Dante Alighieri
Scrittore e politico (Firenze 1265-Ravenna 1321). Nato in una famiglia della milizia cittadina da Bella e Alighiero di Bellincione, D.A. studiò ancora bambino grammatica, quindi filosofia, probabilmente presso le scuole degli ordini mendicanti e forse si formò anche a Bologna. Cominciò giovane a scambiare poesie con i maggiori poeti del suo tempo mentre assolveva ai doveri che comportavano la sua cittadinanza e il suo ceto sociale. Partecipò ad alcune spedizioni dell’esercito, in qualità di cavaliere, e al comitato di accoglienza di Carlo Martello, figlio maggiore di Carlo II d’Angiò nel 1294. Quando si mitigarono gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella che vietavano, tra le altre cose, la partecipazione alle magistrature più importanti a chiunque non fosse iscritto a un’arte, D.A., che aveva frequentato Brunetto Latini, notaio e cancelliere del Comune, condividendo con lui i valori politici del popolo, si iscrisse all’Arte dei medici e degli speziali, accedendo così a importanti consigli: il consiglio dei Cento, quello dei Trentasei del capitano e, nel 1300, il vertice del Comune, il priorato. A Firenze andava tuttavia intensificandosi la lotta tra le fazioni aristocratiche dei Bianchi (capeggiati dai Cerchi) e dei Neri (guidati dai Donati), i primi tendenti ad avvicinarsi al popolo e i secondi più interessati ad appoggiare Bonifacio VIII nei suoi tentativi di controllare Firenze. D.A., priore nel momento in cui lo scontro si era fatto particolarmente intenso, fu vicino ai Bianchi e sostenne la linea politica contraria alle mire del papa anche l’anno successivo. Per questa ragione, quando i Neri presero il sopravvento grazie all’arrivo delle truppe di Carlo di Valois, inviato dal papa, e, nel 1302, avviarono processi contro i precedenti rettori, D.A. fu accusato di malversazioni, bandito e condannato a morte in contumacia. Tra il 1302 e il 1304 D.A. rimase legato al gruppo degli esuli Bianchi a cui si erano uniti i ghibellini, e viaggiò in Toscana, a Forlì e a Verona, alla ricerca di alleati per poter rientrare a Firenze. Tentò anche la strada della pacificazione, che fallì come anche il rientro in forze nel 1304. D.A. abbandonò allora i Bianchi, fu forse a Parigi, probabilmente a Bologna, a Treviso, quindi in altre città della Marca trevigiana e poi di nuovo in Toscana dove soggiornò a Lucca. In questi anni mise mano a due trattati rimasti incompiuti, il Convivio e il De vulgari eloquentia, e iniziò la Commedia. Sulla scia dell’elezione di Enrico VII (1308), e del viaggio da questi intrapreso per l’incoronazione, scrisse alcune epistole in cui esortava i principi e i popoli d’Italia a sottomettersi e l’imperatore a punire i ribelli, e maturò la visione della storia che avrebbe esposto nella Commedia e nel De monarchia, secondo cui la Chiesa, usurpato – in seguito alla donazione di Costantino – il potere che l’impero aveva ricevuto da Dio per la cupidigia dei suoi pastori, aveva distrutto la pace degli uomini impedendo loro di realizzare il loro fine provvidenziale. Solo una monarchia universale avrebbe potuto ristabilire le condizioni perdute. Questa concezione non venne meno quando la morte di Enrico VII (1313) pose fine alle speranze che aveva suscitato. D.A. continuò a meditarla a Verona dove soggiornò dal 1312 al 1318 alla corte di Cangrande della Scala. Trascorse gli ultimi anni a Ravenna presso Guido Novello da Polenta.