DACI (lat. Dáci gr. Δακοί)
Nome di antica popolazione affine e non ben distinta dai Geti, le cui sedi, naturalmente non sempre rigorosamente chiuse dagli stessi confini, si possono porre lungo il corso del Basso Danubio e specialmente a nord del grande fiume. Sulla vita primitiva in queste regioni carpato-danubiane v. danubiane, civiltà; tracia. Circa il 1000 a. C., la ricca civiltà del bronzo carpato-danubiana decade sotto la spinta di popolazioni della steppa caspio-pontica (Cimmerî?) cacciate alla loro volta verso ponente dall'incalzare di altre tribù arie (Sciti?). Erodoto ha avuto notizie di questi Sciti delle coste occidentali del Mar Nero con i quali i mercanti greci erano entrati già in relazione, ed è in particolar modo bene informato dei costumi degli Agatirsi (vicini alla greca Olbia) che egli dice Sciti, ma con costumi traci. È probabile pertanto che la popolazione ricca e civile del Basso Danubio abbia reagito sui rozzi cavalieri della steppa piombati in mezzo ad essa, e che proprio quella più antica popolazione, affine ai Traci dell'Egeo, sia quella cui si dànno poi i nomi di Geti e di Daci. Non può dissociarsi dal nome di Daci quello di Δᾶος che appare in alcune iscrizioni di Frigia, di Delo e di Taso, e che è nome frequente di schiavo nella nuova commedia greca e sotto la forma Davus nella commedia latina. Il Kretschmer ha giustamente rilevato che Daci sta a Dai come Graeci sta a Grai (Einleitung in die Gesch. der griech. Sprache, Gottinga 1896, p. 314). La forma Dai è attestata anche dal nome di luogo Δαούσδαυα ricordato da Tolomeo presso le foci del Danubio; il secondo elemento componente dava ricorre in altri nomi di luoghi della regione: Sacidava, Buridava. La parentela dei Daci e dei Geti è meglio che in qualunque altro testo affermata in un passo di Terenzio, dove lo schiavo Davus dice: amicus meus summus et popularis Geta heri ad me venit (Phormio, 35) e in uno di Giustino: Daci quoque suboles Getarum (XXXII, 3,16).
I Daci appaiono suddivisi in molte tribù che non sempre fanno causa comune o ubbidiscono alla stessa autorità. Molti nomi di queste tribù ci ha conservato Tolomeo (III, 5,27). Qualche volta si ha invece memoria d'una coalizione di queste varie tribù che un capo più abile e più potente tiene riunite e concordi. Non sappiamo se a tanto sia giunto un re Spargapeithes ricordato da Erodoto (IV, 78); certamente invece vaste e salde coalizioni si hanno più tardi sotto i sovrani Burebista (70 a. C.) e Decebalo (m. 107 d. C.). Contro una di queste tribù, i Triballi, muove in guerra nel 335 a. C. Alessandro Magno che entra nella pianura valacca, e passa probabilmente il Danubio non lungi da quella che fu poi la colonia romana di Oescus. E ulteriori spedizioni nella regione compirono poco dopo Zopirione, governatore per Alessandro della Tracia, e il re Lisimaco, spedizioni terminate l'una e l'altra in disastrosi insuccessi, specialmente quella di Lisimaco che vide distrutto il suo esercito e cadde egli stesso prigioniero del re geta Dromichaetes (291 a. C.). Queste vittorie contro le potenti monarchie ellenistiche non riescono però a dare unità e posizione predominante alle stirpi daco-getiche, principalmente forse per effetto di violente invasioni di tribù celto-germaniche dal nord e dall'ovest. Geti, Celti, Bastarni e Sciti si trovano mescolati così in torme di predoni che si rovesciano sulla Tracia e fino in Asia Minore, come nelle schiere di mercenarî assoldati dai dinasti ellenistici.
Giustino (XXXII, 3,16) racconta di Daci che, per aver male combattuto contro i Bastarni sono puniti con umilianti castighi da un loro re Orole, finché non si riscattano con valorose azioni. Tra il 112 e il 109 a. C., quando i governatori romani della Macedonia, M. Livio Druso e M. Minucio Rufo combattono gli Scordisci di Tracia, molesti vicini alla provincia, sono tra gli alleati degli Scordisci ricordati anche i Daci (Frontin., Stratag., II, 4,3; Flor., I, 39). E il caso si ripete nel 74 a. C., quando C. Scribonio Curione vince i Dardani, e vuol punire i Daci loro alleati, ma si ritira dinnanzi alla impenetrabilità delle loro selve: Curio Dacia tenus venit, sed tenebras saltuum expavit (Flor., loc. cit.). A questo periodo in cui i Daci hanno subito gravi danni per le loro lotte contro invasori Germani (Bastarni) e Celti (Bai) risale la grande riscossa capitanata dal re Burebista, il cui fiorire coincide cronologicamente più o meno col primo triumvirato e con le imprese di Cesare. Molto ardimentoso e intelligente, Burebista (il nome dato in modo diverso dalle fonti letterarie è però in grafia quasi identica Βυραβίστας, Βυρεβίστας in due testi epigrafici che lo ricordano: Dittenberger, Sylloge inscriptionum graecarum, 3a ed., 762, e Revue Archéologique 1911, II, p. 423), riunì sotto la sua autorità gran parte delle tribù daciche e, sorretto dall'autorità d'un grande sacerdote Dekaineos, nonché dall'entusiasmo del suo popolo, riportò grandi successi diplomatici e militari contro popolazioni sarmatiche e scitiche, città greche della costa del Mar Nero, presidî romani della Mesia a sud del Danubio. In questa età, nella quale la Dacia è diventata un regno possente, la Mesia si ordina sempre meglio in forma di provincia romana, e Giulio Cesare studia i piani d'una grande spedizione a nord del Danubio, le notizie sui Daci cominciano ad essere più abbondanti e più attendibili. Agrippa, promotore di studî geografici indispensabili ormai a un buon governo dell'impero, è la fonte cui si richiamano i geografi posteriori. Non è da far conto che alcuni di essi diano l'Oceano quale confine settentrionale della Dacia; Strabone, Plinio e Tolomeo giustamente pongono i Carpazî Meridionali quale limite estremo della Dacia verso settentrione. Il confine meridionale è segnato dal Danubio, l'occidentale forse in qualche tempo raggiunse quel tratto del Danubio che corre da nord a sud, ma durante l'Impero era ritratto assai più a levante, per avere gli Iazyges, popolazione sarmatica, occupato tutta la vallata del Tibisco. A levante si può dire che la Dacia arrivasse sino al Mar Nero, per quanto tribù seminomadi di Sciti e di Sarmati occupassero le steppe verso la foce del fiume. La regione così determinata corrisponde all'ingrosso all'odierno regno di Romania, e comprende una zona montuosa, la Transilvania, e una per la più gran parte pianeggiante, la Valacchia e la parte meridionale della Moldavia. La Transilvania è separata dalle pianure romene dall'ultimo tratto della catena dei Carpazî che prende anche il nome di Alpi Transilvane, e corre da est ad ovest con un arco di cerchio di circa 300 chilometri frazionandosi poi a occidente in più gruppi nel paese detto ora Banato di TimiŞoara. La Transilvania era anche più che non ora riccamente coperta di boschi, e aveva preziosi giacimenti minerarî (oro, ferro, sale, ecc.); la regione pianeggiante ricca di humus, corsa da acque copiose, era un paese assai propizio per la pastorizia e per l'agricoltura. I Daci che vennero a contatto con Roma erano pertanto una popolazione a sedi fisse, dedita in pianura alla pastorizia e all'agricoltura con sistemi e con risultati superiori a quelli non solo dei seminomadi Sciti, ma anche dei Germani, e nella parte montuosa all'estrazione dei metalli e all'utilizzazione dei prodotti del bosco. Le costruzioni dei Daci erano di legno assai più spesso che di pietra, talora sollevate da terra, sorrette da pali e recinte da palizzate. Le abitazioni erano meno disperse che presso i Germani, tanto che parecchi dei centri abitati noti in età imperiale, per la terminazione dacica dava (Sacidava, Buridava, ecc.) mostrano d'essere sorti prima della conquista romana.
Tra i Daci non vigeva eguaglianza sociale: v'era tra loro una classe di nobili che forniva al paese i suoi capi politici e religiosi e che si distingueva nettamente dal popolo anche per la esteriorità del costume. I nobili portavano infatti un berretto, e sono perciò dagli scrittori classici chiamati πιλοϕόροι o pileati, gli altri avevano il capo scoperto e lunghi capelli, onde il loro nome di κομῆται o capillati. Non si ha memoria che vi fossero assemblee, o che in alcun modo il popolo partecipasse al governo. Anzi il potere dei capi raggiungeva limiti assai ampî, perché cercava abitualmente l'appoggio di sacerdoti, la cui autorità per il profondo rispetto del popolo era altissima.
La religione dei Daci riconosceva più divinità a noi non tutte note neanche per i loro nomi. Il nome di Cotys, l'Artemide di Tracia, si ritrova nel nome del re dace Cotiso, contemporaneo di Augusto. Ma il culto principale dei Daci, quello che ci dà l'idea più completa della loro elevata speculazione religiosa e del valore pratico che ne scaturiva, è quello di Zamolxis. Era questi un antico sacerdote, divenuto egli stesso Dio da interprete e profeta della divinità e comparabile al Sabazio di Tracia e al Dioniso greco. Anch'egli infatti ha a che fare con la vegetazione della vite e con la sacra eccitazione del vino e dell'ebbrezza. Nucleo fondamentale della dottrina di Zamolxis, che Strabone dichiara allievo di Pitagora e degli Egizî, è la credenza nell'immortalità dell'anima, e nella gioia senza fine che attende dopo la morte chi è vissuto secondo la legge sacra. Il fervente assentimento a queste idee aveva favorito l'introduzione di forme di culto e di riti frenetici, orgiastici e destinati perciò al mistero, riservati agl'iniziati, e facili a portare all'esaltazione e al fanatismo, che giungeva sino al punto di esaltare il suicidio e i sacrifici umani.
Tale supremo dispregio della vita i Daci portavano nel combattimento che incontravano con furiosa temerità. Nei rilievi della Colonna Traiana, li vediamo combattere per lo più a piedi, vestiti con lunghe brache, tuniche fino al ginocchio e mantelli, armati di una grande spada ricurva, quasi un falcione, di archi, di scudi ovali con umbone e con decorazioni a rilievi.
L'unificazione di molte tribù daciche sotto il re Burebista non rimase un fatto acquisito e immutabile, ma in ogni modo diede tali vantaggi di prestigio, di sicurezza e di prede, che dopo periodi di scissioni e d'anarchia, il regno si ricompose. Conosciamo così un re Cotiso, di cui Ottaviano avrebbe promesso di sposare una figlia (Suet., Aug., 63), e che nel 29 a. C. invece sembra già essere andato in rovina (Hor., Carm., II, 8,18). Circa lo stesso tempo un altro re daco Dikomes sembra essersi accostato ad Antonio poco prima della battaglia d'Azio (Plut., Ant., 63). Più volte durante l'impero d'Augusto si combatté tra Romani e Daci che molestavano le finitime provincie di Pannonia e di Mesia, anzi il testamento d'Augusto ricorda l'assoggettamento dei Daci: trans Danuvium ductus exercitus meus Dacorum gentes imperia populi Romani perferre coegit. Ma deve essersi trattato di spedizioni che avevano ottenuto soltanto un riconoscimento formale di protettorato romano e un impegno di non molestare le provincie, impegno che la barbarica mutevolezza, la fame e il desiderio di preda non lasciavano rispettare. Sappiamo ad esempio che non appena per le lotte civili dell'anno dei quattro imperatori (69 d. C.) la Mesia era rimasta quasi sguarnita di truppe romane, i Daci si affrettarono a passare il Danubio e a scorrere saccheggiando la provincia, finché non furono cacciati da uno dei generali di Vespasiano che veniva con la legione VI Ferrata in Italia (Tac., Hist., III, 46). Sempre più intensa intanto procedeva la romanizzazione della Pannonia e della Mesia, e sempre più numerosi mercanti e agricoltori romani valicavano il Danubio e si stabilivano in Dacia, favoriti dalla politica imperiale che costituì due flottiglie sul Danubio (classis Flavia Pannonica e classis Flavia Moesiaca) a tutela degl'interessi romani sulle due sponde e forse anche un municipium Flavium Drobeta. Le relazioni tra Roma e i Daci divennero molto tese al tempo di Domiziano. Si era allora ricostituito un grande regno dacico retto da un sovrano di molta intelligenza e di forte volontà, Decebalo. Egli con ogni mezzo si sforzò di elevare il grado di civiltà e la potenza bellica dei suoi sudditi, ingaggiando quanti più poteva artigiani, disertori e veterani romani per far loro costruire fortezze, fabbricare armi, istruire milizie. Circa l'anno 85 i Daci irruppero ancora una volta in Mesia, e pare con molte forze, tanto che batterono i presidî romani e uccisero lo stesso governatore della provincia, Oppio Sabino. Domiziano inviò subito truppe col prefetto del pretorio Cornelio Fusco che scacciò dalla Mesia gl'invasori, ma avendo passato il Danubio per inseguirli nel loro paese, fu sconfitto e ucciso nella valle dell'Aluta. Un nuovo esercito romano comandato da Tettio Giuliano penetrò in Dacia, e vinse Decebalo in una grande battaglia presso Tapae. Ma Domiziano, minacciato da movimenti di tribù germaniche, si affrettò a concedere una pace oltremodo benevola che di contro alla restituzione di poche armi e pochi prigionieri e a qualche vacuo atto d'omaggio da parte di Decebalo, riconosceva a questi il regno, e lo sussidiava con annui versamenti di denaro. Il poco onorevole trattato non poteva essere tollerato da un imperatore energico come Traiano che vedeva anche quale grave pericolo continuava ad essere un regno di Dacia naturalmente ricco, popoloso, unito sotto un sovrano valoroso e ornato del lauro di recenti vittorie. Traiano combatté per due volte contro i Daci, assumendo in persona il comando dell'esercito. La prima guerra degli anni 101-102 non sappiamo da quale avvenimento fu provocata. Nulla del resto è tanto propizio a far sorgere casi di guerra quanto un trattato di pace poco tollerabile per uno dei contraenti. L'esercito romano valicò il Danubio, avanzò in Dacia, procedendo a lavori di strade e di fortificazioni, poco molestato dai Daci che preferirono di attenderlo al passo di Tapae. Si combatté colà una sanguinosa battaglia che riuscì favorevole ai Romani, ma non decisiva. Dopo altri fatti d'arme, nel secondo anno di guerra fu espugnata la capitale dacica Sarmizegetusa e Decebalo costretto alla pace. La Dacia fu sin d'allora parzialmente occupata, e si mirò a collegarla più strettamente alla provincia romana di Mesia con strade e con un gran ponte sul Danubio. Decebalo dal suo canto, contro ogni patto, preparava armi e fortificazioni per la riscossa, e nell'inverno del 105 assaliva alcune guarnigioni romane. La guerra fu questa volta portata innanzi con ogni energia fino alla completa vittoria e al suicidio di Decebalo accerchiato dalla cavalleria romana. La Dacia fu tutta occupata e ridotta a provincia romana (anno 107).
Bibl.: V. Parvan, Getica o Protoistorie a Daciei, Bucarest 1926; id., Dacia. An Outline of the early Civilization of the Carpatho-Danubiasn Countries, Cambridge 1928; Dacia. Recherches et découvertes archéologiques en Roumanie, voll. 2, Bucarest 1924-1925; C. De La Berge, Essai sur le règne de Trajan, Parigi 1878; S. Gsell, L'empereur Domitien, Parigi 1894; V. Vaschide, Histoire de la conquête romaine de la Dacie, Parigi 1903; C. Cihorius, Die Reliefs der Traianssäule, Berlino 1896-1900; E. Petersen, Die Traianssäule, Berlino 1926; R. Paribeni, Optimus Princeps, Messina 1926.