Giovanni Battista De Luca
Nel quadro della cultura giuridica italiana del Seicento, l’opera amplissima e poliedrica di Giovanni Battista De Luca spicca per originalità, spirito critico e padronanza dei meccanismi che muovevano il complesso sistema del tardo diritto comune, oltre che per il pionieristico sforzo di divulgazione del sapere giuridico. Come stretto collaboratore di papa Innocenzo XI, De Luca fu poi un tenace e ardito riformatore in materia di giustizia e di amministrazione temporale. Tre profili distinti, dunque (giureconsulto, divulgatore, riformatore), uniti tuttavia dalla profonda consapevolezza della centralità del diritto, e di conseguenza del giurista, nel definire e conservare le forme del vivere civile.
De Luca nacque a Venosa (nell'attuale Basilicata) nel 1613 (o nel 1614), studiò diritto prima a Salerno e poi a Napoli, dove si laureò nel 1635 e iniziò l’avvocatura presso il Sacro regio consiglio e la Regia camera della sommaria. Dopo una breve parentesi come vicario vescovile nella città natale, nel 1644 si trasferì a Roma, dove fu introdotto negli ambienti curiali da Niccolò Ludovisi (1610-1664), principe di Venosa e di Piombino, nipote di papa Gregorio XV e titolare di importanti incarichi di governo civile e militare. De Luca prestò opera presso Ludovisi come avvocato e come uditore, e fu in occasione di questi servigi che ebbe modo di iniziare a trattare importanti e delicate questioni feudali e giurisdizionali. Frequentò lo studio legale di Angelo Andosilla, decano delle Segnature di Grazia e di Giustizia, strinse amicizia con il cardinale Benedetto Pamphili, al quale, alla morte, lasciò la sua ricca biblioteca. A Roma dette vita a uno studio legale di alto livello, specializzato nelle cause feudali, civili ed ecclesiastiche. Dal 1658 fu avvocato a Roma dei re di Spagna Filippo IV e Carlo II.
Nel 1676, dopo trent’anni di intensa attività e dopo aver già dato alle stampe le opere maggiori, abbandonò la professione e prese i voti di sacerdote. Con l’ascesa al soglio papale, pochi mesi dopo, di Benedetto Odescalchi (Innocenzo XI), ne divenne subito, come Uditore e Segretario dei memoriali, uno dei più stretti collaboratori, e fu incaricato di predisporre uno stringente programma di riforme riguardanti l’amministrazione della giustizia e il governo del principato ecclesiastico. La dura opposizione di un gruppo di cardinali evitò però la realizzazione degli interventi più incisivi, come l’abolizione del nepotismo.
Negli incarichi pubblici si creò fama di persona laboriosissima e rigorosa, moralmente integerrima, di sobrie abitudini. Fu attivamente presente nella vita culturale romana anche frequentando accademie, come quella creata dalla regina Cristina di Svezia, tenendo discorsi e pubblicando interessanti scritti su temi a cavallo tra diritto, costume e politica. Dal 1681 fu cardinale, membro di undici congregazioni e di altre importanti magistrature della curia romana, fino alla morte, avvenuta il 5 febbraio 1683 (Mazzacane 1990; Lauro 1991; La toga e la porpora, 1991).
La sua opera più importante è il monumentale Theatrum veritatis et justitiae (1669-1673), in quindici libri (più altri quattro di supplemento) che raccoglie oltre 2500 pareri pro veritate, pro parte ed extra-giudiziali nei più diversi campi del diritto civile, canonico e feudale. Stampata diciotto volte in Italia, Francia e Germania, è il capolavoro di De Luca e la base di molti scritti successivi di carattere divulgativo.
Essa, anche se risponde a suo modo alla vocazione enciclopedica seicentesca, non può considerarsi una vera e propria enciclopedia, giacché il materiale contenuto, pur calato in una sommaria partizione sistematica, non è trasfuso in una trattazione astratta, come avverrà invece nelle opere successive Il dottor volgare e la Summa sive compendium theatri, ma si presenta nella forma di semplice raccolta di pareri (discursus), sporadicamente integrati da trattazioni teoriche.
L’opera si dipana attraverso insolite geometrie espositive: ai primi tre volumi, di materia che potremmo oggi definire ‘pubblicistica’ (feudi, regalie, giurisdizione, onorificenze, nobiltà e cittadinanza), ne seguono otto dedicati al diritto civile, tre al diritto ecclesiastico e al diritto canonico, mentre un ultimo libro si occupa del processo, con appendici sul diritto penale e sull’organizzazione della curia romana.
Nel Theatrum si contengono (e nell’ultimo volume, di taglio teorico, si riducono al minimo) le abusate allegazioni dottrinali, che spesso infarcivano in modo acritico la letteratura giuridica del tempo. Rivolto, ben più che agli accademici, ai giuristi pratici, il Theatrum propone una dottrina essenziale, aliena da sfoggi di raffinatezze antiquarie ed erudite, ma capace di offrirci un’immagine fortemente realistica della vita effettiva del diritto. Nel Theatrum si rispecchia nitidamente la complessità dell’esperienza giuridica del tardo diritto comune, caratterizzata da un’accentuata pluralità di fonti normative e da peculiari principi e strumenti che presiedevano al funzionamento del sistema (Dani 2008). Vi si può cogliere tutto il persistente e fondamentale ruolo dei diritti particolari (statutari e consuetudinari), dell’interpretatio dottrinale, della communis opinio, delle decisioni e della giurisprudenza delle magistrature centrali. A quest’ultima fonte, oltre che a una pur frammentaria legislazione sovrana, sembra soprattutto riferibile la lenta emersione di un diritto patrio nei due ordinamenti statali a cui prevalentemente fa riferimento De Luca: lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli.
La cultura giuridica che sorregge il Theatrum è vasta e composita. Anzitutto, ovviamente, raccoglie l’eredità della tradizione italiana di diritto comune: vi si nota un’approfondita conoscenza della dottrina meridionale, specialmente feudistica, delle raccolte di decisioni dei grandi tribunali (su tutte, le imponenti Decisiones recentiores della Rota romana), delle opere dei grandi maestri della scuola del commento (14°-15° sec.), delle raccolte di consilia di ogni periodo, della migliore trattatistica italiana ed europea. Ma sul tronco vetusto della tradizione tardo-medievale di diritto comune e del mos italicus, via maestra per un giurista pratico nei territori italiani di antico regime, si innestano propensioni, atteggiamenti, metodi che risentono dell’umanesimo giuridico, della dottrina cinquecentesca francese, dell’usus modernus pandectarum. In quest’ottica possono leggersi il senso storico e storicizzante, l’attenzione per la dimensione giuridica locale e per la giurisprudenza dei tribunali (ora chiamata ad ampliare il concetto di communis opinio), una certa valorizzazione volontaristica dello strumento legislativo, l’allontanamento dai canoni argomentativi scolastici all’insegna del probabilismo e in vista dell’avvicinamento tra teoria e prassi. De Luca, insomma, fa tesoro del rinnovamento metodologico tardo-rinascimentale per correggere le più evidenti aporie e insufficienze del tradizionale bartolismo, come del resto veniva auspicato già nel Cinquecento e ormai, lontani i tempi delle prime accese dispute, sempre più spesso accadeva.
Tributaria della dottrina umanistica appare la concezione del fondamento consuetudinario della vigenza del diritto romano: questo vige, con il necessario consenso dei principi, soprattutto per il volontario uso dei popoli, che ne hanno riconosciuta la ragionevolezza a partire dalla rinascita bolognese. Ma gran parte del diritto romano giustinianeo non trova più applicazione perché derogato da norme particolari, canoniche, feudali e dalla stessa legislazione dei vari sovrani e delle repubbliche indipendenti, che costituisce diritto comune nel loro territorio.
Nondimeno De Luca si discosta apertamente e consapevolmente da certi aspetti dei culti, come l’erudizione antiquaria non collegata ad aspetti pratici o le indagini filologiche che irresponsabilmente generano confusione nella prassi forense consolidata. Il giurista ha una sua specificità di formazione intellettuale, una peculiarità di compiti e responsabilità a cui non può rinunciare e che non ammette distrazioni, perché a lui spetta presidiare le fondamenta del vivere civile.
D’altro canto, agli accademici che indulgono in un approccio puramente dogmatico al diritto, De Luca ricorda che la giurisprudenza deve anzitutto rispondere a delle concrete necessità della società, e non ritirarsi in speculazioni teoriche fini a se stesse o nella venerazione di qualche testo giuridico sacralizzato. E il compito più difficile del giurista non è la mera conoscenza astratta dei principi e delle regole, ma la loro applicazione ai casi particolari: siamo nel campo che nella logica aristotelica riguarda il probabile e non il vero assoluto. L’antidogmatismo di De Luca è comunque, propriamente, rifiuto di eccessi teorici e non antiformalismo preconcetto: si ricorda soltanto che i dogmi non esauriscono l’esperienza giuridica nella sua totalità.
Insomma, si potrebbe forse parlare per De Luca, per quel che valgono catalogazioni di questo tipo, di una posizione di sintesi tra mos italicus e mos gallicus, di un bartolismo arricchito e trasformato da consapevolezze umanistiche, di una ‘via italiana’ all’usus modernus pandectarum.
Il celebre Dottor volgare (1673) può considerarsi una versione in italiano ridotta e di ‘alta divulgazione’ del Theatrum, ma con un taglio libero dalle esigenze forensi, e dunque più consono a lasciar affiorare il pensiero dell’autore sulle varie tematiche. Esso offre una rappresentazione precisa, penetrante e spesso critica della vita del diritto nel tardo Seicento, e soprattutto del mondo della giustizia e dei tribunali, ma la sua fama si lega soprattutto all’essere la prima trattazione colta e realmente enciclopedica dello scibile giuridico in volgare. Sebbene andassero da tempo maturando inclinazioni e preannunci in quella direzione (pensiamo alle opere di Eliseo Masini, Lorenzo Priori, Marco Antonio Savelli), si deve ritenere che fu con il Dottor volgare che l’italiano fece il suo ingresso pieno e maturo nelle trattazioni giuridiche di alto livello e si aprì la via a un graduale intensificarsi, specie dal secolo successivo, dell’uso del volgare nei vari ambiti dell’attività giuridica (Fiorelli 1984). Quella di De Luca fu dunque una scelta epocale, consapevole e coraggiosa, che suscitò aspre critiche tra i giuristi del tempo, ma che offrì un enorme contributo alla formazione del lessico giuridico italiano: come hanno indicato specifiche ricerche, gran parte dei vocaboli giuridici della quinta edizione del Vocabolario dell'Accademia della Crusca (1863-1923) sono esemplificati con lemmi del Dottor volgare e una parte consistente ha in quell’opera la prima attestazione (La toga e la porpora, 1991).
In coerenza con la scelta maturata, dopo il Dottor volgare De Luca scrisse, tra il 1674 e il 1680, quasi esclusivamente opere in lingua italiana, indirizzandosi a un pubblico eterogeneo ma qualificato: principi e governanti (con il Principe cristiano pratico, 1680), nobili (a cui si rivolge Il cavaliere e la dama, 1675), ecclesiastici (edotti degli aspetti pratico-giuridici che li riguardano con Il vescovo pratico, 1675, Il religioso pratico, 1679, Il cardinale della S.R. Chiesa pratico, 1680), avvocati e giudici (di cui si vogliono emendare i canoni espressivi nello scritto Dello stile legale, 1674). Agli studenti infine offrì l’Istituta civile, opera rimasta incompleta e pubblicata postuma nel 1733 a cura di Sebastiano Simbeni (Birocchi 2003). Tali opere, come il Dottor volgare, spesso si rifanno nei contenuti al Theatrum, al quale costantemente rinviano per approfondimenti.
Gli scritti in volgare, pur nell’estrema parsimonia di riferimenti a opere extra-giuridiche, lasciano trasparire, più dell’opus magnum, come il pensiero di De Luca risentisse di varie correnti del pensiero seicentesco: l’empirismo delle scienze sperimentali, il neo-stoicismo, un moderato scetticismo. In questi influssi occorre probabilmente considerare anche l’incidenza della frequentazione di ambienti culturali di spicco nella Roma del tempo, come l’Accademia reale di Cristina di Svezia (creata nel 1674), di cui De Luca fu membro effettivo e presso la quale tenne discorsi su temi riguardanti la giustizia.
Negli scritti che più direttamente toccano la sfera politica e l’attività di governo, come nel Principe cristiano, emerge costante un monito: anche in quest’ambito il diritto deve mantenere la centralità che gli ha riconosciuto la tradizione medievale. L’arte del governare non può basarsi su mere considerazioni utilitaristiche, come pretendeva certa cattiva ragion di Stato, né su dogmi teologici o su una mutevole precettistica etica, come ritenevano molti moralisti cattolici antimachiavellici, armati di pie intenzioni, ma ignari persino delle basi giuridiche elementari. A tutti De Luca ricorda che il diritto è la struttura portante della società civile, la quale non può rinunciare mai alla giustizia (commutativa e distributiva) e dunque all’opera indispensabile dei giuristi. Questa idea di fondo separa De Luca sia da Niccolò Machiavelli che da Giovanni Botero. Echi del pensiero di questi due autori (e ancor più di Francesco Guicciardini), come il pragmatico realismo e il disincantato pessimismo sociale, certamente si possono cogliere sparsamente nelle riflessioni di De Luca: ma ricordiamo che si tratta di aspetti ormai largamente penetrati in molti scrittori politici del Seicento. Inoltre in De Luca non viene mai meno quel senso del bene comune, quel rigoroso senso civico di servizio imparziale alla res publica, che trova piuttosto riscontri nel pensiero di Lucio Anneo Seneca, Epitteto e Marco Aurelio, cioè di quello stoicismo antico che Giusto Lipsio (assai noto e apprezzato in certi ambienti aristocratici romani seicenteschi) aveva divulgato e riproposto secondo una chiave di lettura cristiana.
De Luca condusse tra il 1676 ed il 1680, su incarico di Innocenzo XI, una linea riformatrice coerente e incisiva, volta ad eliminare alcuni aspetti deleteri del governo del principato ecclesiastico e divenuta improcrastinabile per la crisi del papato nello scenario internazionale, il grave dissesto economico e le disfunzioni nel governo del territorio. Le riforme propugnate da De Luca riguardarono la soppressione di tribunali particolari, la razionalizzazione delle giurisdizioni, l’abolizione del nepotismo, la soppressione di cariche ritenute inutili, la restrizione dell’immunità e dei privilegi dei patentati dell’Inquisizione. Le sue proposte, di portata epocale e caldeggiate dal papa rigorista, incontrarono una resistenza agguerrita da parte di un compatto gruppo di cardinali delle congregazioni dell’Inquisizione e dell’Immunità (tra cui Francesco Albizzi, Decio Azzolini e Pietro Ottoboni, il futuro papa Alessandro VIII), che condussero nell’immediato a un accantonamento degli interventi più audaci, come quello dell’abolizione del nepotismo. In duri memoriali indirizzati al papa, le opinioni di De Luca furono accusate di essere prossime all’eresia, in quanto contrarie alla libertas Ecclesiae e in sintonia con le dottrine protestanti. Nel 1690, sette anni dopo la morte del loro autore, vari libri del Theatrum furono sottoposti a esame dalla Congregazione dell’Indice, anche se non ne seguì alcuna riprovazione ufficiale (Lauro 1991). Ma, dopo la parentesi del pontificato di Alessandro VIII, il suo successore Innocenzo XII, in linea con l’omonimo predecessore, riprese i progetti di riforma accantonati, e nel 1692 abolì ufficialmente il nepotismo; non a caso volle chiamare come suo stretto collaboratore Ansaldo Ansaldi, formatosi nello studio di De Luca.
Nonostante la storiografia abbia spesso dipinto il De Luca riformatore come un ministro temerario e sconsiderato, che andò oltre le direttive di un papa integerrimo e saggio, egli rimase fedele, da uomo di governo, ai principi giuridici e ai valori da sempre espressi nelle sue opere, come verosimilmente si aspettava da lui il pontefice: separazione della sfera temporale da quella spirituale, rigore e imparzialità nell’amministrazione giudiziaria, merito come fondamento della promozione alle cariche pubbliche, dovere del sovrano di amministrare bene le risorse statali, alla stregua del marito che gestisce la dote muliebre. Si può affermare dunque che il De Luca riformatore fu del tutto in sintonia con il giureconsulto e lo scrittore divulgatore, senza contraddizioni o mutamento di opinioni.
L’eredità che De Luca ha lasciato alla cultura giuridica futura è enorme e difficilmente ponderabile. In molte materie, a iniziare da quella feudale, la sua dottrina rimase un punto di riferimento autorevolissimo fino alle codificazioni ottocentesche e talvolta oltre, come nel caso dei pareri in tema di usi civici. Gran parte dei giuristi pratici successivi risentono in modo evidente dell’opera di De Luca, che si propose del resto consapevolmente come un grande affresco del tardo diritto comune e come uno strumento preziosissimo per orientarsi in un sistema giuridico di indubbia complessità. Le sue riflessioni critiche furono riprese più volte nel corso del Settecento, in primis da Ludovico Antonio Muratori nel suo celebre Trattato dei difetti della giurisprudenza (1742). Il lessico giuridico italiano odierno deve molto alla prometeica opera volgarizzatrice di De Luca, come moltissimo devono alle sue testimonianze numerosi studiosi che hanno indagato la storia giuridica e istituzionale, ma anche culturale, socio-economica ed ecclesiastica del Seicento.
Opere
Theatrum veritatis et justitiae sive decisivi discursus per materias, 15 voll., Romae 1669-1673.
Il dottor volgare, overo il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale nelle cose più ricevute in pratica, 6 voll., Roma 1673.
Dello stile legale, cioè del modo col quale i professori della facoltà legale [...] debbano trattare in scritto e in voce delle materie giuridiche [...], Roma 1674.
Difesa della lingua italiana italiana, overo discorso in forma di risposta a lettera d’un virtuoso amico, che sia lodevole il trattare la legge, e le altre facoltà nella lingua volgare in occasione dell’opera del Dottor volgare, Roma 1675.
Il vescovo pratico [...], Roma 1675.
Il cavaliere e la dama [...], Roma 1675.
Theatri veritatis et justitiae supplementum [...], 4 voll., Romae 1677-1678.
Il religioso pratico dell'uno e dell'altro sesso [..], Roma 1679.
Summa sive compendium Theatri veritatis et justitiae [...], 16 voll., Romae 1679.
Il principe cristiano pratico [...], Roma 1680.
Il cardinale della S. R. Chiesa pratico [...], Roma 1680.
Tractatus de officiis venalibus vacabilibus Romanae Curiae [...], Romae 1682.
Commentaria ad constitutionem SS. D. N. D. Innocentii XI de statutariis successionibus [...], 2 voll., Romae 1684.
Istituta civile divisa in quattro libri con l’ordine de’ titoli di quella di Giustiniano, Pesaro 1733.
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