DAIBERTO
Nacque, in luogo che non siamo in grado di precisare, dopo la metà del sec. XI.
La sua nascita pisana e la sua appartenenza alla nobile famiglia dei Lanfranchi Rossi, affermata dalla tradizione erudita, non è confermata da alcun documento e sembra doversi escludere, dato che "Daibertus" è un nome del tutto assente dalle fonti locali. Lo Schwartz ha sostenuto l'origine italiana di D., basandosi soprattutto sulla forma più ricorrente del suo nome "Daibertus" (si ricorda in proposito che questa è la sola forma attestata dalle fonti pisane e l'unica usata dallo stesso D. nelle sottoscrizioni; le altre - "Dagibertus", "Daimbertus", "Dagobertus", "Theobertus" - si trovano, invece, in documenti papali e in fonti crociate). L'argomentazione dello Schwartz non appare sufficiente ad avvalorare l'ipotesi della origine italiana di D., dato che "Daibertus" potrebbe testimoniare una tendenza all'italianizzione del nome.
D. dovette militare all'inizio nelle file imperiali perché fu ordinato diacono dal vescovo di Magonza Wezelo (1084-1088), guibertino e simoniaco e come tale scomunicato nel sinodo di Quedlinburg dell'aprile 1085. L'ordinazione di D. dovette avvenire in Germania dato che Wezelo non sembra esser mai venuto nella penisola; se si accetta l'idea dell'origine italiana di D. si deve allora pensare a una sua presenza in Germania come chierico della corte imperiale o come membro di un'ambasceria a qualche sinodo tedesco (Schwartz).
Poco tempo dopo, però, D., passato al partito riformato, risulta molto vicino alla contessa di Toscana Matilde e al pontefice Urbano II. In quanto ordinato da uno scomunicato anche egli era ritenuto colpevole di simonia: perciò Urbano II rinnovò l'ordinazione diaconale di D. (in linea di diritto non si trattava, comunque, di una reiterazione, data la nullità della prima nomina, ma di una "integra diaconii datio": in proposito Boesch Gajano). Inoltre il pontefice gli conferì gli altri ordini e lo nominò vescovo di Pisa.
Probabilmente i motivi che spinsero il pontefice ad appoggiare D. furono di varia natura: la stima verso un uomo di indubbie capacità che aveva avuto il merito di passare dal partito imperiale a quello romano; la difficoltà di trovare nella filoimperiale Pisa ecclesiastici favorevoli alla riforma da elevare alla cattedra vescovile (Violante); la volontà di utilizzare per l'interesse della Chiesa persone di sicure doti e fedeltà senza tener conto del loro passato; il tentativo di arginare le posizioni estremiste di alcuni ambienti riformatori - come quelli vallombrosani - la cui rigida azione e i cui metodi di lotta contrastavano con la sua politica di tolleranza.La nomina di D. a vescovo di Pisa dovette avvenire nel 1088. Essa è ricordata, infatti, per la prima volta nella lettera che Urbano Il inviò verso la fine di quell'anno all'abate di Vallombrosa, Rustico, ed al vescovo di Pistoia, Pietro (che era forse monaco vallombrosano), i quali avevano protestato per la consacrazione a vescovo di un ecclesiastico che in passato era stato ordinato diacono da uno scomunicato; nella lettera Urbano II giustificava il suo operato e insisteva sull'innocenza di Daiberto. Poiché il precedente vescovo pisano, Gerardo, era morto l'8 maggio 1085. si deve ritenere che la sede rimanesse a lungo vacante. D., comunque, compare nei documenti pisani come vescovo cittadino solo a partire dal 23 giugno 1090.
L'opposizione a D. degli ambienti ecclesiastici non fu placata dall'intervento del papa. Al contrario, accanto ai vallombrosani si schierarono contro di lui i camaldolesi, tanto che Urbano Il dovette di nuovo muoversi in difesa di D. indirizzando una seconda lettera (14 luglio 1091) a Rustico e questa volta anche al camaldolese Martino. Comunque, i contrasti con vallombrosani e camaldolesi non impedirono a D. di operare per consolidare il potere vescovile a Pisa. Grazie all'azione di D. l'autorità episcopale si affermò come, l'unica in grado di imporsi ad arbitro, tra le fazioni comunali in lotta fra di loro, come l'unica capace di stabilire la pace in città. Fu, infatti, D. a pronunciare il "lodo sull'altezza delle torri" (1088-1092), una "concordia" sul livellamento delle case - torri che tutti i cittadini giurarono di rispettare sotto pena di scomunica (sarà, poi, inserita negli Statuti comunali). Ed ancora fu D. a garantire, sottoscrivendolo come "arbitrci", l'osservanza del "lodo del Valdiserchio" (1091-1092), con il quale i consoli pisani e alcuni "boni homines" della Valdiserchio si accordavano per porre fine ai soprusi e alle violenze di cui era teatro quella zona del contado pisano.
Il 28 giugno 1091 Urbano II concesse il possesso perpetuo dell'isola di Corsica, dietro il pagamento di un censo annuo, al vescovo e ai cittadini di Pisa. Il 28 apr. 1092, poi, anche dietro pressioni di Matilde di Toscana, il papa elevò la Chiesa pisana a sede arcivescovile con poteri metropolitani sulle diocesi corse. Sempre in questo torno di anni, D. fu nominato legato apostolico in Sardegna dove, secondo il Mattei, si recò per partecipare al concilio di Torres. Sembra anche che fosse inviato dal papa come legato in Spagna, presso il re Alfonso VI di Castiglia: la notizia si trova soltanto nel cronista crociato Alberto di Aix, il quale non precisa l'anno (il cronista accusa, peraltro, D. di essersi appropriato indebitamente di un ariete d'oro, che gli era stato consegnato dal re di Castiglia perché lo portasse al papa, e di aver successivamente donato l'oggetto a Goffredo di Buglione per ottenere il patriarcato gerosolimitano).
D. segui il papa nel viaggio da questo intrapreso in Italia e in Francia per predicare la crociata.. Urbano II soggiornò a Pisa il 2 sett., il 10 e il 13 ott. 1094 e D. dovette lasciare la città subito dopo questa data (la sua presenza a Pisa è testimoniata fino al 5 ottobre quando emanò una "carta di sicurtà" a favore dei "fabri" dell'Opera del Duomo). Probabilmente fu presente ai concili di Piacenza (marzo 1095) e di Clermont (novembre 1095). Non sappiamo quando rientrò a Pisa: il pontefice si trovava a Lucca, nel suo viaggio di ritorno, nell'ottobre - novembre 1096, e si potrebbe pensare che D. fosse di nuovo a Pisa nello stesso periodo. La sua presenza in città è attestata con sicurezza solo il 24 luglio 1098 quando confermò ai benedettini il possesso del monastero di S. Rossore.
Sembra, dunque, che D. rimanesse estraneo alla vita politica cittadina e all'attività spirituale della sua diocesi per un lungo periodo. A Pisa, comunque, predicò la crociata, ottenendo una risposta entusiasta: il fervore religioso coincideva con gli interessi commerciali del Comune desideroso di penetrare nel lucroso traffico commerciale con l'Oriente. Il Comune destinò alla crociata una numerosa flotta, che i cronisti - certamente esagerando - dicono composta di 120 navi, e ne affidò a D. il comando. Nell'agosto 1098 dopo la morte di Ademaro Monteil, vescovo di Le Puy, legato pontificio per la crociata, D., che godeva del favore del papa ed era ormai ben conosciuto nella Chiesa occidentale, fu chiamato a sostituirlo.
Egli seguì una politica diversa dal suo predecessore riguardo ai rapporti tra i crociati e Bisanzio: mentre, infatti, Ademaro era stato favorevole a una collaborazione con l'Impero orientale, D. promosse una politica di confronto con questo e con la Chiesa ortodossa. La diversa linea che venne seguita dai due legati ha indotto alcuni storici a pensare che la nomina di D. a legato non fosse dovuta ad Urbano II. Ma al riguardo non possono esistere dubbi: le fonti appaiono concordi nel testimoniare la derivazione pontificia, e in una carta emanata nel moi da Tancredi, principe di Galilea, D. viene detto inviato in Oriente da Dio per il tramite della Sede apostolica. Pertanto si deve ritenere che Urbano II fosse consapevole che un pisano sarebbe stato ovviamente ostile nei confronti di Bisanzio, che aveva concesso nel 1082 il monopolio commerciale a Venezia, rivale di Pisa; di modo che la scelta di D. sta ad indicare un cambiamento nella politica pontificia, cambiamento motivato certamente dalle negative relazioni ricevute dai principi crociati in merito alle attività dei Bizantini.
I preparativi della spedizione si protrassero a lungo e solo alla fine dell'inverno o all'inizio della primavera del 1099 (per alcuni nel tardo autunno 1098) la flotta agli ordini di D. salpò dal porto pisano. Prima di raggiungere la Terrasanta, però, fece una diversione verso le isole greche di Corfù, Cefalonia e Zante e le attaccò: l'assalto venne successivamente giustificato con, il fatto che le guarnigioni bizantine delle isole ostacolavano i pellegrini occidentali in viaggio verso la Terrasanta. Dopo aver evitato le navi inviatale contro dall'imperatore bizantino Alessio I, la flotta pisana raggiunse Laodicea - nel Nord della Siria - nel settembre 1099. Laodicea era un possedimento bizantino e in quel momento era assediata dalle truppe di Boemondo d'Altavilla, principe di Antiochia. D. e i Pisani intervennero in aiuto di Boemondo; ma l'arrivo di altri capi crociati impedì che la conquista fosse portata a termine e suggerì agli attaccanti di raggiungere un accordo con la guarnigione bizantina. Da Laodicea, nel settembre, D. inviò al papa la prima relazione sul progressi della crociata e sulla conquista di Gerusalemme avvenuta nel luglio precedente. E a Gerusalemme egli giunse il 21 dicembre, insieme con Baldovino di Boulogne, fratello di Goffredo di Buglione e conte di Edessa, e Boemondo d'Altavilla, i quali lo avevano raggiunto a Laodicea nel mese di novembre.
A Gerusalemme D. presiedette un sinodo per risolvere i problemi del patriarcato. Alla morte del patriarca ortodosso Simeone II nel 1099 era stato eletto Arnolfo di Rohes, cappellano del duca Roberto di Normandia, deciso nemico del conte di Tolosa. Arnolfo non era stato consacrato e la sua elezione era stata ritenuta irregolare dai suoi avversari. Il sinodo decise di deporre Arnolfo e scelse al suo posto D. tra il 26 e il 31 dic. 1099.
La politica di D., come patriarca di Gerusalemme, è importante sotto vari aspetti. Nei rapporti con la Chiesa ortodossa egli mantenne la sua precedente ostilità: così, per esempio, sebbene non cercasse mai di deporre il patriarca ortodosso di Antiochia - che era stato confermato da Ademaro - consacrò vescovi latini per le diocesi suffraganee di Tarso, Mamistra, Edessa ed Arta, senza rivolgersi al patriarca antiocheno, il quale finiva così per rimanere senza autorità. Per quanto, poi, riguarda i suoi rapporti con i principi crociati e l'organizzazione istituzionale delle terre conquistate, D. ricevette, subito dopo l'elezione a patriarca, l'omaggio di Goffredo di Buglione e di Boemondo d'Altavilla: entrambi ricevettero da lui l'investitura per i loro possedimenti in Terrasanta e in cambio gli cledettero le rendite già in precedenza godute dal Patriarca gerosolimitano (un quarto della città).
L'investitura feudale dei due principi cristiani appare particolarmente significativa. Si deve, infatti ricordare che nel 1097 sia Goffredo sia Boemondo si erano impegnati con giuramento verso l'imperatore orientale, Alessio I, a restaurare il dominio bizantino su tutte le terre che avrebbero conquistato. Ma in seguito all'inadeguato intervento bizantino in loro favore, i due principi non volevano più mantenere l'impegno assunto. Essi ritennero, allora, che il mezzo più efficace p;er contrastare le pretese imperiali fosse quello di porre le loro terre sotto la protezione della S. Sede, rappresentata in Oriente da D., seguendo lo stesso sistema che nel 1059 era stato adottato dai Normanni nell'Italia meridionale. Secondo il Cardini questa soluzione era ricercata dai capi crociati minori anche per un altro motivo, quello di limitare il potere di Goffredo di Buglione: "ponendo accanto a Goffredo un prelato capace come Daiberto di sostenere fino in fondo le pretese e i diritti teocratici, si pensava di neutralizzare del tutto l'autorità del signore di Gerusalemme sugli altri signori della Terrasanta". Forse l'esempio di Goffredo e Boemondo fu seguito da Tancredi d'Altavilla, nipote di quest'ultimo, il quale ricevette in feudo la Galilea; Baldovino di Boulogne, invece, non prestò l'omaggio al patriarca per la sua contea di Edessa.
D. operò per rafforzare i domini cristiani in Oriente. Dietro suo ordine la flotta pisana fortificò il porto di Giaffa, l'unico che fosse sotto il controllo dei crociati. Inoltre egli inviò un'enciclica ai fedeli tedeschi chiedendo loro contributi in denaro per la difesa del Santo Sepolcro, la cui custodia era stata assunta ora da un principe tedesco, Goffredo di Lorena. Secondo Guglielmo di Tiro, comunque, i rapporti tra D. e Goffredo di Buglione peggiorarono rapidamente. In realtà la principale fonte del cronista è costituita da una lettera di D. a Boemondo d'Altavilla generalmente ritenuta una falsificazione. Secondo questa lettera, D. - che aveva già ottenuto l'assegnazione di un quarto della città di Giaffa - chiese a Goffredo l'intera città di Gerusalemme, con la cittadella, la torre di David e di Giaffa; il giorno di Pasqua del 1100 - il 1° aprile - Goffredo avrebbe ceduto alla richiesta di D. riservandosi, però, il possesso delle città fino alla morte o fino a quando fosse riuscito a conquistarne altre. La morte di Goffiedo, il 18 luglio 1100, pose fine ai contrasti.
A quell'epoca era giunta in Palestina una flotta veneziana per collaborare alla conquista dellecittà costiere. Poco dopo Goffredo era caduto malato e la guida delle forze crociate era stata assunta da D. e da Tancredi d'Altavilla. Alla morte di Goffredo essi si accordarono con i Veneziani per sferrare un attacco contro Haifà e guidarono l'assedio terrestre contro la città che si arrese il 20 agosto. In effetti durante il delicato momento in cui lo Stato crociato venne a trovarsi dopo la morte di Goffredo, D. e Tancredi si assunsero l'onere del governo. La situazione era resa incerta dalla mancanza di precise norme di successione e D. cercò di esercitare il suo diritto di signore feudale per scegliere il nuovo capo. Ma la guarnigione di Gerusalemme, approfittando della sua assenza dalla città, dovuta agli impegni militari contro Haifa, scelse come erede di Goffredo il fratello di questo, Baldovino di Edessa, probabilmente senza consultare Daiberto. Quest'ultimo - le cui idee in merito alla successione non sono note, ma erano probabilmente a favore di Boemondo d'Altavilla o del nipote di questo Tancredi - decise di opporsi all'elezione; si rivolse allora a Boemondo d'Altavilla, ordinandogli di bloccare Baldovino e di impedirgli di raggiungere Gerusalemme. Ma Boemondo era stato catturato nel frattempo dai Turchi Danishmandidi e comunque le lettere di D. vennero intercettate e giunsero nelle mani del conte di Edessa.
Baldovino arrivò velocemente a Gerusalemme dove l'11 dicembre assunse il titolo di re. D., rimasto senza validi sostegni, consapevole della potenza dei suo avversario, accolse l'invito del nuovo legato pontificio - il cardinale di Porto, Maurizio, giunto in Terrasanta nell'autunno con una flotta genovese - e si riappacificò con Baldovino: il giorno di Natale del 1100 lo incoronò re di Gerusalemme nella chiesa della Natività a Betlemme. A differenza del fratello, Baldovino non prestò omaggio a D. per le sue terre: la soluzione istituzionale sostenuta da D. e modellata sull'esempio dell'Italia meridionale normanna veniva a cadere e al suo posto si affermava una soluzione monarchica.
Nonostante l'accordo raggiunto con Baldovino, la posizione di D. si era fatta debole. Nel 1099 era morto Urbano II e il nuovo pontefice, Pasquale II, non aveva confermato D. nella carica di legato apostolico, e aveva nominato in sua vece il cardinale di Porto Maurizio, inviandolo, poi, in Terrasanta per assumere la guida suprema della Chiesa latina in Siria. Il nuovo legato non si era certamente mostrato favorevole a D. nel dissidio con Baldovino; D., poi, aveva altri avversari potenti, come il precedente patriarca di Gerusalemme Arnolfo - il quale vantava ancora un certo seguito nel clero - e i signori lorenesi che avevano eletto re Baldovino.
L'accordo tra il re e D. ebbe breve durata: Baldovino non poteva certamente accettare la presenza di un patriarca a lui ostile e titolare di rendite molto superiori a quelle su cui egli poteva contare. Il dissidio esplose per la prima volta nella primavera del 1101: quando il legato pontificio giunse a Gerusalemme, il re gli denunciò D., accusandolo di tradimento. Il legato sospese subito D. dalle sue funzioni, ma rinviò la sentenza per consentirgli di predisporre la difesa. L'attacco del re contro D. si risolse comunque nella Pasqua del 1101 con un accordo in virtù del quale il re ritirava tutte le sue accuse e D. gli consegnava la consistente somma di 1.300 bizanti. Dopo una breve tregua il conflitto esplose di nuovo. D. lu accusato dal re di essersi appropriato dell'intera somma inviata nell'autunno 1101 da Ruggero, duca di Puglia, somma che in parte spettava a Baldovino.
Secondo Alberto di Aix il re si era rivolto a D. per ottenere un contributo in denaro e D. gli aveva concesso una piccola somma affermando che non aveva altre disponibilità. Ma Arnolfo, l'ex patriarca che D. aveva nominato suo cancelliere, aveva fatto sapere al re che il tesoro del patriarcato custodiva una somma ben più consistente. Essendo intervenuto anche il legato, D. era stato costretto a impegnarsi al mantenimento di un contingente di trenta cavalieri. Ma poi non aveva mantenuto la promessa. Pertanto quando il duca di Puglia inviò una somma da dividere in parti uguali tra il Santo Sepolcro, l'Ordine di S. Giovanni e il sovrano, e D. si appropriò di tutto il denaro, Baldovino si rivolse al legato. Questi depose il patriarca, mentre il re si impadroniva di tutto il tesoro del Santo Sepolcro per finanziare il proprio esercito.
Anche se non è possibile verificare la veridicità del racconto, dato che le fonti riportano solo le accuse mosse contro D. e nulla dicono della sua difesa, non ci sono motivi per dubitare della sostanza dei fatti: la Chiesa aveva denaro, mentre il re era gravato da debiti. Il sovrano cercò allora di ottenere la deposizione di D. per mettere le mani sul tesoro del patriarcato. L'accusa di cupidigia rivolta a D. nelle fonti non deve far dimenticare la possibilità che egli cercasse di difendere il denaro, donato per scopi pii, dalla rapacità del re. È possibile, infatti, ritenere che egli considerasse necessario destinare quelle somme in via prioritaria al restauro degli edifici ecclesiastici, tutti in rovina, a eccezione del Santo Sepolcro.
D., ormai privato della carica di patriarca, si rifugiò a Giaffa e di lì, nel marzo 1102, raggiunse ad Antiochia Tancredi, che reggeva il principato a nome di Boemondo, ancora prigioniero. Nel maggio, Baldovino subì una pesante sconfitta ad opera dei Fatimidi e chiese l'intervento dei principi settentrionali. Questi arrivarono a Gerusalemme con un esercito nel mese di settembre: D. era con loro. Il patriarcato era ancora vacante e Tancredi pose la reintegrazione di D. come condizione per soccorrere il re. Baldovino accettò e indusse il nuovo legato pontificio, il cardinale Roberto di Parigi, succeduto a Maurizio, morto nel frattempo, a restituire la sede a D.; ma chiese e ottenne che l'intera questione fosse esaminata nel corso di un sinodo. Nell'ottobre 1102, D. prese solennemente possesso del patriarcato e subito dopo si aprì il sinodo sotto la presidenza del legato. D. venne accusato di tradimento, per la posizione assunta al momento dell'elezione di Baldovino, di aver spinto la flotta pisana ad attaccare i Greci a Cefalonia nel 1099, di peculato e di simonia. Egli non oppose alcuna tesi difensiva alle accuse, ritenendo probabilmente che ciò gli avrebbe consentito di appellarsi al papa con maggiori prospettive di successo. Comunque il legato doveva aver già deciso che per il bene della Terrasprita era necessario nominare un nuovo patriarca capace di operare in armonia con il re. D. venne deposto e al suo posto fu eletto il prete Evremaro.
D. si ritirò ad Antiochia. Nel 1100 il patriarca ortodosso aveva rinunziato a questa sede; gli era succeduto un latino, Bernardo da Valenza, il quale trattò D. con molta considerazione e lo nominò amministratore del monastero di S. Giorgio. Ad Antiochia D. visse in tranquillità ed armonia con Boemondo, il quale, liberato nel 1103, aveva ripreso possesso del suo dominio; nel 1104D. lo accompagnò nella campagna contro Harran. Nello stesso anno D., poi, rientrò in Europa al seguito dello stesso Boemondo. Si recò allora a Roma da papa Pasquale II per chiedergli di rivedere le decisioni presenel sinodo gerosolimitano. La sentenza pontificia fu dilazionata per consentire a Evremaro di difendere la propria elezione. Alla fine fu pienamente favorevole a D., che venne prosciolto da ogni accusa e reintegrato nelle sue funzioni patriarcali.
D. partì per riprendere possesso della sua sede. Durante il viaggio morì a Messina il 15 giugno 1107.
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