi politici, a sua volta, è scomponibile, alla luce di diversi criteri, in sottoclassi. La più eterogenea delle due famiglie è senza dubbio quella dei regimi autoritari.
Fra i molti possibili criteri classificatori due sono, per quanto riguarda l'autoritarismo del Novecento, i più utilizzati. Il primo distingue fra regimi autoritari 'civili' e regimi autoritari 'militari' (o 'pretoriani'). Il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco sono esempi del primo tipo. Le dittature militari del Terzo Mondo sono esempi del secondo tipo. Esistono, o sono esistiti, inoltre, vari casi intermedi: per esempio, regimi autoritari formalmente civili ma controllati dai militari (per un bilancio sulla ricerca in questo campo v. Morlino, Autoritarismi, 1986). Il secondo criterio distingue i regimi autoritari a seconda della pervasività del controllo che esercitano sulle diverse sfere sociali, e in particolare su quella economica. I regimi comunisti sovietico e dell'Est europeo rappresentavano casi 'speciali', assolutamente sui generis, di autoritarismo civile, grazie soprattutto al controllo esercitato dal partito unico sui mezzi di produzione (v. Lindblom, 1977; v. Grilli di Cortona, 1989).Per ragioni che hanno a che fare con la stessa storia della scienza politica (v. § 1) è indubbiamente la democrazia il regime politico più intensamente studiato. Dal punto di vista della scienza politica quello della 'democrazia' è un ideale che, in quanto tale, non ha mai trovato realizzazione. I regimi politici che chiamiamo democrazie e che effettivamente si ispirano all'ideale democratico (o, più correttamente, alla combinazione fra dottrina democratica e dottrina liberale; v. Sartori, 1957) sono in realtà 'poliarchie': regimi oligarchici in cui, a differenza dei regimi oligarchici autoritari, sono garantiti diritti individuali di libertà, mentre la successione al potere delle élites è decisa tramite regolari e competitive elezioni e l'esercizio del potere è sottoposto a vincoli legali (costituzionali). Il concetto di poliarchia nasce dall'incontro fra la teoria delle élites e l'analogia schumpeteriana fra mercato politico e mercato economico.
Della poliarchia sono stati individuati i principali indicatori (v. Dahl, 1971, per la versione più utilizzata): il che consente non solo di distinguere fra poliarchie e regimi autoritari, ma anche di disporre i regimi politici competitivi, o relativamente competitivi, lungo un continuum che va dalla poliarchia compiuta alle versioni più deboli e imperfette (un punto-chiave; questo, sia per lo studio dell'evoluzione storica delle poliarchie, sia, come vedremo, per l'analisi di quei regimi 'anfibi', a cavallo fra autoritarismo e democrazia, che alcuni definiscono pseudo-democrazie e che, sovente, rappresentano regimi di transizione, instabili 'composti' destinati a essere più o meno rapidamente sostituiti da poliarchie oppure da regimi autoritari). La teoria della poliarchia è una teoria 'realistica' della democrazia (si studia la democrazia per ciò che è, nelle sue imperfezioni, e non per ciò che dovrebbe essere alla luce degli ideali democratici). Alcuni teorici ritengono però che la teoria realistica della democrazia degeneri facilmente in una forma di irrealismo se non tiene conto della 'pressione assiologica' (v. Sartori, 1957 e 1979; v. Dahl, 1982), ossia del fatto che gli ideali (democratici) esercitano una pressione di tipo normativo sulle poliarchie (sulle democrazie storicamente realizzate) e che tale pressione è fonte di tensioni e di conflitti ed è essa stessa parte di quella 'realtà empirica' che la scienza politica ha il compito di studiare.
Una parte importante della ricerca sulla democrazia riguarda le sue diverse varianti. Abbondano le classificazioni e le tipologie (v. Morlino, Democrazie, 1986; v. Cotta, Parlamenti e..., 1986 e Governi, 1986). La tipologia di maggior successo si deve a Lijphart (v., 1984), il quale distingue due tipi polari di poliarchia, il modello Westminster e il modello consensuale (differenziati sulla base di otto caratteristiche che, combinate, misurano il grado di concentrazione/diffusione del potere di governo) e classifica le diverse poliarchie a seconda della loro maggiore vicinanza all'uno o all'altro dei due tipi polari. La tipologia di Lijphart (e altre analoghe) non sembra tuttavia in grado di soppiantare del tutto altri e più collaudati criteri di classificazione. Ad esempio, si può osservare che la tipologia di Lijphart, se aiuta certamente a distinguere fra loro i regimi parlamentari, non è invece altrettanto facilmente applicabile al caso dei regimi presidenziali e semi-presidenziali. Questi ultimi, in forza anche della grande variabilità delle esperienze storiche di tipo presidenziale, esigono una trattazione autonoma (v. Shugart e Carey, 1992).
A parte le differenze di 'forma di governo', le poliarchie possono essere distinte sulla base di ulteriori criteri. Un criterio importante riguarda il diverso modo di funzionamento delle poliarchie a seconda della configurazione istituzionale e la distribuzione dell'autorità lungo l'asse centro-periferia. Le poliarchie innestate su Stati amministrativamente accentrati funzionano diversamente dalle poliarchie connesse a Stati federali (v. Riker, 1975; v. Fabbrini, 1994). E molte gradazioni intermedie sono possibili con effetti differenziati sul funzionamento delle poliarchie, per esempio sulle modalità di organizzazione dei partiti e dei gruppi di interesse e sulle forme della competizione politica. Un altro criterio di differenziazione riguarda l'organizzazione degli interessi e i rapporti fra gruppi di interesse e poteri poliarchici. 'Pluralismo' e 'neo-corporativismo' (v. Schmitter, 1974) sono tipi ideali che evocano modalità opposte di influenza degli interessi organizzati sui processi decisionali delle poliarchie. Un tema centrale nello studio delle poliarchie riguarda i partiti politici e i sistemi di partito. Dopo i pionieristici studi di Duverger (v., 1951) e Kirchheimer (v., 1966) i partiti politici sono stati (e sono tuttora) studiati sia sotto il profilo organizzativo (v. Panebianco, 1982), sia sotto quello delle relazioni partiti-elettori e partiti-istituzioni di governo (v. Calise, 1992). Lo studio dei sistemi di partito (come oggetto di studio distinto dai singoli partiti) è debitore di importanti teorie, come quella storico-comparata di Rokkan (v., 1970) o quella 'morfologica' di Sartori (v., 1976). Per il loro ruolo nella strutturazione della competizione fra i partiti, anche le regole elettorali sono un oggetto di studio assai frequentato (v. Duverger, 1951; v. Sartori, 1987; v. Fisichella, 1982). La ricerca mira a stabilire gli effetti che i diversi sistemi elettorali esercitano sia sui comportamenti dei votanti, sia sulle caratteristiche dei partiti e dei sistemi di partito. Va da sé che, in tutti questi casi, lo studio delle istituzioni (polity) e lo studio delle dinamiche politiche (politics) risultano strettamente collegati.Per l'importanza che sono andati assumendo nelle poliarchie del secondo dopoguerra, i mass media sono divenuti oggetto di ricerche sempre più numerose, che anche in questo caso collegano normalmente aspetti istituzionali (le diverse modalità di organizzazione dei media) e politics, le dinamiche politiche per come sono influenzate dall'azione dei media.Accanto alla 'statica' trova posto la 'dinamica'.
I regimi politici subiscono mutamenti, a volte anche declini (decadenza) e crolli. Nel caso delle poliarchie c'è il problema della loro evoluzione fra Ottocento e Novecento. Le ricerche di Rokkan (v., 1970) e Dahl (v., 1971) hanno fissato alcuni parametri entro i quali la scienza politica contemporanea si muove per esaminare i diversi percorsi storici delle poliarchie occidentali. La ricerca, inoltre, ha ampiamente scavato sulle cause che determinano i crolli dei regimi politici. Negli anni sessanta e settanta, il fenomeno più studiato - anche a causa di quanto avveniva fuori dall'Occidente sviluppato, per esempio in America Latina - riguardava i passaggi, generalmente violenti, dalla democrazia all'una o all'altra forma di autoritarismo (v. Linz e Stepan, 1978; v. Almond e altri, 1973). Sul finire degli anni ottanta e nei primi anni novanta, con i mutamenti intervenuti a seguito della fine della guerra fredda, l'attenzione si è spostata sui processi di democratizzazione (v. Huntington, 1991).Lo studio della democratizzazione ha consentito di individuare molti casi 'di confine', soprattutto nelle aree extraoccidentali, a cavallo fra autoritarismo e poliarchia (v. Diamond e altri, 1988-1989). Per questi casi misti è stato coniato il termine 'pseudo-democrazie'. Anche alcuni regimi formalmente poliarchici emersi nell'Est europeo appaiono oggi contraddistinti da caratteri 'misti'. In generale, il problema sotteso all'esame delle cosiddette 'pseudo-democrazie' è quello di una democratizzazione che incorpora solo in modo debole e imperfetto le garanzie di libertà individuale. Ad esempio, può accadere che in certi casi il multipartitismo sia associato a un controllo governativo sulla stampa e sugli altri mezzi di comunicazione, che elezioni relativamente libere e competitive siano associate a restrizioni gravi delle libertà personali, ecc.
La ricerca comparata ha permesso di estendere di molto le nostre conoscenze sulle dinamiche politiche che presiedono al crollo dei regimi sia per il tramite di rivoluzioni (v. Skocpol, 1979) sia in altre forme (v. Morlino, 1980).Se gli studi sulla polity devono inevitabilmente sconfinare, collegando il funzionamento e il mutamento delle istituzioni e dei regimi con le dinamiche politiche, lo stesso problema, rovesciato, vale per gli studi della politics. L'analisi delle dinamiche politiche deve inevitabilmente collegarle ai vincoli e alle opportunità offerte agli attori politici dalle diverse configurazioni istituzionali. Qui la distinzione principale riguarda la cosiddetta grass root politics, lo studio dei comportamenti politici (azioni) di massa, e la élite politics, lo studio dei comportamenti (azioni) delle élites.La grass root politics tocca il vasto campo della 'partecipazione politica'. Il settore di studi di gran lunga più sviluppato riguarda il voto. Grazie anche allo sviluppo di sofisticate tecniche statistiche di trattamento dei dati e di controllo delle ipotesi, la ricerca sui comportamenti elettorali ha messo a disposizione degli studiosi della democrazia una messe impressionante di materiale. Anche qui non mancano le divisioni. I cultori di teoria della scelta razionale (v. Downs, 1957; v. Fiorina, 1977) trattano i comportamenti di voto in modo radicalmente diverso da quello della 'scuola sociologica', che studia l'influenza sul voto dei milieux sociali o, tramite l'analisi ecologica, delle culture territoriali. Ancora diversa è la prospettiva di coloro che esaminano il voto facendo riferimento esclusivamente a variabili politiche, al modo in cui l'andamento della competizione interpartitica interagisce con gli atteggiamenti dei votanti trascinandoli in una direzione o nell'altra. La partecipazione politica non si esaurisce nel voto. Fra le altre forme di partecipazione politica, soprattutto in connessione con certe ondate di comportamenti politici 'non convenzionali', che interessano le democrazie occidentali negli anni sessanta e settanta (v. Barnes e Kaase, 1979), sono stati a lungo studiati i cosiddetti 'movimenti collettivi' e la loro influenza sui sistemi politici.Le élites politiche rappresentano un classico tema di ricerca della scienza politica. Le dinamiche coalizionali (fuori e dentro governi e assemblee legislative) e i conflitti fra le élites, i rapporti fra élites politiche ed élites amministrative (v. Panebianco, 1986) sono alcuni degli argomenti di cui si occupa la ricerca in questo campo.
Se polity e politics sono oggetti tradizionali di ricerca, più recente è lo studio delle policies, l'analisi delle politiche pubbliche. Lavori pionieristici si devono a Lasswell e Lerner (v., 1951), a Dahl e Lindblom (v., 1953). Essenzialmente, la ricerca in questo campo è dovuta alla constatazione che, a causa della grande complessità dei processi pubblici, non basta conoscere i processi politici (i processi di politics) per comprendere le politiche pubbliche. Queste ultime sono spesso soggette a dinamiche almeno in parte autonome e che, comunque, non hanno un rapporto di semplice dipendenza dagli assetti istituzionali e dagli equilibri politici. Per esempio, si è constatato che non basta sapere quali partiti governano per sapere anche quali effetti la loro permanenza al governo produrrà sulle policies. Se, nella visione tradizionale, le policies non erano un problema perché si assumeva che esse fossero 'comandate' dalla politics, nella nuova visione, propria degli analisti delle politiche pubbliche, le policies acquistano una indipendenza, almeno parziale, da essa (v. Regonini, 1989; v. Capano, 1993): sia perché intorno alle politiche pubbliche si formano normalmente dei policy networks che esibiscono una certa indipendenza dalle divisioni politiche 'partigiane', sia perché i processi detti di 'implementazione' delle politiche pubbliche sono influenzati da fattori la cui azione non è rilevabile se l'attenzione del ricercatore si ferma all'esame degli equilibri e delle divisioni politiche.
Un lascito degli elitisti italiani dell'inizio del secolo è l'attenzione per i rapporti fra le élites politiche e le altre élites societarie (economiche, culturali, ecc.). È un settore di ricerca tradizionalmente a cavallo fra scienza politica e sociologia (v. Aron, 1960). Un quadro assai complesso, fatto di regolarità e di specificità nazionali, emerge da quell'insieme di ricerche empiriche - studi su singoli paesi e analisi comparate - che si occupano dei rapporti fra le élites (v. Suleiman e Mendras, 1995). Metodologicamente più agguerrite sono le ricerche che studiano, non i rapporti fra élites, ma le relazioni che si istituiscono fra la sfera politica (nel suo complesso) e le altre sfere sociali, in particolare il sistema culturale e quello economico.Sul versante politica/cultura tre sono i principali filoni di ricerca.Il primo ha per oggetto le 'culture politiche'. A partire dal pionieristico lavoro di Almond e Verba (v., 1963), la cultura politica - intesa come "sistema di credenze, simboli e valori" che riguardano l'azione politica e il contesto in cui essa si svolge - è assunta come il trait d'union fra cultura (nel significato antropologico) e politica: le predisposizioni culturali diffuse influenzano, attraverso i processi di socializzazione primaria e secondaria, gli atteggiamenti politici (e si assume, ma questo è naturalmente un punto delicato e controverso, che gli atteggiamenti 'comandino' i comportamenti politici).
All'interno del quadro di riferimento elaborato dalla scuola almondiana molte ricerche hanno scavato, nei diversi contesti nazionali, sui caratteri delle culture politiche e sul rapporto fra culture politiche e azione politica (per un bilancio, v. Fedel, 1989).Il secondo filone di ricerca riguarda il ruolo dei simboli politici. Le teorie del simbolismo politico si differenziano a seconda del grado maggiore o minore di libertà che attribuiscono alle élites politiche nella costruzione e nella manipolazione dei simboli a fini di organizzazione del consenso, a seconda che collochino il ruolo dei simboli politici all'interno di una più generale teoria della politica (è il caso di Lasswell e Kaplan; v., 1950) oppure li trattino come la dimensione centrale della politica (v., per esempio, Edelman, 1964), e a seconda che li colleghino o meno a credenze culturali diffuse (v. Fedel, 1991).Il terzo filone di ricerca riguarda il ruolo politico delle identità collettive (etnico-linguistiche, religiose, ecc.). Qui vanno collocati gli studi su nazionalità e nazionalismo (per un bilancio, v. Goio, 1994). La divisione principale corre fra le teorie per le quali le identità nazionali sono variabili indipendenti che influenzano la politica (dal pionieristico lavoro di Deutsch - v., 1953 - alla più complessa e sofisticata teoria di Smith; v., 1983) e le teorie che attribuiscono alle élites politiche, e dunque alla politica, il ruolo di costruttori di identità nazionali (v. Breuilly, 1993).
Un altro ambito di ricerca importante riguarda la political economy, lo studio dei rapporti fra politica ed economia. È un settore in grande sviluppo cui contribuiscono sia economisti, sia, soprattutto, scienziati politici (v. Ferrera, 1989). La grande divisione riguarda il modo in cui viene tematizzato il rapporto fra politica ed economia. Alcuni studi si interessano all'influenza della politica sull'economia, altri all'influenza dell'economia sulla politica. Nel primo ambito rientrano, ad esempio, le ricerche sull'influenza dei diversi partiti (conservatori, socialisti, confessionali, ecc.) sulla politica economica (v. Castles, 1982); nel secondo rientrano, per esempio, gli studi che si occupano dell'impatto delle congiunture economiche sul comportamento elettorale.Tipiche ricerche di political economy sono quelle dedicate all'esame dei cicli economico-elettorali. C'è inoltre notevole sovrapposizione fra political economy e analisi delle politiche pubbliche. Ad esempio, gli studi politologici sul Welfare State (v. Ferrera, 1993) si collocano in questa zona di confine.
Nella scienza politica gli studi sulla politica internazionale, oggetto di una specifica sottodisciplina (convenzionalmente denominata 'relazioni internazionali'), fanno parte a sé, nel senso che la comunicazione e gli interscambi con gli altri rami della scienza politica sono normalmente assai scarsi. Ciò dipende dal fatto che la politica internazionale è tradizionalmente ritenuta 'qualitativamente' diversa dalla politica interna. A differenza di quanto avviene nelle arene politiche nazionali, in quella internazionale manca un centro monopolizzatore della forza. Ciò rende i processi politici internazionali radicalmente diversi dai processi politici nazionali, e rende diverse le istituzioni che operano, rispettivamente, nell'una o nell'altra arena.La tradizione di ricerca di maggiore successo nella scienza politica internazionalista è quella realista. La politica internazionale è interpretata come power politics (v. Carr, 1939; v. Morgenthau, 1948); le azioni internazionali degli Stati si sviluppano in un ambiente anarchico, perennemente "all'ombra della guerra" (v. Aron, 1962).
La sicurezza è il bene principale che gli Stati cercano di accaparrarsi, sia tramite lo sviluppo di una potenza militare, sia tramite alleanze. L'anarchia internazionale e il conseguente, costante, pericolo di guerra obbligano gli Stati a praticare il self-help (v. Waltz, 1979), ovverosia a contare, in ultima istanza, solo su se stessi, mentre i comportamenti tesi alla massimizzazione della sicurezza danno luogo a permanenti 'dilemmi della sicurezza' che, sovente, accrescono anziché diminuire l'insicurezza collettiva. Il balance of power è in queste condizioni, secondo la teoria realista classica, la condizione che garantisce, sempre in via precaria e provvisoria, la pace. Talvolta, le guerre danno luogo a egemonie che garantiscono l'ordine internazionale fino al momento del declino della potenza egemonica (v. Gilpin, 1981; v. Modelski, 1987; v. Bonanate, 1987).Il framework teorico realista rappresenta un aggiornamento della classica dottrina dello Stato-potenza (v. Pistone, 1973). Benché esso sia dominante nella scienza politica internazionalista, non è tuttavia l'unico. La principale tradizione di ricerca che si contrappone al realismo è denominata 'liberale'. Qui l'enfasi non è sull'anarchia e la sicurezza militare ma sull'interdipendenza (prevalentemente economica) e sul ruolo delle istituzioni internazionali e transnazionali.
A differenza dei realisti, i liberali non credono che la power politics sia l'elemento caratterizzante della politica internazionale. Il potere militare è solo una delle monete circolanti nell'arena internazionale e non sempre la più importante. Nella prospettiva neoliberale l'anarchia internazionale è contenuta e i suoi effetti sono attutiti e diluiti dall'esistenza di organizzazioni e 'regimi' internazionali che condizionano il comportamento degli Stati (v. Keohane, 1990).
Nonostante il tradizionale regime di separazione che vige, nella scienza politica, fra studi internazionalisti e studi comparati (gli studi dei sistemi politici nazionali), la percezione di mutamenti intervenuti nella politica contemporanea spinge oggi verso un riavvicinamento. Fenomeni come l'indebolimento delle sovranità statali sotto la pressione dei processi di globalizzazione dei mercati, delle comunicazioni, ecc., o importanti processi regionali come l'integrazione europea, hanno spinto diversi studiosi a esaminare i rapporti fra politica interna e politica internazionale. È soprattutto nell'ambito dell'International political economy (v. Cesa, 1996) - ossia, dello studio dei rapporti fra politica ed economia internazionale - che la tendenza a rimettere in discussione i confini fra i due tradizionali settori della scienza politica è oggi più pronunciata.
Come nel caso di tutte le altre scienze sociali anche in quello della scienza politica si pone il problema del suo rapporto con il mondo della 'pratica', ovvero il problema della sua 'applicabilità'. Al pari degli altri scienziati sociali, anche gli scienziati politici svolgono, frequentemente, opera di consulenza per enti pubblici nazionali e/o organizzazioni internazionali per i settori in cui sono specializzati.In (almeno) tre ambiti gli scienziati politici sono frequentemente chiamati a dare prova dell'applicabilità del loro sapere scientifico (v. Pasquino, 1989). Un primo ambito riguarda i rapporti interstatali. Scienziati politici con competenze internazionaliste collaborano sovente con governi ed enti internazionali su temi che riguardano la sicurezza (deterrenza, disarmo, ecc.) o i rapporti fra politiche statali ed economia internazionale. Un secondo ambito riguarda le politiche pubbliche nazionali. L'analisi delle politiche pubbliche, per l'ispirazione che la anima, è policy-oriented e, in molti suoi cultori, ha scopi esplicitamente normativi o prescrittivi. È dunque un settore che si presta particolarmente ad usi applicativi.
Gli analisti delle politiche pubbliche svolgono sovente compiti di monitoraggio sulle policies e di consulenza a fini di miglioramento/modifica delle policies medesime. Il terzo ambito riguarda la 'politica istituzionale'. In questo caso lo scienziato politico contribuisce, con proposte fondate sul sapere politologico disponibile, ai processi di riforma istituzionale: si tratti di pubblica amministrazione o di governo locale, di sistemi elettorali o di 'forme di governo' nazionali (su questi temi v. Sartori, 1994 e Pasquino, 1995).Che gli scienziati politici, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, e soprattutto nel mondo occidentale, collaborino di frequente con i governi è dunque un 'fatto'. Al di là di questo fatto non c'è però un generale consenso sul significato da attribuire alla 'applicabilità' della scienza politica.
Fondamentalmente, il rapporto fra scienza politica e mondo della pratica può essere tematizzato alla luce di due modelli rispettivamente definiti 'ingegneristico' e 'illuminista'.Il primo modello, che riscuote i maggiori consensi fra gli scienziati politici, legittima la 'ingegneria politica', che rappresenta il versante applicativo della scienza politica. Si ipotizza che, al pari di alcune scienze naturali, anche per la scienza politica valga la distinzione fra scienza pura e scienza applicata. Attraverso regole di conversione le teorie elaborate dalla scienza pura vengono utilizzate per risolvere problemi pratici: nel momento in cui si presenta un problema, i decisori chiedono alla scienza (in questo caso all'ingegnere politico) di individuare soluzioni pratiche alla luce del sapere scientifico disponibile.Il secondo modello è quello 'illuminista'. I suoi fautori negano che la scienza politica sia applicabile nei termini descritti dal modello ingegneristico. La scienza politica, al pari di altre scienze sociali, avrebbe solo il compito di migliorare, attraverso le sue spiegazioni, la 'comprensione' che gli attori coinvolti nei processi decisionali, ma anche, eventualmente, il più ampio pubblico, hanno dei problemi in gioco. Nella prospettiva del modello ingegneristico l'applicabilità della scienza politica è 'diretta'. Nella prospettiva del modello illuminista non c'è vera e propria applicabilità, l'influenza sui processi pubblici (che pure c'è) è solo 'indiretta'. La scienza contribuisce, con le sue spiegazioni, nei casi di maggiore successo, a modificare le definizioni che della situazione danno i protagonisti (v. Janowitz, 1972).
Dietro l'ingegneria politica c'è la fiducia nella capacità della scienza politica di elaborare leggi generali e di spiegare e prevedere i fenomeni politici alla luce del modello nomologico. La visione illuminista, invece, rifiuta il modello nomologico di spiegazione, enfatizza le specificità delle scienze sociali rispetto alle scienze naturali, e concepisce come un 'rapporto sociale' delicato e complesso il rapporto fra scienza politica e politica (v. Panebianco, Le scienze sociali e i limiti..., 1989). Per esempio, sottolinea l'importanza delle previsioni che si autoadempiono o che si autodistruggono (che rendono relativamente imprevedibili gli effetti prodotti dall'impatto di teorie scientifiche sulle istituzioni e i processi sociali e politici), assume come problematico il rapporto fra il sapere tecnico-scientifico di cui sono portatori gli scienziati politici e il 'sapere pratico' di cui sono portatori politici e amministratori (v. Lindblom e Cohen, 1979), enfatizza gli effetti spesso paradossali del rapporto fra scienze sociali e decisioni pubbliche (v. Collingridge e Reeve, 1986).In generale, si può concludere osservando che anche il modo in cui gli scienziati politici tematizzano il problema dell'applicabilità dipende da come vengono definiti, da ciascuno studioso, natura e scopi della scienza politica.
(V. anche Amministrazione, scienza della; Politiche pubbliche; Relazioni internazionali).
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