DALLA CHIESA, Carlo Alberto
Nacque a Saluzzo, in provincia di Cuneo, il 27 settembre 1920, da Romano e da Maria Laura Bergonzi. Il padre, di origine emiliana come la madre, era un ufficiale dei carabinieri che nel settembre del 1943, subito dopo l’armistizio, aveva guidato il Comando dei Carabinieri Reali dell’Italia meridionale e poi, fino al giugno del 1945, era stato capo di Stato maggiore del Comando Arma Carabinieri dell’Italia liberata. Chiuse la carriera nel 1955, da vice comandante generale dell’Arma. Carlo Alberto ebbe due fratelli, Romolo (1921-2012), che come lui intraprese la carriera all’interno dei carabinieri arrivando al grado di generale di Divisione, e Romeo (1924-2006), che fu un importante dirigente di banca. Dalla Chiesa crebbe dunque in un ambiente sensibile al senso del dovere e all’amor di patria, in cui l’Arma rivestiva un ruolo assolutamente centrale.
Dopo avere trascorso la giovinezza nelle varie sedi in cui il padre veniva di volta in volta inviato, allo scoppio della seconda guerra mondiale partecipò alle operazioni militari nei Balcani come sottotenente di complemento e nel 1942 entrò nell’Arma. Nel luglio del 1943, presso l’Università di Bari, città di cui il padre comandava la Legione, conseguì la laurea in giurisprudenza (una delle tesine orali da presentare all’esame finale gli fu assegnata dal giovane Aldo Moro); nel 1944 ottenne poi una seconda laurea, in scienze politiche. Al momento dell’armistizio era il responsabile della caserma di San Benedetto del Tronto. Durante l’occupazione nazista, dopo essersi rifiutato di prendere parte ad azioni anti-partigiane, collaborò con i gruppi di resistenti nel territorio marchigiano fino alla fine dell’anno, quando riuscì a passare le linee nemiche. Molti anni dopo avrebbe dichiarato che quella resistenziale era stata una delle esperienze più importanti della sua vita, dal momento che «mi trovai alla testa di bande di patrioti e responsabile di intere popolazioni» (Intervista a Enzo Biagi, 7 marzo 1981, in N. Dalla Chiesa, 1997, p. 257). Al momento della liberazione di Roma fu destinato al Nucleo dei carabinieri addetto alla Presidenza del consiglio e poi alla Legione della capitale. Nel corso del 1945 passò a Salsomaggiore, dove fu promosso tenente, e poi, dal 1946 al 1948, alla compagnia di Casoria, nella Legione di Napoli dove, da capitano, portò a termine alcune importanti operazioni contro la criminalità organizzata.
Nel luglio del 1946, intanto, aveva sposato Dora Fabbo, anche lei figlia di un ufficiale dei carabinieri, Ferdinando. L’aveva conosciuta prima della guerra a Bari, dove anche il padre di Dora era di stanza. Il matrimonio si celebrò a Firenze, dove in quel momento risiedeva la famiglia della moglie, anche se poi Dora si trasferì con Carlo Alberto a Casoria, dove nacque la prima figlia, Rita (1947). Seguirono Fernando (1949) e Simona Maria (1952), nati entrambi a Firenze, dove Dalla Chiesa, tra il 1948 e il 1949, fu destinato al comando della Compagnia esterna.
Nel settembre di quell’anno entrò a far parte del Corpo forze repressione banditismo (CFRB), che operava in Sicilia al comando dal colonnello Ugo Luca. Si era offerto di andare volontario nell’isola, alla quale era legato non soltanto perché da ragazzo, al seguito del padre, aveva vissuto per alcuni anni ad Agrigento, ma anche perché proprio nel 1949 il suocero aveva assunto il comando della Legione di Palermo, da cui formalmente dipendeva.
Il CFRB era stato creato in sostituzione dell’Ispettorato generale di Pubblica sicurezza per fronteggiare la recrudescenza criminale che si era registrata nell’isola già nelle fasi finali della guerra. Nell’ambito del nuovo organismo, a Dalla Chiesa fu assegnato il comando del Gruppo squadriglie di Corleone. Fu una tappa fondamentale per la formazione investigativa del giovane capitano.
Il Corleonese era storicamente un circondario ad altissima densità criminale e negli ultimi anni si era registrato un notevole aumento nel numero degli omicidi, tutti rimasti impuniti. La principale indagine da lui svolta fu quella intorno alla scomparsa, avvenuta nel marzo del 1948, del sindacalista socialista Placido Rizzotto. Dalla Chiesa seppe muoversi con grande abilità, concludendo che in realtà si era trattato di omicidio (e ritrovando anche i resti del corpo di Rizzotto). I due principali rapporti di denuncia dimostrano una notevole lucidità di analisi e giungono a conclusioni non scontate, sia riguardo all’identità degli assassini sia al movente. Rispetto alla 'voce pubblica' e ai parenti della vittima, che insistevano nell’indicare come autore del delitto il medico Michele Navarra, ritenuto il capo della mafia di Corleone, Dalla Chiesa sostenne invece la colpevolezza dell’emergente Luciano Leggio che, insieme a due gregari, voleva accrescere il suo prestigio nell’ambiente criminale locale.
Alla conclusione delle indagini – anche in seguito al quasi contemporaneo scioglimento del CFRB – Dalla Chiesa tornò a Firenze, dove rimase fino al 1952 per poi passare a Como e, infine, a Milano. Qui diresse la compagnia interna dal 1955 al 1957, fu poi aiutante maggiore della prima Legione fino al 1960 e infine comandante del gruppo interno. Durante la lunga permanenza nella città che stava diventando il cuore dell’Italia del boom economico, Dalla Chiesa ebbe modo di confrontarsi con forme di criminalità in parte diverse rispetto alle sue esperienze precedenti. Puntò al miglioramento dell’efficienza, cercando anche di sfruttare gli strumenti messi a disposizione dai progressi tecnologici, come il sistema dei ponti radio, che consentiva una maggiore rapidità di intervento. Nel complesso, i risultati conseguiti furono particolarmente brillanti e nel 1963 arrivò la promozione a tenente colonnello e il trasferimento a Roma, come capo ufficio presso la quarta brigata.
A questo punto, però, per la carriera di Dalla Chiesa si verificò una battuta d’arresto. Soltanto pochi mesi dopo, infatti, fu destinato a Torino, come capo ufficio addestramento alla Legione allievi. Il trasferimento così repentino a un incarico di minore prestigio sembrò avere un carattere punitivo. Le ragioni – come ipotizzava lo stesso Dalla Chiesa nella sua corrispondenza privata con la moglie – erano probabilmente da ricercarsi nell’ostilità che aveva nei suoi confronti il gruppo di ufficiali vicino al generale Giovanni De Lorenzo, in quel momento comandante generale dell’Arma. Comunque Dalla Chiesa rimase a Torino soltanto per alcuni mesi, per poi tornare a Milano, dove diresse il Nucleo di polizia giudiziaria e per passare infine al gruppo di quella città.
Dal luglio del 1966 assunse il comando della Legione di Palermo, in attesa della promozione a colonnello, che arrivò pochi mesi dopo. In alternativa al capoluogo siciliano gli era stato proposto un altro contesto 'estremo', Bolzano, centro dell’emergenza terroristica altoatesina. Dalla Chiesa però optò per Palermo, probabilmente anche per venire incontro alle esigenze della moglie, che lì avrebbe potuto contare sul supporto della sua famiglia di provenienza: Ferdinando Fabbo, infatti, dopo essere andato in congedo nel 1954, era rimasto a Palermo, dove l’altra figlia, Lydia, aveva sposato un membro dell’aristocrazia palermitana, l’ingegnere Francesco Naselli Flores.
Quando Dalla Chiesa giunse nel capoluogo siciliano era in corso la controffensiva dello Stato nei confronti della criminalità mafiosa che aveva preso avvio al termine della cosiddetta 'prima guerra di mafia'. L’azione di Dalla Chiesa si inserì pienamente in quel clima e determinò un’imponente risistemazione interna alla Legione. Una pratica ricorrente divennero le sortite a sorpresa che il colonnello personalmente effettuava nelle caserme da lui dipendenti, nel corso delle quali venivano compiute rigorose verifiche intorno alla loro efficienza. L’obiettivo era non soltanto conseguire un concreto miglioramento operativo, ma anche trasmettere un’immagine positiva del corpo. Come a Milano, anche a Palermo Dalla Chiesa divenne presto un personaggio, certamente noto per il suo rigore, ma anche per la grande sensibilità, come in occasione del terremoto del Belice nel gennaio del 1968, quando i suoi carabinieri furono in prima linea nei soccorsi. Inoltre, il colonnello si circondò di alcuni abili collaboratori, tra cui il capitano Giuseppe Russo, che nel 1977 sarebbe stato ucciso in un agguato di mafia nei pressi di Corleone.
Quanto alla mafia, Dalla Chiesa era consapevole del fatto che non bisognasse abbassare la guardia. Nella seconda metà degli anni Sessanta coordinò diverse operazioni sul campo e iniziò anche una proficua collaborazione con la Commissione antimafia. Fin dalla sua prima audizione, nel marzo del 1969, il presidente, il democristiano Francesco Cattanei, e il vice-presidente, il comunista Girolamo Li Causi, ne elogiarono la schiettezza e la fattività. In quella circostanza, tra l’altro, il colonnello presentò il primo dei nuovi strumenti che aveva messo a punto per rendere più incisiva l’azione di contrasto al fenomeno. Si trattava delle schede dei mafiosi, in cui trovavano spazio anche parentele e vincoli di comparatico, fondamentali per ricostruire il network di relazioni. Nell’audizione del 4 novembre 1970, invece, Dalla Chiesa mostrò ai commissari una speciale planimetria di Palermo, in cui venivano indicati i luoghi di radicamento delle diverse 'famiglie' mafiose e quelli di loro interesse, soprattutto in relazione al controllo delle aree edificabili. Due applicazioni concrete di questa innovativa metodologia di analisi furono i rapporti redatti dalla Legione carabinieri di Palermo nel 1971 su due dei protagonisti della speculazione edilizia in città, l’assessore ai Lavori pubblici (e poi anche sindaco) di Palermo, il democristiano Vito Ciancimino, e il costruttore Francesco Vassallo.
Accanto a questi strumenti innovativi, tuttavia, Dalla Chiesa ne utilizzava anche di più tradizionali, come il ricorso a informatori. Il più importante fu Vincenzo Guercio, il quale indirizzò i carabinieri sulla pista del traffico di droga che connetteva Palermo a Milano e ad altre città del nord Italia, e che fu vittima di 'lupara bianca' nel luglio del 1971. Si trattava del filone di indagini cosiddetto 'della mafia nuovo corso', il maggiore tra quelli che impegnò il colonnello e i suoi uomini nella prima metà degli anni Settanta.
La fine del decennio precedente aveva segnato una notevole ripresa dell’attività affaristico-criminale delle cosche mafiose, dopo il fallimento del processo di Catanzaro del 1968 contro i protagonisti della 'prima guerra di mafia'. Si aprì una nuova fase di violenza, che ebbe i suoi momenti culminanti nel rapimento del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), mai più ritrovato, e nell’assassinio del procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione (5 maggio 1971).
All’indomani della sparizione di De Mauro erano esplosi dei contrasti tra carabinieri e polizia sulle piste investigative da seguire. I primi erano convinti che De Mauro fosse stato ucciso perché venuto a conoscenza di particolari riguardanti il traffico internazionale della droga; i secondi ritenevano che la vicenda si dovesse ricondurre alle ricerche svolte da De Mauro sulla misteriosa scomparsa di Enrico Mattei per conto del regista Francesco Rosi per il film Il caso Mattei e ad ambienti politico-finanziari in passato legati all’ex presidente dell’ENI. Dopo il delitto Scaglione, e un vertice d’emergenza a cui presero parte il ministro dell’Interno Franco Restivo, il capo della polizia Angelo Vicari e il comandante generale dell’Arma Corrado Sangiorgio, venne però stabilita una linea comune, per cui carabinieri e polizia cominciarono a presentare una serie di rapporti congiunti nei quali veniva delineata la fisionomia dei gruppi di mafia emergenti a cui si sarebbe dovuta ricondurre la catena di delitti di quegli anni.
Tuttavia, il relativo processo si concluse, il 29 luglio 1974, con esiti ancora una volta non rispondenti all’enorme lavoro investigativo svolto. La costruzione dell’accusa non aveva retto alla prova processuale, dimostrando ancora una volta l’inadeguatezza degli strumenti giudiziari per il contrasto alla mafia. A questo proposito, già alcuni anni prima, Dalla Chiesa aveva dichiarato alla Commissione antimafia: «Siamo senza unghie, ecco […] mentre nell’indagine normale, nella delinquenza comune, possiamo far fronte e abbiamo ottenuto anche dei risultati di rilievo, nei confronti del mafioso in quanto tale, in quanto inquadrato in tutto un contesto particolare, è difficile per noi raggiungere le prove; ciò, non ci è dato se non attraverso l’indizio, che può diventare grave, può diventare gravissimo, può avere un valore determinante anche nel giudizio discrezionale del magistrato, ma non la prova, perché essa viene a mancare. Questo è il punto dove noi ci fermiamo, malgrado gli sforzi» (Audizione del 4 novembre 1970, in Commissione antimafia, III, t. 2, p. 237).
All’inizio di ottobre del 1973 Dalla Chiesa era stato trasferito a Torino, dove aveva assunto il comando della prima brigata, e alla fine di quell’anno aveva ottenuto la promozione a generale.
Si trattava di un contesto non meno 'caldo' di quello che aveva lasciato, dal momento che il capoluogo piemontese, e tutto il territorio dipendente dalla brigata, era uno dei teatri privilegiati per l’azione dei gruppi terroristici di estrema sinistra.
Il definitivo salto di qualità fu rappresentato dal sequestro, attuato dalle Brigate rosse (BR) il 18 aprile 1974, del sostituto procuratore di Genova Mario Sossi, pubblico ministero nel processo contro il Gruppo XXII ottobre. Si determinò una situazione inedita e le indagini si svolsero sullo sfondo di un dilemma: se cedere o meno al ricatto dei sequestratori, che in cambio del rilascio del magistrato chiedevano la liberazione dei condannati della XXII ottobre. Mentre era in corso il sequestro, tra il 9 e il 10 maggio, nel carcere di Alessandria tre detenuti presero in ostaggio tredici persone chiedendo di fuggire in cambio della loro liberazione. L’estenuante trattativa che ne derivò fu interrotta dall’azione di forza decisa dal procuratore generale di Torino Carlo Reviglio della Veneria ed eseguita dai carabinieri di Dalla Chiesa. Il bilancio fu tragico: sette morti (due detenuti, due guardie e tre civili) e numerosi feriti. Non mancarono aspre polemiche, che si riaccesero anche successivamente, al momento della sentenza emessa su quei fatti (17 febbraio 1978). Tuttavia, di fronte a una classe dirigente sempre più disorientata di fronte alla sequenza ininterrotta di atti di violenza, la posizione del generale ne uscì rafforzata. Fu così che, all’indomani del rilascio di Sossi, deciso unilateralmente dalle BR, il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani accettò la proposta di Dalla Chiesa di contrastare l’estremismo di sinistra attraverso il Nucleo speciale di polizia giudiziaria (24 maggio 1974).
Le indagini del Nucleo, in verità, si sarebbero dovute limitare alla vicenda Sossi, ma finirono per estendersi all’intera struttura delle BR. Dalla Chiesa, infatti, era convinto che, come nel caso della mafia siciliana, bisognasse non soltanto colpire le manifestazioni criminali, ma risalire al fenomeno nel suo complesso e cercare di conoscerlo in profondità. I componenti del Nucleo, accuratamente selezionati e vincolati alla riservatezza più assoluta, dovevano dunque continuamente perfezionare la propria metodologia di indagine secondo il criterio della specializzazione, che era lo stesso seguito dal gruppo di magistrati – il pool antiterrorismo dell’ufficio istruzione di Torino – con i quali lavoravano in strettissima collaborazione. Si trattava di penetrare fino in fondo la realtà dell’eversione, ricorrendo in maniera sistematica anche a pratiche come il pedinamento e l’infiltrazione. I risultati non tardarono ad arrivare: l’8 settembre di quell’anno, a Pinerolo, furono arrestati due dei 'capi storici' delle BR, Renato Curcio e Alberto Franceschini. A condurre i carabinieri ai vertici dell’organizzazione era stato Silvano Girotto, noto come 'frate mitra', sacerdote francescano e guerrigliero in America Latina, che fu infiltrato nelle BR.
Seguirono mesi di intensa attività da parte del Nucleo, con decine di arresti e la scoperta di alcune basi brigatiste (drammatica la vicenda dell’assalto al covo di Robbiano di Mediglia, nella notte tra il 14 e 15 ottobre, in cui perse la vita il maresciallo Felice Maritano). Non mancarono i colpi a vuoto, come l’accusa al giudice istruttore Ciro De Vincenzo di essere contiguo alle BR (fu poi prosciolto in sede istruttoria), e i momenti difficili, come l’evasione di Curcio dal carcere di Casale Monferrato, il 18 febbraio 1975.
Nel complesso la struttura guidata da Dalla Chiesa si rivelò particolarmente efficace, dando l’impressione di avere ormai neutralizzato la minaccia brigatista.
Fu in quel contesto che, nell’estate del 1975, l’originario Nucleo di Torino fu sostituito da tre sezioni speciali con sede a Milano, Roma e Napoli. Nella decisione probabilmente pesarono anche i malumori di una parte dell’opinione pubblica, a cui apparivano troppo spregiudicati alcuni dei metodi utilizzati dal Nucleo ed eccessiva l’esposizione mediatica di Dalla Chiesa, ma anche l’ostilità di alcuni dei vertici dell’Arma, che non avevano mai del tutto accettato quella che rappresentava un’anomalia, sia da un punto di vista gerarchico sia operativo. Il generale fu contrariato dalla scelta e alcuni anni dopo, nel corso di un’audizione alla Commissione Moro, dichiarò di avere «cercato di resistere il più a lungo possibile per la sopravvivenza del nucleo così come era nato» (Audizione del 23 febbraio 1982, in Commissione Moro, IX, p. 245), ma di avere poi accettato di collaborare alla sua ristrutturazione.
Dalla Chiesa rimase al comando della brigata di Torino fino al marzo del 1977 e poi, nel maggio di quell’anno, fu destinato a guidare il Coordinamento del servizio di sicurezza esterna degli istituti penitenziari (cosiddetto Sicurpena). La nomina era stata voluta dal governo Andreotti in un momento fattosi nuovamente difficile per l’ordine pubblico, di cui uno dei settori più critici era indubbiamente quello carcerario. Negli ultimi mesi, infatti, non soltanto si erano verificate continue ed eclatanti evasioni da istituti di pena che, per la maggior parte, erano antiquati e sovraffollati, ma sempre più complessa appariva la gestione della convivenza tra i detenuti politici e quelli comuni. Uno dei punti fondamentali del nuovo programma fu allora la creazione di una serie di carceri di massima sicurezza per la detenzione degli elementi ritenuti più pericolosi, di cui il generale gestì personalmente la selezione. Nell’ultima decade di luglio, con spettacolare e rapida operazione, circa un migliaio di detenuti furono trasferiti nelle nuove carceri speciali, nelle quali vennero applicate delle misure interne molto restrittive e un servizio di vigilanza esterno supplementare. I provvedimenti diedero i loro frutti, perché il numero delle evasioni calò drasticamente, ma determinarono nuove polemiche, questa volta sulle condizioni di vita all’interno delle carceri.
Nel periodo in cui svolgeva l’ennesimo delicato incarico della sua carriera, Dalla Chiesa visse un dramma personale. Il 19 febbraio 1978 morì Dora, stroncata da un infarto. Per il generale il colpo fu durissimo, anche perché riteneva di avere una parte di responsabilità, avendo costretto la moglie a una vita di lontananze prolungate e attese angosciose. Fu da quel momento che iniziò a tenere un diario personale, scritto sotto la forma di lettere a Dora.
Arrivarono poi i giorni del sequestro di Aldo Moro (16 marzo - 9 maggio 1978), durante i quali Dalla Chiesa fu chiamato a far parte di un gruppo di lavoro al Viminale, senza però rivestire una posizione di primo piano nelle indagini. Ben diverso fu il ruolo che assunse poco dopo la tragica conclusione della vicenda, quando – era presidente del consiglio Andreotti – il ministro dell’Interno Virginio Rognoni lo volle alla direzione di una nuova struttura di contrasto al terrorismo. Il provvedimento entrò in vigore il 10 settembre, ma la decisione era maturata nel corso dell’estate, all’indomani dell’ennesima dimostrazione di vulnerabilità da parte delle istituzioni, con la fuga dal soggiorno obbligato della brigatista Nadia Mantovani, avvenuta il 29 luglio. Indubbiamente a risultare decisivi per la scelta di Dalla Chiesa, da poco passato al grado di generale di Divisione, furono i successi concretamente conseguiti contro l’eversione negli anni precedenti. Tuttavia, in un momento tanto difficile, la questione era anche di diversa natura perché, come ha ricordato successivamente Rognoni, «si trattava […] di rassicurare l’opinione pubblica e di mettere in qualche modo inquietudine dentro le formazioni brigatiste» (Audizione del 22 luglio 1998, in Commissione stragi, p. 1712). Dopo la nomina, però, non mancarono le perplessità di chi considerava dannoso il ricorso continuo a misure d’eccezione, accompagnate dai malumori di molti esponenti degli apparati, che ritenevano di essere stati scavalcati dalla scelta di Dalla Chiesa.
Il generale chiamò a far parte della nuova struttura molti dei suoi antichi collaboratori e il lavoro investigativo fu impostato sulla base degli stessi presupposti del Nucleo del 1974-75, sia per la lettura complessiva del terrorismo, sia per le metodologie operative applicate. Più ampia, però, era la libertà d’azione del nuovo organismo, estesa in sostanza a tutto il territorio nazionale (suddiviso poi in più specifiche zone operative), e maggiore la sua autonomia, dal momento che dipendeva direttamente dal ministero dell’Interno. Tuttavia, Dalla Chiesa riteneva che una fase operativa improntata alla rapidità e all’efficacia non fosse di per sé sufficiente. Come risulta chiaramente dalle due relazioni periodiche dirette a Rognoni, altrettanto decisivo doveva essere considerato l’aspetto psicologico. Bisognava riuscire a intaccare quel mito di inafferabilità ed efficienza di cui erano circondate le BR e le altre organizzazioni eversive, riaffermando il primato dello Stato. Per far questo le forze dell’ordine dovevano non soltanto ricevere la piena collaborazione dalle altre istituzioni, come la magistratura, ma essere anche sostenute dagli organi di stampa e più in generale da tutti i settori della società, che invece in alcuni casi apparivano come 'fiancheggiatori'. Tra questi soprattutto alcuni intellettuali, che non sempre avevano assunto una chiara posizione di condanna delle azioni terroristiche, e alcuni ambienti universitari.
I risultati, come nella prima stagione, furono di grandissimo rilievo. Il maggiore fu probabilmente quello messo a segno già poche settimane dopo l’inizio della nuova offensiva, portando a conclusione un’indagine avviata in precedenza dalle Sezioni anticrimine. Il 1° ottobre, durante il blitz eseguito nel covo di via Monte Nevoso a Milano, furono non soltanto arrestati brigatisti di primo piano (tra i quali di nuovo la Mantovani e Lauro Azzolini), ma anche sequestrati documenti relativi alla prigionia di Moro, tra cui il cosiddetto 'memoriale', in forma di dattiloscritto. In verità, fin dai giorni immediatamente successivi, più che del successo in sé, si discusse soprattutto della gestione delle carte rinvenute nel covo. La struttura guidata da Dalla Chiesa fu chiamata in causa per via della sua incerta collocazione istituzionale e ci fu chi sostenne che il memoriale fosse stato sottoposto a una scrematura prima di essere verbalizzato dall’autorità giudiziaria. Successivamente, di fronte alla Commissione Moro, Dalla Chiesa lo negò recisamente, ma le più svariate ipotesi continuarono a essere formulate, soprattutto dopo che nel 1990, nel corso di lavori di ristrutturazione all’appartamento, fu ritrovata una più ampia versione del memoriale, stavolta in forma di fotocopia di autografo.
L’incarico a Dalla Chiesa originariamente doveva durare un solo anno. Rognoni e Andreotti avrebbero voluto prorogarlo, anche in considerazione del fatto che, nonostante l’incisiva azione di contrasto, l’emergenza terroristica non accennava a placarsi. Un composito fronte garantista, però, si oppose strenuamente all’ipotesi e alla fine fu adottata una soluzione di compromesso, quella di una proroga breve, fino al dicembre del 1979, quando Dalla Chiesa passò al comando della divisione Pastrengo a Milano, una destinazione a lui particolarmente gradita. In tal modo l’anomalia rappresentata dall’incarico speciale al generale veniva riassorbita e al contempo la lotta al terrorismo poteva comunque proseguire, dal momento che la Pastrengo aveva giurisdizione su tutto il nord Italia.
Fu nel corso di questa nuova fase che arrivò la svolta. Il 19 febbraio 1980, a Torino, fu arrestato il brigatista Patrizio Peci, che divenne il primo e più importante collaboratore di giustizia. Il pentimento di Peci, maturato dopo un lungo travaglio interiore, rappresentò un fatto assolutamente nuovo rispetto al silenzio dietro al quale si erano trincerati fino ad allora i terroristi. Il generale gestì in prima persona la collaborazione del brigatista e nel suo diario privato annotò: «sulla strada che così si è aperta io vedo all’orizzonte una grossa botta a tutta l’organizzazione delle BR» (Dal diario, 23 marzo 1980, in N. Dalla Chiesa, 1997, p. 240). In effetti, a partire dalle confessioni di Peci furono non soltanto arrestati decine di militanti e smantellate le 'colonne' di Genova e Torino, ma si determinò anche una reazione a catena che portò a numerosi altri pentimenti. Tra i covi scoperti ci fu quello genovese di via Fracchia, nel capoluogo ligure. Il blitz terminò con una sparatoria in cui morirono tutti e quattro i brigatisti che lì si trovavano (28 marzo 1980). Ancora una volta le polemiche furono enormi e riguardarono le modalità e gli esiti dell’irruzione, che alcuni ritennero un esplicito avvertimento per i terroristi.
Le BR, pur se pesantemente ridimensionate, continuavano intanto a colpire. L’azione più eclatante fu eseguita in giugno, quando, come ritorsione nei confronti del 'tradimento' di Peci, fu sequestrato il fratello Roberto che, dopo una lunga prigionia, venne ucciso (3 agosto 1981). Durante il sequestro, tra l’altro, Roberto raccontò (o fu costretto dalle BR a raccontare) che in verità il fratello era stato arrestato due volte e non una, e di avere dunque agito come infiltrato dei carabinieri. Si trattava della versione cosiddetta 'del doppio arresto' di Patrizio Peci, che fu però seccamente smentita dai protagonisti (oltre che da Dalla Chiesa, anche da uno dei magistrati di punta della procura torinese, Giancarlo Caselli).
In marzo, intanto, era scoppiato lo scandalo della Loggia massonica P2. Tra la documentazione sequestrata fu ritrovata anche una domanda di iscrizione alla Loggia firmata dal generale, alla quale però non era stato dato seguito. Interrogato in proposito dai giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo, Dalla Chiesa ammise di avere effettivamente presentato la domanda nel 1976, su insistenza di un suo ex-superiore, il generale Franco Picchiotti. In quella circostanza dichiarò anche che, dopo forti resistenze, alla fine a convincerlo fu l’idea che in tal modo avrebbe potuto comprendere meglio – dall’interno – una realtà occulta come quella della P2. Si potrebbe ipotizzare che ebbero un peso anche le difficoltà di carriera incontrate in quel momento dal generale nonostante i successi conseguiti e, dunque, la volontà di inserirsi più saldamente in un ambiente in cui numerosi esponenti di vertice dell’Arma – e in particolare della divisione Pastrengo – erano iscritti alla Loggia. Dalla Chiesa si trovò comunque nell’occhio del ciclone, perché la sua posizione fu accomunata a quella di coloro che risultavano iscritti, anche sulla base del fatto che tra essi c’era il fratello Romolo (iscrizione della quale Carlo Alberto disse di non sapere). I vertici dell’Arma chiesero a Dalla Chiesa di fare un passo indietro e di auto-sospendersi, come era stato fatto con i generali che erano al comando dei servizi segreti (SISMI, SISDE e CESIS) e che figuravano nell’elenco; a suo sostegno, però, intervenne il governo, tra cui il ministro della Difesa Lelio Lagorio, e alla fine fu esonerato dal provvedimento.
La posizione di Dalla Chiesa sembrò cambiare radicalmente alla fine dell’anno, quando fu nominato vice comandante generale dell’Arma, lo stesso grado cui era giunto il padre (16 dicembre 1981).
Si trattava certamente di un incarico di prestigio, il più elevato a cui in quel momento poteva giungere un ufficiale dei carabinieri. Tuttavia, come emerge dalle pagine del suo diario, Dalla Chiesa visse quella fase con un certo disagio, sia perché si trattava di un incarico diverso rispetto a quelli 'sul campo' svolti fino ad allora, sia perché continuava l’ostilità di alcuni settori dell’Arma.
Furono queste ragioni che probabilmente lo spinsero ad accettare, non senza qualche riserva, un nuovo incarico speciale, il contrasto alla mafia in qualità di prefetto di Palermo, che avrebbe comportato il suo congedo dall’Arma. Il momento era tra i più drammatici, perché era in corso la 'seconda guerra di mafia', in cui la prepotente ascesa dello schieramento corleonese stava determinando non soltanto una carneficina degli esponenti delle cosche rivali, ma anche numerosi omicidi 'eccellenti'. La decisione fu presa nel marzo del 1982, quando Dalla Chiesa ebbe una serie di colloqui con alcuni esponenti del governo, tra cui Rognoni, il quale ottenne dal generale l’assenso definitivo. Subito dopo avere accettato l’incarico, però, in una lettera al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, Dalla Chiesa non soltanto chiese un impegno più esplicito e concreto a sostegno della sua azione, ma espresse anche preoccupazione sull’ostilità di alcuni ambienti democristiani locali, da lui ritenuti i più legati alle cosche mafiose (2 aprile). Seguì un incontro con Giulio Andreotti, in quel momento senza incarichi di governo ma interessato a conoscere i termini dell’azione che di lì a poco avrebbe intrapreso il generale data l’incidenza della sua corrente politica in Sicilia. Stando sempre al suo diario, Dalla Chiesa gli rispose che non avrebbe potuto avere riguardi per nessuno e così commentava a proposito di Andreotti: «Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno […] lo ha condotto e lo conduce ad errori di valutazioni di uomini e circostanze» (Dal diario, 6 aprile 1982, in N. Dalla Chiesa, 1997, p. 307).
Dalla Chiesa avrebbe dovuto prendere servizio come prefetto di Palermo il 6 maggio, tuttavia i drammatici sviluppi degli eventi affrettarono i tempi. Il 30 aprile, infatti, era stato assassinato Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano e ai primi di maggio il neo-prefetto era già in città per presenziare ai funerali.
Come nella lotta al terrorismo, anche in questo caso la sua azione procedette su due piani. Sotto l’aspetto investigativo, Dalla Chiesa si interessò all’ascesa dei corleonesi, all’estensione del fenomeno anche alla Sicilia orientale (con la formazione di un asse Palermo-Catania) e alla sua marcata internazionalizzazione. Da un punto di vista psicologico, il prefetto si rendeva conto che, in un contesto caratterizzato da sfiducia e rassegnazione, era fondamentale far sentire la presenza delle istituzioni e sensibilizzare l’opinione pubblica. Nel complesso, però, attorno alla venuta di Dalla Chiesa, in alcuni ambienti sembrava esserci diffidenza, quasi fastidio.
Rispetto a questo clima, in una città in cui gli omicidi si susseguivano senza sosta, una parentesi felice fu il matrimonio con la giovane Emanuela Setti Carraro (10 luglio), un’infermiera volontaria di buona famiglia, che dopo le nozze decise di trasferirsi con lui a Palermo. Al ritorno in città, però, Dalla Chiesa – come emerge dal suo diario – percepiva sempre più l’isolamento nel quale si trovava, anche in virtù del fatto che una più precisa definizione delle sue attribuzioni nella lotta alla mafia tardava ad arrivare. Fu in quel contesto che i capi di Cosa nostra decisero di assassinarlo. La sera del 3 settembre 1982, mentre transitava in via Isidoro Carini a Palermo, l’auto su cui era a bordo con la moglie fu affiancata da un commando che uccise i passeggeri e l’agente di scorta Domenico Russo, che li seguiva a breve distanza.
Fin dai giorni immediatamente successivi al delitto, si disse che Dalla Chiesa era stato imprudente a girare per la città senza prendere troppe precauzioni, sapendo anche del ruolo simbolico che ricopriva. Ne nacquero durissime polemiche, come quelle che opposero lo scrittore Leonardo Sciascia al figlio della vittima, Nando, secondo il quale una considerazione del genere serviva soltanto a sminuire le pesanti responsabilità politiche che lui riteneva avesse la corrente andreottiana in Sicilia.
Nell’ambito del cosiddetto maxiprocesso, pur analizzando con grande attenzione questo difficile contesto ambientale in cui Dalla Chiesa si era trovato a operare, la causale del delitto fu individuata nelle dinamiche interne ai gruppi mafiosi e in particolare nella volontà dello schieramento corleonese di eliminare un probabile ostacolo alla propria ascesa. L’idea che l’intera vicenda di Dalla Chiesa potesse essere inserita in una cornice politica più ampia fu rilanciata a partire dagli anni Novanta. Il pentito di mafia Tommaso Buscetta, riferendosi a conversazioni avute in passato con alcuni esponenti di Cosa nostra, fu il primo a parlare di un legame tra l’assassinio del prefetto e quello del giornalista Carmine Pecorelli (20 marzo 1979). Sulla base di questa testimonianza, nell’ambito dei procedimenti penali a carico di Andreotti per associazione mafiosa e per l’omicidio di Pecorelli, si ipotizzò – ma la ricostruzione non fu confermata negli ultimi gradi di giudizio – che Dalla Chiesa già nel 1978 fosse venuto in possesso dell’intero e originale memoriale di Moro e che ne avesse messo a conoscenza il giornalista, per cui entrambi avrebbero avuto informazioni compromettenti per il presidente del Consiglio. Per questo motivo Pecorelli sarebbe stato assassinato nell’interesse di Andreotti dalla mafia che, sempre secondo le parole di Buscetta, per lo stesso motivo aveva pianificato l’omicidio di Dalla Chiesa già in quell’anno, ovvero in un momento in cui non costituiva ancora un pericolo diretto per l’organizzazione.
Di certo, l’assassinio del prefetto determinò un salto di qualità nella lotta alla mafia. Pochi giorni dopo il delitto fu approvata la legge che introduceva il reato di associazione mafiosa (cosiddetta Rognoni-La Torre), strumento fondamentale per l’inquadramento del fenomeno nel versante giudiziario. Inoltre, gli anni successivi videro alcune importanti innovazioni operative come la creazione, nel 1990, del Raggruppamento operativo speciale (ROS), ispirato al modello dei corpi speciali antiterrorismo degli anni Settanta. Infine, ma non meno importante, l’enorme impatto che ebbe sull’opinione pubblica la morte di Dalla Chiesa contribuì in maniera decisiva ad accrescere la consapevolezza collettiva della pericolosità della mafia – fino a quel momento riconosciuta soltanto a tratti nella società siciliana – e dunque a dar vita al moderno movimento antimafia.
Lo stato di servizio di Carlo Alberto Dalla Chiesa è il documento fondamentale per ricostruirne la carriera ed è custodito a Roma, presso l’Ufficio storico del Comando generale dell’Arma dei carabinieri. Un’utile selezione di documenti è quella curata da N. Dalla Chiesa, In nome del popolo italiano, Milano 1997. Tra i lavori pubblicistici di carattere generale: M. Nese - E. Serio, Il generale Dalla Chiesa, Roma 1982; Morte di un generale. L’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, la mafia, la droga, il potere politico, Milano 1982; A. Galli, Dalla Chiesa. Storia del generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia, Milano 2017. Con un’impostazione storiografica: A. Blando, La normale eccezionalità. La mafia, il banditismo, il terrorismo e ancora la mafia, in Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, 2016, n. 87, passim; Id., Dalla mafia al terrorismo e viceversa: il metodo Dalla Chiesa, in P. Dogliani - M.A. Matard-Bonucci, Democrazia insicura. Violenze, repressioni e Stato di diritto della storia della Repubblica (1945-1995), Roma 2017, passim; cfr. inoltre F. Carbone, Il discorso del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, in Rassegna dell'Arma dei Carabinieri, 2018, n. 2, pp. 137-164. Utile anche G. Boatti, L’Arma. I carabinieri da De Lorenzo a Mino, Milano 1978, passim. Sulla famiglia: A. Setti Carraro, Ricordi, Emanuela, Milano, 1983; N. Dalla Chiesa, Album di famiglia, Torino 2009; S. Dalla Chiesa, Un papà con gli alamari, Cinisello Balsamo 2017. Sugli studi: Archivio storico dell’Università di Bari, Certificati di laurea. Sul contrasto al banditismo in Sicilia: Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, IV, tomi 15, 16; C.A. Dalla Chiesa, Michele Navarra e la mafia del corleonese, a cura di F. Petruzzella, Palermo 1990. Sul contrasto alla mafia: Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Allegato alla relazione dell’on. Cattanei; ibid., Allegato alla relazione sulla indagine svolta in merito alle vicende connesse alla irreperibilità di Luciano Leggio; III, t. 2; IV, t. 10; S. Lupo, La mafia. Centosessant’anni di storia, Roma 2018, ad indicem. Sui soccorsi nel Belice: Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Gabinetto, Archivio Generale, anni 1967-1970, b. 254. Sul contrasto al terrorismo: Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, IX, XXVII, CVII; Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Audizioni; Archivio centrale dello Stato, Raccolte speciali, Direttiva Prodi, Sequestro e uccisione dell’on. Aldo Moro; ibid., Direttiva Renzi, Ministero della Difesa, Arma dei Carabinieri; Oriolo Romano (VT), Archivio Flamigni, Fondo Sergio Flamigni; Criminalizzazione della lotta di classe, Verona 1975, passim; P. Peci, Io, l’infame, a cura di G.B. Guerri, Milano, 1983, ad ind.; V. Morelli, Anni di piombo. Appunti di un generale dei carabinieri, Torino 1988, ad ind.; V. Rognoni, Intervista sul terrorismo, Roma-Bari, 1989, ad ind.; P. Nicotri, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. Il pentimento di Peci, il caso Moro e gli altri misteri degli anni ’80 nel racconto dell’agente segreto maresciallo Incandela, Venezia 1994; S. Girotto, Mi chiamavano Frate mitra. La prima autobiografia dell’uomo che è stato frate, guerrigliero, testimone contro le Br, Milano 2002, ad ind.; G. Armeni, La strategia vincente del generale Dalla Chiesa contro le brigate rosse e la mafia, Roma 2004; M. Ruggiero, Nei secoli fedele allo Stato. L’Arma, i piduisti, i golpisti, i brigatisti, le coperture eccellenti, gli anni di piombo nel racconto del generale Nicolò Bozzo, Genova 2006, ad ind.; G. Caselli, Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia, postfazione di M. Travaglio, Milano 2009, ad ind.; A. Spataro, Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di Segreti di Stato e di giustizia offesa, Roma-Bari 2010, ad ind.; M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano,Torino 2011, ad ind.; M. Mori, Ad alto rischio. La vita e le operazioni dell’uomo che ha arrestato Totò Riina, Milano 2011, ad ind.; A. Baravelli, Istituzioni e terrorismo negli anni Settanta, Roma 2016, ad ind.; F. Paterniti, Tutti gli uomini del generale. La storia inedita della lotta al terrorismo, Milano 2016, ad ind.; V. Satta, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo, Milano 2016, ad ind.. Sulla vicenda P2: Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, I, t. 4. Sull’ultimo periodo palermitano: Atti del procedimento penale a carico di Abbate + 474 (il 'maxiprocesso' di Palermo); Atti del procedimento penale a carico di Madonia + 5 (omicidio Dalla Chiesa); Atti del procedimento penale a carico di Giulio Andreotti; Atti del procedimento penale sull’omicidio Pecorelli; N. Dalla Chiesa, Delitto imperfetto. Il generale, la mafia, la società italiana, Milano 1984; L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano 1989.