DE LUCA, Giovanni Battista
Nacque a Venosa (prov. di Potenza) nel 1614, da Antonio ed Angela Giacullo. Nella famiglia si era già definita una propensione per la vita religiosa, l'attività intellettuale, le professioni, unita allo sforzo di costruire rapporti stabili con i grandi feudatari del territorio: inclinazioni tutte che il D., poi, perseguì con straordinario successo. A Venosa ricevette la prima istruzione: qui, nel 1626 apprendeva la grammatica. Nel 1628 o '29 iniziò lo studio delle istituzioni a Salerno sotto Salimbene da Siena, del quale apprezzò grandemente il metodo d'insegnamento, consistente nel far seguire alla dettatura della lezione ed alla sua illustrazione "su la cattedra in lingua latina parimente elegante e con frase nobile", una discussione "in circolo", con gli allievi, tdella medesima materia nella lingua italiana" (Stile legale, XVI, n. 5). Nel dicembre 1631 comunque era a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1635.
L'università non s'illustrava allora né per l'efficacia dei corsi, continuamente insidiati dalla vittoriosa concorrenza delle letture private, né per l'autorità dei maestri. Di essi il D. poi ricordò solo Ferdinando Arias de Mesa, titolare della cattedra vespertina di diritto civile. Proveniente da Salamanca, dove aveva insegnato diritto canonico, l'Arias sarebbe entrato a far parte del Sacro Regio Consiglio nel 1638: poteva dunque agevolmente incarnare agli occhi del D. un esempio del moderno giurista, civilista e canonista insieme, e fortemente orientato verso la pratica contemporanea. Degli altri suoi professori non fece mai menzione, e neppure di quel Giovanni Andrea Di Paolo, tanto stimato da Francesco D'Andrea, che a Napoli si adoperava negli stessi anni per diffondere gli indirizzi della scuola culta: un'omissione significativa, se si pensa alla diffidenza, se non proprio avversione, verso la giurisprudenza "elegante", che traspare da tutti i suoi scritti. Del resto, nelle opere del D., pubblicate molti anni più tardi, è frequente la polemica contro la trascuratezza con cui venivano impartiti gli insegnamenti giuridici.
Tuttavia, secondo il D., più delle degenerazioni invalse nell'apprendimento del diritto, erano i vizi profondi radicqtisi nella cultura giuridica ad esigere ripensamenti e modifiche. Occorreva ristabilire il rapporto della giurisprudenza con le umane lettere, con la storia e con la politica, ridefinire il suo ruolo nell'enciciopedia delle scienze, e soprattutto superare la grave scissione e quasi l'opposizione tra studio teorico e pratica del foro, tra professori e causidici. La realtà stessa degli ordinamenti era profondamente mutata nel corso dei tempi, e con essa il sistema delle fonti nell'età del tardo diritto comune. Il D. ne forniva un'analisi singolarmente lucida e penetrante, tra le più originali ed efficaci nell'Europa del maturo Seicento. Il primato del diritto romano era ormai tramontato, le fonti normative si erano complicate e moltiplicate, e cosi le materie maggiormente trattate nel foro, tra le più "alte" e le più "nobili", come le feudali e le giurisdizionali: "Et tamen nec unus quidem annus in scholastico et theorico studio adhiberi solet" (Theatrum, XV, p. I, 35, n. 9).
Convinto pertanto che "le leggi si mangiano e s'inghiottiscono nelle scuole, ma poi si digeriscono ne' tribunali" (Dottor volgare, Proemio, III, n.1), il D. si dedicò con impegno all'attività forense presso le principali corti napoletane.
Fu un'esperienza determinante nella sua formazione: da essa egli trasse non solo quella conoscenza approfondita della prassi giudiziaria e amministrativa del Regno, che emerge da tanta parte defle sue opere, ma il timbro stesso della sua - cultura, fortemente ispirata alla migliore tradizione meridionale, feudistica e giurisdizionalistica.
Il D. trascorse cinque anni nell'esercizio dell'avvocatura, ma poi, colpito da una grave forma di tisi, per la quale i medici gli pronosticavano una fine imminente, fu costretto a rientrare a Venosa, dove assunse la carica di vicario capitolare in sede vacante.
Date e circostanze di tale ufficio risultano tra le più confuse nelle lacunose memorie dei suoi biografi. Certo è che nel marzo 1639 risiedeva ancora a Napoli e che ricoprì l'incarico per un anno e mezzo. Poiché il nuovo vescovo di Venosa ebbe la nomina nel dicembre 1640, la sua dové cadere a mezzo il 1639. A invece da escludere che avvenisse già prima, nel 1634. Come pure infondata pare la notizia di violenti contrasti con il principe di Venosa, Niccolò Ludovisi, delle minacce di morte subite e della conseguente sua fuga dalla città. Qualche traccia della sua indipendenza traspare però da un cenno autobiografico contenuto nel Vescovo pratico (p. 438).
II D. fu quindi vicario generale sino al 1644, quando si trasferì a Roma, dove lo avevano occasionalmente condotto motivi di ufficio. Nel frattempo aveva preso gli ordini minori (l'ordinazione sacerdotale cadde invece nel 1676): nella numerazione dei fuochi della città di Venosa del 1641 risulta infatti già "clericus". Se la scelta della nuova sede e della carriera di avvocato e curiale, come sempre sostenne quasi a suggerire un intervento provvidenziale, non dipese da un preciso disegno, bensì dal caso, il sicuro inserimento ed i progressivi successi nell'ambiente romano ebbero un solido fondamento nelle importanti relazioni su cui poté contare fin dall'inizio e che moltiplicò via via.
Ancora studente, aveva conosciuto Nicola Herrera, allora nunzio apostolico a Napoli. Ben accetto tra i prelati meridionali, col tempo divenne "intimo" del cardinale Pier Luigi Carafa, mentre ad Innico Caracciolo riconobbe di dover tutto "circa moram, primosque progressus in Curia" (Theatrum, XIV, p. IV, n. 1).
Ma fu principalmente la protezione dei Ludovisi a favorire l'ingresso del D. nei circoli di maggior rilievo della corte papale. Già a Napoli era stato consultato dagli avvocati del principe Niccolò in occasione di una difficile controversia e, una volta a Roma, entrò al suo servizio come auditore. Divenne poi uno dei primi avvocati della famiglia, tra i quali fu pure monsignor Andosilla, che egli considerò suo maestro nella professione forense ed al quale succedette nel settembre 1658 come avvocato, a Roma, del re di Spagna.
Per qualche anno, comunque, indeciso se abbracciare l'avvocatura, restò tra i familiari dei principe Ludovisi, tuttavia approfondendo le proprie conoscenze sull'ordinamento giuridico, sull'amministrazione e sull'organizzazione politica e giudiziaria dello Stato ecclesiastico. Scrisse anche dei pareri legali, ma sotto altrui nome, poiché non riteneva ancora di poter difendere dinanzi ai tribunali romani e non ne aveva la veste formale. Soprattutto, prese a muovere i primi passi nel mondo difficile della Curia, dove gli interessi delle potenze si intrecciavano e si componevano con quelli di partiti e fazioni, con le pressioni di famiglie e di gruppi, secondo gli equilibri delicati e mutevoli di una corte al centro, al tempo stesso, di un principato territoriale e della Chiesa universale. Introdotto presso papa Pamphili dal principe Niccolò, che ne aveva sposato la nipote Costanza, poté entrare nella cerchia dei cardinali creature d'Innocenzo X. In seguito, ebbe modo di guadagnarsi il favore di Alessandro VII, mentre fin dagli inizi della professione, intrapresa nel 1648, aveva stretto rapporti con la Compagnia di Gesù.
Esercitò l'avvocatura per quasi trenta anni, divenendo in breve uno dei più celebri avvocati d'Italia, per aver trattato "tante cause gravi profane ... e forse le più alte e le migliori materie, particolarmente le giurisdizionali, o che in altro modo abbino qualche mistura del politico" (Dottor volgare, Proemio, XI, n. 3).
Purtroppo, quasi nulla sappiamo sull'organizzazione dello studio professionale di cui si avvalse nella sua attività, che fu comunque imponente: infatti, agli oltre duemilacinquecento pareri riuniti nel Theatrum, si devono aggiungere quelli, "senza dubbio di gran lunga eccedenti il doppio" (ibid.), che ne rimasero esclusi e dei quali alcuni sono individuati, o individuabili, in numerose biblioteche ed archivi. Occorrerebbe invece conoscere i tratti di tale organismo, sia per comprendere la tessitura dell'opera, da cui traspare l'intervento di aiuti, sia per ricostruire il profilo di un mondo forense che incideva sempre più fortemente sul modo di configurare il ruolo dei giuristi nella società e sulla loro stessa cultura. Nella generale decadenza delle università seicentesche, le sedi maggiori di elaborazione del sapere giuridico si spostavano presso i grandi tribunali ed i grandi avvocati; i loro studi diventavano centri di formazione e luoghi di dibattito anche teorico e politico. Quello dei D. fu fornito di una biblioteca ricchissima e fu frequentato non solo da copisti e da minutanti, ma anche da vari procuratori, alcuni oscuri, altri destinati al successo, dei quali ci restano solo i nomi di Ansaldo Ansaldi, Giacomo Conti, Giovanni Antonio Tomati, Ventura Venturucci, un Simbeni, Carlo Costanzo di Venosa, Niccolò Donato di Lucca e Nicola Falcone spoletino.
Nella mente del D. prendeva forma, frattanto, un programma scientifico d'ampio respiro, che si precisò ed affinò via via, i cui risultati s'impongono come uno dei più ambiziosi e suggestivi prodotti della cultura giuridica d'età moderna. Nel 1669, infatti, presso gli eredi Corbelletti di Roma, apparvero i primi cinque libri in folio del Theatrum veritatis et iustitiae, cui altri dieci seguirono, presso lo stesso editore, sino al 1673. Il quattordicesimo (Romae 1672) accoglieva come parte quinta le Adnotationes practicae ad S. Concilium Tridentinum, un commento limitato alle "materie forensi", che raggiunse grande autorità e fu più volte ristampato autonomamente. Nel quindicesimo (Romae 1673) era invece inserita la Relatio Romanae Curiae forensis: una descrizione e un'analisi insuperata dell'amministrazione centrale del principato ecclesiastico e della Chiesa, che lo stesso autore ampliò nel Supplementum del 1678. Quest'ultimo suddiviso secondo le partizioni adottate nei volumi precedenti, si componeva di quattro tomi: i primi due pubblicati nel 1677, il terzo e il quarto nel 1678 (Romae). In appendice al terzo compariva il trattato Conflictus legis et rationis, stampato già un anno prima e rivolto non solo a negare opinioni correnti tra i dottori, ma a contestare la stessa fondatezza di regole del diritto comune, non più attuali né "razionali". Nel 1680-1681 l'intera opera fu completata da due volumi d'indici, redatti dal Falcone. Essa ebbe numerose edizioni fino a metà Settecento, che rifusero il supplemento nei luoghi appropriati e riunirono altri scritti del D. pubblicati dopo il Theatrum. Alcuni editori vi inserirono anche decisioni della Rota romana e di corti meridionali e scritture di eminenti prelati e forensi, che ne ribadivano le conclusioni. Vi affiancarono inoltre due tomi di S. Rotae Romanae decisiones et Summorum Pontificum constitutiones recentissimae Theatrum veritatis et iustitiae Cardinalis De Luca eiusque tractatus ... amplectentes, confirmantes et laudantes e due di Mantissa decisionum ad Theatrum veritatis et iustitiae (per una delle migliori edizioni si veda quella di P. Baglioni, Venetiis 1716, i quindici libri del Theatrum e il sedicesimo d'Index;e Venetiis 1717, i due tomi ditrattati aggiuntivi ed i quattro didecisioni e costituzioni). Si fissava così un vasto corpo di giurisprudenza forense, fondato sulla prassi romana e, in minor misura, napoletana, rivolto a costituire un testo d'uso e d'autorità che sanciva un tratto caratteristico del sistema del tardo diritto comune, consistente nella funzione, dottrinale e normativa insieme, assunta dalle pronunce giudiziarie (in special modo della Rota romana) e dalla letteratura consiliare.
Appunto al genere delle raccolte di consilia, risalente nel tempo e particolarmente fortunato nel Sei e Settecento, sembra a prima vista appartenere il Theatrum. In realtà tutte le allegazioni ed i vota, indistintamente denominati discursus e quasi privi di citazioni di autorità - cosa che suscitò non poche riserve -, erano inseriti nella valutazione critica di un caso considerato esemplare, del quale si chiarivano sinteticamente circostanze di fatto, sviluppi ed interpretazioni giuridiche in conflitto tra loro. A partire dal libro XIV, inoltre, si infittivano le trattazioni puramente dottrinali. Interventi, aggiunte e rielaborazioni rendevano dunque chiaro l'intento di offrire una vera e propria enciclopedia giuridica, facilmente percorribile attraverso i sommari, accuratamente redatti come una sorta di massimario. l'utilità dei quali l'autore ebbe modo di sottolineare più volte. L'ordine stesso dell'opera, non sempre rigoroso, ma pure riconoscibile nelle grandi linee, e comunque definitivamente lontano dalle sistematiche romanistiche, esprimeva la novità della visione e del progetto. È vero che a smussare possibili attacchi il D. avvertì come nella distribuzione degli argomenti avesse "avuta, più gran parte il caso, che altro". V'era stato però anche "qualche motivo di ragione" (Dottor volgare, Proemio, XI, n. 3), illustrato con una certa ampiezza nel disc. 35, lib. XV, p. I del Theatrum.
Riassumendo il contenuto dei libri, l'autore precisava ripetutamente che esso era costituito dalle materie del tutto ignote al diritto romano, o comunque radicalmente mutate rispetto all'antica configurazione, ma che ricorrevano con frequenza e rilievo nella pratica contemporanea. Una pratica - occorre aggiungere - individuata soprattutto nella Rota romana ed in pochi altri tribunali maggiori. Su di essa si modellava l'impianto sistematico, che ordinava il materiale casistico e formulava principi guardando all'oggetto concreto dei rapporti - l'esercizio del potere, la gestione dei patrimoni, l'attività economica, il regime degli ecclesiastici, la conduzione dei processi - ed ai soggetti che ne erano i protagonisti, più che alle classificazioni logico-formali o alle simmetrie puramente tecniche. Ne derivava una prospettazione complessiva dell'ordinamento, lontana dalla tradizione romanistica quanto dalle frammentarie raccolte dei meri prati ci, che, restringendone in qualche misura i destinatari, tendeva a concepirlo più come una scala di relazioni di appartenenza, che come un'astratta concatenazione d'istituti.
Dopo la pubblicazione del Theatrum, il D. ridusse in modo sostanziale l'attività forense, limitandola alla sola stesura di pareri pro veritate. S'impegnò invece a fondo nel proseguimento di un'opera scientifica multiforme, che dalla precedente enciclopedia prendeva variamente le mosse ed i materiali. Una sintesi delle dottrine esposte in essa, depurata dagli elementi occasionali, fu appunto la Summa sive compendium Theatri veritatis et iustitiae, pubblicata a Roma nel 1679. Ma già in precedenza, nel 1673, era apparso Il dottor volgare (Roma), anch'esso in quindici libri, come il Theatrum, dal quale ripeteva l'ordine delle materie, aggiungendovi una parte criminalistica che mancava nel primo. Dedicato "alli Principi, et alle Republiche dell' ... Italia", esso è il primo "conipendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale, nelle cose più ricevute in pratica" - così recita il frontespizio - mai scritto in lingua italiana. Ed alla questione dell'uso del volgare nelle discipline scientifiche e nella giurisprudenza l'autore dedicava infatti, con modernità di accenti, il primo capitolo del Proemio, poi ritornandovi in due opuscoli.
Il primo, Dello stile legale (Roma 1674), si distendeva anche in un esame critico della realtà degli ordinamenti contemporanei e delle professioni giuridiche. Ebbe una traduzione in castigliano (Madrid 1784) ad opera di Diego Perez Mozún, il quale nel 1789 vi aggiunse un tomo riferito allo Estilo legal Matritense de los Supremos Consejos. Il secondo, Difesa della lingua italiana (Roma 1675), s'inscrive ancora più esplicitamente nella storia dei dibattiti sulla lingua, segnalandosi per il suo "vivo senso di concretezza" (Migliorini, p. 434).
Più sintetico e più compatto nell'ordine sistematico rispetto al Theatrum, il Dottor volgare costituiva una novità d'eccezione nel panorama culturale del tempo. Esso intanto fondava un lessico giuridico italiano - ed in proposito si vorrebbe sapere di più circa la revisione linguistica svolta sulle opere del D. dal socio di Arcadia Andrea Peschiulli. Poi fissava un'immagine dell'ordinamento più mossa e realistica rispetto alla tradizione ormai stanca delle scuole romanistiche. Infine, affermava una visione della giurisprudenza non come scienza di veri, bensì come arte del "iprobabile" e del "praticabile", fondata sulla ricognizione di luoghi e di circostanze, perché profondamente convinta della relatività delle norme nello spazio e nel tempo, rivolta ad un largo pubblico di amministratori e di governanti, di "principi, signori e magistrati". Un'arte, dunque, nutrita di sensibilità storica e politica, fornita di un rinnovato e solido impianto teorico e dottrinale, orientata sulla "pratica" e ad essa diretta, secondo un'ispirazione non di rado percorsa da venature scettiche, che sottolineava il valore scientifico dell'esperienza, l'irrinunciabilità del momento operativo, il rilievo metodologico del probabilismo.
Negli anni successivi, altri scritti in lingua italiana si aggiunsero alla produzione del D., che affrontarono in termini strettamente giuridici anche temi tipici della trattatistica nobiliare, nella versione ch'essa doveva assumere per una élite non più feudale, ma cortigiana, citiadina e cosmopolitica, integrata con la gerarchia ecclesiastica, quale era quella di Roma. Infatti, oltre al caratteristico manualetto Del giuoco dell'ombre (Roma 1674), dedicato a illustrare le regole d'un gioco di carte spagnolo assai in voga nell'alta società, ancora a Roma nel 1675 (ma era stato scritto l'anno prima) apparve Ilcavaliere e la dama, che rinverdiva il genere collaudato ed antico dell'"economica", introducendovi non pochi elementi di novità, soprattutto con l'energica fivendicazione alla giurisprudenza, e agli stessi precetti per il vivere quotidiano di un gentiluomo, di un decisivo rilievo per il "governo civile e politico" della cosa.pubblica (fu fatta una traduzione in francese, Lyon 1680).
Assieme ad un progettato, ma non realizzato trattato "Dell'uomo d'ogni stato" (Religioso pratico, pp. 5 e 211), l'opera intendeva offrire un disegno compiuto, sotto il profilo giuridico e istituzionale, della società romana e dei suoi gruppi dirigenti, integrando la descrizione e l'analisi che contemporaneamente l'autore conduceva dell'organizzazione ecclesiastica.
Seguirono infatti, tutti stampati a Roma, nel 1675 Ilvescovo pratico, composto l'anno precedente; nel 1679 Ilreligioso pratico, scritto nel 1676; infine, nel 1680 Il cardinale della S. R. Chiesa pratico, risalente al 1675, e Ilprincipe cristiano pratico, risalente anch'esso al 1675, ma rivisto nel 1679.
Quest'ultimo, in particolare, si collegava con un'attenta riflessione sulla natura dello Stato ecclesiastico, capace di coglierne con lucidità i problemi interni, la singolarità e l'anomalia, ma anche le potenzialità come modello "moderno" di compagine statuale. La sua redazione fu accompagnata dalla stesura di alcune scritture inedite (la prima è del 1677, l'ultima del 1680), in cui è affrontato direttamente il tema del duplice profilo della sovranità papale e delle sue conseguenze sulla vita concreta dello Stato: Qual sia il più vero e il più legittimo titolo del Principato temporale del Papa (Bibl. apost. Vaticana, Ottob. lat. 1945, cc. 138-161); Del concorso di più persone formali diverse che si verifica nella persona materiale del papa: di vescovo universale della Chiesa cattolica, di vescovo particolare di Roma, e di principe temporale dello Stato ecclesiastico (ibid., cc. 182-189); Della nemicitia tra la Corte e il Principato (Ibid., Vat. lat. 8194, cc. 234-242).
Nel frattempo, un decisivo mutamento si era determinato nella biografia del De Luca.Asceso al soglio col nome d'Innocenzo XI, nel.settembre 1676, Benedetto Odescalchi lo aveva subito nominato auditore e segretario dei memoriali, facendone uno dei suoi più stretti collaboratori. Le cronache della capitale e i dispacci inviati dagli agenti in Roma alle principali corti italiane ed europee consentono di seguire dettagliatamente, quasi giorno per giorno, la sua intensa attività politica, attraverso il mutevole gioco degli schieramenti, il continuo scomporsi e ricomporsi di partiti e fazioni, in una fase delicata e difficile di riordino e di riorganizzazione della Chiesa di Roma.
Il grave dissesto delle finanze, che Innocenzo aveva ereditato dai precedenti pontificati, imponeva un'opera rigorosa ed energica di restrizioni e riforme. Per alcuni anni, il D. fu il più sicuro interprete, consigliere ed esecutore dell'azione papale, recandovi il segno di una visione ampia ed organica, al tempo stesso politica e giuridico-amministrativa, dei problemi del principato ecclesiastico. Alle sue iniziative, infatti, non fece mai mancare il sostegno di progetti e memoriali, non tutti recuperati finora, o di veri e propri trattati scientifici, tesi a definire principi e contorni di strutture nevralgiche e tuttavia ancor fluide dell'ordinamento.
Le linee essenziali del suo operare si concentrarono su questioni di politica interna, con una impetuosità che, unita alle asprezze del carattere, gli procurò molte inimicizie e la fama diffusa tra i contemporanei di uomo altezzoso e superbo. I suoi rapporti in Curia non furono facili. Riuscì a concentrare su di sé gli affari importanti, emarginando lo stesso segretario di Stato, Alderano Cibo, ma non poté evitare l'ostilità, sempre più aperta, dell'altro fiduciario del papa, il segretario della cifra Agostino Favoriti. A partire dal 1679, la profonda rivalità tra di loro venne assumendo i caratteri di un duello mortale, dietro il quale si profilavano concezioni molto distanti sul ruolo politico del Papato, la funzione della Chiesa, il sentimento religioso.
Inserito dal papa nelle principali congregazioni ordinarie e straordinarie dedicate a temi di riforma, il D. fu l'ispiratore di numerosi provvedimenti tecnici su aspetti giuridici particolari, dei quali si trovano notizie sparse nel supplemento al Theatrum. Ma oltre agli interventi sui problemi dei tribunali, della disciplina del clero, dell'annona, della moneta, che gli attirarono odi e persino satire e pasquinate, lo impegnarono soprattutto i grandi temi di una riforma amministrativa, concepita come costruzione di una figura nuova dello Stato e come opera di risanamento sia morale e sociale, sia economico e finanziario. Essa doveva condurre ad un riequilibrio nella natura bifronte del principato, con una più chiara distinzione della sfera temporale dalla spirituale ed una maggiore autonomia della prima, attraverso una riorganizzazione degli uffici centrali ed una radicale soluzione delle questioni immunitarie e giurisdizionali.
Le linee di un tale disegno appaiono nitide. Fin dal 1677 aveva confortato le intenzioni d'Innocenzo XI di giungere all'abolizione dell'istituto del cardinal nepote, promuovendo per questa via una razionalizzazione e modernizzazione della segreteria di Stato, che di fatto si stava attuando. Nel 1678 preparò anche una bozza di bolla in proposito (Bibl. ap. Vaticana, Vat. lat. 13422, cc. 537-552), che però non venne promulgata, per la fermissima opposizione dei cardinali. Maggior successo ebbe invece l'abolizione del Collegio dei segretari apostolici, decretata nel 1678, cui seguì tuttavia una lunga causa in Rota circa il rimborso della Camera ai titolari. Compose in quella occasione (1681) un Tractatus de officiis venalibus vacabilibus Romanae Curiae ... cui accedit altertractatus de locis Montium non vacabilium Urbis, stampato a Roma nel 1682, che poneva ordine in una materia scottante non solo per Roma, ma per tutti gli Stati d'ancien régime.
Tuttavia il terreno più intricato e più scivoloso sul quale poté misurare tutta la forza e la determinazione del partito avverso ad ogni trasformazione in senso "laico" dello Stato, che ne affermasse solidamente la sovranità, fu certo quello delle "franchigie", delle "immunità", godute dai rappresentanti delle potenze straniere, dai "patentati" dei più vari uffici, dagli ecclesiastici in genere. Ancora nel 1677. fu incaricato di apprestare rimedi dal papa, al quale premevano soprattutto gli aspetti finanziari del problema. Nel D. traspare invece una coscienza più profonda dei rilievi istituzionali e costituzionali derivanti da una drastica limitazione, o comunque da una regolamentazione, del regime privilegiato in vigore. Nello stesso anno scrisse una Vaticana lucubratio de oratoribus, vulgo ambasciatoribus principum (Bibl. ap. Vaticana, Ottob. lat. 1945, cc. 1-121), che forniva un limpido sfondo teorico per la definizione di controversie e frizioni, frequenti a Roma assai prima che si avvertisse altrove l'urgenza di stabilire moderne regole di diritto internazionale. Nel 1680, inoltre, preparò una serie di scritture per il riordino dei patentati ecclesiastici, in particolare del S. Officio (si conservano in parte: Arch. segr. Vaticano, Fondo Carpegna, vol.167, cc. 2-8, 57 s., 235-239, 242 ss., 246-250), che gli valsero una denunzia al pontefice ed una persecuzione da parte della congregazione, dalla quale si salvò con difficoltà. Del resto non per caso a sette anni dalla morte, nel 1690, la congregazione dell'Indice avviòuna procedura di esame su parecchi libri del Theatrum, conclusa con un nulla di fatto, ma dettata comunque dal diffuso sospetto per le dottrine professate in materia di giurisdizione e di immunità ecclesiastica (Roma, Bibl. Casanatense, Mss. Cas. 306, cc. 314 ss.).
Congruente con la sua formazione e con l'immagine dello Stato che coltivava, più che con valutazioni d'ordine diplomatico o di politica internazionale fu anche il crescente intervento del D. nei contrasti tra la S. Sede e la Francia per l'"affaire de la régale". Anche qui era in gioco il rapporto tra il principio monarchico, la sovranità statuale, e il potere temporale del papa. E il D. apparve sin troppo duttile nel difendere quest'ultimo contro le pretese regie, in una vicenda che vide inestricabilmente annodarsi intrighi di Curia e posizioni di principio, azioni diplomatiche e pressioni ideologiche, insieme con i dibattiti di teologia e di diritto canonico, che chiamavano a raccolta gallicani, giansenisti e teorici del primato romano.
Legatissimo ai gesuiti e a Cristina di Svezia, di cui frequentò assiduamente l'accademia e i privati incontri, vicino ai cardinali dello "squadrone volante", il D. mantenne comunque una spiccata indipendenza rispetto al partito filospagnolo di Curia, tanto da apparire come uno degli interlocutori più affidabili per la Francia durante la lunga crisi che la oppose al Papato. Le numerose scritture redatte come membro della congregazione istituita nel 1678 (Arch. segr. Vaticano, Miscell., Arm. I, vol. 51, cc. 131-142 e 323-384; Bibl. ap. Vaticana, Ottob. lat. 989, cc. 1-240; Ibid., Vat. lat. 10855, cc. 276-354; Ibid., Vat. lat. 13422, cc. 117-144) appannarono la sua immagine e il suo stesso ascendente presso Innocenzo XI per l'eccessivo spazio concesso alle ragioni avverse e per le venature non lievi di giurisdizionalismo anticuriale.
Benché elevato alla porpora nel settembre 1681 e liberato del suo principale nemico, Agostino Favoriti, scomparso nel 1682, gli ultimi anni lo videro declinare per influenza e potere. Morì il 5 febbr. 1683 a Roma, lasciando erede dei beni il pontefice e legando la biblioteca con i manoscritti al cardinale Benedetto Pamphilj (Roma, Arch. Doria-Pamphilj, scaff. I, b. 10, 19 genn. 1683), che gli fece erigere in seguito un sontuoso monumento sepolcrale nella chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani.
Nel 1768 la biblioteca ed i manoscritti passarono, per una transazione, dai Doria ai Colonna, nella cui casa se ne perdono poi le tracce. Postumi apparvero, nel 1684 a Roma, i Commentaria ad constitutionem Innocentii XI, de statutariis successionibus, uniti con un trattato De pensionibus ecclesiasticis, ad ornatum constitutionis eiusdem Pontificis. Nel 1733 Sebastiano Simbeni pubblicò a Pesaro, rimaneggiandola e integrandola con un libro quarto sulla base di appunti, l'Istituta civile, un corso romanistico in lingua italiana, di cui era entrato in possesso attraverso lo zio.
Fonti e Bibl.: La fonte essenziale per ricostruire buona parte della biografia è costituita dalle scarne notizie sparse nelle sue opere, in ispecie nel Theatrum. Per l'attività politica come collaboratore d'Innocenzo XI, testimoniata diffusamente dagli Avvisi contemporanei (ampie collezioni si conservano presso la Bibl. naz. di Roma e l'Arch. segr. Vaticano), e soprattutto dai dispacci provenienti da Roma per varie corti, risultano di particolare rilievo le serie: Parigi, Ministère des Affaires etrangères, Arch. diplomatique, Correspondance politique, Rome, tt. 246 ss.; Vienna, Haus, Hofund Staats-Archiv, Rom, Korrespondenz, K. 59 ss.; Archivio di Stato di Venezia, Senato III (Secreta), Dispacci degli ambasciatori a Roma, filze 186 ss. Dei numerosi articoli di dizionari, il più preciso resta L. Giustiffiani, Mem. istor. degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli 1787, II, pp. 188-95. Inutilizzabile invece è la monografia di D. Rapolla, Del cardinale G. B. D., Portici 1899; come pure fuorviante e non privo di serie sviste è A. Zanotti, Cultura giuridica del Seicento e "ius publicum ecclesiasticum" nell'opera del cardinal G. B. D., Milano 1983, che in appendice (pp. 141 ss.) pubblica un inedito sulla regalia di Francia, tratto dal cod. Vat. lat. 13422. Per la nomina ad avvocato del re di Spagna, cfr. Madrid, Archivo de Asuntos de Ministerio de Esteros, Archivode la Embajada de España cerca de la Santa Sede, leg. 63, est. 1658; per la data di elevazione al cardinalato e la data di morte, cfr. R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica, V, Patavii 1952, p. 11. Il testamento si conserva a Roma, Arch. Doria Pamphilj, scaff. 1, b. 10, 19 genn. 1683; per la notizia del passaggio ai Colonna della biblioteca, cfr. nello stesso Arch., fasc. sciolto; G. Azzuni, Relazione della libreria dell'Ecc.ma Casa Doria Pamphilj, 10 apr. 1876. Brevi cenni si leggono in L. von Pastor, Storia dei papi, XIV, Roma 1962, 1, p. 362; 2, pp. 16 s., 300; e, con riferimento al suo intervento nelle contese tra la S. Sede e la Francia, in M. Dubruel, Enplein conflit. Etude des archives romaines, Paris 1927 (il quale pubblica, pp. 76 ss., parti dell'inedito sulla regalia di Francia dell'Ottob. lat. 989); B. Neveu, Sébastien Joseph du Cambout de Pontchâteau (1634-1690) et ses missions à Rome, Paris 1968, ad Indicem;P. Blet, Le assemblées du clergé et Louis XIV (1670-1693), Roma 1972, ad Indicem. Sul D. e la questione della lingua, cfr. B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1963, pp. 434, 454; e la ristampa del Proemio al Dottor volgare, a cura e con introd. di P. Fiorelli, dal titolo: G. B. De Luca, Se sia bene trattare la legge in lingua italiana, Firenze 1980. La notizia di una collaborazione, sul piano linguistico, da parte di A. Peschiulli, è in G. M. Crescimbeni, Vite degli arcadi illustri, II, Roma 1710, p. 118. Dei numerosi studi che si sono soffermati su alcuni aspetti del pensiero e dell'opera del D., si ricordano, avvertendo che è assai varia la loro estensione e la loro importanza: R. De Mattei, L'idea democratica e contrattualista negli scrittori politici italiani del Seicento, in Riv. stor. ital., LX (1948), pp. 38-42; Id., Il problema della "ragion di Stato" nell'età della Controriforma, Milano-Napoli 1979, pp. 64, 258, 278, 290 ss.; Id., Il pensiero politico ital. nell'età della Controriforma, MilanoNapoli 1982-1984, ad Ind.;G. Gorla, Per una ricerca storico-comparativa sulla nota a sentenza, in Quad. del Foro ital., Roma 1968, p. 19 e passim;Id., Il ricorso alla legge di un "luogo vicino" nell'ambito del dir. comune europeo, in Il Foro ital., XCVI (1973), 5, p. 5 e passim;Id., I tribunali supremi degli Stati ital., fra i secc. XVI e XIX, quali fattori della unificazione del diritto nello Stato e della sua uniformazione fra Stati, in La formazione stor. del diritto moderno in Europa. Atti del III Congresso internaz. della Società ital. di storia del diritto, Firenze 1977, pp. 468, 471, 473, 482;.Id:, Unificazione "legislativa" e unificazione "giurisprudenziale". L'esperienza del diritto comune, in IlForo ital., C (1977), 4, p. 2 e passim;"Iura naturalia sunt immutabilia". I limiti al potere del "Principe" nella dottrina e nella giurisprudenza forense fra i secoli XVI e XVIII, in Diritto e potere nella storia europea. Atti del IV Congresso internaz. della Società ital. di storia del diritto dedic. a B. Paradisi, Firenze 1982, p. 640 e passim;D. Marrara, Il principato nel "Dottor Volgare" di G. B. D., in Boll. stor. pisano, XXXVI-XXXVIII (1969), pp. II 3-30; G. Ermini, Il principio "Quod omnes tangit etc." nello Stato della Chiesa del Seicento (secondo il pensiero di G. B. D.), in Riv. di storia del dir. italiano, IL (1976), pp. 297-300; Id., Potestà del papa nel '600, secondo G. B. D., in Nuova Riv. storica, LXIII (1979), pp. 434-43; Id., La curia romana forense del secolo XVII nella relazione di G. B. D., in Arch. stor. ital., CXXXVIII (1980), pp. 41-57; A. Lauro, Ilriformismo del cardinale G. B. D. venosino, in Società e religione in Basilicata. Atti del Convegno di Potenza-Matera, Roma 1977, II, pp. 483-533 (vi sono analizzate lavicenda e le scritture del contrasto col S. Officio del 1680; a p. 533 n. è cit. il doc. relativo al procedimento dell'Indice del 1690); Id., Baronio, D. e il potere temporale della Chiesa, in Baronio storico e la Controriforma. Atti del Convegno internaz. di studi, Sora ... 1979, a cura di R. De Maio, Sora1982, pp. 361-418 (alle pp. 405-18 è pubblicato l'inedito del 1677 contenuto nell'Ottob. lat. 1945); G. Alessi, Prova legale e pena, Napoli 1979, pp. 19, 22, 24, 29; P. L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento, Napoli 1981, ad Indicem;P. Prodi, Il sovrano pontefice, Bologna 1982, ad Indicem;A. Padovani, Studi storici sulla dottrina delle sostituzioni, Milano 1983, pp. 422, 464-69; L. Pasztor, Per una storia della storiografia sulla Curia romana nel Medio Evo. Il contributo del cardinale G. B. D., in Aus Kirche und Reich. Festschrift F. Kempf, a cura di H. Mordek, Sigmaringen 1983, pp. 473-80; M. T. Guerra, L'esclusione delle donne dalla successione legittima e la constitutio super statutariis successionibus di Innocenzo XI, in Riv. di storia del dir. ital., LVI (1983), pp. 261-94; A. Zanotti, Cultura giuridica del Seicento e "jus publicum ecclesiasticum" nell'opera del card. G. B. D., Milano 1983; R. Del Gratta, G. B. D. e gli statuti di Piombino, Napoli 1985; M. Cardinale, La soppressione del Collegio dei segretari apostolici: un provvedimento di riforma della Curia romana ispirato e sostenuto dal card. D., in Apollinaris, LVIII (1985), pp. 589-613.