darsana
Termine sanscr. (letteral. «visione») che indica ciascuna delle scuole filosofiche indiane. La loro classificazione e definizione è oggetto di discussione. In questa voce sono esposti i caratteri generali dei d. e la loro classificazione tradizionale, con un accenno agli aspetti problematici e ai dubbi che possono essere sollevati in merito.
I d. si articolano generalmente attorno a un testo radice (mū la) redatto in aforismi (sū tra) il cui autore tende ad assumere contorni mitici e che sono più o meno incomprensibili senza l’ausilio di un commento. Si può supporre che l’uso di comporre sū tra derivi da esigenze mnemotecniche e che il loro apprendimento fosse sempre legato a un commento orale, mentre i primi commenti (bhā ṣya) preservatici sono posteriori in media di alcuni secoli rispetto ai sū tra. In molti casi, i primi commenti diventano essi stessi parte integrante dell’interpretazione dei sū tra e ogni successivo commento prende in considerazione insieme i sū tra e il loro primo commento, o, quanto meno, i sū tra alla luce di tale primo commento. Il d. continua poi a evolversi per lo più attraverso commenti e subcommenti. Anche i trattati indipendenti, composti in generale a partire dall’8° sec., tendono a seguire comunque l’organizzazione dei sū tra. Ciò implica la tendenza a presentare ogni innovazione come già presente nei sū tra, i quali, per la loro stessa brevità, si prestano a interpretazioni ampliative. La proprietà intellettuale viene, in linea di massima, riferita alla scuola e non al singolo autore. Ciò spiega la tendenza anzidetta a evitare ogni originalità e ad ascrivere già ai sū tra ogni propria scoperta, come anche i riferimenti polemici o elogiativi ad altri d. molto più che a singoli loro esponenti. L’articolazione in testo radice e commenti ha esercitato una netta influenza, tanto che anche le scuole che non ne erano dotate hanno nel tempo individuato un proprio testo radice che svolgesse una funzione analoga a quella dei sū tra classici. Tale influenza non si è limitata all’ambito filosofico, ma ha coinvolto quasi ogni genere di speculazione, dalla teoria del teatro, all’estetica, alla grammatica.
La dossografia presente all’interno di un’opera dialettica buddista preservata soltanto in cinese e il cui titolo originale potrebbe essere stato Upā yahr̥daya o Prayogasā ra («Essenza dei metodi», presumibilmente del 4° sec.) elenca otto d.: buddismo, Yoga, Sā ṅkhya, Vaiś es̥ika, grammatica, giainismo, medicina e scienza sacrificale (forse equivalente a Mī mā ṃsā). La prima opera puramente dossografica indiana, lo Ṣaḍḍarś anasamuccaya («Compendio dei sei d.») del filosofo giainista Haribhadra (circa 8° sec.), elenca invece sei d.; oltre al giainismo e al buddismo, vi figurano Mī mā ṃsā, Nyā ya, Vaiś eṣika e Sā ṅkhya. Haribhadra tratta però anche del materialismo e contempla la possibilità che questo venga considerato come il sesto sistema e che Nyā ya e Vaiś eṣika costituiscano un unico darś ana. Infine, la più importante e influente opera dossografica indiana, il Sarvadarś anasaṅgraha di Sā yana Mā dhava (13°-14° sec.), elenca ben 14 d.; oltre ai sistemi già elencati da Haribhadra, vi figurano il materialismo, varie scuole del Vedā nta teista, alcune scuole scivaite, l’alchimia, la grammatica e l’Advaita-Vedā nta (descritto per ultimo perché secondo l’autore, egli stesso un advaita-vedā ntin, rappresenta la realtà assoluta di cui le realtà relative descritte negli altri d. offrono una raffigurazione fedele, ma parziale). Nonostante tali divergenze, sia in India sia (di conseguenza) in Occidente è invalso l’uso di elencare sei d. ortodossi, oltre ai d. cosiddetti eterodossi. I d. eterodossi, ossia che non riconoscono l’autorità del Veda, sono buddismo, giainismo e materialismo. I sei d. ortodossi, ossia che riconoscono l’autorità dei Veda, sono invece Mī mā ṃsā (anche detta Pū rva Mī mā ṃsā), Vedā nta (anche detto Uttara Mī mā ṃsā), Sā ṅkhya, Yoga, Nyā ya e Vaiś eṣika. Tale classificazione presuppone una divisione in tre coppie unite da metodologia e/o storia: Pū rva e Uttara Mī mā ṃsā (accomunate dall’occuparsi di esegesi vedica), Sā ṅkhya e Yoga (lo Yoga adotta integralmente l’ontologia del Sā ṅkhya e l’idea fondamentale di un’opposizione fra spirito – puruṣa – e natura – prakr̥ti), Vaiś eṣika e Nyā ya (accomunate dall’indagine razionale e che tendono a confluire in un unico d. perché si occupano di contenuti complementari, rispettivamente filosofia naturale e logica). D’altra parte, alcune di tali coppie tendono a stringersi (è il caso di Nyā ya e Vaiś eṣika), mentre altre a suddividersi ulteriormente (la Mī mā ṃsā si articola per es. in Bhāṭṭa e Prābhākara Mī mā ṃsā, il Vedā nta si divide in molte sottoscuole). Infine, l’aderenza a un d. spesso non implica fedeltà assoluta a esso sotto tutti i punti di vista. La diversa origine storica giustifica infatti la specializzazione di ogni d. in un certo ambito; è stato ed è perciò normale per un intellettuale indiano studiare più di un d. per imparare logica (mediante il Nyā ya), ontologia (con il Vaiś eṣika), esegesi (seguendo le regole della Mī mā ṃsā) e così via. Diversi autori hanno anche scritto opere afferenti a d. diversi a seconda dell’argomento cui volevano dedicarsi. A partire poi, per lo meno, da Vā caspati Miś ra (9° sec.), si incomincia a diffondere l’idea (cui abbiamo già accennato nel caso di Sāyana Mādhava) che i vari d. rappresentino varie prospettive di un’unica verità. Quest’idea è favorita soprattutto da esponenti delle scuole Vedā ntiche, i quali considerano il Vedā nta il culmine delle verità parziali rappresentate dagli altri Darś ana. È altresì probabile che tale tesi sia stata utilizzata più o meno consapevolmente per compattare la filosofia indiana in funzione difensiva rispetto alla minaccia culturale rappresentata prima dall’invasione islamica e successivamente dalla colonizzazione inglese.
Sul piano storico, sembra legittimo supporre (come prospettato inizialmente da E. Frauwallner, storico della filosofia indiana) che Sā ṅkhya e Vaiś eṣika, assieme al giainismo e ad alcune scuole buddiste, contengano elementi di una più antica corrente di filosofia naturale (caratterizzata dall’indagine sulla natura e dal non ricorso a Dio per giustificare le leggi naturali). Il Nyā ya si sarebbe invece sviluppato da una tradizione di dibattiti i cui primi antecedenti si trovano in testi di medicina (giacché proprio i medici si trovavano ad affrontare discussioni e a dover argomentare sulla base di sintomi e induzioni). La Mī mā ṃsā è certamente molto antica, ma la sua possibile assenza dalla lista presente nell’*Upā yahr̥daya potrebbe provare un suo ingresso più tardo nel panorama propriamente filosofico. Infine, il Vedā nta si configura come d. solo in un momento molto successivo. Prova ne è anche l’assenza di un commento unico di riferimento a quello che viene riconosciuto come il suo testo radice, il Brahmasū tra. Nell’India contemporanea, continuano a essere vitali soprattutto il Nyā ya-Vaiś eṣika (nella forma del Nā vya Nyā ya) e il Vedā nta e, soprattutto nelle loro applicazioni pratiche e rituali, lo Yoga e la Mī mā ṃsā.
Sebbene il termine d. sia stato utilizzato a partire dalla colonizzazione inglese dell’India come traduzione di «filosofia», tale equivalenza non sembra giustificata in modo univoco dai testi filosofici classici. Il termine d., infatti, seppur utilizzato fin da Bhartr̥hari per indicare un determinato sistema filosofico, non è l’unico vocabolo utilizzato a tale scopo, né ha necessariamente implicazioni metodologiche. Potrebbe pertanto essere accostato a «visione» nel senso di Weltanschauung e non nel senso della ϑεωϱία aristotelica. È assente infatti nelle autoriflessioni indiane sul senso della filosofia l’idea che essa non debba avere alcuno scopo ulteriore e anzi l’assunto generale è che ci si occupi di filosofia per raggiungere la felicità (variamente caratterizzata come felicità materiale nel caso dei materialisti, liberazione dal ciclo delle rinascite e così via).