Debito pubblico
Il settore pubblico dell'economia è un aggregato complesso, la cui precisa definizione varia nelle diverse realtà istituzionali. Il conto del settore pubblico consolida il conto del bilancio statale e quelli delle altre amministrazioni pubbliche (enti locali e previdenziali, altri enti centrali e locali), delle aziende pubbliche di servizi e, a volte, delle imprese pubbliche.
Il settore pubblico spende e incassa. Le voci più importanti di spesa sono l'acquisto di beni e servizi, gli investimenti, le retribuzioni, i trasferimenti di parte corrente (soprattutto per prestazioni sociali) e in conto capitale (contributi agli investimenti), gli interessi. Le entrate principali sono quelle tributarie (imposte dirette e indirette) e quelle per contributi sociali. Se le uscite eccedono le entrate, si verifica un disavanzo del settore pubblico: il fabbisogno è la somma del disavanzo e di altri esborsi per acquisizione di attività finanziarie o partecipazioni. Per finanziare il fabbisogno, il settore deve indebitarsi; nel caso di eccedenza delle entrate sulle uscite complessive il settore riduce il debito complessivo. La variazione del debito nel corso di un periodo è dunque uguale al fabbisogno; la consistenza del debito pubblico di un paese a una certa data è uguale alla somma di tutti i fabbisogni (positivi e negativi) sino a quella data.
Il settore pubblico si indebita emettendo titoli, di diverso tipo e durata, sottoscritti da famiglie, imprese e intermediari finanziari. Può anche indebitarsi con la banca centrale, se questa acquista titoli pubblici o concede in altro modo credito al Tesoro. Acquistando titoli pubblici o concedendo credito, la banca centrale crea base monetaria (impiegata come circolante dal pubblico o come riserva dalle banche). Se si consolidano i conti del settore pubblico con quelli della banca centrale, la passività del Tesoro consiste nella moneta creata a fronte del finanziamento concesso dalla banca centrale.
I confronti fra diversi paesi e fra diverse fasi storiche mostrano situazioni ed esperienze assai varie di livelli e di dinamica del debito pubblico. Paesi diversi hanno livelli assai diversi di debito in rapporto al loro prodotto. In ciascun paese la dinamica del debito muta in diverse fasi storiche. Le esperienze di crescita molto rapida del debito pubblico sino a livelli elevati hanno avuto esiti assai diversi: in alcuni casi si sono concluse con il ripudio implicito o esplicito del debito pubblico accumulato; in altri casi si è tornati gradualmente a livelli più normali di indebitamento, senza pregiudizio per i creditori. Le fasi di forte dinamica del debito sovente hanno coinciso con guerre o con depressioni economiche; ma si sono verificate e si verificano anche in periodi di pace e di moderata crescita.
I problemi di teoria e di politica economica posti dall'esistenza e dall'accumulazione di un debito pubblico sono stati dibattuti sin da quando l'economia si è affermata come disciplina autonoma: da una prima importante sistemazione teorica di Ricardo agli approfondimenti successivi, dovuti in particolare alla scuola italiana di finanza pubblica, alla ripresa di interesse nell'analisi contemporanea. Un sempre maggior rigore ha consentito di compiere passi importanti nella comprensione del fenomeno, ma è difficile ritenere che tutte le questioni a esso connesse abbiano trovato soluzioni generali e soddisfacenti. Possiamo definire con qualche precisione i fattori della crescita del debito pubblico. Meno facile è stabilire entro quali limiti tale crescita sia sostenibile; e ancor meno facile è identificarne gli effetti sulle altre grandezze economiche. Questi problemi si complicano quando si consideri un'economia aperta al resto del mondo e quando si tengano presenti gli effetti di un finanziamento monetario del fabbisogno. Altre questioni ancora riguardano la gestione del debito pubblico da parte dell'emittente.
Una parte delle spese del settore pubblico è dedicata a investimenti e in generale all'acquisizione di attività: infrastrutture, edilizia pubblica, investimenti nella produzione di beni e servizi pubblici, quote di partecipazione in enti pubblici o imprese, depositi presso le banche. A fronte del debito il settore possiede dunque un imponente patrimonio. Potremmo pertanto considerare un debito pubblico netto, pari alla differenza fra il debito lordo e il valore di tutte le attività possedute.
Quella di debito netto è tuttavia una nozione assai elusiva. I titoli di debito sono infatti esigibili alla loro scadenza, e comunque impegnano il debitore a pagare a scadenze precise il rendimento pattuito. Larga parte delle attività del settore non possiedono per contro analoghe caratteristiche di liquidità e di rendimento. Le infrastrutture pubbliche hanno, o possono avere, un importante rendimento sociale, se accrescono le possibilità di crescita e di produzione dell'economia; ma il più delle volte non offrono un rendimento monetario, che si traduca in una specifica entrata, né sono alienabili per far fronte al rimborso del debito contratto. Il patrimonio artistico di un paese, per fare un altro esempio, sarebbe in astratto alienabile, ma l'alienazione viene esclusa poiché se ne vuole garantire la fruizione a tutti i cittadini. La concreta possibilità di alienazione delle aziende produttrici di servizi dipende da decisioni circa la sicurezza nazionale, o l'inopportunità di consentire ai privati una gestione in regime di monopolio, o la politica tariffaria (poiché il valore di mercato di un'attività dipende dal flusso di ricavi netti che da essa ci si attende). Altre attività, invece, hanno caratteristiche simili a quelle delle passività: tipicamente, i depositi di un ente del settore pubblico presso una banca.
Una misurazione del debito netto di un paese accurata e significativa, finanziariamente e nei confronti internazionali e intertemporali, è dunque difficile, o impossibile. Trascureremo questi problemi di misurazione, pur se essi acquistano particolare importanza nel caso di privatizzazione di parte del patrimonio pubblico attuata per ridurre la consistenza del debito lordo.
L'identità di bilancio del settore pubblico definisce la necessaria eguaglianza fra la somma algebrica delle voci che danno luogo al fabbisogno e le fonti di finanziamento.
Semplificando al massimo, definiamo: Gt, la spesa pubblica complessiva al netto di quella per trasferimenti e interessi compiuta nel periodo t; Tt, le entrate pubbliche complessive al netto dei trasferimenti, nello stesso periodo; It, la spesa per gli interessi pagati sul debito collocato sul mercato (supponendo che gli interessi sui titoli detenuti dalla banca centrale vengano riversati al Tesoro); Bt, la consistenza dei titoli pubblici sul mercato alla fine del periodo; Ht, la consistenza alla fine del periodo della base monetaria creata con l'indebitamento del Tesoro con la banca centrale.
Si avrà:
(Gt - Tt) + It = (Bt - Bt-1) + (Ht - Ht-1). (1)
La (1) dice che il fabbisogno, pari alla differenza fra spese pubbliche complessive ed entrate pubbliche complessive, deve essere finanziato con emissione di titoli o con finanziamento della banca centrale, che dà luogo a creazione di moneta. L'espressione fra parentesi a sinistra è il saldo primario, pari al fabbisogno complessivo meno la spesa per interessi. La consistenza del debito sul mercato, B, viene espressa al valore nominale, nell'ipotesi che i titoli vengano emessi a un valore pari a quello di rimborso (nella realtà i titoli vengono emessi a un valore inferiore a quello di rimborso; in tal caso lo scarto deve essere adeguatamente contabilizzato fra gli interessi).
I pagamenti per interessi dipendono sia dalla consistenza del debito, sia dai rendimenti garantiti sui titoli emessi. I tassi di rendimento saranno diversi per diversi titoli, in dipendenza sia dalla loro durata e natura, sia dalle diverse condizioni per titoli emessi in epoche diverse; in caso di indicizzazione, reale o finanziaria, possono inoltre variare nel tempo per lo stesso titolo. Definiamo il tasso d'interesse medio sul totale del debito it = It/Bt-₁, una media ponderata di tutti i tassi sul debito esistente. Trascurando le emissioni e i rimborsi che avvengono tra t-1 e t, possiamo scrivere:
ΔBt = (Gt - Tt) + it Bt-1 - ΔHt, (2)
ove ΔBt = Bt - Bt-₁ è la variazione nel periodo della consistenza del debito sul mercato e ΔHt = Ht - Ht-₁ è la variazione della quantità di base monetaria emessa per il Tesoro.
Nella (1) e nella (2) il debito è espresso in lire correnti. Ma una misurazione espressa al valore nominale: a) non tiene conto dell'andamento dei prezzi, e pertanto non consente confronti fra situazioni caratterizzate da diversi tassi d'inflazione; b) non tiene conto della dimensione dell'economia e pertanto non consente confronti fra diverse economie o fra periodi diversi per la stessa economia.
L'inflazione, oltre a influenzare il saldo primario di bilancio (una maggiore inflazione, ad esempio, può provocare un aumento della pressione fiscale se le aliquote dell'imposta progressiva sul reddito non sono indicizzate), certamente influenza, in maniera notevole, la spesa nominale per interessi.
Il rendimento reale di un'attività finanziaria fra un periodo e l'altro è la somma algebrica di due componenti: l'interesse nominale che su di essa viene pagato e la perdita di valore reale che l'attività stessa subisce a motivo dell'inflazione. Se l'inflazione è ad esempio del 5% all'anno, un titolo dal valore nominale di 100 lire acquistato oggi varrà l'anno prossimo poco più di 95 lire in termini di potere d'acquisto. Se quel titolo frutta 10 lire all'anno (con un interesse nominale del 10%), per valutarne il rendimento reale occorre sottrarre dalle 10 lire la somma necessaria a reintegrare l'originario valore reale: tale somma non costituisce un reddito effettivo, perché serve solo a mantenere intatto il valore reale del capitale investito. Definiamo pertanto il saggio d'interesse reale di un'attività finanziaria in un certo periodo t, rt:
ove πt è il tasso d'inflazione nel periodo. Nell'esempio fatto, il rendimento reale del titolo sarebbe poco più del 4,5%.
Quello che vale per il creditore vale, con segno cambiato, per il debitore. Per la parte corrispondente alla diminuzione del valore reale del debito gli interessi pagati rappresentano non un onere del debito, ma un suo ammortamento anticipato.
Nel caso del debito pubblico, quel che dunque interessa, a parità di dimensione dell'economia, non è l'andamento della consistenza nominale del debito, Bt, ma quello della consistenza reale, Bt/pt, ove pt è l'indice dei prezzi del periodo t.Considerando che il tasso d'inflazione è definito come πt = (pt-pt-₁)/pt-₁, e ricordando la (2), è facile verificare che:
formula (3)
La (3) ci dice che la dinamica del debito in termini reali dipende: dal saldo primario a prezzi costanti; dall'onere reale per interessi; dal finanziamento monetario ottenuto dalla banca centrale. L'onere reale per interessi è pari al saggio d'interesse nominale moltiplicato per la consistenza reale del debito meno la perdita subita da questa a causa dell'inflazione: dunque al saggio reale d'interesse moltiplicato per la consistenza reale del debito. Il termine in πt sottratto dall'onere nominale di interessi è noto come 'correzione da inflazione' di un dato fabbisogno (v. Cotula e Masera, 1980; v. Buiter, 1985; v. Eisner e Pieper, 1984; v. Spaventa, 1984 e 1985; v. Camera dei Deputati, 1985).
Si considerino, ad esempio, due economie di eguale dimensione, con un'uguale consistenza del debito in termini reali a t-1, supponiamo di 100, con uguale disavanzo in termini reali, supponiamo di 5, e con un uguale saggio reale d'interesse, supponiamo del 5%. Una di esse ha un saggio d'inflazione zero, mentre l'inflazione nell'altra è del 10%: il saggio nominale d'interesse sarà del 5% nella prima, ma del 15,5% nella seconda. In conseguenza, il rapporto fra fabbisogno e livello dei prezzi sarà di 10 nella prima e di circa 19,1 (5 + 15,5 : 1,1) nella seconda. In entrambe le economie, tuttavia, la consistenza del debito espressa in termini reali cresce di 10 fra t-1 e t, perché nella seconda il valore reale del debito diminuisce del 9,1% circa, e tale riduzione va sottratta dal rendimento nominale. Poiché quel che interessa è la dinamica del debito in termini reali, la correzione da inflazione è particolarmente importante quando si confrontano economie con tassi d'inflazione molto diversi, o una stessa economia in periodi diversi con diversa inflazione.
Abbiamo ipotizzato un tasso d'interesse reale uguale con tassi d'inflazione diversi. L'ipotesi che un diverso tasso d'inflazione si rifletta solo sul tasso d'interesse nominale è accettabile, tuttavia, solo se tutti i titoli sono pienamente indicizzati al livello dei prezzi, o se l'inflazione effettiva è uguale a quella attesa, talché il risparmiatore razionale esige tassi di rendimento nominale che gli garantiscano un rendimento reale costante. La prima di queste condizioni vale in paesi con tassi d'inflazione sempre molto alti e con grande variabilità. La seconda può valere in casi d'inflazione molto stabile, in cui l'estrapolazione dell'inflazione passata costituisce una previsione ragionevolmente accurata di quella futura. Altrimenti, un'accelerazione dell'inflazione, se inattesa, e come tale non incorporata nel rendimento nominale sui vecchi titoli, causerà una riduzione del rendimento reale; una decelerazione inattesa ne provocherà un aumento. Pertanto, il tasso d'interesse reale, rt, della (3), deve essere considerato un tasso ex post.
Quando si tratti di confrontare economie di diversa dimensione o periodi in cui è mutata la dimensione della stessa economia, la grandezza rilevante è il rapporto fra debito pubblico sul mercato e prodotto interno lordo (PIL), che definiamo Yt. Interessa dunque stabilire da che cosa dipende la dinamica nel tempo del rapporto Bt/Yt.
Il PIL, Y, è espresso in termini nominali. Il suo tasso di variazione fra un periodo e l'altro, che chiamiamo σt, si compone del tasso di variazione del prodotto in termini reali, a prezzi costanti, che chiamiamo nt, e del tasso di variazione dei prezzi, πt. Più precisamente:
σt = (1 + nt) (1 + πt) - 1.
Definiamo ancora i rapporti delle varie grandezze con il PIL: gt = Gt/Yt; τt = Tt/Yt; bt = Bt/Yt. Tenendo presenti la (2) e le definizioni di saggio di crescita del PIL nominale e di tasso d'interesse reale, otteniamo:
formula. (4)
La (4) identifica i fattori della dinamica del rapporto fra debito e PIL. Il primo termine a destra, in parentesi, è il saldo primario, con effetto positivo o negativo sulla crescita di b a seconda che si tratti di un disavanzo o di un avanzo. Il finanziamento della banca centrale (ultimo termine a destra) rallenta la crescita del debito. A seconda che il saggio d'interesse sia maggiore o minore del saggio di crescita del PIL, il valore di b nel periodo precedente è un fattore di aumento o di riduzione del debito: tasso d'interesse e tasso di crescita hanno pertanto effetti opposti sulla dinamica del rapporto. Si noti che se (ma solo se) si usa lo stesso indice dei prezzi per deflazionare prodotto e debito, è indifferente usare tassi reali o nominali per l'interesse e per la crescita.
Nelle diverse esperienze storiche questi fattori acquistano importanza diversa. Solitamente nei periodi bellici si verificano forti aumenti del rapporto fra debito e PIL, dovuti all'aumento della spesa pubblica e dei disavanzi primari: così avvenne per l'Inghilterra all'epoca delle guerre napoleoniche e per la gran parte dei paesi che parteciparono alla prima e alla seconda guerra mondiale. La crescita del debito si accelera in periodi di depressione economica, soprattutto quando una politica monetaria restrittiva mantenga alti i tassi d'interesse, come nell'Inghilterra degli anni trenta. Lo stesso accade quando si verifica un'impennata dei tassi reali d'interesse: gli esempi più recenti sono quelli dei paesi dell'America Latina (per quanto riguarda il debito estero) e di paesi industrializzati come il Belgio o l'Italia negli anni ottanta. In quest'ultimo caso la preesistenza di un già elevato livello del rapporto innesca un vigoroso processo di autoalimentazione del debito. Periodi di forte sviluppo del prodotto, e/o di bassi tassi d'interesse, favoriscono una riduzione del rapporto, come negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. In altri casi è invece un'accelerazione dell'inflazione a ridurre a poca cosa il valore reale del debito preesistente: così operò, dopo la prima guerra mondiale, l'iperinflazione in Germania e in molti paesi dell'Europa centro-orientale.
Le espressioni (3) e (4), che definiscono la legge di moto del debito in termini reali e in rapporto al PIL, non pongono alcun vincolo al comportamento del settore pubblico: ci dicono solo di quanto varia nel periodo il debito date le altre grandezze. Per identificare un vincolo economico, occorre definire anzitutto il livello di debito in un certo specifico periodo, T, in funzione di tutta la storia delle grandezze che determinano la sua dinamica. D'ora in avanti considereremo solo il rapporto fra debito e PIL, indicato con il simbolo b.
Consideriamo, dal periodo 1 in poi, un'economia che ha ereditato dal passato un rapporto debito/PIL pari a b₀≥0. Supponiamo per semplicità che il tasso d'interesse reale, r, e il tasso di crescita reale del PIL, n, rimangano costanti nel tempo; per ora supponiamo anche che non vi sia finanziamento monetario. Nei diversi periodi, le quote delle spese e delle entrate sul PIL saranno: g₁, g₂, ..., gT-₁, gT; τ₁, τ₂, ..., τT-₁, τT. Dalla legge di variazione definita dalla (4) possiamo ricavare il livello del debito in ogni periodo. Se il PIL è costante (n = 0), avremo:
b1 = g1 - τ1 + (1 + r)b0
b2 = g2 - τ2 + (1 + r)b1 =
= g2 - τ2 + (1 + r) (g1 - τ1) + (1 + r)2b0
b3 = g3 - τ3 + (1 + r) (g2 - τ2) +
+ (1 + r)2 (g1 - τ1) + (1 + r)3b0
bT = gT - τT + (1 + r) ( gT-1 - τT-1) + ... +
+ (1 + r)T-1 (g1 - τ1) + (1 + r)Tb0.
Il livello del debito in ogni periodo è pari al livello del periodo precedente più gli interessi che su questo si devono pagare più/meno il disavanzo/avanzo primario del periodo. Se si rifà la storia dal periodo 0, il debito iniziale si cumula pertanto al tasso r per T periodi; in più, il disavanzo (avanzo) primario di ogni periodo e la conseguente variazione di debito si accumulano al tasso composto r da quel periodo sino a T. Un'espressione compatta per bT è la seguente:
bT = ∑T t = 1 (gt - τt) (1 + r)T-t + (1 + r)Tb0, (5)
ove ∑ è il simbolo di sommatoria di tutti i termini da t = 1 sino a t = T. La (5) ci dice che il debito in un qualsiasi periodo T è pari al debito del periodo 0 cumulato al tasso r per T periodi più la somma algebrica dei saldi primari di ogni periodo da 1 a T, ciascuno cumulato al tasso r per T - t periodi.
Supponiamo di essere al periodo 0, con b₀ dato, e di conoscere tutti i valori futuri dei saldi primari, (gt - τt). Consideriamo il valore presente di bT. Il valore presente di una qualsiasi somma fra T anni si ottiene scontando quella somma al tasso d'interesse composto per T periodi. Pertanto:
formula (6)
Spingiamo ora il nostro sguardo molto lontano: tanto lontano, da poter supporre un T infinitamente grande. Imponiamo la condizione che il valore presente di bT per un T infinitamente grande sia zero. Il rispetto di questa condizione richiede che:
formula, (7)
ove la somma copre tutti i periodi, da 1 al T infinitamente grande. Per un livello di prodotto costante, la (7) esprime il vincolo intertemporale di bilancio, di cui ora esamineremo il significato (v. Buiter, 1985; v. Spaventa, 1987).
La condizione sopra enunciata, che il termine a sinistra della (6) debba tendere a zero per un T sempre più distante, implica che il debito debba crescere nel tempo a un tasso inferiore al tasso d'interesse r. Supponiamo infatti che così non sia, e che, partendo da b₀, il debito cresca a un tasso pari o superiore a r: in questo caso, il valore presente di bT resterebbe sempre positivo (essendo pari o superiore a b₀). Se invece b cresce a un tasso inferiore a r, al crescere di T il termine a sinistra della (6), ossia il valore scontato del debito, tende ad annullarsi, poiché il denominatore, (1 + r)T, aumenta più del numeratore.
Il vincolo che il debito non possa crescere a un tasso superiore al tasso d'interesse ha un preciso significato economico: il servizio del debito in essere, ovvero la spesa per interessi, non deve essere per intero finanziato con ulteriore indebitamento. Supponiamo che questa condizione venga violata. Affinché il nuovo debito emesso per pagare gli interessi sia collocato, il valore attuale delle attività nei confronti dello Stato che gli individui accumulano su un periodo infinitamente lungo deve essere positivo. Se ciò avvenisse, tuttavia, gli individui rinuncerebbero a impiegare per consumi una parte delle risorse di cui possono disporre nel tempo: non massimizzerebbero pertanto la loro utilità intertemporale, che dipende dal livello dei consumi. I requisiti di ottimalità dei modelli di equilibrio impongono dunque, da parte dell'operatore pubblico, il rispetto di un vincolo di solvibilità, di cui ora consideriamo le implicazioni.
Questo vincolo non richiede che il debito debba essere mai restituito. Deve infatti tendere a zero il valore scontato di bT: il suo valore corrente può certamente essere positivo, e, come sarebbe agevole dimostrare, può anche crescere indefinitamente, purché a un tasso inferiore a r. Ma la condizione è solo apparentemente permissiva. L'esistenza di un debito iniziale richiede che al pagamento degli interessi su di esso si faccia fronte con avanzi primari: più precisamente, la somma delle entrate di tutti i periodi, debitamente scontate con riferimento a ciascun periodo, deve eccedere la somma delle uscite, analogamente scontate, in misura pari alla consistenza iniziale del debito. Si tratta dunque di una condizione che, pur se su un orizzonte infinitamente ampio, impone una precisa disciplina. Se questa disciplina viene violata, la crescita del debito diverrà insostenibile, poiché il risparmiatore razionale rifiuterà di sottoscrivere le passività che lo Stato cerca di collocare.
Vediamo ora come lo stesso problema si configuri nel caso, più generale, di reddito crescente, ossia con n>0.
Il procedimento per ricavare il valore di b a una qualsiasi data T, bT, è identico a quello indicato in precedenza. Si ottiene pertanto:
formula. (5')
Notiamo subito una novità importante di questo caso generale. Se n>r, il termine in b₀ decresce continuamente all'aumentare di T e tende ad annullarsi per un T molto grande. Pertanto, il valore di bT finisce per dipendere solo dal saldo primario, e non dal debito ereditato dal passato. Più precisamente, mentre il debito passato e quello che si forma in ogni periodo si accumulano al tasso reale r, il prodotto nazionale cresce al tasso n>r: poiché la grandezza che consideriamo è il rapporto fra i due, con n>r il contributo della formazione passata di debito alla dinamica di bT si riduce nel tempo. Purché il ritmo di crescita del PIL sia maggiore del saggio dell'interesse, lo Stato non deve provvedere al servizio del debito con avanzi primari. Si supponga ad esempio che il settore pubblico abbia un disavanzo primario costante, talché gt - ôt = a, costante per ogni t. Ebbene, in questa ipotesi, b tende a un valore stazionario b* = a(1 + n)/(n - r) (ottenuto ponendo Δbt = 0): un disavanzo primario continuo e costante è compatibile con un rapporto debito/PIL costante. Se dunque il tasso di crescita del PIL eccede sempre il saggio dell'interesse, un debito iniziale non pone particolari requisiti di solvibilità al comportamento del settore pubblico: il vincolo intertemporale di bilancio è in questo caso privo di significato.
Così non è, naturalmente, quando n〈r, che comprende n=0 come caso particolare. Esprimiamo anzitutto la (5´) in valori presenti, scontando questa volta i valori correnti a tasso (1 .+ r)/(1 .+ n) per T periodi. Otteniamo:
formula. (6')
Imponiamo ancora la condizione che questo valore presente di bT sia pari a zero per un T infinitamente grande e ricaviamo così l'analogo della (7):
formula. (7')
Il significato del vincolo intertemporale di bilancio espresso dalla (7´) per il caso r>n>0 è esattamente eguale a quello discusso in precedenza. Lo Stato non può provvedere al servizio del debito con ricorso esclusivo a ulteriore indebitamento: in presenza di un debito pregresso, sia la (7´) sia la (7) impongono ai governi di realizzare presto o tardi adeguati avanzi primari.
Poiché i vincoli alla politica di bilancio sono ben diversi a seconda che sia n>r o n〈r, ci si può chiedere se vi siano ragioni per ritenere più probabile l'uno o l'altro caso. Nella storia vi sono stati periodi di prosperità, oppure, come nella seconda metà degli anni settanta, di inattesa accelerazione dell'inflazione, in cui il saggio di crescita ha ecceduto quello d'interesse; e periodi lunghi, come dall'inizio del passato decennio, in cui è avvenuto l'opposto. L'analisi economica non riesce a spiegare compiutamente queste vicende. La teoria di ispirazione neoclassica, tuttavia, è in grado di formulare una prescrizione: un saggio di crescita superiore a quello dell'interesse configura una situazione inefficiente, poiché provoca un'accumulazione eccessiva di capitale. Per questa ragione il caso n〈r è quello solitamente considerato nella letteratura. Ma non solo per questa ragione. In primo luogo vi si manifestano i problemi teoricamente e praticamente più interessanti. In secondo luogo, sarebbe avventuroso suggerire di non vincolare in alcun modo la politica di bilancio nella speranza che continui, o si manifesti, una situazione particolarmente favorevole. Per queste ragioni in quanto segue prenderemo a riferimento il caso n〈r.
Chiarito il significato economico del vincolo intertemporale di bilancio, consideriamo ora la classica questione dell'onere del debito, che è logicamente (se non storicamente) connessa alle prescrizioni derivanti dall'accettazione del vincolo.
Una spesa pubblica addizionale può essere finanziata o con maggiori imposte o con ricorso al debito. Nel secondo caso, se r>n e se il vincolo intertemporale di bilancio è rispettato, un flusso di maggiori imposte dovrà essere prelevato per provvedere al servizio del debito. È facile verificare, dalla (7) o dalla (7´), che, date tutte le spese future, il valore presente di questo flusso è esattamente uguale al maggior debito emesso, a fronte della variazione iniziale di spesa. Si consideri ora un agente economico razionale e massimizzante, il cui orizzonte temporale coincida con quello del settore pubblico e la cui utilità dipenda dai consumi entro questo orizzonte. Il valore attuale del suo flusso di consumi deve essere uguale al valore attuale di tutti i suoi futuri redditi da lavoro al netto delle imposte future, più il valore della sua ricchezza iniziale, la quale comprende il debito pubblico in portafoglio (ovvero il b₀ della 7). Dal vincolo del bilancio pubblico risulta che la somma algebrica del flusso scontato di imposte e del debito iniziale è sempre uguale al flusso scontato di spesa pubblica. Ne segue che i consumi (e il loro profilo temporale) dipendono, negativamente, solo dai flussi (e dal profilo temporale) della spesa pubblica; ma non dipendono affatto dalle modalità del suo finanziamento, ossia dalla scelta fra debito e imposta.
Così si esprime, con rigorosa formalizzazione, la moderna teoria economica (v., per esempio, Blanchard e Fischer, 1989, cap. 2). Con pari rigore logico la stessa conclusione fu raggiunta da David Ricardo (v., 1817 e 1820) nei primi decenni dello scorso secolo e trovò una prima compiuta sistemazione nei contributi della scuola italiana, e in particolare in quelli di De Viti De Marco (v., 1898 e 1953³).
Ricardo, come gli altri economisti classici, si riferisce a un'economia che si trovi sempre al pieno utilizzo del suo potenziale produttivo: in tali condizioni, un aumento di spesa pubblica 'spiazza' un pari ammontare di spesa privata. Il vero onere per la collettività di una spesa improduttiva, diciamo di 20 milioni per una guerra, consiste nei 20 milioni "che vengono sottratti al capitale produttivo della nazione"; ma non dipende, né nella sua entità, né nella sua distribuzione, dal modo in cui la spesa viene finanziata. Se, invece di prelevare subito un'imposta per 20 milioni, si emettono 20 milioni di titoli irredimibili, poniamo al 5%, d'ora in poi, per pagare gli interessi di 1 milione all'anno, si dovranno prelevare imposte aggiuntive di 1 milione all'anno. Ma il valore attuale di un flusso perpetuo di 1 milione all'anno scontato al 5% è esattamente 20 milioni: l'onere resta dunque il medesimo, sia che si operi un prelievo immediato sia che si ricorra al debito. "Non è dunque per il pagamento dell'interesse del debito pubblico che un paese può venirsi a trovare in ristrettezze, né può avere sollievo dall'esenzione di tale pagamento" (v. Ricardo, 1817).
Si nega con ciò che esista un onere del debito distinto dall'onere reale della spesa, consistente nella minore formazione di capitale. Ricardo (v., 1817) concorda con l'affermazione di Mellon e di Say secondo cui "i debiti di una nazione sono i debiti che la mano destra deve alla mano sinistra". Chiarisce De Viti De Marco (v., 1898): "lo Stato non è debitore della nazione, dal momento che da essa riceve gli interessi, che ad essa pagherà".
Questa pur rigorosa formulazione, tuttavia, presuppone fra l'altro orizzonti temporali infiniti, e pertanto vita infinita degli agenti economici. Quando si abbandoni questa ipotesi, l'equivalenza di effetti fra finanziamento con imposta e finanziamento con debito sembra venire meno. Con la scelta fra imposte immediate e debito accompagnato da imposte future, si decide in realtà se l'onere debba gravare sui contribuenti di oggi o sulle generazioni future. Anche su questo punto Ricardo indica nell'esistenza di lasciti ereditari la strada che verrà percorsa dalla successiva teoria. Se non è colpita dall'imposta, la generazione presente trasmette un lascito maggiore, ma trasmette ai successori anche la passività del maggior prelievo che graverà su di essi per pagare gli interessi sul debito. Nel caso di prelievo immediato un lascito minore non sarà tuttavia accompagnato da passività. Le generazioni future, pertanto, ereditano la stessa ricchezza netta nei due casi: si ristabilisce così l'equivalenza, e l'indifferenza di scelta, fra debito e imposta.
La dimostrazione che "in punto di economia non vi è alcuna differenza reale" fra debito e imposta non induce tuttavia Ricardo a un'analoga indifferenza normativa. Ricardo preferisce l'imposta al debito, poiché non crede nella razionalità e nella lungimiranza degli individui. Un'imposta immediata riduce nella stessa misura il reddito spendibile e la spesa degli individui; se invece il prelievo è diluito nel tempo, l'individuo tenderà a non mettere in conto le imposte future: nella erronea "convinzione che egli è ricco come prima", ridurrà la sua spesa per consumi solo nella misura del prelievo annuo corrente. In conseguenza, il ricorso al debito "è un sistema che tende a renderci meno parsimoniosi - a renderci ciechi circa la nostra situazione effettiva" (v. Ricardo, 1817): a ridurre dunque il risparmio e la ricchezza futura della nazione.
La proposizione ricardiana di equivalenza ha ispirato e condizionato tutto il successivo dibattito teorico, ed è stata riscoperta, in versioni estreme, nella teoria più recente.
Alla scuola italiana di finanza pubblica si deve la prima sistemazione della proposizione di equivalenza fra debito e imposta e la prima indagine delle ipotesi da cui essa dipende. Pur senza ripercorrere quell'importante dibattito (in proposito v. Buchanan, 1958; v. Matteuzzi e Simonazzi, 1988; v. Toso, 1989), ricordiamo l'opera di De Viti De Marco (v., 1893, 1898 e 1953³) e i contributi di Pantaleoni (v., 1891), di Puviani (v., 1903), con le sue notazioni sulla "illusione finanziaria" dei contribuenti, di Griziotti (v., 1917), che critica l'equivalenza ricardiana in base agli orizzonti finiti degli individui, di Borgatta (v., 1918).
Fra gli anni cinquanta e sessanta una vivace ripresa della controversia sull'onere del debito fu stimolata dalla pubblicazione del già citato volume di Buchanan (i contributi di quel periodo sono riportati in Ferguson: v., 1964). La proposizione di indifferenza fu attaccata, dimostrando che il ricorso al debito, in alternativa all'imposta, provoca un trasferimento dell'onere della spesa alle generazioni future. Modigliani (v., 1961), in particolare, considera il lungo periodo di un'economia in piena occupazione, in cui gli individui nell'arco della loro vita consumano tutti i loro redditi e le loro risorse. Un aumento di spesa pubblica finanziata con debito, poiché non incide sul reddito disponibile, provoca una riduzione di pari ammontare del risparmio e degli investimenti. L'onere del debito consiste nella conseguente riduzione del flusso di beni ottenibili dalle generazioni future, pari al prodotto dei minori investimenti per la produttività (marginale) del capitale. Un aumento di imposte, invece, riduce il reddito disponibile, e pertanto il consumo, nell'arco di vita della generazione presente, senza pregiudizio per la formazione di capitale e dunque per il flusso di beni disponibili in futuro.
I successivi sviluppi risentono, sia nelle tecniche sia nell'impostazione, di un più generale mutamento di corso nell'analisi economica: il rifiuto, teorico e ideologico, di una macroeconomia, come quella keynesiana, non fondata sul comportamento ottimizzante degli agenti economici conduce all'elaborazione di modelli basati sull'equilibrio generale neoclassico di soggetti razionali e massimizzanti. I problemi connessi alla formazione e alla consistenza del debito pubblico hanno inoltre natura tipicamente intertemporale, una caratteristica, questa, trascurata non tanto da Keynes, quanto dalla vulgata keynesiana. Per cogliere questa dimensione senza sottostare all'irrealistica ipotesi di orizzonti infiniti, l'analisi teorica delle questioni del debito pubblico impiega sovente modelli (neoclassici) 'a generazioni sovrapposte'. Se ogni generazione vive, poniamo, per due periodi, in ogni periodo convivono i 'vecchi' di una generazione e i 'giovani' della generazione successiva.
Un contributo classico in questa direzione è quello di Diamond (v., 1965), che rafforza le conclusioni di Modigliani. Nel suo modello, in cui la generazione giovane è quella che risparmia, l'emissione di debito pubblico ha un duplice effetto: le maggiori imposte che gravano sulla generazione giovane comprimono l'offerta di risparmio; al contempo l'emissione di debito ne fa aumentare la domanda. Ne deriva un aumento del saggio d'interesse, che, riducendo le possibilità di consumo offerte a ogni generazione sui due suoi periodi di vita e aumentando il costo del consumo 'da vecchi' in termini di quello 'da giovani', conduce a un equilibrio inferiore rispetto a una situazione senza debito.
Sia in Modigliani sia in Diamond, si trascura il movente ereditario, brevemente ma rigorosamente trattato da Ricardo. La riscoperta di questo movente (ignorando il precedente di Ricardo) e la sua introduzione in un modello di equilibrio a generazioni sovrapposte analogo a quello di Diamond sono dovute a Barro (v., 1974, 1978 e 1981): le conseguenze sono rimarchevoli, non solo per la teoria del debito pubblico, ma più in generale per la teoria della politica economica.
Barro assume che ogni generazione abbia a cuore le sorti della generazione successiva e che la sua utilità dipenda non solo dai suoi livelli di consumo da giovane e da anziana, ma anche dai livelli di consumo accessibili ai discendenti. La massimizzazione dell'utilità sotto il vincolo delle risorse disponibili indica pertanto che una parte delle risorse verrà trasmessa alle generazioni successive. Si supponga che il governo operi uno sgravio fiscale a vantaggio dei vecchi, finanziandolo con l'emissione di debito, al cui servizio si provvede con imposte a carico dei giovani. Se i vecchi consumassero il maggior reddito disponibile, mantenendo i loro lasciti inalterati, le disponibilità di consumo della successiva generazione diminuirebbero: si verificherebbe una riduzione dei lasciti netti. Ma, se un lascito minore fosse ritenuto desiderabile, tale decisione sarebbe assunta indipendentemente dallo sgravio fiscale, che non può alterare un risultato prima ritenuto ottimale. Un comportamento razionale prescrive pertanto l'invarianza dei lasciti netti con un aumento di quelli lordi in misura pari alle passività trasmesse alla futura generazione, ossia al valore scontato delle maggiori imposte future, che, come sappiamo, è esattamente uguale al debito emesso per finanziare lo sgravio fiscale. Il debito emesso dal settore pubblico non viene considerato dalle famiglie come ricchezza netta e lo sgravio fiscale provocherà un pari aumento del risparmio, lasciando invariati il consumo e la domanda aggregata. Poiché, inoltre, la domanda di titoli aumenta in misura pari all'offerta, non vi saranno effetti sul tasso d'interesse, e dunque sulla composizione della domanda.Il corollario 'devastante' di questo teorema di equivalenza - versione estrema della formulazione ricardiana - è la totale inefficacia, nel bene e nel male, della politica fiscale. Una riduzione di imposte finanziata con debito non provoca: né un aumento di reddito, come avverrebbe in un modello keynesiano; né un aumento del saggio di interesse tale da indurre un completo spiazzamento a opera dei consumi, come avverrebbe in un modello monetarista tradizionale a velocità di circolazione costante; né un aumento dei prezzi, come avverrebbe in un modello neoclassico. Se il teorema di equivalenza vale nella sua pienezza, un aumento del risparmio pari al disavanzo vanifica qualsivoglia effetto della politica fiscale.Se la scelta fra imposte e debito è indifferente e irrilevante, come si motivano le alterne scelte fra le une e l'altro che i governi effettivamente compiono o sono chiamati a compiere? Barro (v., 1979) completa il quadro, proponendo una 'teoria positiva' del debito pubblico.
Data la consistenza iniziale di debito e dato il profilo temporale della spesa pubblica, gt, il vincolo lascia indeterminato il profilo temporale dei prelievi, che potrebbero variare nel tempo, con aumenti e diminuzioni concentrati in periodi diversi. Si supponga tuttavia che l'esazione delle imposte abbia costi crescenti (di raccolta, o derivanti da una distorsione nell'impiego delle risorse). Per minimizzarli dato il vincolo di bilancio, la politica ottimale è quella di mantenere costante nel tempo il carico fiscale.Ne deriva una prescrizione circa la scelta fra tasse e debito, pur valendo il teorema di equivalenza. Si supponga un aumento temporaneo della spesa pubblica rispetto al suo trend di lungo periodo. Quanto minore è la durata di questo scostamento, tanto meno converrà operarne il finanziamento con ricorso alle imposte. Analogamente, un calo di gettito dovuto a una depressione, anch'essa temporanea, non deve essere compensato con un aumento di pressione impositiva. In ambedue i casi è consigliabile emettere debito, onde 'spalmare' nel tempo i costi derivanti da un allontanamento del sistema dalla sua norma (tax smoothing).
Il risultato di Barro è stato definito 'equivalenza ricardiana', pur se, come abbiamo visto, la constatazione che difficilmente gli individui sono tanto razionali da tener pienamente conto di tutti i flussi di imposte future indusse Ricardo a respingere la conclusione di indifferenza fra debito e imposte. Il dibattito successivo al contributo di Barro e, ancor prima, le analisi della scuola italiana consentono di individuare quante e quanto forti siano le ipotesi necessarie per accettare il teorema di equivalenza (per un esame, fra l'altro, v. Tobin, 1980; v. Buiter e Tobin, 1980; v. Barro, 1981; v. Bernheim, 1987).Il legame altruistico fra generazioni deve essere diffuso e tradursi effettivamente in trasferimenti consapevolmente decisi nel loro ammontare netto. Questa ipotesi viene meno: nel caso di famiglie prive di figli; quando il lascito ottimale sarebbe negativo, poiché, ad esempio, si prevede che i discendenti avranno redditi maggiori; quando i lasciti non sono dettati da motivi altruistici, e in particolare quando essi sono involontari, risultando dall'accumulazione di risparmio precauzionale in presenza di incertezza circa la durata della vita o circa i redditi futuri. In tutti questi casi, un aumento di reddito disponibile dovuto a sgravi fiscali o a trasferimenti si traduce in un aumento di consumi, con un onere a carico delle future generazioni.
Un'ulteriore condizione è che il medesimo tasso di sconto venga impiegato nel vincolo di bilancio del governo e in quello degli agenti economici. Se tuttavia vi è incertezza circa la durata (finita) della vita, il tasso di sconto degli individui sarà maggiore del tasso d'interesse impiegato nel vincolo di bilancio pubblico. Inoltre, come aveva già sottolineato De Viti De Marco (v., 1953³), l'imperfezione dei mercati finanziari e la diseguale distribuzione delle risorse impediscono a molti individui l'accesso al credito, se non a condizioni troppo onerose, e comunque più onerose di quelle accessibili al debitore pubblico: questi vincoli di liquidità impediscono di conseguire il livello di spesa desiderato in certi periodi della vita. Il ricorso al debito piuttosto che all'imposta rimuove il vincolo e provoca un aumento immediato di consumi, nel caso di sgravi fiscali, o ne impedisce una riduzione, nel caso di aumenti di spesa.L'equivalenza ricardiana, soprattutto nelle formulazioni estreme, presuppone imposte in cifra fissa (lump sum). Nel caso di imposte sul reddito o sul capitale o sui consumi, definite 'distorsive' in quanto incidono sull'impiego delle risorse, la scelta fra debito e imposta potrà avere conseguenze reali di natura allocativa. Più in generale, un'incertezza sul 'se', sul 'quanto' e sul 'quando' delle imposte future introduce effetti reali del finanziamento con debito, poiché induce a non scontare, o a non scontare pienamente, le imposte future. La possibilità di ricorrere al debito influenza allora il processo politico: come scrive Puviani (v., 1903), quando parla della "illusione finanziaria" dei contribuenti, "è sui calcoli erronei, sulla illusione delle masse, che si trova la ragione determinante l'uomo politico a preferire il prestito all'imposta straordinaria".In definitiva, la portata positiva (di rappresentazione della realtà) e normativa (di irrilevanza delle politiche fiscali) del vincolo di bilancio dipende da condizioni numerose, stringenti e di non evidente realismo. Il pur raffinato dibattito teorico sulla effettiva necessità dell'una o dell'altra non pare ormai molto proficuo. Ammessa la coerenza logica della proposizione ricardiana, la verifica empirica dovrebbe chiarire se e quando gli agenti economici scontano le imposte future nel decidere i loro comportamenti. Tuttavia la varietà e l'imperfetta specificazione dei modelli sottoposti a verifica, la circostanza che i dati sono influenzati da molteplici altri fattori, l'eterogeneità dei test impiegati impediscono di raggiungere conclusioni univoche, anche se pare prevalere l'evidenza contraria al teorema di equivalenza e ai suoi corollari. (Per una rassegna del lavoro empirico: v. Bernheim, 1987; per stime nel caso dell'Italia: v. Modigliani, Jappelli e Pagano, 1985; v. Modigliani e Jappelli, 1987; v. Onofri, 1987; v. Nicoletti, 1988).
Definiamo 'regime ricardiano' (v. Sargent, 1982) un assetto di aspettative e di comportamenti pubblici e privati, entro cui vale il teorema di equivalenza e in cui la scelta fra debito e imposte avviene normalmente secondo il criterio descritto in precedenza.La prima caratteristica di questo regime è la stretta osservanza del vincolo intertemporale del bilancio pubblico: il governo sa, e sanno i contribuenti, che un maggior debito oggi significa necessariamente maggiori imposte domani. In un modello ricardiano il livello iniziale di b₀ può assumere un qualsiasi valore. L'osservanza del vincolo ammette in conseguenza che, date le spese, il flusso scontato di imposte possa assumere il qualsivoglia valore richiesto, non importa quanto alto. Il rispetto del vincolo è addirittura compatibile con una crescita illimitata del debito, a patto che essa sia accompagnata da una crescita illimitata della pressione tributaria (v. McCallum, 1984; v. Spaventa, 1987). Questo corollario richiede a sua volta che qualsivoglia ammontare di titoli pubblici possa essere collocato nei portafogli privati al tasso d'interesse corrente. Da questo punto di vista, vincolo di bilancio e proposizione di equivalenza sono complementari l'uno all'altra: la seconda implica il primo; ma, se la seconda non vale, una maggiore emissione di debito può quantomeno provocare un aumento del tasso d'interesse, e pertanto maggiori imposte future.
Queste implicazioni del modello ricardiano, pur se paradossali, sono ammissibili se si accetta un assunto caratteristico dei modelli neoclassici di equilibrio: quello dell''agente rappresentativo', ovvero di una completa uniformità di preferenze, dotazioni e comportamento razionale di tutti gli agenti economici, che consente di estendere all'intero universo i risultati ottenuti dallo studio del comportamento ottimizzante di un solo agente. Se infatti gli agenti economici fossero eguali in tutto e per tutto, il prelievo futuro per pagare gli interessi sul debito inizialmente emesso si risolverebbe in un mero trasferimento, privo di effetti sulla distribuzione del reddito.
Anche in questo caso, tuttavia, si manifesta una difficoltà teorica, qualora il governo, seguendo la regola già ricordata, emetta debito per mantenere all'incirca costante nel tempo il carico tributario e minimizzare i costi di un'imposizione distorsiva. Tale difficoltà, messa in luce dalla teoria più recente, deriva da un problema definito di 'incoerenza temporale' (per una sintesi: v. Alesina, 1988). Un governo che massimizzi il benessere deve finanziare una spesa straordinaria con l'emissione di debito e 'spalmando' l'aumento della pressione fiscale su tutti i periodi futuri. Ma, trascorso il momento straordinario, l'ottimizzazione del benessere sociale richiede al pianificatore un comportamento diverso, poiché all'aumento di imposte distorsive sarebbe preferibile l'esazione di un'imposta a cifra fissa. L'esistenza di un debito pregresso apre questa seconda possibilità: l'espropriazione del debito, con il ripudio, o con un'imposta straordinaria sulla ricchezza, o (se il debito non era indicizzato) con lo scatenamento di un'improvvisa inflazione, equivale a un'imposta a cifra fissa, priva di effetti distorsivi sulla produzione e sul reddito. Se gli agenti privati, razionali e perfettamente consapevoli delle possibili motivazioni del loro pur benevolo governo, anticipano il possibile incentivo all'esproprio, essi rifiuteranno di sottoscrivere il debito emesso, rendendo così impossibile sin dall'inizio un comportamento delle autorità che, proprio perché inteso alla massimizzazione del benessere sociale, è incoerente rispetto al piano inizialmente enunciato.
La considerazione dei problemi d'incoerenza temporale nella teoria del debito pubblico è importante, perché introduce nell'analisi una dimensione politica: quella della 'reputazione' del governo di mantenere gli impegni assunti, anche imponendo vincoli al suo comportamento. Il contesto dell'analisi tuttavia non ne viene di molto arricchito. L'ipotesi di agente rappresentativo, e pertanto di eguaglianza di dotazioni, preferenze e comportamenti, resta, e giustifica quella ulteriore di governi indifferenziati e sempre benevoli: se i soggetti sono tutti uguali, il benessere sociale è agevolmente definibile (coincidendo con l'utilità di un soggetto rappresentativo), ed è naturale che qualsiasi governo si sforzi di massimizzarlo. Infine, in questa letteratura ci si riferisce sempre all'esazione di imposte esplicite e si tende a trascurare l'alternativa costituita dal finanziamento monetario del fabbisogno.
A motivo di questi limiti, le analisi di un regime ricardiano, pur se utili, non consentono di rispondere ad alcuni importanti quesiti posti dall'esperienza e dalla storia. Esse non sono in grado di spiegare le notevoli differenze dei livelli di debito nel tempo, per una stessa economia, e nello spazio, fra economie diverse, che si verificano anche quando mancano le cause specifiche previste dalla teoria (guerre e depressioni economiche). Le ipotesi di agenti uniformi e di governi uniformemente benevoli non consentono d'interpretare i comportamenti dei saldi primari, e dunque di spese ed entrate, che provocano quelle differenze. Per tale ragione, una letteratura recente, spingendosi al confine con la scienza politica e impiegando modelli appartenenti alla teoria dei giochi, introduce la possibilità di alternanza di governi di diversa confessione ('destra' e 'sinistra') o tenta di stabilire una relazione fra grado di stabilità politica e livello e dinamica dei disavanzi e del debito (v. soprattutto Alesina e Tabellini, 1990).
Nel contesto di un regime ricardiano resta difficile spiegare alcuni notevoli episodi di crisi, come quelli verificatisi in Italia e in Francia nella seconda metà degli anni venti. Entrambi i paesi avevano ereditato dalla prima guerra mondiale un elevato livello di debito; entrambi avevano messo a posto i loro bilanci sino a raggiungere il pareggio o addirittura un lieve attivo; nonostante ciò, in entrambi una fuga dal debito pubblico rese palese che i risparmiatori percepivano una situazione di insolvibilità. Le crisi del debito si accompagnarono in Francia a ripetute crisi politiche, sino alla stabilizzazione operata sotto la presidenza Poincaré, mentre in Italia il governo fascista fu costretto a decretare il consolidamento del debito fluttuante nel 1926. (Su queste esperienze vi è una vasta letteratura; si vedano a titolo di esempio: Nurkse, 1946; Marconi, 1981; Confalonieri e Gatti, 1986; Alesina, 1988). Analogamente, in un regime ricardiano, risulta difficile motivare le preoccupazioni e i timori oggi ripetutamente espressi e le difficoltà di collocamento dei titoli a volte notate in paesi con alto livello e rapida crescita del debito (come in Italia).In molti casi, dunque, la realtà e la storia non si lasciano costringere nei modelli in cui, per costruzione, il trasferimento da imposte a interessi non modifica la distribuzione del reddito: nella realtà e nella storia, i comportamenti di spesa e di prelievo hanno motivazioni ed effetti distributivi. Ciò può avvenire a causa di diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza accompagnate da differenze di aliquote effettive di imposizione sui redditi da lavoro e da capitale; o se la base imponibile potenziale non riflette l'effettiva distribuzione del reddito, talché ogni aumento del carico fiscale percuote in modo diverso diverse categorie di reddito. In tutti questi casi viene meno l'identità fra i soggetti chiamati a pagare le maggiori imposte e quelli che percepiscono i maggiori interessi. Poiché all'aumentare del livello di debito aumenta, come abbiamo visto, l'avanzo primario richiesto dal requisito di solvibilità, aumenta anche il costo politico della solvibilità. L'aumento del carico tributario incontra infatti ostacoli crescenti, che si manifestano sia nell'evasione e nell'elusione sia in sintomi di 'rivolte fiscali'. È dunque possibile che, oltre un certo limite, il costo (soprattutto politico) dell'esazione di maggiori imposte divenga così alto da far intravedere un limite massimo al possibile carico tributario.
Questi effetti furono illustrati con acume da Keynes, (v., 1923), con particolare riferimento alla crisi francese. "Quando gli obblighi contrattuali dello Stato [...] assorbono una proporzione esorbitante del reddito nazionale", e "ai portatori di titoli di Stato spetta più di quanto i contribuenti possono sopportare", si deve "venire a un compromesso tra l'aumento delle imposte e la diminuzione delle spese da una parte e la diminuzione di quanto è dovuto ai [...] rentiers dall'altra": infatti, "in nessuna società, antica o moderna, gli elementi attivi e produttivi acconsentirono mai a cedere alla classe dei rentiers o portatori di obbligazioni più di una certa proporzione dei frutti del loro lavoro". In questa prospettiva, Alesina (v., 1988) osserva che "la scelta di 'chi debba pagare per la guerra' è essenzialmente un problema di redistribuzione del reddito fra soggetti che sono oggi in vita" e propone una "teoria politica del debito" basata sul conflitto fra rentiers, da un lato, e, dall'altro, imprenditori e lavoratori, i quali si oppongono a un aumento della pressione fiscale sul reddito o sul patrimonio.
Un mondo in cui si verificano conflitti siffatti è assai lontano dal regime ricardiano. Se il governo consente al debito di giungere a un livello tale che il carico tributario richiesto dal vincolo di bilancio eccede un certo limite, si verifica un'imprevista situazione di insolvibilità: un programma fiscale coerente con il vincolo risulta inattuabile. La percezione di tale situazione da parte del mercato impedisce, o rende più difficile, il collocamento dei titoli: poiché il debito pubblico comincia a essere considerato rischioso, ne può derivare un aumento dei tassi d'interesse, che inasprisce ulteriormente i requisiti di solvibilità. Un esito analogo può verificarsi quando la distribuzione del reddito ponga un limite alla quantità di titoli pubblici che i portafogli privati sono in grado di assorbire (v. Sargent e Wallace, 1981).
In questi casi si manifestano condizioni favorevoli a episodi di crisi del debito. Le soluzioni, siano esse deliberate, o spontanee e incontrollate, incidono necessariamente sulla distribuzione del reddito e della ricchezza. Un governo forte e credibile può anche riuscire a imporre una distribuzione accettabile dei sacrifici richiesti da una politica di bilancio e ristabilire le condizioni oggettive e la percezione soggettiva di solvibilità. Altre soluzioni, più traumatiche, sono intese a ridurre l'autoalimentazione del debito attraverso una riduzione della consistenza passata. Questa operazione può essere compiuta con il ripudio delle obbligazioni contratte dallo Stato; oppure con un'imposta patrimoniale straordinaria, il cui ricavato sia destinato al ritiro del debito; oppure con un improvviso aumento dei prezzi, che, quando riesca a tagliare il valore reale delle obbligazioni, equivale a un'imposta patrimoniale concentrata sul debito pubblico (e sulle altre obbligazioni espresse in termini nominali).
L'ipotesi del ripudio è poco plausibile, se non quando avvengono mutamenti traumatici di regime politico, e certamente sconsigliabile: la perdita di fiducia e di reputazione che ne deriva impedisce per lungo tempo a venire l'emissione di debito, anche quando questa sarebbe giustificata. Fra le altre due soluzioni, Keynes (v., 1923) riteneva preferibile l'imposta patrimoniale, ma dubitava della sua praticabilità (perché "è difficile a spiegarsi e suscita pregiudizi violenti"): almeno nel caso della Francia, egli auspicava una riduzione del valore reale del franco.
Una riduzione della consistenza del debito riduce la stringenza del vincolo di solvibilità, ma non è di per sé sufficiente a risolvere il problema: ad essa si deve accompagnare una politica di bilancio in grado d'impedire che il debito ricominci a crescere e si rinnovi una situazione di crisi. Né è detto che un aumento improvviso dei prezzi sia efficace per ridurre il valore reale del debito e dei pagamenti di interessi: affinché ciò avvenga, occorre che una quota cospicua del debito consista di titoli a lunga scadenza a cedola fissa. Se invece i titoli sono a breve termine, o hanno un rendimento indicizzato ai tassi d'interesse a breve (come in Italia), o hanno un rendimento indicizzato ai prezzi, l'effetto dell'imprevisto salto d'inflazione sarà modesto e comunque temporaneo.
Una relazione fra livello del debito e inflazione può tuttavia manifestarsi in modi diversi. Di fronte a una crisi incipiente e quando non si riesca ad aggiustare la politica di bilancio, le autorità saranno costrette ad aumentare il finanziamento monetario del disavanzo, per ridurre l'emissione di titoli sul mercato. Considereremo ora la natura e le conseguenze di questa alternativa.
Gli effetti di un finanziamento monetario del disavanzo sull'accumulazione e sul livello di debito sono resi evidenti dalla (4) (v. sopra, § 2c). Per dati saldo primario e tasso d'interesse reale, un maggior finanziamento monetario, ΔHt/Yt, riduce la velocità di crescita del debito sul mercato. In conseguenza, se confrontiamo al tempo T due economie con una uguale storia passata di saldi primari e uguali valori del tasso d'interesse e del tasso di crescita reali, quella con un maggior finanziamento monetario, ossia con un maggior valore Ht/Yt, avrà uno stock di debito sul mercato, bT, minore dell'altra.
Conviene ridefinire il rapporto fra finanziamento monetario e PIL: ΔHt/Yt = (ΔHt/Ht₁)*(Ht-₁/Yt) = μtht - ₁/(1 + σt), ove μt è il tasso di crescita al tempo t della base monetaria creata per finanziare il fabbisogno, σt è il tasso di crescita nominale del PIL e ht - ₁ è il rapporto fra base monetaria e PIL a t - 1.
Per semplicità, inoltre, introduciamo d'ora in avanti le seguenti ipotesi:
a) il finanziamento monetario del fabbisogno rappresenta la sola fonte di creazione di base monetaria;
b) la banca centrale restituisce al Tesoro gli interessi ricevuti, talché il finanziamento monetario è privo di costi per il bilancio;
c) il tasso di crescita della base monetaria è pari a quello del PIL nominale, ovvero μt = σt = (1 + nt) (1 + πt) - 1: data la crescita reale, se il primo aumenta, aumenta anche il tasso d'inflazione;
d) il tasso d'interesse reale è costante e non dipende dal tasso d'inflazione;
e) in ogni situazione il tasso di crescita della base monetaria è costante nel tempo.
Con queste ipotesi, il vincolo intertemporale di bilancio ora diviene:
formula. (7)
Dato il livello iniziale di debito e dato il flusso di spese, il finanziamento monetario del fabbisogno riduce il prelievo tributario necessario per soddisfare il vincolo. Se consideriamo due situazioni con un diverso valore di σh, e valori uguali del debito e dei flussi di spesa, a un maggior valore di σh corrisponderà un minore flusso scontato di imposte.
Un aumento del finanziamento monetario, e dunque dell'inflazione, può supplire pertanto al conseguimento di un adeguato avanzo primario da ottenere con un aumento del prelievo o un taglio della spesa. Si noti che ciò avviene a parità di saggio d'interesse reale: l'inflazione in questo caso opera non sulla remunerazione reale, ma sulla formazione del debito fruttifero.
Illustriamo anzitutto un notevole corollario della relazione fra finanziamento monetario e crescita del debito (v. Sargent e Wallace, 1981). Consideriamo una situazione in cui, data la politica fiscale e per un dato finanziamento monetario del fabbisogno, il debito continua a crescere. Si supponga un limite all'ammontare di debito che i risparmiatori sono disposti a tenere in portafoglio (derivante o da vincoli alla composizione della ricchezza finanziaria o da una crescente percezione d'insolvibilità del debitore pubblico), che viene raggiunto al tempo T. Da quel momento in poi, le autorità non sono più in grado di emettere titoli sul mercato: da T in poi l'intero fabbisogno deve essere finanziato con moneta; aumentando il finanziamento monetario, aumenta l'inflazione. Dato il saldo primario (poiché è data la politica fiscale), quanto maggiore è bT, tanto più, dopo T, devono crescere finanziamento monetario e inflazione. D'altra parte, bT sarà tanto maggiore quanto minori sono stati il finanziamento monetario e l'inflazione in tutti i periodi precedenti a T. Se ne deduce che, nelle postulate condizioni di politica fiscale, cercare di ottenere una minore inflazione oggi significa andare incontro a una maggiore inflazione domani; per contro, se si accetta una maggiore inflazione fin dall'inizio, l'inflazione dopo T sarà minore che nel caso precedente (v. Spaventa, 1987). In una versione estrema, con una domanda di moneta che dipende negativamente dalle aspettative d'inflazione, Sargent e Wallace dimostrano che il tentativo di contenere l'inflazione può provocare subito una maggiore inflazione.La possibilità di finanziare il fabbisogno pubblico con emissione di moneta non è tuttavia né illimitata né priva di costi, poiché, come ora vedremo, anche l'inflazione è una forma peculiare di imposizione.
La base monetaria emessa a copertura del fabbisogno del Tesoro trova il suo impiego come circolante presso il pubblico (biglietti e monete) e come riserva delle aziende di credito. Trascuriamo per ora le riserve delle banche. Supponiamo di trovarci in un'economia con un tasso di crescita reale nullo e un tasso d'inflazione positivo e costante, per cui σ = π. Non vi è 'illusione monetaria': al dato tasso d'inflazione la domanda di circolante del pubblico in termini reali è proporzionale al reddito nominale, ovvero H = hY con h costante. Essendo h costante, abbiamo:
Ne segue che
In presenza d'inflazione, dunque, solo per mantenere costante la quantità reale di circolante occorrente per le transazioni, il pubblico deve acquisirne una maggiore quantità nominale. Una parte del reddito disponibile reale del pubblico (reddito prodotto più interessi reali sul debito pubblico posseduto meno imposte in termini reali) deve essere dunque dedicata alla ricostituzione del valore reale del circolante anziché al consumo o all'aumento della ricchezza reale. Ne segue che il termine [π/(1 + π)]*h rappresenta, come le imposte propriamente dette, una sottrazione dal reddito destinabile a consumo e ad accumulazione: quel termine rappresenta appunto l'imposta da inflazione.
Il circolante viene detenuto dal pubblico, perché rappresenta un mezzo di pagamento a corso legale, che deve essere accettato a saldo delle transazioni compiute. La banca centrale ha, per conto del governo, il monopolio dell'emissione della moneta legale; in regime di corso forzoso tale moneta non è convertibile e rappresenta solo un segno cartaceo, emesso a discrezione delle autorità monetarie. Il potere del governo di emettere (o di imporre alla banca centrale di emettere) mezzi di pagamento non convertibili viene definito signoraggio. Con l'esercizio del signoraggio, come con il prelievo fiscale, il governo può appropriarsi di risorse per finanziare le sue spese. L'identificazione del signoraggio con l'imposta da inflazione è immediata. Dalla (4) del § 2c (e da quanto detto in precedenza) risulta che l'emissione di moneta, ΔHt/Yt, è un mezzo di finanziamento della spesa pubblica alternativo al prelievo tributario o a una maggiore emissione di debito. Se il tasso di crescita della base monetaria è uguale al tasso di crescita nominale del reddito (μ = σ), e se il rapporto fra circolante e reddito nominale, h, è costante per un dato tasso d'inflazione, ΔHt/Yt = [σ/(1 + σ)]*h: con un tasso di crescita reale nullo, questo termine è esattamente l'imposta da inflazione.
Più in generale, con un tasso di crescita reale positivo (per cui σ = (1 + n) (1 + π)-1), il signoraggio avrà due componenti. Una, per così dire fisiologica, è dovuta alla crescita reale: l'aumento della domanda di circolante all'aumento del reddito reale (tipicamente all'aumento della popolazione, a produttività costante) consente al governo di stampare più moneta, senza provocare inflazione. L'altra componente è l'imposta da inflazione. Esaminiamo ora quali siano i limiti all'appropriazione di risorse attraverso questa seconda componente.
Richiamiamo la nozione di rendimento reale di un'attività finanziaria (v. § 2c): r = (i - π)/(1 + π) è la differenza fra il tasso di interesse nominale di quella attività e la perdita del suo valore reale provocata dall'inflazione. Il circolante è la più liquida fra le attività finanziarie, ma anche quella il cui rendimento nominale è uguale a zero (un biglietto di banca non offre alcun interesse): con un tasso d'inflazione positivo, il suo rendimento reale è pertanto negativo (- π/(1 + π)). Pur se ha il rendimento minimo fra tutte le attività finanziarie, il circolante viene detenuto dal pubblico per il servizio di liquidità che esso offre: è infatti il mezzo di pagamento comunemente (o obbligatoriamente) accettato, diversamente da altre attività finanziarie con rendimento reale positivo (come i titoli), che non possono adempiere a questa funzione. Il costo di tenere una parte della propria ricchezza in forma di circolante è misurato dal rendimento nominale corrisposto su queste altre attività, che rappresentano la forma di impiego alternativo. Si supponga che i titoli abbiano un rendimento reale costante: ne segue che il costo di tenere circolante aumenta al crescere del tasso d'inflazione. È ragionevole ritenere che, all'aumentare del costo, la domanda di circolante si riduca: ossia, all'aumentare di π, diminuisce h. Ne segue che il prodotto [π/(1 + π)]*h, che è l'imposta da inflazione e misura l'ammontare di risorse di cui il governo si appropria con la componente inflazionistica del signoraggio, non aumenta in proporzione a π. Nel punto in cui la riduzione percentuale di h è pari all'aumento percentuale di π/(1 + π), il signoraggio da inflazione tocca un massimo: un ulteriore aumento del finanziamento monetario e dell'inflazione provocherebbe una riduzione, anziché un aumento, del signoraggio, e il governo potrebbe ottenere lo stesso ammontare di risorse con un tasso d'inflazione minore. (Se si considerano variazioni nel continuo, anziché, come abbiamo fatto, variazioni discrete, il punto di massimo gettito dell'imposta da inflazione è quello in cui l'elasticità della domanda di circolante raggiunge un valore unitario; la prima formalizzazione è dovuta a Bailey: v., 1956).
L'esistenza di un limite superiore al finanziamento monetario e inflazionistico del fabbisogno è stata verificata in situazioni di iperinflazione acuta. Quando la domanda di circolante si riduce più rapidamente di quanto ne aumenti la creazione, la quota di risorse di cui il governo riesce ad appropriarsi stampando moneta (ΔHt/Yt = [σt/(1 + σt)]*ht) resta assai bassa.
Nel dibattito sull'opportunità di impiegare anche il signoraggio, oltre alle imposte e all'emissione di debito, come fonte ordinaria di entrate per lo Stato (per una breve rassegna: v. Spaventa, 1988) si possono distinguere due principali posizioni. Secondo la prima, variamente articolata, l'inflazione provoca costi ed effetti distorsivi che riducono il benessere sociale: un governo 'benevolo' deve pertanto evitare di finanziare il disavanzo con moneta. Una parte notevole della letteratura, impostando il problema in termini di combinazione ottimale di imposte, giunge al risultato che anche il signoraggio, inteso come imposta sulla liquidità, deve essere impiegato insieme alle imposte ordinarie sul reddito o sui consumi. Nei contributi moderni questa diversità di risultati è dovuta soprattutto al modo in cui il servizio reso dalla moneta viene trattato: la seconda posizione deriva dall'introduzione della moneta nella funzione di utilità degli agenti economici, a motivo dei servizi resi nel facilitare le transazioni; la prima posizione risulta dall'attribuzione alla moneta di funzioni analoghe a quelle di un mezzo di produzione, in quanto consente di dedicare maggiori risorse al processo produttivo.
Pur se non nei termini appena accennati, i primi importanti contributi sono quelli di Friedman (v., 1971) e Bailey (v., 1956). Per Friedman, la quantità ottima di moneta (un bene a costo di produzione nullo) è quella che, saziando completamente il bisogno di liquidità degli agenti, sarebbe domandata se la detenzione di moneta fosse priva di costi. Per consentire che il rendimento reale della moneta sia pari a quello delle altre attività, il tasso d'inflazione deve essere negativo e pari a -r (tasso di rendimento reale sulle altre attività). Per Bailey il costo dell'inflazione è misurato dalla perdita di utilità conseguente alla rinuncia a tenere una maggiore quantità di moneta, definita graficamente dal triangolo sottostante alla curva di domanda di moneta in funzione del tasso d'inflazione.
Phelps (v., 1973) per primo affronta il problema in termini di tassazione ottimale in equilibrio generale, con la moneta nella funzione di utilità. Egli dimostra che, se le aliquote delle imposte ordinarie sono positive, è ottimale tassare anche la liquidità con l'uso del signoraggio: come le altre imposte, anche l'imposta da inflazione serve a ridurre il reddito disponibile, determinando una differenza fra prezzo alla produzione (che per la moneta è zero) e prezzo per il consumatore (il rendimento nominale delle altre attività). Le conclusioni di Phelps, che hanno offerto il punto di riferimento per tutto il dibattito successivo, sono state variamente criticate. Oltre a dibattere se la moneta debba trovar posto nella funzione di produzione, si è notato che, pur se il signoraggio ottimale è positivo, possono manifestarsi problemi dinamici di incoerenza temporale (v. Calvo, 1978). Lucas (v., 1986) osserva che, mentre alcuni beni possono essere acquistati a credito, altri devono essere pagati in contante. Se gli uni e gli altri sono già soggetti a imposizione ordinaria, l'imposta da inflazione, in quanto penalizza la liquidità, finisce per essere una tassa aggiuntiva sulla seconda categoria di beni, con effetti distorsivi, nocivi al benessere.
L'essenza del risultato di Phelps pare tuttavia resistere alle critiche. In via teorica, non è affatto scontato che la moneta debba essere inclusa nella funzione di produzione. In via di fatto, quando il debito pubblico accumulato sia già elevato e quando il prelievo tributario incontri dei limiti (per esempio, connessi alla distribuzione del reddito: v. § 6a) o presenti costi crescenti, un adeguato tasso di signoraggio può essere condizione necessaria perché non si determini una situazione del tipo di quella delineata da Sargent e Wallace (v. sopra, § 7a). In sistemi economici poco sviluppati, inoltre, esistono larghe aree di 'economia sommersa', ove si formano redditi che sfuggono facilmente all'accertamento e all'imposizione e in cui, d'altro canto, si fa maggior uso di circolante: mentre un aumento della pressione fiscale graverebbe solo sui redditi accertabili, un'imposta sulla liquidità riesce a colpire tutti i soggetti (v. Dornbusch, 1988).
Queste considerazioni hanno trovato posto in un modello teoricamente semplice e suscettibile di verifica empirica, che collega signoraggio, pressione tributaria e livello del debito (v. Mankiw, 1987; v. Grilli, 1989) e che ha tratti molto simili alla 'teoria positiva del debito' ricordata nel § 5a. Si presume che sia l'imposizione tributaria, sia l'inflazione, e pertanto il signoraggio, abbiano costi marginali crescenti. (Nel caso, poco realistico, di economie perfettamente indicizzate, i costi dell'inflazione si limitano al parziale sacrificio dei servizi di liquidità e al dispendio di risorse per aggiornare frequentemente i listini dei prezzi; nel caso più comune di indicizzazione incompleta, occorre considerare i più pesanti effetti distorsivi sul valore reale dei debiti, sulle aliquote reali di imposta, sul computo di costi e ricavi. Un'accurata analisi dei costi dell'inflazione in diverse ipotesi di indicizzazione è in Fischer e Modigliani: v., 1978).
Dalla minimizzazione del valore presente della somma dei costi dell'imposizione e dell'inflazione, dato il vincolo intertemporale di bilancio, si ottengono i seguenti risultati:
a) conviene mantenere carico tributario e signoraggio costanti nel tempo, con un rapporto fra l'uno e l'altro che dipende dai costi marginali relativi;
b) se aumenta il fabbisogno occorre aumentare sia le imposte sia il signoraggio;
c) pressione tributaria e signoraggio sono in relazione positiva con la dimensione dei flussi di spesa e con il livello iniziale del debito.
Il pregio di modelli di questo tipo consiste nell'individuazione di un esplicito legame intertemporale fra livello della spesa e del debito, da un lato, e livello dell'inflazione, dall'altro (come già intuito, per ragioni non del tutto dissimili, da Keynes).
Sinora abbiamo supposto che la base monetaria emessa per finanziare il fabbisogno sia impiegata unicamente dal pubblico come circolante. In realtà una parte cospicua di essa è detenuta dalle banche per far fronte all'obbligo di tenere una riserva in contante. La riserva obbligatoria è proporzionale ai depositi, con un coefficiente fissato discrezionalmente. Sia k il valore di questo coefficiente, sia d il rapporto fra depositi e PIL, sia c il rapporto fra circolante nelle mani del pubblico e PIL. Il rapporto fra base monetaria e PIL, h, è ora espresso come somma di due componenti: h = c + kd.
L'inflazione opera come un'imposta anche sulla base monetaria impiegata come riserva obbligatoria. Su questa infatti viene solitamente pagato un tasso fisso molto basso, inferiore a quello che le banche devono pagare sui depositi: supponiamo per semplicità che sia zero. Nel bilancio di una banca il passivo, costituito dai depositi, deve eguagliare l'attivo, pari alla somma degli impieghi (prestiti e titoli) e della riserva: poiché una quota dell'attivo ha rendimento nullo, il tasso medio d'interesse nominale richiesto sui prestiti deve comunque eccedere quello pagato sui depositi. All'aumentare del tasso d'inflazione il rendimento reale (negativo) della riserva diminuisce, e pertanto aumenta la differenza fra tassi d'interesse reali sui prestiti e sui depositi: questo 'cuneo' fra i due tassi rappresenta una forma d'imposizione 'occulta', che ha, appunto, una componente inflazionistica.
Se alle banche viene corrisposto un interesse sulla riserva, l'aliquota dell'imposta da inflazione sulla corrispondente componente di base monetaria è minore di π/(1 + π), da cui occorre sottrarre il rendimento corrisposto sulle riserve. D'altro canto, il livello di h non dipende più solo dalla domanda del pubblico, ma può in parte essere manovrato dalle autorità. Per ottenere un dato livello di signoraggio, le autorità dispongono infatti di due strumenti: il tasso di creazione di base monetaria, da cui dipende l'aliquota dell'imposta da inflazione, e il coefficiente di riserva obbligatoria, da cui dipende il livello di h. Con un aumento di k si può ottenere un aumento di h, che consente di aumentare il signoraggio a parità di tasso d'inflazione. Gli effetti di un aumento di π divengono più complessi che nel caso di solo circolante, poiché dipendono anche da come varia la domanda di depositi al variare della loro remunerazione reale. La dimensione degli effetti di un aumento di k dipende anche dal grado di concorrenza e di regolamentazione del sistema bancario (v., per esempio, McClure, 1986, e, per una trattazione del problema in un modello di equilibrio generale, v. Romer, 1985).
La libertà delle autorità di decidere il tasso di creazione della base monetaria e il coefficiente di riserva obbligatoria trova limiti notevoli in una piccola economia aperta, che sia legata ad accordi di cambio con altri paesi e consenta libertà di movimento ai capitali. In un sistema a cambi fissi (pur se occasionalmente aggiustabili, come il Sistema Monetario Europeo) il tasso d'inflazione dei paesi partecipanti deve tendenzialmente convergere allo stesso livello: altrimenti si verificherebbe una divergenza sistematica di competitività fra i paesi a inflazione più alta e quelli a inflazione più bassa, con squilibri crescenti delle bilance dei pagamenti. Con libertà dei movimenti di capitali, si produrrebbero pressioni speculative contro le valute dei paesi a inflazione più alta: per impedirle, la banca centrale deve mantenere un livello elevato dei tassi d'interesse.
In un sistema a cambi fissi, in definitiva, la politica monetaria è subordinata a obiettivi d'inflazione e di tassi d'interesse compatibili con la difesa del cambio e non può essere vincolata alle esigenze della politica di bilancio: il tasso di finanziamento monetario del fabbisogno cessa di essere uno strumento liberamente manovrabile. In casi di debito elevato, in cui non si possa o non si voglia raggiungere un avanzo primario sufficiente ad assicurare il servizio del debito, l'adesione a un sistema di cambi fissi può dunque creare problemi seri, poiché limita il tasso di signoraggio su cui il governo può contare. (Si consideri che nei progetti di unione monetaria europea viene esplicitamente escluso il ricorso al finanziamento monetario diretto del fabbisogno nei paesi partecipanti).
L'integrazione finanziaria fra paesi accentua queste contraddizioni, poiché al vincolo sul tasso di signoraggio ne aggiunge un altro sul livello di h. Questo, come abbiamo visto, dipende in misura notevole dal coefficiente di riserva obbligatoria: a un più alto livello di k corrisponde, a parità d'inflazione, un signoraggio maggiore. Tuttavia un più alto coefficiente di riserva riduce la competitività del sistema bancario, poiché aumenta la differenza fra tassi d'interesse sui prestiti e tassi sulla raccolta. In una situazione d'integrazione finanziaria risulteranno avvantaggiate le banche dei paesi in cui è minore il coefficiente di riserva. A lungo andare si verificherà una convergenza di tutti i paesi del sistema verso il coefficiente di riserva minore: ciò porrà un limite al rapporto fra base monetaria e PIL, e pertanto alla base del signoraggio. (Su questi problemi, nel contesto del processo di unificazione europea, v. Dornbusch, 1988; v. Drazen, 1989; v. Giavazzi, 1989). In definitiva, in un'economia aperta che partecipi a un accordo di cambio, il vincolo intertemporale di bilancio finisce per divenire più stringente in termini di livello delle spese primarie e di livello della pressione tributaria.
Definita la sua politica fiscale, ossia le decisioni circa spese ed entrate presenti e future, l'emittente pubblico deve affrontare problemi di politica finanziaria, concernenti la gestione del debito, con riferimento sia ai periodici rinnovi delle consistenze sia al finanziamento dei nuovi disavanzi. (Anche quando il rapporto fra debito e PIL è costante, si avrà comunque un'emissione lorda positiva, per il rinnovo dei titoli in scadenza; si avrà anche un'emissione netta positiva, se è positivo il tasso di crescita del PIL nominale).
Le scelte riguardano fra l'altro: la durata (o maturità) dei titoli da emettere (dal brevissimo termine al limite estremo di un titolo irredimibile); il tipo di titoli da emettere (a tasso fisso o a tasso variabile, denominati in moneta nazionale o in valute estere); le modalità di emissione (prezzo e quantità fissi, o aste, con diverse modalità, o quantità variabili, emissione all'interno o all'estero). Ancora altri problemi riguardano il funzionamento e la liquidità dei mercati secondari.
Se valesse nella sua interezza la proposizione 'ricardiana' estrema di equivalenza e di irrilevanza, anche una politica di gestione del debito sarebbe irrilevante: quando non vi siano trasferimenti di oneri all'interno di una generazione o fra generazioni, il costo e il modo di finanziamento del disavanzo sono privi di effetti. Abbiamo visto tuttavia che quella proposizione non ha validità assoluta e generale e che il ricorso al debito provoca effetti distributivi, sia fra generazioni, sia fra soggetti di una medesima generazione: lo confermano alcuni casi, citati in precedenza, di crisi del debito pubblico pur in presenza di situazioni equilibrate di bilancio. Poiché la teoria ammette, e la realtà conferma, la rilevanza della politica di gestione del debito (per una discussione di questi aspetti, v. Pagano, 1988), pare legittimo assegnare a essa il compito di minimizzare il costo del debito: minore è infatti questo costo, minore è l'avanzo primario richiesto dal vincolo di bilancio, minore è pertanto l'effetto distributivo prodotto dal debito.
Questo obiettivo richiede alcune precisazioni. Anzitutto, come dovrebbe risultare chiaro da quanto detto al § 2c, quello che conta è il costo del debito in termini reali. In secondo luogo, la minimizzazione del costo deve aver riguardo a tutto l'arco di vita del debito emesso, anche perché condizioni favorevoli a una crisi di debito, con difficoltà di rinnovo dei titoli in scadenza, provocano un aumento del costo delle nuove emissioni. Meno agevole della definizione dell'obiettivo è l'individuazione di criteri precisi di gestione del debito pubblico, a motivo sia di incertezze teoriche (v. Fischer, 1986), sia di diversità storiche e istituzionali. Si possono tuttavia illustrare alcune questioni di maggior rilievo. (Per alcune di tali questioni, con particolare riferimento all'esperienza italiana, v. Spaventa, 1988; v. inoltre Ministero del Tesoro, 1989).
Non vi è alcuna ragione a priori per preferire una vita media lunga del debito a una breve. Quando tuttavia il livello di debito è elevato, una sua durata breve, che impone rinnovi frequenti dell'intera consistenza, aumenta i rischi e i costi di possibili crisi di fiducia, provocate da ragioni economiche obiettive, o, più spesso, da motivi politici, da timori di provvedimenti straordinari, da voci incontrollate. Il maggior rendimento che deve essere offerto per compensare il rischio percepito dai risparmiatori aumenta l'onere d'interesse tanto più quanto maggiore è il debito in scadenza, e pertanto quanto più breve è la vita del debito.
D'altro canto, anche l'allungamento della durata può presentare in alcune circostanze un costo non indifferente. Si supponga che in un paese l'inflazione sia ancora elevata, e/o che sia ancora elevato il disavanzo; e che tuttavia il governo sia impegnato in un piano di riduzione dell'inflazione e/o del disavanzo. Probabilmente in queste condizioni titoli a lungo termine a tasso fisso possono essere emessi solo se i rendimenti nominali riflettono l'inflazione corrente e/o incorporano un premio di rischio per l'ancora incerta solvibilità del debitore pubblico. Ma se poi l'inflazione scende e/o il disavanzo viene eliminato, lo Stato si trova a corrispondere rendimenti reali molto più elevati di quanto sarebbe necessario, proprio perché i titoli emessi in precedenza erano a lungo termine: la disinflazione, in particolare, provoca un aumento notevole del costo reale del debito e pertanto dell'avanzo primario necessario per stabilizzarne la dinamica. La percezione di questa contraddizione, inoltre, può compromettere la credibilità del piano governativo, se i risparmiatori dubitano che il governo voglia o possa sopportare un costo reale tanto elevato e ritengono pertanto che gli obiettivi di disinflazione o di arresto della crescita del debito finiranno per non essere rispettati. Per uscire dall'alternativa fra vita breve e costo elevato del debito, si può ricorrere all'emissione di titoli variamente indicizzati: titoli a lunga, ma con rendimento variabile, indicizzato sui tassi a breve (tipicamente i CCT in Italia); oppure con rendimento reale costante, essendo il rendimento nominale indicizzato sull'inflazione; oppure con rendimento nominale indicizzato sul cambio con valute estere. Se l'inflazione effettivamente scende, l'onere nominale di interessi su questi titoli cala e quello reale non aumenta, diversamente da quanto avverrebbe per titoli a tasso nominale fisso. Con il secondo e il terzo tipo di titoli, inoltre, l'emittente può rassicurare il risparmiatore, in quanto si dichiara pronto a scommettere contro il mancato raggiungimento degli obiettivi di disinflazione o di riduzione del disavanzo. Alternativamente, si possono emettere titoli a tasso fisso di durata lunga, ma con una opzione di rimborso esercitabile dal risparmiatore dopo un periodo più breve, che riduce il costo di emissione.
La politica monetaria può contribuire a una buona politica di gestione del debito, indipendentemente dall'entità del finanziamento monetario del disavanzo pubblico. Anche se nell'anno non viene creata base monetaria per il Tesoro, può essere opportuno che la banca centrale assicuri al Tesoro un sostegno temporaneo (una sorta di scoperto di conto corrente da ripianare entro breve termine) in situazioni di turbamento del mercato dei titoli provocato da cause occasionali e passeggere.
La politica di gestione diviene più complessa in un'economia aperta, con libero movimento di capitali, e finanziariamente integrata con altre economie. Da un lato, si offrono in questo caso ai risparmiatori possibilità d'investimento alternative ai titoli pubblici, e ciò può acuire le difficoltà di collocamento. Dall'altro, l'emittente pubblico ha accesso più agevole al mercato internazionale, e pertanto a una platea più vasta di sottoscrittori: per cogliere questa occasione, occorre perseguire una strategia di emissione appropriata e mirata alle preferenze degli investitori esteri.
Lo sviluppo e la buona funzionalità dei mercati secondari possono contribuire a ridurre il costo del debito per l'emittente. Un mercato efficiente, che assicuri la trasparenza delle condizioni a cui avvengono le transazioni, e sufficientemente spesso, per quantità e omogeneità dei titoli transatti, rende un titolo più liquido e meno soggetto a perdite in conto capitale dovute a erratiche fluttuazioni dei prezzi: riduce pertanto, o elimina, il premio di illiquidità che altrimenti verrebbe richiesto e che sarebbe incorporato nel rendimento da offrire per assicurare la sottoscrizione.
(V. anche Bilancio pubblico; Finanza pubblica; Fisco e sistemi fiscali; Interesse; Titoli di credito).
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