Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nei primi decenni dell’Ottocento in Europa, oltre a una diffusa battaglia per l’affermazione di principi costituzionali, si sviluppa anche un conflitto tra modi diversi di concepire le forme della libertà politica, conflitto che in questa fase è certamente meno intenso di quello che oppone libertà e reazione. In particolare, riprendendo motivi e problemi del secolo precedente, la visione più individualistica ed elitaria dei fautori del liberalismo si scontra con quella comunitaria e popolare della democrazia.
Individuo e collettività
Le origini della distinzione tra liberalismo e democrazia appartengono al secolo dei Lumi. Sono i grandi protagonisti della filosofia politica di questa epoca – da un lato Locke e Montesquieu, dall’altra Jean-Jacques Rousseau – a enunciare con grande chiarezza la linea di demarcazione che separa una concezione dei diritti di libertà basata sulle prerogative individuali e una teoria che fonda questi stessi diritti su principi collettivi universali. Sul finire del Settecento, due grandi processi storici contribuiscono a rendere ancor più evidente la diversità di ispirazione ideale e di obiettivi concreti di queste due concezioni del pensiero politico moderno.
Da un lato la prima rivoluzione industriale accentua l’idea di libertà come attributo originario dell’individuo operoso; di un individuo che, piegando le forze della natura ai suoi bisogni, accrescendo il proprio benessere, contribuisce al progresso materiale e morale dell’intera umanità. Questo concetto di libertà, espressa dallo scozzese Adam Smith nel suo celebre testo sulla ricchezza delle nazioni, viene poi ripreso agli inizi dell’Ottocento dall’inglese David Ricardo e dal francese Jean-Baptiste Say.
Per questi pensatori il perseguimento di finalità personali (anche egoistiche) nello svolgimento delle attività economiche non contrasta con il miglioramento delle condizioni di vita generali. Anzi, questo miglioramento viene assicurato proprio dalla libera concorrenza degli individui, solo in apparenza disordinata e in realtà governata da una “mano invisibile”, il libero mercato, nel quale i vari e numerosi interessi in conflitto si compongono nell’equilibrio del sistema.
Dall’altro lato, attraverso le complesse vicende della Rivoluzione francese, si fa strada un’idea di libertà politica in virtù della quale il benessere collettivo non viene assicurato essenzialmente dall’azione dei soggetti individuali, ma dal governo e dalla conseguente limitazione di quest’azione in nome di finalità decise e condivise dalla collettività. La partecipazione alle decisioni diventa il momento essenziale della vita di una comunità e a essa sono chiamati tutti coloro che ne fanno parte.
In altri termini, la cittadinanza diventa la condizione preliminare e universale senza la quale non è possibile concepire l’esistenza di una società umana, né le libertà individuali all’interno di essa.
Il diritto di voto
Già nel corso della Rivoluzione francese e ancor più nei primi decenni dell’Ottocento, questo schema teorico si concretizza nel conflitto che oppone liberali e democratici sul problema del diritto di voto. Ovviamente, non è in discussione il principio della sovranità popolare e la necessità che questo principio sia solennemente affermato e garantito in una Carta costituzionale; ma se liberali e democratici svolgono una comune battaglia contro il legittimismo dell’età della Restaurazione, che pretende di mantenere il principio della sovranità monarchica di diritto divino e si oppone a qualsiasi costituzionalizzazione dei sistemi politici europei, liberali come Jeremy Bentham in Inghilterra e Benjamin Constant in Francia non credono che la sovranità popolare debba tradursi – secondo la lezione democratica di Rousseau – nel suffragio universale o nella democrazia diretta: “tutto per il popolo, niente attraverso il popolo” è l’espressione che definisce abbastanza felicemente la loro posizione e quella del liberalismo europeo. In quest’affermazione si avverte tutto il peso dell’esperienza giacobina e il ricordo del Terrore; si teme infatti che affidando il governo dello Stato a una massa numerosa, priva d’istruzione e senza un personale interesse al buon andamento degli affari pubblici, i singoli cittadini si trovino a dover sopportare limitazioni anche più gravi di quelle di un regime dispotico. Al contrario – secondo il pensiero liberale – una classe dirigente selezionata da un suffragio ristretto, costantemente controllata da un vasto sistema di libertà di stampa e di associazione, può assumersi il compito di agevolare il progresso materiale e intellettuale della parte più povera della popolazione, senza toccare i diritti inalienabili degli individui.
L’orientamento democratico del primo Ottocento si rifà invece al pensiero di Rousseau, come pure all’eredità girondina e giacobina; rappresentata da uomini come Filippo Buonarroti, strettamente legato alla tradizione rivoluzionaria, da Henri de Saint-Simon e da Étienne Cabet, più vicini ai nuovi problemi posti dall’espansione del sistema industriale, la democrazia europea è convinta che la libertà individuale sia destinata a rimanere un’astrazione – o addirittura un privilegio esclusivo delle classi ricche – se non viene fondata su una diffusa eguaglianza delle condizioni economiche.
Quindi il suffragio universale diventa uno strumento indispensabile non solo per realizzare il principio politico della sovranità popolare, ma anche per eliminare le più gravi differenze sociali.
La questione della proprietà
Il diffondersi delle forme della produzione manifatturiera e del lavoro di fabbrica rendono più acuto, nell’Europa della Restaurazione, il problema della proprietà privata e ne mutano in buona parte i contenuti rispetto al dibattito settecentesco, rimasto inevitabilmente legato alla questione della proprietà terriera. Nel XIX secolo, infatti, la proprietà privata viene messa in discussione in quanto capitale, e cioè possesso dei mezzi finanziari scaturiti da un’ineguale distribuzione dei profitti delle attività produttive, che a sua volta – riservando a pochi la proprietà dei mezzi di produzione – prepara ulteriori situazioni di diseguaglianza. In quegli anni questa critica trova una drammatica conferma nelle condizioni di vita degli operai in Paesi, quali la Gran Bretagna e la Francia, in cui lo sviluppo industriale conosce il suo maggiore sviluppo. La paga operaia, infatti, non supera mai il minimo necessario al sostentamento fisico, e non vengono risparmiati né le donne né i bambini, assunti già a partire dal decimo anno di età. Si tratta dunque, come propone Saint-Simon, di pensare a un nuovo sistema industriale che parta da un’equa distribuzione del lavoro e del reddito e da un’organizzazione collettiva della vita sociale, in grado di assicurare ai lavoratori istruzione, assistenza e alloggi. Questa richiesta assume talvolta la forma del disegno utopistico di una società ideale, come nel caso della New Harmony dell’inglese Owen, del Falansterio del francese Fourier, o dell’isola di Icaria di Cabet. Più spesso, però, la messa in discussione della proprietà privata alimenta le battaglie del movimento democratico, come dimostrano le rivolte operaie di Lione negli anni Trenta. Democrazia e socialismo cominciano, allora, a trovarsi sempre più spesso alleate nel conflitto contro il liberalismo censitario e l’individualismo proprietario della borghesia europea, nella stessa misura in cui il problema dell’eguaglianza politica e quello dell’eguaglianza economica sembrano imporsi come facce della stessa medaglia.