Dante Alighieri
La mirabile costruzione della Comedia è l’esito del passaggio, attraverso le cosiddette opere minori, dal momento esistenziale e poetico della Vita nuova alla meditazione filosofica, etica e politica. Il nuovo nesso tra la poesia e la ‘sentenza’ era la nascita di una diversa coscienza filosofica e dottrinale, ma pure del conflitto tra l’amore per la sapienza e la memoria trasfigurata di Beatrice. Le opere minori, scritte anche con chiaro intento enciclopedico, avevano lo scopo di elaborare un sapere per i veri ‘nobili’ desiderosi di apprendere e stabilire, nella vita terrena, un ordine ‘civile’ e ‘politico’, instauratore della pace universale, in attesa di quella eterna promessa da Dio.
Dante (Durante) Alighieri nacque a Firenze, tra il 21 maggio e il 21 giugno del 1265, da un’antica famiglia guelfa. Sull’infanzia e l’adolescenza sappiamo poco. Il solo maestro di cui parlò sempre con sincero affetto fu Brunetto Latini, che gli insegnò ad apprendere «come l’uom si eterna». Anche l’evento decisivo della sua vicenda spirituale, l’incontro con Beatrice Portinari – ispiratrice della più elevata poesia d’amore, poi simbolo della sua ascesa speculativa e, infine, suprema guida del Paradiso – non è del tutto ricostruibile nei particolari. È certo invece che, tra il 1283 e il 1285, per un accordo di parentado, ebbe in sposa Gemma Donati.
Negli anni dedicati liberamente agli studi filosofici Dante strinse i primi rapporti con il poeta Guido Cavalcanti, personalità eminente della cultura fiorentina. L’11 giugno del 1289 combatté, come «feditore a cavallo», nella sanguinosa battaglia di Campaldino che pose fine al predominio ghibellino in Toscana. Ma partecipò pure alla vita gioiosa dei giovani nobili o ricchi borghesi e alle loro galanterie amorose. Era però già prossima la sciagura che sconvolse i suoi sogni poetici: l’8 giugno del 1290 Beatrice morì improvvisamente, e la scomparsa ferì per sempre l’animo di Dante, dedicato alla memoria di quell’amore poetico e alla sua trasfigurazione spirituale.
Nel luglio del 1295 erano stati temperati, a Firenze, gli Ordinamenti di giustizia che escludevano i ‘grandi’ dalle cariche pubbliche, ora riammessi se appartenenti a una delle arti. Iscrittosi all’arte dei medici e speziali, Dante iniziò la sua carriera politica nella parte guelfa, già divisa tra le fazioni dei Neri e dei Bianchi, nei quali militò. Membro dei vari Consigli, fin dall’inizio si mostrò del tutto contrario alle pericolose concessioni al papa, Bonifacio VIII, proposte dai Neri. Dalla fine di maggio alla fine di settembre del 1296, fu nel Consiglio dei Cento e approvò un procedimento per espellere dalla città e dal contado i banditi dal comune di Pistoia rifugiatisi a Firenze e usati dai ‘grandi’ per rinfocolare odii e conflitti. Purtroppo non è possibile ricostruire del tutto il comportamento politico di Dante, perché mancano le Consulte del primo semestre del 1297, e poi dal luglio del 1298 al febbraio del 1301. Nell’aprile del 1300 fu sventata una congiura dei ‘grandi’ per aprire le porte al papa. Il 14 giugno Dante fu uno dei nuovi priori eletti, in governo dal 16 giugno al 15 agosto. Lo stesso giorno, i priori inviarono al confino otto capi delle due fazioni, tra i quali anche il Cavalcanti, tenace sostenitore dei Bianchi. Il 27 giugno, al cardinale Matteo d’Acquasparta che aveva chiesto la balìa per pacificare Firenze, il Comune negò la concessione di quei poteri, provocando la drastica reazione di Bonifacio VIII che fece porre Firenze sotto interdetto (sett. 1300). Dante era stato il priore più deciso nel difendere i diritti e l’indipendenza del Comune.
L’anno successivo, durante le discussioni tenutesi nei vari Consigli (19 giugno) intorno alla richiesta dell’Acquasparta di rinnovare il servizio di cento soldati fiorentini in Maremma a sostegno del papa nella guerra per assicurare feudi ai nipoti Caetani, Dante espresse parere contrario. Quando i priori proposero di nuovo al Consiglio dei Cento di accettare la proposta papale, a condizione che il servizio finisse con il 1° settembre, l’Alighieri si oppose ancora allo sperpero di denari e di armi, ma nella votazione segreta la maggioranza (49 voti contro 32) scelse «per timore e reverenza del papa». Alla fine di settembre Carlo di Valois, incaricato dal papa di ‘pacificare’ la Toscana, era già vicino ai confini della regione con le sue soldatesche. Firenze inviò al papa un’ambasceria composta da Dante, Maso Minerbetti e Corazza Ubaldini. Partiti a metà ottobre, raggiunsero ad Anagni il papa che subito rinviò a Firenze il Minerbetti e l’Ubaldini, per rassicurare i governanti delle sue intenzioni pacifiche. Trattenne, invece, l’Alighieri. Il Valois aveva garantito che non avrebbe soppresso le magistrature cittadine e offeso le leggi, ma quando, il 1° novembre, entrò a Firenze, vi rientrarono pure i Neri banditi. Per alcuni giorni le loro bande dominarono nella città, bruciando le case dei Bianchi e uccidendo diversi loro capi. Il 7 novembre furono deposti i ‘priori Bianchi’ e, mentre ne erano eletti altri, scelti tra i Neri, i ‘grandi’ tornarono al governo con il podestà Cante de’ Gabrielli, che riaprì subito l’inchiesta sull’operato dei priori eletti negli anni 1300 e 1301. Venuto a conoscenza, durante il viaggio, della vittoria dei Neri e della citazione a comparire dinanzi al podestà per difendersi da accuse di cui gli storici hanno dimostrato l’inconsistenza, Dante non tornò a Firenze. Condannato in contumacia, non rivide mai più la sua città. Morì in esilio, a Ravenna, il 14 settembre 1321.
Al principio dell’attività politica, e prima degli eventi che mutarono radicalmente la sua vita, Dante non aveva interrotto la sua intensa attività di letterato, dedicata all’elaborazione della Vita nuova (1292-93 o 1295). L’opera, articolata in trentuno liriche, scritte in tempi diversi e connesse da un commento in prosa, fu l’inizio di un lunga storia personale e, insieme, altamente simbolica, il cui centro era l’esaltazione di Beatrice, creatura perfetta, ascesa alla suprema beatitudine del Paradiso. Però, il poeta era attratto anche dal nuovo amore nutrito per la «divina filosofia», in cui riconobbe l’«ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade» (Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, 1995, p. 2).
Nei venti anni del nuovo secolo che trascorse nelle diverse terre di esilio, Dante delineò e attuò l’immensa costruzione della Comedia; frattanto, volle predisporre lo strumento linguistico necessario per disciplinare e diffondere sia la nuova poetica, sia un sapere libero da ogni servitù e da affidare a una nuova ‘nobiltà’ che ne fosse degna. Nel De vulgari eloquentia (1303-1304; rimasto incompiuto), la sua conoscenza della dottrina biblica sull’origine e natura del linguaggio, e del concetto aristotelico del suo perenne mutare, servì per la ricerca di un volgare non municipale e illustre, non ristretto al dialetto. La vera lingua, liberata da ogni difetto, dalle pronunzie errate del contado e dalla rozzezza del parlare quotidiano, doveva essere «egregia, dirozzata, compiuta ed urbana», senza alcuna mescolanza. Se la gramatica era ancora il latino letterale, ormai immutabile, soprattutto nelle scuole, il nuovo sapere, coltivato da Dante, doveva essere diffuso dai dotti, eliminando la «selva spinosa» dei volgari. Certo, Dante sapeva che l’Italia, a differenza di altri Paesi, non aveva la corte del sovrano come centro di diffusione di un’unica sicura lingua. Ma era del tutto convinto che poteva essere illuminata dalla «luce della ragione», una grazia di Dio, concessa a quegli uomini di arte e di poesia capaci di attuare e diffondere un linguaggio «curiale e illustre». Non a caso, l’userà presto per un’opera di grande rilievo, il Convivio, alla quale affidò anche la difesa della sua fama di dotto e dell’onestà del suo operato. Non si fermò alla celebrazione del desiderio di conoscere, bensì, nel corso del secondo libro del Convivio, dette forma alla «loda» della Filosofia-Sapienza, che «veramente è donna di dolcezza, ornata di onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade»; e poi, nel terzo libro, avrebbe detto ancora che la filosofia era «signora» e «nobilissima» su tutte le scienze e che soltanto in essa si compieva l’indissolubile connubio dell’anima e della verità, nell’«amoroso uso di sapienza».
Richiamandosi ai grandi temi della filosofia peripatetica, Dante scrisse che la «fonte» del sapere era il principio unitario delle molteplici scienze, forme di un’unica, immutabile verità, sempre e solo in Dio, «somma sapienza, sommo amore». In effetti, due delle sue opere ‘minori’, il Convivio e il De monarchia, sono le prove che Dante non mutò le sue opinioni etiche e politiche, né abbandonò la ricerca del difficile ma necessario equilibrio tra le virtù del cittadino che, per la sua vita, esigeva una «città», retta dalla giustizia e ordinata secondo i principi della morale e della politica stabiliti dalla filosofia. Una «via» che aiutava gli uomini a raggiungere la salvezza eterna, dopo avere appreso a essere «civili» e «fedeli».
Nella prima sentenza contro i fiorentini di parte bianca, Dante era stato dichiarato contumace e condannato a pagare entro tre giorni 5000 fiorini piccoli, pena l’espropriazione dei beni, due anni di confino e l’esclusione perpetua da ogni officio. I condannati furono accusati di aver compiuto «baratterie», guadagni illeciti, estorsioni; furono inoltre incriminati per aver ricevuto denaro per l’elezione di magistrati e ufficiali del Comune, e per avere preso decisioni politiche ai danni dell’erario pubblico e contro il pontefice e il Valois, resistendo contro il suo arrivo e lo Stato ora detto ‘pacifico’ di Firenze e della parte guelfa. Non solo: fu aggiunta l’accusa di aver provocato la separazione di Pistoia da Firenze e ordinato l’espulsione dei Neri, «devoti fedeli della Santa Chiesa romana». Siro Chimenz, nella sua biografia dantesca, ha ben dimostrato l’inconsistenza dell’accusa nei confronti di Dante; e ha ricordato che nessuno si presentò al podestà per pagare e difendersi. Così Cante de’ Gabrielli, il 10 marzo 1302, emise un’altra sentenza che condannava Dante, con altri quattordici priori, «ut si […] in fortiam Comunis pervenerit […], igne comburatur sic quod moriatur» (Chimenz, D’Addario 1960, p. 403). L’Alighieri iniziò un lungo esilio, talvolta penoso, nelle città e nelle corti dell’Italia settentrionale. Non avrebbe mai accettato le condizioni imposte per permettergli di tornare nella sua patria, dove nemici di ogni genere volevano umiliarlo e costringerlo a riconoscere le sue false colpe.
Come gli altri Bianchi condannati all’esilio, anche Dante si unì ai ghibellini per tentare di rientrare a Firenze, con la guerra. Le biografie lo segnalano tra i Bianchi e i ghibellini che assicurarono agli Ubaldini il risarcimento degli eventuali danni subiti da loro per la guerra. Non si sa, invece, se partecipò ad altri combattimenti, nell’estate del 1302, e alla difesa della fortezza di Serravalle, espugnata a settembre da Moroello Malaspina, condottiero dei Neri: una sconfitta che fu la fine dei Bianchi. Sembra comunque certo che all’inizio del 1303 l’Alighieri fosse a Verona, per chiedere il soccorso di Bartolomeo della Scala. Poi, nel marzo del 1303 i Bianchi avanzarono nel Mugello, però il podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli, li costrinse a ritirarsi, lasciando sul campo molti caduti e prigionieri, alcuni subito impiccati. Dante era forse, però, già in rotta con i suoi compagni, dei quali disapprovava la condotta incerta e confusa della guerra.
Quando morì Bonifacio VIII (12 ott. 1303) e gli successe Benedetto XI – pio uomo di Chiesa, desideroso di ristabilire la pace –, i Bianchi sperarono di poter rientrare a Firenze. Il papa inviò come paciaro il cardinale Niccolò da Prato, che riuscì a stipulare una fallace pacificazione. L’Alighieri non figurò tra i rappresentanti dei Bianchi che parteciparono alle trattative. Del resto, i Neri, capeggiati da Corso Donati, scatenarono una sanguinosa guerriglia, misero a fuoco le case dei Cavalcanti e costrinsero il cardinale a fuggire da Firenze. Anche l’ultimo tentativo di pacificazione era fallito: il 20 luglio 1304 le milizie dei Bianchi furono sconfitte nella giornata della Lastra e il Donati poté esercitare, per qualche anno, il suo predominio.
Per quanto concerne Dante, non sappiamo con certezza dove fosse durante quegli eventi e quali fossero le ragioni che l’indussero a rompere i rapporti con i Bianchi fiorentini. Ma forse aveva ragione il Chimenz quando scrisse che «l’animosità dei Bianchi contro di lui [...] fu così violenta da volerne addirittura la morte, non meno dei Neri» (Chimenz, D’Addario 1960, p. 405). Certo, Dante era ben lontano dal condividere la rozzezza politica e la debolezza dei capi dei Bianchi. Né era disposto a mercanteggiare le sue convinzioni e a rinunziare all’insegnamento che, da dotto di lettere e di filosofia, ma estraneo alle istituzioni universitarie, voleva diffondere per chi aspirava alla vera «sapientia». Non a caso, in quel tempo drammatico, iniziò a comporre il Convivio, steso tra il 1304 e il 1307 (oppure – come proposto da Maria Corti – tra il 1303 e il 1308). Ma anche questo libro non andò oltre i primi quattro trattati dei quattordici progettati. Si trattava di uno scritto pensato forse nel momento più drammatico e nei primi tempi dell’esilio, proprio con l’intento di fornire un libero insegnamento di sapienza filosofica ed etica a un pubblico diverso da quello delle università: le ‘anime nobili’ che, essendo impegnate nel governo, negli affari e nei doveri della società civile, spesso restavano escluse dalla suprema perfezione umana, consistente nell’esercizio della virtù intellettiva.
Il primo trattato del Convivio presentava il libro come un’«allegoria», nella forma di un banchetto, le cui «vivande» erano quattordici «canzoni» e il «pane» il loro commento in volgare. Dante sapeva di non sedere alla «beata mensa» dove si mangiava il «pane delli angeli» (Convivio, cit., p. 3); e di non avere il diritto d’impartire il sapere, come l’avevano i filosofi e i teologi di professione. Si riteneva, però, degno di raccogliere le ‘briciole’ di quella mensa e d’imbandire un «convivio» per coloro che, pur desiderando il sapere, erano stati impediti da «ragioni» non colpevoli; e perciò erano meritevoli di fruirne. Per costoro il poeta aveva scritto i commenti letterali e allegorici delle canzoni, nella lingua propria della parte maggiore degli italiani; una scelta che confermava il valore del volgare, «sole nuovo» per chi era costretto nelle «tenebre dell’ignoranza». Invero, tutta l’argomentazione svolta nel Convivio presupponeva che l’autorità della filosofia (e di Aristotele, il «maestro di color che sanno»), fosse del tutto libera e sovrana nel suo dominio, e che a essa spettasse d’indicare la felicità raggiungibile in questa vita. La rivelazione divina insegnava che, al di là della breve esistenza, si poteva attendere un’infinita, eterna beatitudine, l’unica felicità «pura»; mentre, nell’ordine dell’esistenza terrena, l’uomo otteneva soltanto la perfezione della natura di un essere razionale. Ecco perché Dante si proponeva come l’umile guida che accompagnava i suoi simili nel gran «pelago» del sapere, un mare seminato di dubbi, oscurità e incertezze, ma che conduceva alla meta finale: la piena soddisfazione dell’«amore di sapienza». Chi viveva e operava nella città terrena, con «nobiltà» di spirito e d’intenzioni, imparava a operare per la pace e l’armonia civile, i soli principi che permettevano l’attuazione del destino umano, in questa o nell’altra vita.
Non a caso, in diversi passi del Convivio – specie, nel terzo trattato – Dante insisteva sul carattere divino della filosofia, la cui suprema perfezione era esaltata con parole affini al precetto peripatetico della superiorità della virtù speculativa e della beatitudine che ne derivava, ma che risultavano, talvolta, più prossime alle dottrine di Alberto Magno e ad alcune sue propensioni platoniche. Era pure evidente che la filosofia, «signora» e «nobilissima» fra tutte le scienze, era l’oggetto più degno di studio, per l’indissolubile matrimonio tra l’anima e la verità. Il tema della conversione del Sole nell’immagine sensibile di Dio – tipico della tradizione platonica e neoplatonica e dei testi dello pseudo Dionigi e del Liber de causis – era utilizzato per mostrare che, come il Sole illuminava e vivificava tutte le cose, dai corpi celesti a quelli elementali, così Dio, con la sua purissima luce, illuminava se stesso, poi le intelligenze celesti e, infine, tutte le creature intelligibili.
La prima fonte di tutto il sapere e la sapienza era in Dio, supremo amore, supremo atto; e, pertanto, la divina filosofia si trovava, in primo luogo, nell’essenza divina, alla quale era unita «come in un matrimonio eterno», mentre, nelle altre intelligenze, era presente solo per partecipazione in grado minore; ed era solo una «druda», nella cui bellezza si soddisfaceva il desiderio umano. Per Dante la ‘filosofia-sapienza’ era davvero la «sposa dell’imperatore del cielo» e, insieme, la sua ‘germana’ e la figlia più desiderata, secondo le parole del Cantico dei Cantici e dell’Ecclesiaste.
Dante scriveva che gli uomini non partecipavano sempre di questa divinità, bensì solo quando l’amore comunicava la sua serenità e il suo desiderio. Ormai soltanto alcuni uomini erano capaci di vivere non solo per i ‘sentimenti’, ma secondo la ragione che li innamorava della filosofia. Né il poeta-filosofo ignorava che la stessa natura umana, quando non era assorta nell’atto speculativo per soddisfare l’intelletto, doveva procurarsi le molte cose necessarie al proprio sostentamento. In sostanza, non si poteva dire che l’uomo, quando si dedicava alle necessità della vita, partecipasse della filosofia di cui possedeva solo l’«abito» e la «potenza». Se, talvolta, era stato «innamorato» della sapienza, altre volte non lo era stato; e ciò significava che la filosofia apparteneva in primo luogo a Dio, poi alle intelligenze separate (o angeliche) e, infine, all’intelligenza umana, sebbene in forma interrotta e discontinua. Si poteva, quindi, chiamare ‘amante della sapienza’ chi, pur non essendo sempre impegnato nell’atto di filosofare, ne possedeva l’abito, e considerava la filosofia sua ‘dama’ o ‘signora’. Non v’è alcun dubbio che la filosofia-sapienza, come la concepiva Dante, non poteva essere posseduta da un uomo in una forma così completa e perfetta da essere ritenuta la ‘seconda natura’, inseparabile dal suo oggetto. Quando era racchiusa nella limitata partecipazione degli uomini, la filosofia era insieme «imperfetta» e «perfetta», perché le sue ammirabili bellezze davano la felicità a chi la comprendeva, in qualsiasi situazione o momento, e lo inducevano a disprezzare i beni transitori e caduchi che non producevano una vera beatitudine, riducendo gli uomini a servi.
Comunque, l’amore era la «forma» e l’anima stessa della filosofia, così come la sapienza ne era il corpo. Con la stessa forma per cui il Sole illuminava tutte le cose terrene e le assimilava nella propria luce, Dio operava in modo che questo amore assomigliasse a Lui il massimo possibile. Perciò il poeta tornava a meditare sulla diffusione della virtù divina, per la via del raggio diretto e senza intermediari, nelle «intelligenze separate» o angeliche; e da queste, come per un riflesso, nella mente umana. Le citazioni dell’Ecclesiaste, dei Proverbi e del Vangelo di Giovanni confermavano che, per mezzo di quell’amore e dell’«oggetto eterno», la virtù divina discendeva negli uomini, come negli angeli, illuminando le anime nobili che, essendo razionali, libere e padrone di se stesse, potevano essere chiamate dame o signore.
La filosofia, pertanto, restava divinamente ordinata, non solo perché faceva comprendere le realtà più alte e inaccessibili, ma perché nascondeva un desiderio nato dalle «persuasioni» nelle quali si manifestava la sapienza eterna rivelata dietro un certo velo. Può sembrare che Dante si allontanasse dalla particolare riflessione di Alberto Magno, per avvicinarsi a quella di Tommaso d’Aquino, che cercava nelle verità filosofiche i preambula fidei e affermava il desiderio naturale della conoscenza. Si trattava di una conclusione che, in seguito, fu fermata dalla comparsa di un forte dubbio sulla possibilità che l’uomo potesse raggiungerla, sebbene fosse concorde con la propria condizione di creatura mortale e i limiti che imponeva. Ma – secondo il ragionamento del poeta – se l’uomo non riusciva a ottenere la felicità che costituiva la sua perfezione e il bene ultimo, il suo desiderio restava insoddisfatto, inutile e vano. Certo, talune verità, come quelle concernenti Dio, l’eternità e la «prima materia», superavano del tutto le capacità dell’intelletto umano che non poteva ‘vedere’ le prime due, per l’eccellenza sovrannaturale degli ‘oggetti’, e l’altra per la ‘bassezza’ della cosa. Ma Dante eliminava queste obiezioni con la certezza razionale che, in tutte le «forme», l’uomo poteva raggiungere in questa vita un ‘fine quasi perfetto’; e che l’uso pratico e quello speculativo dell’intelletto erano le due vie «espedite e dirittissime» (Convivio, cit., p. 404) per ottenere la felicità completa e perfetta nella vita futura. Il desiderio naturale rimaneva limitato dalla capacità di ciascuna cosa e dal suo luogo nell’ordine universale. Nel caso dell’uomo, il desiderio era proporzionale al sapere che trovava il suo posto in questa vita. Un sapere che, sebbene imperfetto rispetto alla vita celestiale, rispondeva con le sue capacità alla felicità di cui l’uomo poteva godere sulla Terra. Stabilito che non era possibile conoscere Dio, né le altre verità sovrannaturali, il desiderio di sapere e la felicità derivata non trasmettevano quelle conoscenze, per noi del tutto irraggiungibili, ma accessibili nella vita celeste.
Quest’argomentazione rivelava la ‘forma’ per cui, nel dibattito tra le diverse conclusioni dei più importanti interpreti di Aristotele, Dante si orientò, infine, verso le dottrine di Alberto Magno, il maestro che influì maggiormente sulla sua formazione filosofica e scientifica. Dietro un’interpretazione così completa e tortuosa del significato della filosofia per l’uomo e per la sua felicità, si celava l’intima dialettica del poeta, tra una passione filosofica che lo spingeva a esaltare la natura divina dell’intelletto e l’imperioso richiamo dei messaggi biblici ed evangelici di una religiosità volta alla suprema esperienza dell’amor Dei e alla ferma speranza di una beatitudine infinita.
Era questa la ragione della centralità del Convivio nell’itinerario intellettuale di Dante, e il suo carattere di straordinario esperimento, destinato a stabilire i presupposti filosofici, dottrinali e scientifici della Comedia. Ma se il Convivio costituisce – come è opinione comune – una sorta di pilastro nel difficile cammino della vita poetica di Dante, dalla sua giovinezza sino alla meta finale del poema, occorre una speciale attenzione alla struttura originaria del libro e ai temi proposti per dare forma al concetto di filosofia-sapienza. Le canzoni da commentare erano quattordici; e, pertanto, secondo un’esatta disposizione numerica, il libro doveva consistere in quattordici trattati, preceduti dal proemio. Ma il Convivio restò incompiuto e limitato al contenuto dei primi quattro trattati, al proemio, al commento delle canzoni “Voi ch’intendendo”, “Amor che ne la mente”, “Le dolci rime” che si occupavano, rispettivamente, della ragione e del fine dell’opera, di come, dopo la morte di Beatrice, nacque in Dante l’amore per la filosofia, presentato nelle forme liriche dell’amore per una dama «pietosa», della «loda» della filosofia, della perfezione e felicità che essa concede; e, infine, della ‘naturalezza’ e del significato della vera «nobiltà». Senza dubbio, il poeta elaborò, a grandi linee, un piano generale dell’opera, giacché, in alcuni passi, si indicano gli argomenti da spiegare nei trattati VII, XIV, XV.
Considerando il Convivio come si presenta ai lettori, potrebbe sembrare che l’autore lo ritenesse, alla fine, un libro che non meritava di essere completato e che era inutile divulgare; e, pertanto, anche nei quattro trattati giunti sino ai nostri giorni, si era verificato un mutamento di piano e, in parte, di attitudine. Infatti, in diverse occasioni, è stata sottolineata la notevole differenza non solo nella struttura, ma nella posizione dottrinale e nel linguaggio che distingue il quarto trattato dagli altri tre. Certamente tutti e quattro avevano in comune una ispirazione filosofica essenziale – che trasformò il ‘linguaggio d’amore’ in un ‘dibattito’ di carattere speculativo ed etico –, la fedeltà ai procedimenti di derivazione scolastica, la coerenza nella scelta dei temi profondamente connessi alle vicissitudini biografiche e spirituali del poeta. Tuttavia, dopo il proemio, il secondo e il terzo trattato formarono un unico blocco, costituito dalla narrazione e loda del nuovo amore che, dopo la morte di Beatrice, vincolarono Dante con la «bellissima e onestissima figlia dello Imperadore dell’universo» (Convivio, cit., p. 144).
Una buona parte degli studiosi ritiene, quindi, che i trattati costituiscano la continuazione della Vita nuova, dalla quale, oltre all’elemento formale del prosimetrum, ripresero, sul filo dell’allegoria, la narrazione di un’esperienza esistenziale dalla quale l’autore non intendeva regredire, giacché si trattava della propria storia personale, nel difficile e arduo cammino verso la perfezione. Se questi trattati rappresentano il passaggio dalla lirica di amore all’allegoria dottrinale, nel contesto di una nuova tensione filosofica, d’altro canto, proseguono svolgendo la loro trama nella ‘battaglia dei sospiri’, al centro del conflitto tra l’acceso desiderio di sapienza e il passato ricordo di Beatrice. In tal modo, al di là dei particolari contenuti filosofici e scientifici e dell’esaltazione della felicità speculativa, restano l’uso emblematico del linguaggio d’amore, il tema poetico della loda, l’orientamento verso forme la cui intensità lirica è evidente, e che, soprattutto nelle pagine del terzo trattato, trasfigurano il tono didattico della prosa. Al contrario, nel quarto trattato, il distacco dalla narrazione di amore è completo, senza differenza tra interpretazione letteraria e interpretazione allegorica della canzone. Tutto il trattato si svolge sotto il segno della teoria e nella forma di una quaestio scolastica, elaborata con il più rigoroso discorso dimostrativo e utilizzando procedimenti logici e metodi di discussione messi alla prova da più di un secolo di intenso lavoro scolastico. Così l’esposizione si estende sino a raddoppiare il volume del trattato che si suddivide, con grande precisione, in due parti, destinate rispettivamente a confutare le opinioni equivoche sulla nobiltà – e, in particolare, quelle attribuite a Federico II di Svevia – e a provare, invece, quelle proposte da Dante. Sicché l’argomento trattato assume un’evidente importanza etica e politica, mentre nei due precedenti si sviluppava il grande tema delle gerarchie celesti e della perfetta e armoniosa disposizione del mondo, riflesso nell’ordine delle arti e delle scienze.
Tutto ciò, connesso con la variazione quantitativa e qualitativa delle auctoritates citate e con il mutamento dei livelli formali (sintattico, stilistico, lessico), indusse la Corti a supporre una certa distanza cronologica tra il terzo e il quarto trattato. Tale distanza comportava importanti conseguenze, sia per quanto si riferiva alla storia interna del Convivio, sia per altre questioni connesse al carattere di un pensiero mai racchiuso nelle norme scolastiche, o sottoposto alla fedeltà esclusiva per un magister; e che, invece, si muoveva tra i suoi stessi dubbi e itinerari particolari. È però indiscutibile che, ripercorrendo il Convivio, si riconosce un mutamento d’interessi, attitudini e predisposizioni dottrinali, coincidente con il momento in cui ardeva il nuovo appello poetico e spirituale della Comedia. Ma, d’altro canto, si profilava anche il diretto intervento della Monarchia nelle grandi contese teologico-politiche del tempo. Non è casuale che il quarto trattato teorizzi la necessità di una monarchia unica e universale (o, come scrive Dante, di «un solo principato e un solo principe») e chiuda con la figura allegorica di Marcia, la sposa di Catone Uticense, elevata a simbolo di «anima nobile», nel suo passaggio per le diverse età della vita, sino al ritorno al «riposo» eterno di Dio.
Il Convivio, per la sua posizione centrale nell’esperienza di Dante, è stato oggetto di studio da parte dei più diversi interpreti, consapevoli che l’analisi delle fonti filosofiche e scientifiche di quel testo costituisce una via obbligata per la soluzione di alcuni problemi cruciali anche nell’esegesi della Comedia. Una tale indagine ha permesso di individuare almeno alcune delle principali direttrici della meditazione di Dante, anche se non sempre è dato di riconoscere con esattezza i testi e gli autori che il poeta avrebbe utilizzato per scrivere un’opera elaborata nelle condizioni più difficili per un uomo di studio, posto nell’impossibilità di attuare letture ampie e meditate. Come Giorgio Petrocchi (Vita di Dante, 1983) osserva giustamente, era impossibile che la biblioteca dell’Alighieri fosse molto vasta; quando, durante il tempo dell’esilio, la «povertà della persona» e i «continui mutamenti da un luogo all’altro» non gli permettevano di possedere più di «una dozzina di auctores», tra classici e cristiani, e un’epitome di storia e un’altra di geografia, o forse una sola storico-geografica; una collezione assai ristretta di poeti provenzali, francesi e italiani, forse le Rasós de trobar di Ramon Vidal e la Summa dictaminis di Guido Fava. Durante la sua dimora a Verona, presso Bartolomeo della Scala (probabilmente 1303-1304), e poi in altre città venete, Dante poté consultare alcune biblioteche. E anche a Lucca (1308) avrà avuto accesso alle opere conservate nelle sedi di importanti istituzioni ecclesiastiche e monastiche. Ma la frequentazione delle biblioteche ebbe, se mai, come scopo la verifica di «passi ed espressioni di autori che egli già conosceva» ed erano parte delle conoscenze acquisite, non solo durante i «trenta mesi» dei suoi primi studi filosofici, ma prima o dopo, durante le dispute nei circoli degli eruditi e negli studia conventuali (lo Studio domenicano di Santa Maria Novella e lo Studio francescano di Santa Croce).
Se si vuole ricostruire la formazione filosofica di Dante, la ricerca si complica ulteriormente per l’incertezza dei dati che egli ha lasciato e per l’impossibilità di derivare il suo pensiero, sempre ricco anche di critiche delle dottrine di maestri illustri, insegnanti a Firenze durante la sua gioventù. È riconosciuta l’influenza di Brunetto Latini, per il suo diretto dialogo con i classici e con la letteratura francese degli ultimi quarant’anni, e con un’opera come il Trésor, da considerare un precedente del Convivio.
Si può seguire inoltre un’altra pista che connette il pensiero di Dante a tradizioni e studi logici di notevole interesse per le loro conseguenze ‘semantiche’; e che – come ha detto la Corti – lo porrebbero in diretta relazione con i logici modistae. Ma, del resto, sarebbe necessaria un’indagine più profonda degli excerpta e delle sententiae che il poeta poneva come fondamento comune alle letture scolastiche, dalla Sacra Scrittura alla Consolatio philosophiae di Boezio, dalle Confessiones al De civitate Dei di Agostino, sino ai testi scolastici di dialettica e di retorica, inclusi quelli più celebri di Cicerone e Seneca, entrambi citati con notevole frequenza. Resterebbero ancora da investigare le ricompilazioni elaborate per gli usi nelle scuole e anche in ambienti ‘laici’, ma che, per la loro grande somiglianza, non sono individuabili sicuramente. Anche in quei testi che avevano caratteristiche enciclopediche e compilatorie, come le ‘enciclopedie naturali’ dell’epoca, emerge una parte considerevole della cultura di allora, usata dagli autori e commentatori più diffusi, in particolare, da quelli impegnati a divulgare fra i latini i fondamenti di quel sapere imposto in Occidente mediante la conoscenza del canone dei commentatori greci e orientali e anche dei documenti della scienza antica e del suo sviluppo nella cultura islamica. Tra costoro, uno dei più utilizzati era, senza dubbio, Alberto Magno, lo ‘scolastico’ più influente sull’evoluzione filosofica del Convivio.
È, comunque, evidente che l’individuazione effettiva del complesso di letture e testi conosciuti da Dante, mentre scriveva il Convivio, è un obiettivo non facile da raggiungere. Si può affermare che conosceva bene una parte notevole dell’opera di Aristotele, come mostrano le citazioni e i riferimenti a diverse sue opere. D’altro canto, non è sempre chiaro se usasse le versioni recenti dal greco, o si servisse di traduzioni più antiche, o si attenesse ai commenti più divulgati, e anche ai propri excerpta. Il testo aristotelico più adoprato fu quello dell’Ethica nichomachea. Ma talora il suo testo sembra deviare soprattutto dalla versione di Brunetto (da una traduzione latina) di una nota epitome araba, la Summa Alexandrinorum o Liber ethicorum, oppure da un testo incluso nella Expositio di Tommaso assai usata, o ancora dai commenti di Alberto Magno. Vari indizi inducono a ritenere che Dante poté accedere ai commenti albertini del De anima, al De Caelo, al De generatione et corruptione, ai Meteorologica, alla Physica, ai Libri de animalibus e ai Parva naturalia. Un altro testo che appare con frequenza nel Convivio è il Liber de causis, un’opera allora attribuita ad Aristotele, ma che, in realtà, deriva dall’Elementatio theologica di Proclo. Dante conosceva anche il De divinis nominibus e forse pure altri scritti dello pseudo Dionigi (le cui origini conducono alla stessa tradizione neoplatonica) che furono una fonte fondamentale del linguaggio mistico tardomedievale.
È meno frequente, invece, il ricorso ad altri commenti aristotelici di Tommaso. Nel Convivio si cita, inoltre, il Timeo di Platone, ma non si rivela una costante familiarità con quest’opera ben diffusa nella cultura medievale. È pure evidente che nel pensiero di Dante sono presenti temi e dottrine di origine platonica che, attraverso la mediazione di diversi autori (Agostino e Boezio, alcuni autori del 12° sec., ad esempio Alano di Lilla), giunsero sino ad Alberto Magno e allo stesso Aquinate. Né mancano le citazioni dei maggiori filosofi islamici, Averroè, al-Ghazzālī, Alpetragio e Avicenna: ma in quest’ultimo caso, come in quello di Averroè, l’influenza delle sue dottrine sembra più vasta di quanto possono indicare le citazioni particolari o può derivare dai commenti simili degli stessi intermediari scolastici.
Tra le opere degli autori scolastici occidentali, Dante cita il De regimine principum di Egidio Romano; e altri indizi inducono a ritenere che la probabile conoscenza di Ugo e Riccardo di San Vittore abbia suggerito alcune espressioni tipiche delle esperienze mistico-speculative medievali.
Per i libri di teologia, l’unica opera citata in modo esplicito è la Summa contra gentiles di Tommaso, mentre per la sua Summa theologica è difficile stabilire se Dante poteva averla letta; studiosi di valore hanno ritenuto più probabile il ricorso al De regimine principum e alla Summa di Guillaume Pérault. Per quanto concerne poi Sigieri di Brabante, glorificato nel Paradiso, è certo che l’Alighieri partecipava al tema della felicità speculativa, comune a Sigieri e ad Alberto Magno; ma non sappiamo se conoscesse il De intellectu e il Liber de felicitate.
Resterebbe ancora da stabilire quali fossero le fonti scientifiche usate nel Convivio, che però sono spesso derivate da compilazioni enciclopediche. Dante trasse le sue conoscenze astrologiche dal Liber de aggregatione scientie stellarum di Alfragano, oltre che dalla Sphera di Giovanni di Sacrobosco. Inoltre, l’interesse di Dante per la prospettiva e per la fisica e la metafisica della luce può indicare un possibile rapporto con Bartolomeo da Bologna, a sua volta influenzato da Roberto Grossatesta.
Queste citazioni mostrano quanto fosse complessa la formazione di Dante, soprattutto negli anni in cui, da libero studioso, iniziò a meditare sulle molteplici tradizioni del sapere filosofico del suo tempo. Ma altri studi hanno individuato nella cultura del poeta alcuni indizi che portano alle esperienze intellettuali del 12° secolo. Comunque, risulta ormai ben consolidata l’attitudine filosofica di Dante che fu una quête costante e aperta di quanto aveva elaborato la cultura alla quale apparteneva, consapevole della propria ‘missione’. Non c’è un solo momento della sua meditazione che non abbia avuto come fine, per il presente e per il futuro, l’‘umanità’ sofferente, decaduta e divisa con la quale doveva vivere, e il modello della ‘nobiltà’ e della ‘perfezione spirituale’ che ricorreva alla parola divina, ma anche agli insegnamenti degli antichi e dei massimi difensori della sapienza.
È assai probabile che la stesura del Convivio fu interrotta nel 1307-1308, gli anni nei quali Dante iniziò a sperare che l’ascesa al trono imperiale di Enrico VII di Lussemburgo segnasse l’avvento di un’epoca di pace e serena convivenza, e il ritorno di un’unica suprema potestà umana, capace di stabilire sicure norme di giustizia. Proprio nel quarto trattato del Convivio aveva affermato che il fondamento radicale dell’autorità imperiale consisteva nella «necessità della civiltà umana», orientata verso la «vita felice», condizione indispensabile affinché tutti gli uomini ottenessero il loro fine razionale. Né ignorava che quel «potere unico» fosse indispensabile per operare con l’imperativo di una «norma unica», ma più «alta» di qualsiasi interesse e volontà particolari; e, pertanto, capace di assicurare lo sviluppo comune di tutte le virtualità umane.
Gli eventi degli anni successivi, durante i quali il poeta si batté per la rigenerazione civile e religiosa dell’impero, lo confermarono nell’attribuire un valore assoluto alla sua convinzione. Espresse, infatti, come politico teorico, una forma di compromesso, articolata nella Monarchia: un’opera sul cui periodo di scrittura non c’è alcun accordo, sebbene certi indizi inducano a supporre che fu composta tra la primavera e l’estate del 1312.
Si tratta di un’opera di notevole struttura e coerenza teorica, con la quale Dante dette prova, più di qualsiasi altro, della sua cultura e capacità filosofica. Già nel proemio, insisté sull’originalità del suo tema, riferendosi alle «novità mai trattate da altri»; e precisando la sua intenzione di procedere, per mezzo di ragionamenti del tutto speculativi e dimostrativi, all’analisi di tre temi: 1) se l’impero universale sia necessario per il benessere del mondo; 2) se il popolo romano ha diritto ad attribuirsi l’«officio» imperiale; 3) se l’autorità imperiale derivi direttamente da Dio, oppure dal suo ministro o vicario, il papa. Ora, Dante non ignorava che, secondo il metodo aristotelico, nelle scienze che trattano delle cose operative, il procedimento deduttivo doveva procedere sino al ‘fine’, al quale mirava la stessa opera. Ciò significava che, per trattare della monarchia, era necessario verificare: 1) se essa esisteva; 2) qual era il fine autentico proprio di tutta la società umana, differente e distinto dai fini particolari che perseguono, nella vita terrena, il singolo individuo, la famiglia, la città, il regno.
Dante rispose subito alla seconda questione, affermando che quel fine era la «virtù intellettiva», ossia, la capacità di apprendere con l’«intelletto possibile», esclusiva dell’uomo, differenziato da ogni altra creatura inferiore o superiore. Però – e questa era la novità della Monarchia – tale possibilità poteva realizzarsi in forma parziale in ciascun individuo e in qualsiasi forma particolare di associazione umana. Solo il genere umano, nella sua totalità, poteva realizzarla, perché il suo fine specifico consisteva nella realizzazione di tutta la «potenza» dell’intelletto possibile, dapprima, mediante la conoscenza speculativa e, poi, con l’azione pratica. La fonte di questa dottrina – della quale si indicavano suggestivi antecedenti in determinati passi del Convivio – era stata indicata da Dante esplicitamente: il commento di Averroè al De anima di Aristotele. E ne deduceva un inevitabile corollario politico: perché il genere umano si trovasse in condizione da portare a termine la sua operazione, era necessario che vivesse «nel riposo e nella tranquillità della pace». Una condizione, questa, che si poteva ottenere solo se esisteva un unico principio di autorità e di legge, capace di assicurare l’ordine e la giustizia per tutti, ma al di là della volontà e dell’avidità di ciascuno.
Tale principio, unico e universale, era logicamente l’imperatore, la cui giurisdizione si estendeva per diritto a tutto l’orbe, e la cui libertà doveva essere estranea a ogni interesse e desiderio, ‘deviazioni’ che di solito corrompevano i giudizi umani. Difatti, solo l’esistenza di un unico impero e di un unico imperatore permetteva l’esercizio della vera libertà, coincidente con la determinazione della volontà, secondo la pura norma della ragione. Dante affermava che questa condizione non poteva contentarsi dell’ambito delle istituzioni particolari, i cui governi erano facilmente corruttibili; e, pertanto, le loro forme corrotte (tirannia, oligarchia, demagogia) impedivano all’uomo di raggiungere il suo fine, sottomettendolo all’arbitrio di volontà ‘pervertite’. L’unica forma capace di evitare tale calamità era il potere sovrano di una monarchia universale che obbligasse i governi e i poteri ‘minori’ a comportarsi con equanimità e rispetto della giustizia.
La dottrina averroista dell’«intelletto possibile unico» della specie umana – una dottrina spesso condannata – veniva ora proposta da Dante per un fine squisitamente politico che rivelava il suo costante proposito di trovare un rimedio alla crisi politica e istituzionale del suo tempo. Una situazione davvero dolorosa per il suo spirito di cittadino, di cristiano, di uomo colto e profondamente legato alla tradizione romana del diritto (della «ragione», come aveva già scritto nel Convivio). Nel «retto ordinamento politico», sotto la guida dell’«unico sovrano», l’uomo onorato e il cittadino giusto si identificavano, secondo un ragionamento di Aristotele accolto dal poeta con entusiasmo. Sino a questo punto, la Monarchia seguiva il corso di una pura argomentazione, bene affermata nella Politica, nell’Ethica e nel De anima (quest’ultimo nell’esegesi di Averroè). Però l’argomentazione sostenuta nel secondo libro, per dimostrare che l’esercizio della monarchia unica e universale corrispondeva, «per diritto», al popolo romano, era decisamente distinta. Dante conosceva, in modo chiarissimo, la situazione reale della sede suprema dell’impero: Roma, che serrava le sue porte in faccia ai «cesari tedeschi», o permetteva loro di essere «unti» e «incoronati» solo se rinunciavano esplicitamente al loro potere sulla città.
Le circostanze dell’incoronazione di Enrico VII erano lo sfondo di questa argomentazione che non nascondeva l’indignazione per l’usurpazione imposta all’autorità imperiale da parte dei «dominanti in Roma». Il poeta era, dunque, convinto – fondandosi su precisi argomenti giuridici e teologici – che l’elezione e la confermazione dell’imperatore rispondessero soltanto a Dio; e che i principi elettori dovessero limitarsi a compilare una ‘carta’ simile a quelle che venivano portate dai cardinali nel conclave per rivelare e proclamare una decisione divina.
Questa conclusione permetteva a Dante di riferirsi a quei passi del quarto trattato del Convivio, dove aveva indicato le ragioni provvidenziali che attribuivano al popolo romano il diritto di dominare e guidare gli altri popoli; e citando Ovidio, Lucano, Cicerone, Seneca, Boezio, e soprattutto Virgilio, si proclamava difensore della ‘sacra famiglia’, in funzione di guardiano della pace e baluardo della giustizia che difendeva Roma e il suo popolo. La quarta egloga di Virgilio era la verace rappresentazione dell’impero di Augusto, e, insieme, la profezia che l’Italia e Roma sarebbero tornate alla perfezione spirituale di quell’opera «aurea».
Ora, il concetto di ‘popolo romano’ non trovava, nella Monarchia, una definizione giuridica esatta per rispondere efficacemente alla dottrina della translatio Imperii, dai romani ai tedeschi. Ma era indubbio che, nella prospettiva dell’Alighieri, i concetti di ‘Roma’ e di ‘Italia’ tendessero a sovrapporsi, affermando la tacita supremazia su l’«Itala gente». In sostanza, Dante desiderava legare il nome di Roma al valore universale, immutabile ed eterno della ‘legge di giustizia e di pace’ di cui l’impero era il portatore. Né stupisce che attribuisse un rilievo particolare a un argomento di evidente carattere religioso che più tardi apparirà nella Comedia: l’autorità dell’imperatore romano fu riconosciuta e legittimata proprio dal Cristo, sia perché nacque sotto l’editto imperiale del censo, sia perché si sottomise volontariamente a una condanna a morte emanata in nome dell’imperatore di Roma. Se l’autorità imperiale non fosse stata legittima, la condanna del Cristo non avrebbe avuto il valore di un castigo legale, condizione necessaria per acquisire veramente il valore di espiazione del peccato originale. Se poi la giurisdizione imperiale non si fosse estesa legittimamente a tutti gli uomini, non avrebbe mantenuto il diritto di castigare il Redentore, per una colpa comune a tutta l’umanità. Così, Dante poteva proclamare, insieme, la funzione civile, umana e terrena della auctoritas romana e la sua legittima investitura divina, che le attribuiva un valore indiscutibile per tutti i «fedeli di Cristo».
La teoria dei primi due libri attuava il presupposto per il completo sviluppo del terzo libro, dedicato a combattere le dottrine ierocratiche e l’illecita pretesa che l’autorità imperiale derivasse e dipendesse dalla Chiesa e dal suo rappresentante in Terra: il pontefice romano. Come è noto, era una tesi che, pochi anni prima, era stata difesa tenacemente dai teorici papalisti come Egidio Romano, suscitando la reazione di molti teologi e giuristi. Tale tesi rappresentava, da anni, uno dei temi cruciali della disputa teologico-politica della prima metà del 14° sec., insieme al conflitto aperto tra il papato di Avignone, Enrico VII e Luigi di Baviera, alla stesura del Defensor pacis di Marsilio da Padova e delle opere politiche di Guglielmo di Occam. Dante dové, dunque, confrontarsi con una ricca letteratura scritta da polemisti e con argomenti affermati nella loro condizione di loci communes. Ebbene: la prima questione chiarita dal poeta fu la diversa responsabilità dei sostenitori della tesi ierocratica, con motivazioni e fini diversi. Il pontefice e molti «pastori» avevano aderito a essa per un erroneo eccesso di zelo, il cui unico fine era l’accrescimento dell’autorità spirituale della Chiesa. Era, invece, netta e radicale la condanna dei «politici» che utilizzavano questa dottrina in mala fede, come un comodo pretesto per respingere il giudizio di un’autorità suprema e universale; e pure dei decretalisti e canonisti curiali che se ne servivano per giustificare teoricamente le pretese dei pontefici, e pervertire la santa tradizione dei Padri e gli stessi principi della rivelazione. Costoro sostenevano la superiorità dei decreti pontifici, anche nei confronti della fonte più legittima della dottrina cristiana; e per questo Dante difendeva contro di loro l’assoluta supremazia della Sacra Scrittura e le decisioni dei primi concili ecumenici. Ma esistevano nemici più pericolosi: gli «infami» o astuti «politici», «falsi figli devoti della Chiesa», appartenenti alla stirpe di Satana, che compromettevano la maestà del papa in sordide contese mondane, degradando il potere spirituale a mero strumento di avidità.
Per confutare gli argomenti ‘in buona fede’, l’Alighieri utilizzava un pacato metodo razionale, mostrando la perfetta conoscenza delle dottrine ierocratiche. Tra gli argomenti avversari ne sceglieva nove tra i più importanti, divisi in tre gruppi: i due primi presentavano ragioni tolte dai due Testamenti, mentre il terzo includeva due argomenti canonistici e un altro ‘religioso’, considerato però come un semplice ‘indizio’. In questa forma, la confutazione iniziava con un argomento scritturale, costituito dall’applicazione analogica ai due poteri della relazione gerarchica, stabilita dalla Bibbia, tra il Sole e la Luna.
Si trattava di un tema tradizionale della dottrina ierocratica, usato da Innocenzo III e poi da Bonifacio VIII, che dedusse da questa analogia la subordinazione dell’impero (astro minore privo di luce propria, come la Luna) alla Chiesa (astro maggiore, luminoso con splendore proprio, o ‘autorità’, come il Sole). Non risultava nuova la confutazione proposta da Dante nella Monarchia: il ‘sentimento’ allegorico attribuito alle Scritture non aveva il valore di prova per l’esame teologico o teologico-politico. L’Alighieri negava che dall’immagine biblica della Luna si potesse dedurre la conclusione dei decretalisti; e non solo condannava chi aveva abusato del senso allegorico della Scrittura, ma negava che il sentimento biblico avesse quel valore metaforico. Faceva sua l’immagine dei due astri per dedurre che non si poteva parlare in assoluto di dipendenza tra la Luna e il Sole. Sosteneva che la Luna possedeva luce propria, indipendente da quella del Sole; e argomentava che, sebbene quell’astro dipendesse in certo modo dal Sole, perché si riferiva alla sua «virtù operativa», il suo essere non derivava per niente dall’altro. Pertanto, né l’essere, né la «virtù» dell’impero derivavano dalla Chiesa di Roma; da essa veniva bensì l’«abito» di operare con maggiore efficacia, per la «luce della grazia» che Dio le infonde dal cielo e la «benedizione» del sommo pontefice in Terra.
La conclusione era piuttosto moderata, perché riconosceva l’influenza benefica della benedizione papale; ma ciò non impediva a Dante di respingere con veemenza gli altri argomenti. Escludeva l’utilizzazione per le relazioni tra la Chiesa e l’impero di quel testo del Genesi ove si disputava della precedenza della nascita di Levi rispetto a quella di Giuda; rifiutava le deduzioni derivate da I Re, ove si disquisiva delle istituzioni e mutazioni dei sovrani operate con le mani del profeta Samuele; e, infine, negava ogni valore all’analogia tratta dalle offerte dei re magi.
Era ancora più interessante l’aperta condanna del diritto di «costituire» e «trasferire» l’impero che Bonifacio si era attribuito in quanto «vicario di Dio». Poi, dopo aver affermato l’impossibilità di attribuire al papa, in quanto vicario, l’intero potere divino, il poeta sosteneva che se nelle istituzioni umane l’autorità del vicario era equivalente a quella di chi la concedeva, ciò si opponeva, però, a un principio giuridico fondamentale: nessuno può dare quello che non possiede. Ne conseguiva che neppure l’imperatore, il quale otteneva il potere dal popolo romano, poteva trasferire integralmente al suo vicario l’autorità imperiale, che non era sua ‘in purezza’. Sicché era significativo il fatto che un argomento di evidente carattere ‘romanista’ fosse direttamente applicato al concetto di ‘vicario di Dio’.
Dante non poneva limiti rigidi al potere spirituale del papa, come fecero i più coerenti sostenitori della totale limitazione dell’autorità della Chiesa alla sfera del mondo spirituale. Non nascondeva, però, la sua preoccupazione di evitare che il papa si attribuisse un diritto «necessario» di intervento nelle questioni temporali, quando fosse violata la legge divina.
Il più importante degli argomenti storici e canonistici degli avversari era, senza alcun dubbio, la donazione di Costantino. Dante non discuteva sulla sua autenticità; ma, sebbene riconoscesse la pia intenzione dell’imperatore, considerava la donazione un’azione nefasta, che Costantino non poteva né doveva avere compiuto, perché lo trasformava in un infirmator (indebolitore) dell’impero. L’argomentazione del poeta seguiva un rigoroso ragionamento giuridico, per dimostrare sia l’‘incapacità’ di Costantino ad alienare l’impero, sia quella della Chiesa a riceverlo. Questa dimostrazione era inoltre arricchita da altre prove di carattere filosofico, come la digressione sul valore completamente autonomo dell’impero, difeso dalle rigide dottrine ierocratiche che lo negavano.
Secondo Dante, il «diritto umano» non solo era il fondamento indiscutibile dell’impero, bensì era ‘parallelo’ al fondamento della Chiesa, costituito da Cristo. L’azione di Costantino, che divise l’impero per consegnare l’Occidente al papa, contrastava totalmente con il ‘diritto umano’: e, pertanto, era del tutto illegittima e priva di valore. Del resto, la Chiesa e, di conseguenza, il papa erano costituzionalmente inadeguati a ricevere la donazione «in forma di possessione» perché Cristo, suo fondatore, le aveva proibito ogni tipo di ‘possessione’, con un precetto positivo. L’Alighieri – utilizzando un argomento che Pietro di Giovanni Olivi aveva contrapposto alle dottrine di Innocenzo IV, ma che poi fu usato spesso dai regalisti e dai difensori della povertà della Chiesa – applicò alla donazione la dottrina della povertà ecclesiastica formulata da Ugo di San Vittore. La Chiesa e il papa potevano accettare e ricevere beni materiali solo con il fine di ripartirli tra i «poveri di Cristo» e rispettando sempre i diritti del potere terreno, al quale competeva il patrocinio di quei beni. Il poeta trattava pure l’argomento del ‘trasferimento dell’impero’, sostenuto dagli scrittori ierocratici e discusso dalla propaganda politica degli anni 1311-14. Secondo Dante, questo argomento era privo di fondamento, perché il papa che incoronò Carlo Magno non esercitò alcun «diritto proprio», così come Ottone I non aveva usato un diritto proprio quando depose il papa Benedetto V per restituire nella sede romana Giovanni XII, eletto in forma non canonica. «L’usurpazione di un diritto non costituisce diritto» (Monarchia, III, XI, 2, a cura di P. Shaw, 2009, p. 426), scriveva a questo proposito, riducendo a una semplice usurpazione un argomento che era stato già dibattuto da Tolomeo di Lucca e Landolfo Colonna.
Fra gli argomenti strettamente filosofici risaltava quello della ‘riduzione del tutto all’unità’. Si trattava di un principio filosofico – elaborato da Aristotele, nella Metaphysica (libro X) – assai adoperato dagli scrittori ierocratici del 13° sec., in connessione con il principio dell’unità sacramentale della Chiesa. Ma Dante si manteneva in un ambito strettamente filosofico e procedeva con il metodo dialettico. Scriveva che il concetto di unità era assai valido di «per sé stesso»; però era un sofisma quando se ne deduceva la subordinazione dell’impero al papato:
il papa e l’imperatore sono quello che sono per certe relazioni, poiché il papato e l’impero, sono, il primo, nell’ambito della paternità, e l’altro, in quello della dominazione (Monarchia, III, XII, 6, cit., p. 427).
Questa affermazione permetteva di applicare alle due supreme potestà il principio della riduzione all’unità, introducendo, invece della subordinazione, la derivazione da un principio superiore che le unificava: Dio, fonte prima e assoluta di tutto il potere. Risultava, inoltre, evidente che la virtù dell’impero non derivava dalla Chiesa, perché esercitava la sua opera prima di quella della Chiesa e, pertanto, indipendentemente da essa. Per sostenere questa teoria, già esposta dai giuristi bolognesi del 12° sec., l’Alighieri ricorreva a numerose citazioni evangeliche per dimostrare la perfetta legittimità dell’impero prima della Chiesa; e agli argomenti di Egidio Romano – che difendeva la subordinazione all’autorità spirituale di ogni tipo di potere temporale, sia nella sua istituzione, sia nella sua azione – replicava che, se così fosse, si sarebbe obbligata la Chiesa a esercitare «sollecitudine e preoccupazione» per le cose mondane, vietate espressamente dalla Scrittura. D’altro canto, la Chiesa non ricevette la sua potestà temporale, né da Cristo, né da se stessa, né dall’imperatore, come dimostrava la nullità della donazione; e, ovviamente, neppure la ricevé dal «consenso degli uomini» che, nella loro maggioranza, rifiutavano di riconoscerla. Forse Cristo non rifiutò il potere temporale, dinanzi a Ponzio Pilato, quando disse: «Il mio regno non è di questo mondo»?
La soluzione proposta da Dante è celeberrima. Muove, infatti, dalla definizione filosofica della natura umana, come un composto risultante dall’unione dell’anima e del corpo, ossia di un elemento incorruttibile e di un altro corruttibile. Su questo fondamento veniva confermato il doppio fine che Dio ha assegnato agli uomini:
la felicità di questa vita, consistente nella realizzazione della propria virtù, è rappresentata nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, prefigurata nel paradiso celeste, consiste nella fruizione del divino, cui la virtù può elevarsi solo per l’aiuto della luce divina (Monarchia, III, XVI, 7, cit., pp. 434-35).
Di questa forma, Dante poteva distinguere chiaramente l’ambito terreno e mondano della «vita felice» (alla quale era destinata la «società umana», secondo il quarto trattato del Convivio) dalla prospettiva celestiale della «felicità eterna». Sebbene fosse certo che questa distinzione era stata accettata da Tommaso d’Aquino, occorreva riconoscere l’impegno del poeta per ampliare il motivo dialettico e svolgere la dottrina dei «due medi» necessari per raggiungere i «due fini», costituiti rispettivamente dai «documenti filosofici» e dai «documenti spirituali». Sia l’impero, sia la Chiesa erano «rimedi contro l’infermità del peccato», strumenti che la divina provvidenza aveva disposto per far fronte alla cupidigia degli uomini e perché essi si volgessero al retto cammino, smarrito dopo il peccato di Adamo. Senza dubbio, questo parallelismo fra le due autorità non implicava in assoluto l’attribuzione alla Chiesa del potere coercitivo, pertinente esclusivamente al potere secolare il cui fine era il mantenimento della pace e della libertà necessarie per ottenere la «felicità temporale». Se Dante celebrava la convergenza degli interessi tra la monarchia spirituale e la monarchia terrena, le due autorità, come le due «vie» o «medii», non diventavano meno indipendenti o autonome. Una cosa era, infatti, l’ambito dei «documenti filosofici» e della direttiva speculativa e pratica che conduceva alla perfezione di questo mondo, e un’altra era il dominio della verità rivelata che procurava la salvezza nell’altra vita. Giustamente, poiché entrambi i poteri possedevano autorità distinte e fini diversi, era necessario che – come accadeva per il pontefice – anche l’autorità imperiale derivasse direttamente e «senza alcun intermediario», il concetto di «potestà indiretta», sostenuto anche dai teologi papalisti moderati, e confermasse l’assoluta autonomia dell’impero e delle istituzioni civili e secolari dipendenti.
Questo concetto, insieme ai riferimenti espliciti alla dottrina di Averroè sull’«intelletto possibile», offrì gli argomenti per la condanna della Monarchia da parte dei curiali, che subito ritennero di identificare determinati nuclei eretici o eterodossi nella dottrina dell’opera. Gli studiosi moderni, sebbene abbiano insistito sui fondamenti aristotelici ‘radicali’ della Monarchia, confermandoli con gli antecedenti dottrinali del Convivio, hanno sottolineato che Dante mirava, soprattutto, a trasformare l’istinto naturale della ‘sociabilità’ nella tendenza a fondare lo Stato, concepito aristotelicamente. Ma hanno pure affermato che la natura umana, «vulnerata per il peccato originale», trovava in se stessa «il rimedio alle proprie ferite». Le premesse averroistiche del primo libro sarebbero il veritiero «principio direttivo d’investigazione» di tutto il trattato; però la sua successiva attenuazione indicherebbe un’evidente maturazione della riflessione del poeta, valutabile solo nell’ambito più ampio della sua esperienza. Bruno Nardi ha riconosciuto che la frase finale della Monarchia – ove si parla della «reverenza» che l’imperatore, in quanto «primogenito», deve al pontefice, come «padre», giacché la «felicità mortale» è ordinata a quella «immortale» – sembra ammorbidire l’autonomia dell’imperatore e allontanarsi dal primo atteggiamento del trattato, annunciando il cammino verso la nuova visione che sarà plasmata nella Comedia. Ma lo studioso ha parlato pure «se non proprio di una tardiva aggiunta», del tentativo di attenuare i toni proprio di chi, tornando sui suoi passi, era cosciente di essere passato oltre i limiti (B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, 1930, 19672, pp. 256-57). La «reverenza» aveva, dunque, un fine e un potere spirituale, che Dante riteneva necessari per il senso della vita umana; ma ciò non significava che dovesse abbandonare la difesa dell’«ordine civile» e della «felicità speculativa», ai quali tutti gli uomini avevano diritto per la loro natura dotata da Dio di «ragione».
Il poeta della Comedia non mancò mai di essere un filosofo, discepolo dei «peripatetici», studioso della natura e delle sue leggi, come mostrano molti canti e versi del poema. Per di più, il 20 gennaio del 1320, a Verona, in presenza di gran parte del clero cittadino, «determinò» la disputa quodlibetale incentrata su un tema allora molto discusso: il problema cosmologico delle relazioni reciproche tra le sfere dell’acqua e della terra. Era un argomento molto studiato da filosofi, astronomi e cosmologi e legato al problema dell’equilibrio reciproco tra solidi e liquidi, in particolare fra la terra e il mare, dibattuto dallo stesso Aristotele e, più tardi, dagli scienziati arabi e scolastici (Questio de aqua et terra, a cura di F. Mazzoni, in D. Alighieri, Opere minori, t. 2, 1979, pp. 693-880).
Dante riprese la tesi secondo la quale la terra abitabile era una gibbosità in forma di mezzaluna, emergente dalla sfera dell’acqua, nell’emisfero boreale. E, dunque, accettò un’interpretazione finalista di questa emergenza. Poi, lasciando da parte ogni interpretazione miracolosa, identificò la causa dell’emergenza della terra nel potente influsso delle stelle che, in questo emisfero, erano molto più «dense», seguendo le idee di Roberto l’Anglico, ma anche la posizione assunta da Averroè nel commento ai Meteorologica. Giustamente, questo testo è stato considerato un atto di coraggio. D’altro canto, la Quaestio era in evidente contrasto con la concezione cosmologica esposta nel canto XXXIV dell’Inferno, in relazione con la caduta di Satana; ed è la prova che Dante era del tutto cosciente della differenza tra un’idea ‘fantastica’ e l’intento di elaborare un’ipotesi scientifica. Soprattutto, per tutta la sua esperienza, non mancò mai di rivedere le sue idee, con la volontà appassionata di indagare nuove verità.
Il «filosofo minimo» – come si qualificò, nella fine della Quaestio – restò sempre fedele alla libertà intellettuale ispiratrice del suo lungo amore della sapienza, frutto della mente umana. E fu il raro caso di un eccelso poeta che volle unire la sua sublime capacità d’‘invenzione’ alla ricerca della verità del sapere e della libertà della ragione.
La più importante edizione di tutte le opere di Dante, ormai quasi compiuta e migliorata, anche per mezzo di nuove e più recenti edizioni, è quella promossa dalla Società dantesca italiana di Firenze e curata dai maggiori studiosi italiani e stranieri, di cui segnaliamo:
Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995.
Monarchia, ed. critica a cura di P. Shaw, Firenze 2009.
Un’altra serie di edizioni delle Opere minori è proposta da «La letteratura italiana. Storia e testi», 3 voll., Milano-Napoli 1979-1988.
S.A. Chimenz, A. D’Addario, Alighieri Dante, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol., Roma 1960, ad vocem.
É. Gilson, Dante et la philosophie, Paris 19723 (trad. it. Milano 1987).
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Dedico questa breve ricerca sulla filosofia di Dante a Kurt Flasch che ci ha donato, nella sua bella lingua, una mirabile interpretazione della Comedia e della ‘Sapienza’ del poeta.