Dai vivi ai morti
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I riti funebri permettono una separazione graduale della famiglia dal defunto e il passaggio di questi nel gruppo degli antenati. Nella sua poesia improntata alla tradizione greca, Virgilio immagina l’aldilà come un luogo, dove si trovano vari settori destinati ad accogliere le anime secondo la vita che hanno condotto sulla terra. I morti che non ottengono gli onori dovuti possono ritornare sulla terra. I vivi cercano di canalizzare questi incontri tramite feste in cui si fanno offerte alimentari agli spiriti.
Servio (Ad Aeneidem, 12, 395) racconta che i Romani, quando si accorgono che la morte è imminente, collocano il morente sul suolo davanti alla porta di casa, perché spiri a contatto con la terra. Questo momento è contraddistinto da altri gesti rituali.
Il morente riceve un bacio da uno dei familiari, bacio con cui si pensa di raccogliere il suo spirito, prima che esca dalla bocca e si dissolva nell’aria (Virgilio, Eneide, 4, 684). In seguito si chiudono gli occhi del morto (Ovidio, Amores 3, 9, 49), che vengono riaperti solo in un secondo momento, dopo il funerale vero e proprio, quando il cadavere è sistemato sulla pira. Secondo la spiegazione antica, si evita in questo modo un pericoloso contatto visivo tra i vivi e il morto. L’esigenza di riaprire gli occhi al cadavere quando esso si trova sulla pira, è dovuto invece al desiderio di mettere il defunto in contatto con il cielo. Il corpo viene lavato, acconciato e infine posto su un letto nell’atrio della casa. Questa fase dell’esposizione è accompagnata dalle lamentazioni e dal planctus, di cui parleremo subito sotto.
Come succede ancora oggi in alcune culture tradizionali del Mediterraneo, anche a Roma le donne erano protagoniste di queste manifestazioni del dolore. Così le descrivono le fonti letterarie: nell’Eneide (12, 606), quando Lavinia viene a sapere della morte della madre si lacera le guance e si strappa i capelli; in una elegia di Tibullo, Delia si strapperà i capelli e si lacererà le guance alla notizia della morte del poeta (1, 1, 67-68). Lo stesso farà la moglie di Ovidio (Tristia 3, 3, 51). Properzio (2, 13, 27) descrive la sua amata mentre si colpisce il petto nudo. Sembra che queste violente pratiche di lamentazione non fossero proprie solo delle descrizioni letterarie, ma trovassero anche un riscontro nella realtà. Già al tempo delle XII Tavole (verso il 450 a.C., si veda Cicerone, De legibus 2, 59) erano infatti state promulgate leggi che limitavano le manifestazioni di lutto: in particolare le spese eccessive, le lamentazioni esagerate e gli atti autolesionisti (che consistono soprattutto nel graffiarsi le guance e nel colpirsi il petto).
La descrizione più toccante del momento in cui una famiglia si trova confrontata con il decesso di un congiunto, si trova nella Farsalia di Lucano (2, 20-28). Il poeta, per illustrare la situazione difficile della città di Roma al momento della guerra civile tra Cesare e Pompeo, fa un paragone con una famiglia in lutto: “Allora tutti trattennero i lamenti e furono percorsi da un immenso, muto dolore. Così non appena si è verificata la morte di qualcuno, la casa tace sbigottita, quando sul corpo giacente non è ancora iniziata la lamentazione funebre e la madre con le chiome sciolte non esorta ancora le ancelle a percuotersi il petto con forza, ma si getta sulla salma ormai irrigidita per la fuga della vita e tocca il volto esanime e gli occhi appaiono minacciosamente spalancati; non compare però ancora il dolore e non c’è più la paura: ella si piega sulla propria sventura e, assente, la osserva”. (trad. R. Badali, UTET, 1988). La prima frase di questo passo si riferisce alla città di Roma come invasa da un dolore muto (sine voce dolor), esattamente come una famiglia in lutto. La famiglia è descritta come attonita cioè “sbalordita”.
Quest’aggettivo significa nella sua prima accezione “colpito dal fulmine” e rende bene l’idea dello stupore pietrificante. Lo choc del decesso provoca immediatamente una reazione di silenzio. Questo momento precede qualsiasi gesto rituale. La prima pratica compiuta per reagire è quella della conclamatio, cioè l’invocazione ripetuta del nome del defunto che serve a verificare che il congiunto sia effettivamente morto (Servio, Ad Aeneidem 6, 218), ma che, probabilmente, di là da questo scopo pratico, costituisce anche il primo momento della presa di coscienza del decesso. Il testo di Lucano si concentra in seguito sulla figura della madre, descritta mentre abbraccia il corpo del figlio. Il poeta usa qui un’espressione molto suggestiva per definirne lo stato d’animo: “non è ancora dolore, ma non è più paura”. È questa la fase che nella terminologia coniata dal celebre antropologo Ernesto de Martino (Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico a pianto di Maria, a cura di C. Gallini, Bollati Boringhieri, 2000, ed. orig. 1958) si definirebbe dell’“ebetudine stuporosa”. Solo in un secondo momento la madre incita le serve che la circondano ad accompagnarla nella pratica del planctus, cioè il rito collettivo con cui le donne si colpiscono il petto e si graffiano le guance (cfr. anche Seneca, Troades 79-105). La descrizione di Luciano trova riscontro in due bassorilievi romani. Nel primo (rilievo di Amiternum, seconda metà del I secolo a.C., Museo Nazionale d’Abruzzo, L’Aquila) si trova raffigurato un corteo funebre seguito da lamentatrici che precedono e seguono il feretro colpendosi il petto. Nell’altro (rilievo degli Haterii, verso il 110 d.C., Musei Vaticani, Roma), si osserva una scena d’esposizione del morto nell’atrio di una casa. Dietro il cadavere le lamentatrici, cioè le lugentes (da lugeo che significa “essere in lutto” e “piangere”), si colpiscono il petto nudo.
Il planctus è appannaggio principalmente delle donne, come abbiamo visto. Esse si occupano anche delle lamentazioni funebri, dette neniae, canti tramandati tradizionalmente, che di volta in volta vengono adattati alle circostanze. Nei funerali sontuosi sono impiegate per questi canti delle praeficae, cioè delle lamentatrici professioniste, pagate per svolgere il loro compito. Il termine praefica, spiega Varrone, (De vita populi romani. Fonti, esegesi, edizione critica dei frammenti fr. 110, a cura di B. Riposati, ed. Vita e pensiero, 1939) indica una donna dotata di una bella voce che canta le lodi davanti alla casa del morto. Il suo nome deriva dal fatto che è alla testa (praeficere) delle serve alle quali mostra come si devono lamentare (Varrone, De lingua latina 7, 70). Essa insomma, svolge la funzione di guida del canto funebre.
Contemporaneamente a questi primi riti inizia il lutto (luctus). Nella cultura romana questo termine designa sia il sentimento di dolore per la perdita di un congiunto, sia lo stato di emarginazione cui è tenuta la famiglia del morto che lo accompagna simbolicamente nell’uscita da questo mondo. La famiglia in lutto, considerata come contaminata dal decesso, vive un periodo di “liminarità” (secondo la terminologia di Arnold Van Gennep, Les rites de passage, 1909, trad. ital. a cura di F. Remotti, Bollati Boringhieri, 2002). Si tratta di una fase in cui la famiglia rinuncia alla vita sociale e assume i tratti tipici dell’emarginazione, per esempio il fatto di portare abiti scuri, di mettere un ramo di cipresso o di pino davanti alla porta (Plinio, Nat. Hist., 16, 40; 139), di non accendere il fuoco per cucinare. Trascorso il periodo di lutto, che è generalmente di nove giorni, la famiglia è reintegrata nella vita comunitaria. Le donne però continuano a portare il lutto per dieci mesi o un anno.
Dopo il periodo d’esposizione del cadavere, che dura qualche giorno, si celebra il funerale vero e proprio (funus). Mentre il trasporto dei poveri avviene probabilmente durante la notte, per uomini e donne dell’aristocrazia il funerale si svolge in pieno giorno.
Il cadavere è portato con i piedi in avanti, preceduto da figuranti somiglianti, dice Polibio (6, 53-4), per statura e aspetto agli antenati, che avevano ottenuto cariche politiche importanti. Questi figuranti portano delle eikónes, cioè, secondo la terminologia romana, delle imagines maiorum (“ritratti degli antenati”), che sono maschere riproducenti le fattezze del viso del morto. Esse sono indossate, almeno secondo Polibio, dai figuranti. Il procedimento attuato per ottenere questi ritratti non è descritto precisamente da nessuna fonte antica. Si sa che erano fatte di cera e che venivano conservate in apposite teche nell’atrio familiare, corredate da tituli, cioè da iscrizioni enuncianti le cariche che il defunto aveva ottenuto. Venivano prelevate dal loro posto solo per farle sfilare in occasione dei funerali della famiglia. Il privilegio di avere delle imagines degli antenati spettava solamente alle famiglie nobili.
Nel funerale dunque sfilano gli antenati, in ordine cronologico, rappresentati dalle loro effigi. Dietro di loro viene probabilmente l’imago del morto, poi il feretro e alla fine la famiglia in lutto (sulla composizione del funerale si può leggere M. Bettini, Antropologia e cultura romana, La Nuova Italia Scientifica, 1986, p. 176 sgg.). La posizione occupata dal cadavere è simbolica: funge da anello di congiunzione tra gli antenati e i vivi. La pompa (“processione”) così strutturata è un’efficace rappresentazione della storia della famiglia. Ma essa è anche un vero spettacolo che non solo suscita negli spettatori il compianto del defunto, ma ha anche il compito di destare l’ammirazione per la famiglia che organizza il funerale e di suscitare amore per le virtù romane tradizionali. Lo sfarzo e la presenza di molte lamentatrici amplificano quest’impressione di grandezza e di potenza. Particolarmente importante da questo punto di vista è l’orazione funebre, cioè l’elogio pronunciato da un discendente maschile nel foro per celebrare i meriti del defunto (sia che esso sia uomo o donna). Esso ha il ruolo di fissare il ricordo del morto, ma anche di dare lustro alla sua famiglia.
Il funerale termina alla tomba di famiglia dove il defunto è bruciato su una pira con doni e rami di cipresso. Una scrofa (porca praesentanea) è sacrificata a Cerere. La famiglia organizza un banchetto nei pressi della sepoltura e il morto, che grazie ai riti è diventato un antenato, riceve per la prima volta le offerte separatamente: ormai non mangia più alla tavola dai vivi (cfr. John Scheid, Quand faire, c’est croire, Flammarion, 2005, p. 161 sgg.). Dopo un periodo di otto o nove giorni, cioè alla fine del periodo di lutto più stretto, la famiglia organizza una nuova cena (cena novemdialis) a cui tutti i membri partecipano dopo aver smesso gli abiti scuri.
Nell’antichità romana s’immagina che i morti risiedano in più luoghi. Nelle famiglie nobili, abbiamo già detto, le imagines dei morti continuano ad occupare lo spazio nella casa in cui hanno vissuto.
Dall’alto della loro teca osservano le occupazioni politiche che i loro discendenti svolgono nell’atrio, gli incontri con i clientes, chi entra e chi esce. Sono delle presenze che restano a far parte della vita di famiglia. I cadaveri al contrario sono confinati in uno spazio extraurbano. Il corpo, bruciato o sepolto, è nella sua tomba che si trova al di fuori delle mura della città. La parte del defunto che si ritiene continui a vivere, la sua anima o il suo spirito si direbbe oggi, s’immagina che abiti a sua volta nella tomba, dove riceve le offerte annuali che gli sono dovute. Questa, anche se più diffusa, non è l’unica concezione esistente a Roma. L’immaginario della vita dopo la morte è vario e per noi difficile da ricostruire perché non è fissato in modo canonico dai Romani e i documenti di cui disponiamo non permettono di farsi un’idea precisa. Alcuni, come Virgilio (Eneide, 6), hanno elaborato un modello che s’ispira alle rappresentazioni greche, secondo cui l’anima è immaginata recarsi nella sua dimora definitiva negli inferi, lo spazio sotterraneo riservato a tutti i morti (detto anche Ade o Orcus, dal nome degli dèi che vi regnano). La speranza di una vita dopo la morte è anche presa in conto in alcuni culti misterici che si diffondono a Roma. Ma anche in questo caso è difficile capire in che cosa consistessero precisamente le rappresentazioni trasmesse in queste congregazioni.
I riti funebri e soprattutto l’inumazione sono necessari per la trasformazione dei morti in antenati. Sono il lasciapassare che permette a Caronte di traghettare le anime. Quando Enea compie il suo viaggio nell’aldilà, accompagnato dalla Sibilla, ha modo di constatarlo. Mentre s’imbarca sulla nave che gli permetterà di traversare il fiume Stige e che lo condurrà sulla sponda del mondo dei morti, vede una moltitudine di anime che si accalcano sulla riva e tentano di salire sull’imbarcazione.
Virgilio
Eneide, Libro VI, vv. 290-316
Allora Enea, tremante d’improvviso terrore,
afferra la spada, e ne oppone la punta ai venienti,
e se l’esperta compagna non lo ammonisse che si tratta di vite
che volteggiano tenui, incorporee, fantasmi in cavo sembiante,
irromperebbe, e invano col ferro squarcerebbe le ombre.
Di qui la via che porta alle onde del tartareo Acheronte.
Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine
ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia.
Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume
Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie
incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma,
sordido pende dagli omeri annodato il mantello.
Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele,
e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno,
vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza.
Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,
donne e uomini, i corpi privati della vita
di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle,
e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:
quante nelle selve al primo freddo d’autunno
cadono scosse le foglie, o quanti dall’alto mare
uccelli s’addensano in terra, se la fredda stagione
li mette in fuga oltremare e li spinge nelle regioni assolate.
Stavano eretti pregando di compiere per primi il traghetto
e tendevano le mani per il desiderio dell’altra sponda.
Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli,
gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia.
Virgilio, Eneide, trad. it. L. Canali, introduzione e commento di E. Paratore, Milano, Oscar Mondadori, 1991
Di fronte allo stupore di Enea, la Sibilla spiega che si tratta delle anime di coloro che non hanno ricevuto gli onori funebri e una degna sepoltura. Essi sono destinati a errare cent’anni prima di poter accedere alla loro dimora definitiva. Gli altri morti invece trovano posto in un aldilà che Virgilio immagina suddiviso in vari luoghi che, anche se molto diversi, costituiscono un antecedente dei gironi della Divina Commedia di Dante. Dopo esser passati davanti a Cerbero, i viaggiatori arrivano in un luogo dove incontrano tutti coloro che sono morti prematuramente, come ad esempio i bambini morti alla nascita, gli innocenti condannati a morte e i suicidi. È qui che Enea incontra Didone e scopre che si è data la morte dopo il suo abbandono. Enea penetra poi nel luogo dove soggiornano i guerrieri e riconosce amici e nemici con cui ha condiviso l’esperienza della guerra di Troia. Enea e la Sibilla passano davanti al Tartaro. All’origine questo luogo era destinato ad accogliere i Titani, gli esseri primordiali che hanno osato sfidare il potere di Giove, ma in seguito ha accolto anche le anime di coloro che sono stati condannati per l’eternità dopo che sono stati giudicati colpevoli da Radamante, il giudice degli inferi. Per garantire la sicurezza, il Tartaro è racchiuso da una triplice cinta muraria. Infine Enea arriva ai Campi Elisi, dove risiedono le anime di coloro che hanno avuto una vita meritevole e virtuosa. Qui Enea incontra suo padre Anchise, che gli fa vedere le anime di coloro che si reincarneranno nei suoi discendenti. La credenza nella reincarnazione prevede infatti che le anime bevano l’acqua del fiume Lete che si trovava lì vicino e che fa dimenticare loro la vita precedente.
Sesto Properzio
Elegie, Libro IV, 7
I Mani esistono: la morte non estingue tutto,
e la pallida ombra sfugge al vinto rogo.
Infatti Cinzia, da poco sepolta al rumoroso margine della strada,
mi apparve reclina sul mio letto,
quando al ritorno dalle esequie del mio amore, il sonno era ancora incerto,
ed io mi lamentavo del freddo giaciglio, mio regno.
Aveva i capelli acconciati nella stessa foggia del funerale,
gli stessi occhi, la veste arsa sul fianco,
e il consueto berillo al dito corroso dal fuoco,
consunta la superficie delle labbra dall’onda letea.
Emise un soffio di voce come di vivente,
e le mani scricchiolarono fragili con i pollici.
Properzio, Elegie, trad. it. L. Canali, Milano, BUR, 1989
Se nella letteratura i morti appaiono come esseri “vacui, incorporei” (inanes), ma ancora con un’identità propria, il rito attesta una concezione molto meno individualizzata del defunto. L’espressione utilizzata più comunemente per parlare dei morti è dii manes, un termine plurale cui non corrisponde alcun singolare. I morti sono dunque un’essenza multipla e non individualizzata. Per ritrovare la dimensione personale, la lingua latina è costretta a porre accanto a quest’espressione il nome del defunto in genitivo: “gli dèi Mani di un tale”. Un’altra maniera di designare i morti è dii parentes o dii parentium, che sottolinea il loro legame con la famiglia (si legga a proposito di queste denominazioni: M. Bettini, Affari di famiglia, Il Mulino, 2009, 87 sgg.). Quest’espressione può essere usata anche al singolare: deus parens.
Questi esseri divini (manes e parentes), che hanno uno statuto meno prestigioso degli dèi e degli imperatori divinizzati, vengono comunque onorati con delle feste annuali. Il mese di febbraio è in parte riservato a queste celebrazioni, che assomigliano alla nostra festa di Ognissanti e alla celebrazione dei defunti del 2 di novembre. A Roma, il ciclo festivo dedicato ai morti porta il nome di Feralia. Il giorno riservato a portare le offerte sulle tombe è indicato come Parentalia. Ovidio nei Fasti (2, 535-540, trad. M. Fucecchi, BUR, 1998) descrive l’offerta che i discendenti presentano agli antenati: “I Mani chiedono poco: la devozione è loro gradita più di un ricco dono; il profondo Stige non ha dèi avidi. La lastra coperta dall’offerta di ghirlande è già abbastanza, basta che vi si spargano spighe e qualche granello di sale, e pane inzuppato nel vino e viole disciolte, e tutto ciò contenga un vaso di coccio lasciato in mezzo alla strada. Non vieto onori maggiori, ma bastano questi a placare le ombre: una volta eretto il sepolcro, aggiungi preghiere e parole appropriate”. Anche se si tratta di un’offerta semplice, è estremamente importante, perché permette che i morti, soddisfatti, restino al loro posto. Una volta, racconta Ovidio (Fasti 2, 551-556), a causa delle guerre in corso, i Romani hanno trascurato queste celebrazioni annuali e gli avi sono usciti dalle tombe durante la notte: le “anime spaventose” (deformes animae) ululavano per le campagne. I Romani si precipitarono dunque a rendere gli onori ai morti e tutto rientrò nella norma.
Il ciclo dei Feralia si conclude con il giorno che porta il nome di Caristia o cara cognatio. Si tratta di una festa riservata esclusivamente ai vivi, dedicata ai defunti della famiglia, in cui ci si riunisce e ci si adopera per salvaguardare la coesione familiare, mettendo a tacere tutte le eventuali dispute.
In quest’ultimo giorno del ciclo festivo dedicato ai defunti, i Romani dopo essersi occupati ritualmente delle relazioni tra vivi e morti, si dedicano alle relazioni tra i vivi della comunità familiare. Questo giorno di festa annuale sembra avere lo stesso valore della cena novemdialis cioè la cena che mette fine al periodo di lutto. In entrambi i casi, la festa riporta l’attenzione sui vivi e permette di chiudere un periodo consacrato ai rapporti con l’aldilà.
Il contatto dei morti con il mondo dei vivi non si limita a questo ciclo di giorni di febbraio. Una credenza che rimane per noi ancora abbastanza oscura è quella che i Romani indicano nei loro calendari come mundus patet (“il mondo si apre”). Si tratta di tre giorni (24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre) in cui si ritiene che i morti possano risalire dal loro mondo sotterraneo alla superficie della terra. Questo ritorno avviene attraverso un’apertura, il mundus appunto, che è una fossa, di cui la parte inferiore comunica con il mondo dei morti e quella superiore con il mondo degli uomini e con la volta celeste. Essa si situa probabilmente in una zona centrale del Foro Romano. Secondo Plutarco (Vita di Romolo, 11, 12), si tratta della stessa fossa in cui durante il rito di fondazione Romolo ha gettato le primizie e i futuri abitanti di Roma hanno messo delle zolle di terra del paese da cui provenivano. Questi momenti, come tutte le feste che prevedono il ritorno dei morti, rappresentano un’incursione del disordine originario nell’ordine stabilito. La festa serve a canalizzare il pericolo legato a questa situazione.
Si conosce poco di più un’altra festa presente anch’essa nel calendario romano, i Lemuria, celebrata durante tre giorni del mese di maggio (9, 11 e 13). Durante i Lemuria i morti che ritornano sulla terra sono spiriti vaganti, fantasmi. In Ovidio (Fasti, 5, 443) il pater familias che pronuncia la formula rituale, si rivolge ai manes paterni cioè ai morti-antenati che sono in relazione con la casa in cui ritornano. Il nome della festa è legato invece a lemures, che indica, come il termine larvae, i morti pericolosi che ritornano per vendicarsi. La festa è un modo per rendere benevoli questi spiriti. Dalla descrizione di Ovidio del rito notturno compiuto durante l’ultima notte dei Lemuria, si capisce che si tratta di una festa celebrata nell’ambito domestico.
Ovidio
Fasti, Libro V, vv. 429-444
Quando è mezzanotte, e il silenzio invita al sonno,
e voi avete taciuto, cani e uccelli variopinti,
chi è memore dell’antico rito e ha timore degli dèi
si alza – entrambi i piedi sono privi di calzari –,
e fa segnali serrando le dita con il pollice in mezzo,
affinché un’impalpabile ombra non si faccia incontro a lui silenzioso.
E dopo aver deterso in acqua di fonte le mani, purificandole,
si volta, e prima raccoglie nere fave,
e le getta dietro le spalle, e mentre le getta, dice:
“Queste io lancio, e con esse redimo me e i miei congiunti”.
Ripete questa formula nove volte senza guardarsi alle spalle:
si crede che l’ombra le raccolga e, non vista, lo segua.
Di nuovo egli tocca l’acqua e fa risuonare i bronzi
di Tèmesa, e prega che l’ombra esca dalla sua casa.
Pronunziata nove volte la formula: “Uscite ombre dei miei padri!”,
infine si guarda alle spalle e giudica il rito compiuto con purezza.
Ovidio, Fasti, trad. it. M. Fucecchi, Milano, BUR, 1998
Il fatto che sia inscritta nel calendario per tre giorni potrebbe far supporre che la festa comprendesse anche altri riti, forse pubblici, a noi ignoti.
Per spiegare l’origine del rito domestico Ovidio fa riferimento al mito della morte di Remo. Durante la fondazione di Roma, Remo è stato ucciso per aver oltrepassato le mura che i Romani avevano cominciato a costruire. Autore di questa punizione è Celere, un Romano comandato direttamente da Romolo, o Romolo stesso, secondo la versione più antica. Questa storia fa di Remo il prototipo dei morti vendicativi: è morto di morte violenta (i Greci direbbero che è un biothanatos) quando non aveva ancora compiuto il suo ciclo vitale (per i Greci, un aoros).
I riti funebri trovano in parte riscontro in queste feste annuali in onore dei morti. Lo scopo di entrambi è dare ai morti quello che si ritiene sia loro dovuto. Essi appagano le anime e dunque proteggono i vivi dalle loro eventuali rivendicazioni violente.