FISCO E SISTEMI FISCALI
di Filippo Cavazzuti
Nel corso dei secoli (o, forse, dei millenni) al termine 'fisco' corrispondono concetti e situazioni assai differenti, pur in presenza di alcune caratteristiche dotate di una qualche continuità temporale. Ai tempi dell'Impero romano, ad esempio, dato anche il prevalere dell'agricoltura nell'economia dell'epoca, il fisco consiste principalmente nella proprietà terriera pubblica e nei servizi che la gestiscono, come i magazzini per i prodotti della terra. Le proprietà fiscali sono perciò costituite quasi esclusivamente dai terreni pubblici coltivati e incolti. Le entrate fiscali sono, corrispondentemente, quelle di tipo patrimoniale legate alle proprietà fiscali. È soltanto in una fase successiva che la proprietà pubblica si identifica, a poco a poco, con le terre di proprietà del re o dell'imperatore.
A quei tempi, dunque, con il termine 'fisco' non si comprendevano, di norma, i proventi delle imposte e delle tasse rozzamente prelevate, ad esempio, in via coattiva (spesso in natura) sulle persone adulte (testatico), sui terreni agricoli (imposta fondiaria), sulle estrazioni dalle miniere di minerali o di pietre da costruzione, sul passaggio su strade e ponti, sulle fabbriche di monete. Il ricavato di tali imposte e tasse veniva versato al Tesoro reale o imperiale e concorreva, con le entrate patrimoniali, ai bisogni del regno o dell'impero. Va però ricordato che per il finanziamento delle esigenze (soprattutto militari) dei re e degli imperatori la fonte più importante di entrate era quella di tipo patrimoniale.
È soltanto verso la fine del Medioevo che con l'espressione 'fisco' si intende comprendere, in via generale, le più diverse forme di esazioni finanziarie operate da tutte quelle autorità pubbliche che dispongono del potere di richiederle. Anche perché sono questi i secoli in cui si riduce l'importanza delle entrate patrimoniali rispetto alle entrate provenienti da imposte, tasse e gabelle. E ciò venne sempre più facilitato sia dall'accrescersi del peso dei commerci rispetto alle attività agricole, sia dalla progressiva sostituzione delle prestazioni in denaro a quelle in natura, come consentiva sempre più la graduale penetrazione del denaro nel costume di vita contadino (v. Duby, 1973; tr. it., p. 115).
Oggi, come è noto, con questo concetto si intende fare riferimento, in via generale, al sistema fiscale che finanzia coattivamente il bilancio pubblico. E poiché, nei bilanci pubblici di oggi, le entrate di tipo patrimoniale sono ben poca cosa rispetto alle altre entrate, con il termine 'fisco', di fatto, si fa riferimento al complesso del prelievo operato in via coattiva tramite il sistema delle imposte, delle tasse e dei contributi sociali. Non a caso, dunque, ai nostri giorni con l'espressione 'pressione fiscale' si intende il rapporto percentuale che, in un dato anno solare, si può calcolare tra il gettito complessivo di imposte, tasse e contributi e il prodotto interno lordo.
Ma oggigiorno, nel linguaggio comune, con 'fisco' si intende anche il complesso delle amministrazioni finanziarie (centrali e periferiche) deputate a riscuotere le imposte e ad amministrare il contenzioso tra il debitore dell'imposta e l'ente pubblico creditore della stessa. In conclusione, con questo termine si individua attualmente una realtà assai complessa e interrelata che comprende: i 'soggetti passivi' (persone fisiche o giuridiche) obbligati, per fonte di diritto o per sottomissione ai potenti, al pagamento delle imposte (in denaro o in natura e, comunque, dal punto di vista tecnico assai diverse le une dalle altre); i 'soggetti attivi' (un'autorità civile o religiosa), che hanno il potere o il diritto di incassare i proventi delle imposte stesse; le 'amministrazioni' pubbliche o private (come gli 'esattori') incaricate della riscossione dei tributi a carico dei soggetti passivi e del versamento di quanto riscosso a favore dei soggetti attivi.In questa sede faremo riferimento alla nozione di fisco non nel senso della proprietà del re o dell'imperatore e delle loro entrate patrimoniali, ma in quello (appena delineato) di complesso di rapporti (di potere) tra soggetti attivi, passivi e amministrazioni. Daremo, dunque, uno sguardo al passato per delineare quel rapporto in cui qualcuno, in un dato ambito territoriale e temporale, esercita un potere di imperio su qualcun altro al fine di ottenere da quest'ultimo una somma di denaro o una quantità di un certo bene. Infatti il fisco si accompagna sempre al principio di autorità o, più semplicemente, esso è una modalità dell'esercizio del potere (ancorché democratico) di qualcuno su qualcun altro o su qualche cosa (di norma una proprietà fondiaria) in un dato ambito territoriale.
Questi brevi cenni introduttivi confermano come sia difficile, se non impossibile, fare la storia di un paese o di un popolo senza incontrare prima o poi i problemi fiscali di quel paese o di quel popolo. Come ricorda con efficacia Schumpeter, "lo spirito di un popolo, il suo livello culturale, la configurazione della struttura sociale, le imprese che la sua politica può preparare, tutto ciò, e molto altro ancora, sta scritto nella sua storia fiscale, senza frasi retoriche" (v. Schumpeter, 1918; tr. it., p. 133).
Nel passato, tuttavia, il principio di autorità a cui abbiamo fatto cenno si accompagnava almeno a due situazioni assai diverse. Fino alle rivoluzioni democratiche che hanno dato vita alle moderne democrazie parlamentari, il fisco era considerato da tutti i soggetti passivi un insopportabile peso (un problema in più rispetto a quelli della vita quotidiana) a cui si doveva tentare di sfuggire. Viene fatto di pensare che dai contribuenti di allora il fisco fosse considerato esclusivamente come un mezzo assai pratico di cui potevano disporre i potenti (signori, re, imperatori) per 'dragare' dai loro sudditi risorse (in denaro o in natura) con cui provvedere alle proprie esigenze. Solo più tardi, dopo le grandi rivoluzioni borghesi, si diffonde nella cultura dei governanti e dei contribuenti (che, intanto, sono diventati cittadini con diritto di voto e di elezione dei parlamenti nazionali) il convincimento che il fisco sia funzionale al reperimento delle entrate necessarie per le spese pubbliche e, soprattutto, per i servizi collettivi (istruzione, giustizia, difesa, ecc.) offerti alla comunità dei cittadini. La sopportabilità del fisco viene dunque correlata, nel calcolo individuale di ogni contribuente (e nel calcolo collettivo dei governanti), ai benefici derivanti da quanto ognuno riceve (in via divisibile o indivisibile, individuale o collettiva) dalla spesa pubblica.Oggi, per la dimensione assunta dai prelievi obbligatori, di nuovo si comincia a ritenere il fisco un onere assai gravoso, scarsamente correlato a ciò che si riceve. Da qui alcuni veri e propri fenomeni di rivolta fiscale.
Non si pretende qui di scrivere una storia del fisco, né una storia dei tributi. Più semplicemente, senza l'ambizione di essere esaustivi, porteremo all'attenzione del lettore alcuni esempi (tra i tanti possibili) di come, nel corso degli anni e in dati ambiti territoriali, il fisco appaia e scompaia, aumenti il proprio peso o riduca la propria importanza a seconda del comparire e dell'affermarsi (o dello scomparire, quasi) di un'autorità centrale - dotata di un forte potere di imperio - e delle burocrazie a essa collegate.
Tale potere di imperio, gestito in forma assoluta, ebbe occasione di affermarsi, in modo assai peculiare, anche ai tempi delle remote civiltà che fiorirono nei pressi dei grandi fiumi: quella egiziana lungo il Nilo e quella babilonese lungo il Tigri e l'Eufrate. In tali civiltà la potenza del re o del faraone ebbe infatti modo di manifestarsi anche con l'obbligo degli ammassi di derrate alimentari (grano, orzo, datteri, sesamo, ecc.) presso i palazzi imperiali, a favore dello stesso re o faraone, o presso i templi, a favore dei grandi sacerdoti: re, faraoni e sacerdoti che già allora erano assistiti da quelle affollate burocrazie, che costituirono le prime forme di organizzazione politica, il cui sostentamento era assicurato dai citati ammassi obbligatori (v. Gardiner, 1961, tr. it., pp. 269270; v. Klengel, 1991, tr. it., pp. 147 ss.).
Sebbene le notizie siano alquanto frammentarie, si ha ragionevole certezza del fatto che nelle province dell'Impero d'Oriente (Costantinopoli, IV secolo d.C.) le entrate fiscali (diverse da quelle patrimoniali) provenissero soprattutto dalla terra e fossero calcolate non soltanto in base alla sua superficie, ma anche alla sua qualità: il vigneto doveva contribuire più del pascolo e questo più del roveto (imposta fondiaria). D'altra parte, tra i soggetti passivi, ogni 'testa' che formava la famiglia era tenuta a pagare una imposta personale (capitatio, jugatio, testatico a seconda delle terminologie usate).
Sebbene l'attività agricola fosse quella assolutamente dominante, si ha notizia che già Costantino (280337) avesse introdotto una imposta (assai rozza) in oro e in argento anche sulla produzione di beni e servizi svolta in città e che la Chiesa fosse indignata del fatto che l'Impero prelevasse anche dai guadagni della prostituzione (v. Fossier, 1982-1983; tr. it., vol. I, pp. 114-116).
Questo esempio, e altri che si potrebbero fare, mostra come anche allora il fisco comprendesse sempre una molteplicità di imposte e tasse e come, anche allora, tale ricerca e 'fantasia' fossero fortemente limitate dallo stadio di sviluppo del sistema economico. Ma le imposte richiedono un'amministrazione apposita dotata di funzionari; e così, per l'amministrazione dei tributi, a Bisanzio, il genikon rappresentava l'istituzione fiscale più importante, il cui compito era quello di fissare i tributi e di riscuoterli. A tale compito erano preposti diversi funzionari dell'Impero che dovevano saper leggere e scrivere (capacità che si suppone a quei tempi non fosse molto diffusa). Alcuni, infatti, si occupavano della misurazione dei terreni. Altri iscrivevano in catasto le terre abbandonate e non coltivate e ripartivano le imposte tra gli eredi. Altri ancora si occupavano dei tributi e dovevano coprire con propri mezzi le imposte che non riuscivano a riscuotere (v. Kazhdan, 1968; tr. it., p. 76).
Quest'ultimo è un utile esempio di come alcuni istituti di oggi affondino le proprie radici in epoche assai lontane. Così, al pari di quanto avveniva a Bisanzio, anche in Italia - fino alla fine degli anni sessanta di questo secolo - l'esattore delle imposte doveva rispondere del 'non riscosso per riscosso' nel senso che, a prescindere dalle vicende della riscossione, era tenuto a versare le rate risultanti dai ruoli di riscossione dei tributi.
Da sempre le imposte richiamano anche distinzioni sociali e di ceto. E a tal fine vale la pena di ricordare che già "in Oriente, nel periodo del basso Impero e per tutto il Medioevo, una categoria sociale è definita dal suo statuto fiscale" (v. Dagron, 1974; tr. it., p. 145). E così, ai senatori di Costantinopoli viene assegnato il privilegio di godere dell'esenzione sia dal pagamento di alcuni oneri (come i munera sordida et extraordinaria, ovvero la requisizione di persone e di beni nell'interesse dello Stato), sia dall'imposta (crisargiro o lustralis collatio) dovuta sulla commercializzazione dei loro prodotti, ma nel contempo il loro patrimonio fondiario è sottoposto a dichiarazione, verifica e registrazione in un catasto speciale. Ciò al fine di venire sottoposti (non si sa, tuttavia, con quale efficacia) all'obbligo del pagamento dell'imposta fondiaria gravante sui possessores ordinari (capitatio, jugatio), come a quello di un'imposta fondiaria di classe (collatio globalis). Questa imposta fondiaria diventa allora il simbolo della condizione senatoria e viene anche a confermare che la condizione dei senatori è legata esclusivamente all'agricoltura.Ma anche la Chiesa di Costantinopoli gode di uno speciale statuto fiscale. I chierici, infatti, acquisiscono uno statuto fiscale paragonabile, sotto molti aspetti, a quello dei senatori. Anche in questo caso, infatti, l'esenzione da ogni imposta su opifici, botteghe, imprese commerciali era motivata, nelle intenzioni del legislatore di allora, dalla consapevolezza che i profitti derivanti da tali attività sarebbero dovuti andare a beneficio dei poveri (ibid., pp. 149, 176 e 504).
Anche nell'Impero d'Occidente, negli stessi secoli, erano in vigore l'imposta fondiaria e il testatico, secondo i modelli accennati in precedenza. Vigeva anche l'imposta doganale (o diritto di dogana) che comprendeva i più diversi balzelli.Il gettito di tali imposte doveva essere di dimensioni ragguardevoli per poter concorrere a sostenere gli elevati impegni finanziari dell'Impero romano nei primi secoli dell'era cristiana: le spese di rappresentanza degli imperatori, dei loro palazzi, delle loro corti, delle loro guardie e dei loro servitori, delle loro famiglie. E poi, notevoli erano le spese per il funzionamento dei senati e delle diverse magistrature e per il mantenimento dei numerosi funzionari pubblici; le spese più gravose furono soprattutto quelle per il mantenimento dell'esercito e per la costruzione delle opere di difesa.
Ugualmente, nell'Impero d'Occidente, l'esistenza dei problemi connessi all'amministrazione delle imposte spinse la burocrazia romana al proprio rafforzamento. Essa doveva provvedere a regolari censimenti (per il pagamento del testatico) e a tenere aggiornato il catasto (per il pagamento dell'imposta fondiaria), oltre che ad annunciare all'inizio di ogni anno il tasso d'imposta per ogni unità terriera o per ogni 'testa'.
Le popolazioni che invasero e sconvolsero l'Impero romano d'Occidente non avevano un proprio fisco, ma adottarono quello vigente. Per usare l'espressione di Le Goff (v., 1964; tr. it., p. 43), il mondo barbarico "riadopera" il sistema fiscale disegnato dal diritto romano. Infatti, in Italia come in Africa, in Spagna come in Gallia, una "continuità si osserva al livello del sistema fiscale [dove] le monarchie germaniche hanno organizzato e mantenuto dappertutto l'esazione e la percezione dei contributi fondiario e personale con l'aiuto dei catasti e dei polittici, registri contenenti i censimenti pro capite e i canoni individuali" (v. Fossier, 1982-1983; tr. it., vol. I, p. 65). In particolare, nell'epoca merovingia "il re preleva i diritti doganali, che sono gli antichi diritti romani conservati negli stessi luoghi. [...] Il [loro] carattere è nettamente fiscale e non economico, e sembra che siano stati riscossi esclusivamente in denaro" (v. Pirenne, 1937; tr. it., p. 93).
Anche allora, tra soggetto passivo e soggetto attivo vi erano altri che svolgevano importanti funzioni. E così, la riscossione dei diritti doganali a profitto del re medesimo era resa possibile grazie alla moltitudine di agenti che, sapendo leggere e scrivere, era nelle condizioni di poter prendere in appalto la riscossione delle imposte stesse. Ed era grazie alla riscossione di tale imposta doganale, insieme all'imposta fondiaria (anch'essa romana) e ai rendimenti della proprietà fondiaria, che il re merovingio acquistava o pagava i propri funzionari, faceva prestiti alle città, pagava i missionari, dava importanti assegni agli ecclesiastici, corrompeva o comprava chi voleva (ibid., p. 44).
La tradizione finanziaria romana (correlata all'unità dello Stato romano) s'interrompe con la stagione dei re carolingi e con la progressiva diffusione del vassallaggio e dei rapporti di fedeltà dovuta al re da tutti i suoi vassalli. Infatti, "si è cercato di provare l'esistenza di una imposta sotto i Carolingi, [ma] quello che costituisce la vera forza finanziaria del re, bisogna ripeterlo, è la sua proprietà privata [...]. Il re era, e doveva restare per mantenersi, il più grande proprietario del paese. Finito il catasto, finiti i registri delle tasse, finiti i funzionari per le finanze, gli archivi, gli uffici, i conti. I re non avevano dunque finanze, e si comprende quale novità s'introdusse allora nel mondo" (ibid., p. 259). È però ugualmente vero, come ci ricorda Pirenne, che l'imposta doganale divenne sempre meno importante per le finanze del re, sia per la consuetudine di accordare a laici e a ecclesiastici l'esenzione da questa imposta, sia per la diminuzione generale del commercio nei paesi del Mediterraneo a causa dell'espansione dell'Islam sulle sue coste.
Come abbiamo appena ricordato, con il venir meno delle istituzioni pubbliche e dei poteri centrali, furono il vassallaggio e la concessione del beneficio a supplire a tali deficienze e ciò ebbe importanti conseguenze sui sistemi fiscali di allora che, di fatto, vennero abbandonati: non dovevano, infatti, più concorrere a finanziare l'esercito del re o dell'imperatore. Invece, in virtù del diritto di 'banno', tutti gli uomini liberi potevano essere convocati dal re (armati a proprie spese) per fare la guerra. Il servizio militare venne così assicurato in permanenza dai numerosi vassalli del re, vescovi, abati e conti e, se era necessario, dai loro retrovassalli (v. Luzzatto, 1963, p. 256; v. Ganshof, 1944, tr. it., p. 57).
Come ci ricorda Duby, questi sono i secoli in cui si afferma una nuova nozione di libertà, d'ora in avanti concepita come il privilegio di sfuggire alle pesanti esazioni fiscali. Ma le istituzioni vassallatiche e la dispersione sul territorio del potere di banno portarono anche a confinare in un'area assai ristretta (in genere nel raggio di una mezza giornata a cavallo dal luogo fortificato centrale) la riscossione dei tributi (v. Duby, 1973; tr. it., p. 218). Ed ancora nel XIV secolo, come ci ricorda il giurista umbro Bartolo da Sassoferrato nei suoi commentari (v. Berliri, 1990, pp. 161 ss.), anche la Chiesa e gli ecclesiastici non potevano venire assoggettati ad alcuna imposta né personale né patrimoniale: essi infatti beneficiavano di tale immunità in quanto (insieme ai nobili) non erano sudditi del sovrano e, dunque, erano esenti dal suo potere di imperio.
Con il passaggio delle attribuzioni dello Stato dalle mani del re e dell'imperatore a quelle di una molteplicità di principi territoriali viene meno anche la funzione delle imposte, che è quella di finanziare le spese del re e della corte. Qualche analogia con le imposte, tuttavia, si può ritrovare nella pratica, permessa dal re ai suoi vassalli, di sostituire l'obbligo del servizio militare con il pagamento di un censo pecuniario. Così, ci ricorda Ganshof, al tempo dei re plantageneti (secolo XII) in Inghilterra le risorse derivanti da questa tassa permisero il mantenimento e anche lo sviluppo di un esercito di stipendiati più sicuro e più agile di quanto non fosse consentito in questo periodo a un esercito formato dai diversi vassalli (v. Ganshof, 1944; tr. it., p. 101).
È però vero che i diversi signori feudali disseminati sul territorio, che disponevano del potere di banno, si industriarono per trarre vantaggio da qualche imposta. E così, ad esempio, introdussero una speciale tassa per acquisire il diritto di sposarsi con chi non apparteneva alla propria 'famiglia'. Si industriarono anche per trarre profitto dai pedaggi imposti al passaggio delle merci sui loro territori, dalle tasse riscosse ai mercati dei villaggi (gabelle) e dal monopolio della vendita del vino in certi periodi dell'anno. Pedaggi e tasse che, al prezzo di ostacolare i commerci, sempre più frequentemente vennero richiesti in denaro.
Anche la 'taglia' (un prelievo arbitrario effettuato dal signore su qualunque cosa i sudditi avessero messo da parte) verso la metà del XII secolo cominciò a essere riscossa in denaro e sotto forma non più di prelievo straordinario, ma di 'abbonamento' annuale (v. Duby, 1973; tr. it., p. 289). Con il che si cominciava a introdurre il concetto di un fisco in qualche modo 'regolare'.Anche i Comuni in formazione negli stessi secoli avevano sottratto al re o all'imperatore il diritto di esercitare (entro le proprie mura) il prelievo fiscale in denaro o in natura: gabelle sui contratti e sui pagamenti effettuati con il denaro del Comune (riscosse per ritenuta al momento del pagamento) e sull'occupazione degli spazi pubblici; pedaggi e dazi sulle merci introdotte in città e su quelle che uscivano dalla stessa (a eccezione di quelle dichiarate esenti, come i libri che lo studente portava con sé per motivi di studio); tasse sui 'banchi' di commercio e diritti di mercato assai diversi da luogo a luogo. Tutte queste imposte gravavano sui cittadini e sui forestieri e costituivano un introito regolare per le casse comunali. E si noti che l'omesso pagamento delle tasse o delle gabelle era punito sia con fortissime pene, sia con la confisca della merce, per sottolineare l'importanza che tali tributi cominciavano ad avere nella vita delle città. Ma non è dato conoscere con sufficiente certezza quanto fossero efficaci tali 'pene'.
Furono quelli i secoli in cui gli abitanti delle città iniziarono le lotte per conquistare la loro libertà e indipendenza politica dal potere centrale, indipendenza che raggiunsero ben prima degli abitanti delle campagne. Merita ricordare ora quelle lotte perché esse riguardarono, in primo luogo, la conquista dell'autonomia nella gestione dei tributi. In paesi come la Francia e l'Inghilterra molte città, anche se non pienamente indipendenti dalla monarchia, ottennero il privilegio di non subire imposizioni da parte della Corona nel caso in cui le città stesse non fossero pienamente consenzienti. A tale scopo gli abitanti delle città inviarono loro rappresentanti, a fianco dei nobili e del clero, negli Stati Generali. E fu così, in difesa della propria autonomia fiscale, che iniziò la rappresentanza delle città negli Stati Generali delle grandi monarchie europee (v. Smith, 1776, libro III, cap. III).
Mentre in Occidente si giunge quasi alla dissoluzione dello Stato e dei poteri politici centrali, e alla corrispondente riduzione dell'importanza delle imposte statali, in Oriente la formazione dell'Impero degli Abbassidi (VIII secolo) si accompagna alla costituzione di una solida base amministrativa. Per finanziare le esigenze di tale Impero, il Tesoro perfeziona non solo l'imposta fondiaria, ma anche il sistema di prelievo delle decime. È infatti il Tesoro imperiale che deve provvedere al pagamento dei salari dei funzionari e dei militari, oltre che agli appannaggi dei membri della famiglia imperiale e alle esigenze della corte. Così nell'Iraq centrale, nel IX secolo, viene introdotta una riforma fiscale che mira a porre fine all'impoverimento del Tesoro e all'abbandono delle terre.Con la nuova imposta fondiaria l'imponibile viene calcolato attraverso la misurazione delle quantità effettivamente raccolte. Ma ciò che viene riscosso è il suo valore in denaro in ragione di un prezzo ideale e non di quello effettivo rilevato sul mercato. Questo, infatti, avendo degli andamenti irregolari nel tempo che, secondo i giuristi islamici, appartiene soltanto a Dio, avrebbe alimentato il sospetto di guadagni illeciti. Pur con gli strumenti e le conoscenze di allora, l'imposta fondiaria venne concepita con un peso decrescente in rapporto alla produttività del terreno al fine di stimolarne la valorizzazione. Così erano tassati di più i terreni peggio irrigati rispetto a quelli irrigati con sistemi più moderni. Allo stesso modo vennero detassati i prodotti più facilmente smerciabili sui mercati cittadini, come il grano duro, il riso e gli ortaggi (v. Fossier, 1982-1983; tr. it., vol. I, pp. 232-234).
In un certo senso, potremmo dire che nell'Islam di allora era già in vigore un catasto agricolo simile a quello tuttora vigente in Italia, ove non si computa il reddito effettivo, ma quello medio, ordinario e continuativo (v. Einaudi, 1924).
Se, in via generale, in Occidente si osserva la frantumazione dell'autorità della Corona, nello stesso periodo è dato, tuttavia, trovare anche un caso assai famoso di riaffermazione dell'autorità dell'imperatore e di ricostituzione di un potere centrale che si accompagna a un fisco e a un'organizzazione amministrativa centrale (non a caso su un sostrato arabo): si tratta di Federico II di Svevia (1194-1250), imperatore del Sacro Romano Impero, re di Sicilia, re di Gerusalemme, Stupor Mundi, costruttore, per accordo unanime degli storici (v. Braudel, 1979; tr. it., p. 522), del primo Stato moderno.È infatti nel 1231 che Federico II presenta le Costituzioni di Melfi: "opera sbalorditiva [...] e atto di nascita della burocrazia moderna", secondo alcuni (v. Kantorowicz, 1927; tr. it., pp. 208-211); opera che "senza profonda originalità" si limita "ad affrontare i problemi specifici a un regno in urgente bisogno di ricostruzione", secondo altri (v. Abulafia, 1988; tr. it., p. 169). È però vero che le "Costituzioni di Melfi rivestono un'importanza particolare in quanto rappresentano la prima articolata esposizione del programma fiscale di Federico" (ibid., p. 179). Così venne regolato il monopolio del sale da vendere nell'Impero (al prezzo fissato dall'imperatore), così come vennero regolati i dazi portuali al fine di garantire una fonte di liquidità al Tesoro della Corona. Nel contempo vennero anche favoriti i mercanti nativi, esentandoli dal pagamento del diritto di dogana del 3% e riducendo loro il dazio all'esportazione di certi prodotti: ciò al fine di reggere alla concorrenza commerciale esercitata dai Genovesi o dai Veneziani. Poiché l'esportazione del grano rappresentava la quota più importante di quello che ora definiremmo l'export totale, anche le imposte sul grano vennero regolate: un quinto del valore del carico in Puglia o in Sicilia, dove la produzione era abbondante, un settimo, invece, in Calabria, ove le terre erano meno fertili.
Facciamo ora un salto in avanti di due secoli dalla morte di Federico II di Svevia. Tralasciamo dunque il tempo delle cattedrali e delle università, della parola di Tommaso e dell'economia di mercato in formazione, ma anche quello del divampare delle guerre, delle epidemie e delle carestie che distrussero intere città, quello del marchio imposto agli Ebrei, delle crociate fallite e del soffocamento dei Comuni (v. Le Goff, 1964; v. Fossier, 1982-1983, vol. III). Ma nel compiere tale passaggio non possiamo non porre gli occhi su alcuni avvenimenti assai importanti prima soltanto accennati: la storia della 'taglia reale', ad esempio.
È interessante soffermarsi un momento su tale tributo, in quanto la sua evoluzione esemplifica con efficacia il nascere e il consolidarsi di un'imposta. A tal fine va ricordato che la taglia si sviluppa con il riaffermarsi della nozione di imposta nella mentalità collettiva e pubblica occidentale: a carico, ovviamente, non della nobiltà, ma dei contadini e dei cittadini. L'imposta, infatti, continua a essere considerata un segno di servitù, mentre gli uomini liberi prestano servizi personali con le armi, l'amministrazione della giustizia o con largizioni volontarie e consuetudinarie.
Date anche le tecniche fiscali di allora, la via più semplice per esercitare il diritto di imperio fu quella che condusse alla tassazione dei 'fuochi'. Il 'focatico' (detto appunto, più tardi, 'taglia reale') è dunque all'origine delle entrate degli Stati moderni che si vanno formando fra il XIV e il XV secolo.Vale la pena di segnalare anche un altro aspetto della nascita della taglia. Sebbene fosse stata presente anche in epoca anteriore, la taglia reale assume vera importanza solo nel XIV secolo, ancorché si tratti di una imposta straordinaria dovuta al verificarsi di un avvenimento altrettanto straordinario.
Quando il re di Francia Giovanni II di Valois, detto il Buono, venne catturato dagli Inglesi a Poitiers nel 1356, il riscatto per la sua liberazione era talmente elevato da non poter essere pagato tutto in una volta: il problema della finanza del re divenne allora un problema della finanza di Stato, e per pagare tale debito venne imposto un focatico che durò quarant'anni, dal 1361 al 1404. Ma quando il riscatto fu completamente pagato, l'imposta era divenuta anche consuetudinaria e poté dunque restare per il finanziamento di altre necessità della Corona di Francia. I Valois hanno dunque il merito storico di aver introdotto, in questo millennio, l'idea di un fisco regolare (v. Fossier, 1982-1983; tr. it., vol. III, pp. 110 ss.).
Ricorda Braudel che, sul finire del XV secolo, i fondatori degli Stati nel senso moderno furono i "tre re magi": Enrico VII Tudor in Inghilterra, Luigi XI in Francia e Ferdinando il Cattolico in Spagna, e che il primo compito dei loro Stati fu quello di farsi obbedire utilizzando ciò che Max Weber chiamò la "legittima violenza" (v. Braudel, 1979; tr. it., p. 523). Ma per finanziare le spese necessarie per il mantenimento dell'ordine all'interno, per armare le navi per le grandi conquiste sui mari, per pagare le proprie truppe, lo Stato moderno non può più vivere soltanto (o principalmente) dei beni del sovrano, deve ricorrere nuovamente al fisco e, con il potere di imperio, dar la caccia a un numero sempre più grande di contribuenti. Le finanze pubbliche e le amministrazioni finanziarie si inseriscono, dunque, sempre di più nella vita economica del paese e dipendono sempre di più dalla sua politica commerciale e di espansione territoriale.
A questo proposito, tuttavia, va ricordato che la ripresa delle problematiche fiscali nel XV e nel XVI secolo è anche, in parte, derivata dall'insorgere di un'altra circostanza: il prestito che i sovrani dell'epoca contraggono, volontariamente, con città e banchieri o, in via forzosa, con i propri sudditi; prestito che costituì una forma di finanziamento degli Stati che si diffuse in quei secoli. È noto, infatti, che Carlo V stupì il mondo di allora anzitutto per la sua politica grandiosa, ma anche per l'enormità del debito pubblico che contrasse per finanziare non solo tale politica, ma anche la campagna elettorale (ovvero i versamenti di denaro ai principi elettori) per farsi eleggere imperatore d'Austria e Germania nel 1519 (v. Chabod, 1985, pp. 80-82), contro la volontà della curia romana. Ma sia nel caso di prestito volontario, sia in quello di prestito forzoso, si trattò, comunque, di dar vita a un flusso costante di pagamenti a favore delle casse dello Stato, con cui far fronte sia al pagamento degli interessi sul debito pubblico, sia alle rate di ammortamento del debito stesso.
Se le esigenze degli Stati erano elevate, non minori erano le resistenze di nobili ed ecclesiastici a cedere il privilegio dell'esenzione dal pagamento delle imposte. Così va rammentato che in Francia la 'taglia reale' non colpiva, oltre ai nobili e agli ecclesiastici, neppure i funzionari regi, i membri delle corti sovrane e delle università.In Russia, invece, fu solamente più tardi (a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo) e, non a caso, per opera dell'azione riformatrice di Pietro il Grande, che vennero introdotte alcune delle tecniche fiscali già presenti da tempo in altri Stati europei. Soltanto nel 1719 venne condotto il primo censimento dei contribuenti (i contadini, in particolare) al fine di ripartire tra di loro (per ogni 'testa') un'imposta destinata al finanziamento delle esigenze dell'esercito.
L'esigenza degli Stati di disporre di un flusso costante di denaro portò all'affinamento delle tecniche fiscali e al consolidamento di istituti tributari che precorrono quelli più recenti. Al riguardo, è da ricordare il caso della Toscana, ove l'introduzione di una grande imposta sul patrimonio comportò anche la redazione (nel 1427) di un famoso 'catasto': un complesso sistema di accertamento della capacità contributiva dei soggetti passivi dell'imposta. Tale catasto, che si basava anche su denunce da parte dei contribuenti, prevedeva che tutti i maschi adulti in età lavorativa fossero colpiti da un'imposta fissa a carattere personale, e che un'altra imposta diretta (sommata a quella personale) colpisse i beni patrimoniali (mobiliari e immobiliari) del contribuente.
All'inizio dunque si registra l'affermarsi di un'imposta patrimoniale che, almeno in via astratta, comprende ogni forma di ricchezza dei contribuenti. Più tardi, invece, con lo svilupparsi dei sistemi economici, con l'affiancarsi del commercio, dell'industria e dell'agricoltura, queste imposte patrimoniali si suddividono in più imposte distinte secondo la base imponibile. Così a Firenze, sul finire del Quattrocento, dall'imposta patrimoniale si stacca l'imposta sui soli immobili che costituisce la 'decima'.
Abbiamo già accennato al fatto che al crescere d'importanza del fisco si accompagna la crescita delle burocrazie deputate ad amministrarlo. Si prenda il caso della monarchia assoluta nella Francia del XVI e del XVII secolo. Ai tempi di Richelieu, in Francia l'amministrazione fiscale era costituita da una vera e propria stratificazione di sedimenti amministrativi che si erano formati nel tempo. Vi era una 'Tesoreria centrale' destinata a raccogliere tutte le entrate del regno. Vi erano poi sedici généralités (ognuna dotata di un bureau des finances) affiancate da un ricevitore generale (réceveur général), incaricato di raccogliere le imposte dirette della zona, e da fermiers généraux che erano gli esattori delle imposte indirette. Il ricevitore generale, tuttavia, non si curava direttamente della riscossione dei tributi, che era invece affidata ad altri esattori (traitants o partisans, a seconda della zona del paese): normalmente uomini d'affari privati, strettamente legati alla monarchia, che si arricchivano con lo svolgimento di tali mansioni.
Di fronte però a un sistema fiscale incapace di garantire un flusso costante di entrate (per la complessità e la scarsa efficienza dell'amministrazione finanziaria), la monarchia francese (al pari di altre monarchie assolute) fu costretta a ricorrere al prestito da parte dello stesso corpo di funzionari incaricati di riscuotere le imposte, accrescendo così la loro importanza e venendo a dipendere sempre più da essi. Questi funzionari, infatti, anticipavano (con interesse) alla Corona e allo Stato il gettito delle imposte che avrebbero dovuto riscuotere, ricevendone in cambio dei mandati (rescriptions) che costituirono una delle prime forme di debito pubblico fluttuante a breve termine, debito che lo Stato si impegnava a rimborsare nell'arco di pochi mesi con l'incasso delle imposte stesse. In tal modo, ai tempi della monarchia assoluta, "il francese che voleva guadagnare denaro guardava alla finanza, al lucrativo appalto delle imposte e alla concessione di prestiti" (v. Treasure, 1972; tr. it., p. 83).
Sulla Francia, sulla Rivoluzione francese del 1789 e sui correlati aspetti fiscali vale la pena di spendere qualche altra parola. Non vi è dubbio che nella prima metà del XVII secolo il rapidissimo aumento della taglia (a cui, come si ricorderà, non erano sottoposti né i membri della nobiltà né quelli del clero) suscitò numerose sommosse nel mondo contadino. Ricordiamo i toni drammatici con cui Taine, che pure si connota come una fonte di parte - un naturalista che osserva le metamorfosi di un insetto, per dirla con l'immagine che egli diede di se stesso (v. Taine, 1876-1894; tr. it., vol. I, p. 31) -, descrive, nella seconda metà dell'Ottocento, il sistema fiscale dell'ancien régime: "Nello stato in cui è l'agricoltura, la decima e l'imposta prendono la metà [...] del prodotto netto se la terra è grande, e lo prendono tutto intero se la terra è piccola. Una grande fattoria della Piccardia, che rende 3.600 lire al proprietario, dà 1.800 lire al re e 1.311 lire alla Chiesa [...]; il fatto è che tutto il profitto netto va al Tesoro e al clero [...]. Ma il fisco [...] in mancanza di terra afferra l'uomo. In mancanza di rendita, si tassa il salario [...]. Tutte le imposte precedenti raggiungono non soltanto colui che possiede, ma anche colui che non possiede niente. Nel Tolosano, a Saint-Pierre de Bajourville, il più miserabile manovale che guadagna dieci soldi al giorno paga otto, nove, dieci lire di capitazione [...]. La soffitta e la capanna, la masseria, la fattoria e la casa, tutte conoscono l'esattore, l'usciere, il soldato di guarnigione; nessun tugurio sfugge a questa miserabile genia. Per loro si semina e si raccoglie, si lavora e ci si sacrifica, e se i quattrini penosamente risparmiati di settimana in settimana finiranno in fondo all'anno per diventare una moneta d'argento, è nella loro borsa che andrà a finire" (ibid., pp. 602 e 608-609).
La Rivoluzione del 1789 se da un lato cancellò una tassazione così regressiva (diritti feudali, decime, gabelle, dazi e altri balzelli), dall'altro non riuscì a sostituirla con altro sistema tributario: anche perché, insieme ai vecchi tartassati, coloro che avrebbero dovuto ingrossare le file dei contribuenti (aristocratici e clero) non avevano poi una così gran fretta di sottoporsi al nuovo regime fiscale. In conseguenza di ciò, l'imposta fondiaria sui terreni, quella di ricchezza mobile e quella sui profitti del commercio e dell'industria, che sostituirono le vecchie imposte regressive, venivano riscosse con enormi difficoltà. "L'uguaglianza fiscale era stata realizzata d'un balzo in un momento in cui ormai nessuno più pagava tasse" (v. Cobban, 1965; tr. it., p. 167). E così, alcuni studiosi hanno stimato che il rapporto tra introiti fiscali e spesa pubblica sia crollato dal 48% nel dicembre del 1789 all'8% nel novembre del 1795 (v. Kindleberger, 1984; tr. it., p. 138). Seguirono anni di grande caos finanziario. Per finanziare le spese pubbliche si emisero i famosi assignats di piccolo taglio, che dagli 800 milioni iniziali divennero oltre 7 miliardi. Furono soprattutto i rimedi escogitati dal Direttorio nell'anno 1798 (il ritorno alla moneta metallica e la conseguente rapida deflazione, la riforma dell'amministrazione finanziaria, la riforma del sistema fiscale) quelli che posero le basi della riorganizzazione finanziaria; ma essi aprirono anche la strada al Consolato (v. Mathiez e Lefebvre, 1960, vol. II, cap. XI).
Nel corso del XVIII e del XIX secolo la caduta delle monarchie assolute, il venir meno della concezione personalistica dello Stato, lo sviluppo del commercio, delle industrie e dell'economia monetaria, insieme alla formazione dei parlamenti nazionali e alla considerazione dell'individuo in quanto tale e non in quanto appartenente a un ordine, portano il fisco a non più separare il reddito e il patrimonio dalla persona fisica che li gode.
Dal canto loro i parlamenti nazionali si sostituiscono alla chambre du Roi (da cui l'espressione finanza camerale) nelle decisioni in materia di tributi e si pongono, così, a difesa dei cittadini contro il potere dei monarchi di imporre tasse e imposte. Si comincia in tal modo a ragionare sulla capacità contributiva dell'individuo nel suo complesso e non più su quella delle singole fonti di reddito. Si riconosce che vi sono limiti assai precisi alla capacità contributiva dei diversi soggetti passivi. Entrano così in scena, soprattutto in Europa, le imposte generali sul reddito, con aliquota proporzionale, che riguardano il reddito complessivo di una persona e che alla persona direttamente si rivolgono (v. Schumpeter, 1954).
Il fisco viene dunque studiato e disegnato secondo alcuni principî generali che pongono al loro centro l'utilità, i vantaggi e la libera capacità d'intrapresa dell'individuo. Il più evidente esempio di questo modo di pensare si ritrova nelle quattro massime che, secondo Adam Smith (v., 1776; tr. it., pp. 814-816), dovrebbero governare ogni tipo di imposta: a) i sudditi di ogni Stato devono contribuire a mantenere il governo, in proporzione quanto più stretta possibile alle loro rispettive capacità; b) l'imposta che ogni individuo è tenuto a pagare deve essere certa e non arbitraria; c) ogni imposta deve essere riscossa nel tempo o nel modo in cui è probabilmente più comodo pagarla per il contribuente; d) ogni imposta deve essere congegnata in modo tale da sottrarre alle tasche del popolo il meno possibile oltre a ciò che fa entrare nel Tesoro pubblico dello Stato.
L'income tax inglese è il primo esempio di imposta generale sul reddito, istituita da Pitt nel 1768 per fronteggiare alcune ingenti spese di guerra. Nel 1816, cessate le guerre napoleoniche, tale imposta venne abolita. Venne di nuovo introdotta nel 1843 da Robert Peel, ma questa volta non più come imposta straordinaria e anomala, bensì come elemento stabile, integrante e fondamentale del sistema tributario inglese. Seguì l'Austria nel 1849; poi gli Stati Uniti nel 1862. In Italia, con legge del 14 luglio 1864, venne istituita un'imposta di ricchezza mobile, accanto all'imposta fondiaria e a quella sui fabbricati.Il XIX secolo segnò un altro elemento di differenziazione con il passato: l'introduzione (per la prima volta in Inghilterra nel 1894) dell'imposta sul reddito con aliquota progressiva al crescere del reddito imponibile. Da allora, la progressività dei sistemi tributari è accettata da quasi tutti i regimi politici e spesso (come nel caso dell'Italia all'art. 53) viene sancita nelle carte costituzionali.
Sotto la spinta degli ideali delle grandi rivoluzioni borghesi cambiano anche i concetti ispiratori del fisco. In particolare si va sempre più affermando il convincimento che i cittadini-contribuenti (definiti - come già si è detto, ma è bene sottolinearlo - in base al principio di appartenenza a uno Stato e non in base alla loro appartenenza a un ordine o a una classe sociale) devono partecipare al mantenimento dello Stato in proporzione alla propria capacità contributiva. Ovvero in proporzione al reddito, al patrimonio e alla capacità di spesa di cui possono disporre sotto la protezione dello Stato. Si consolida anche sempre di più il convincimento che nessuna prestazione pecuniaria (tipica è l'imposta) possa essere richiesta ai cittadini di uno Stato se non per espressa disposizione di legge. In numerose carte costituzionali che sono alla base di molti Stati moderni vi è infatti l'affermazione (come nel caso dell'art. 23 della Costituzione italiana) che "nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge". Con ciò, il potere di prelevare le imposte è definitivamente assegnato ai parlamenti nazionali.
Rimane il fatto che, in questo secolo, lo Stato - divenuto nel frattempo Stato sociale - si impegna in programmi di spesa pubblica sempre più rilevanti dal punto di vista quantitativo a cui spesso non corrisponde una sufficiente qualità. Da qui nasce l'esigenza di trovare sempre nuove e maggiori entrate fiscali. Ma qui si incontrano anche le nuove resistenze dei cittadini-contribuenti. Il fisco - insieme all'opprimente burocrazia che esso stesso ha contribuito a generare - torna a essere considerato, non più dagli antichi sudditi ma dai cittadini di oggi, un problema in più nella vita di tutti i giorni. Anche per questo, forse, il referendum abrogativo non è ammesso in materia fiscale (art. 75 della Costituzione italiana); infatti, sarebbe facile prevedere, come ebbe a osservare in un suo scritto del 1918 Max Weber (v., 1921; tr. it., p. 62), quale sarebbe "il destino di quasi tutti i progetti di legge di carattere fiscale in seguito a decisione affidata al voto popolare".
Dopo la seconda guerra mondiale la progressiva integrazione dei sistemi economici porta alla necessità di rivedere alcuni tributi, in particolare quelli che ostacolano la libera circolazione delle merci. Le imposte indirette subiscono modifiche rilevanti correlate con lo sviluppo dei commerci. La formazione sempre più frequente di unioni doganali tra Stati diversi, di comunità economiche, di zone di libero scambio comporta l'eliminazione dei tributi che possono ostacolare il movimento e la libera circolazione delle merci. Si riduce l'importanza dei dazi riscossi alle dogane e anche quella delle imposte di consumo riscosse ai confini delle città o delle nazioni. Fa così il suo ingresso, soprattutto in Europa e per effetto del Mercato Comune Europeo, l'imposta sul valore aggiunto (IVA), che colpisce ogni atto dei consumatori finali di un bene o di un servizio, il cui gettito deve in parte andare a finanziare le spese delle burocrazie comunitarie e il Parlamento europeo. Ai poteri nazionali e alle burocrazie nazionali vanno via via affiancandosi poteri sovranazionali (e le corrispondenti burocrazie) che, dotati di un proprio bilancio, cercano di sottrarre ai parlamenti e ai governi nazionali, oltre che il gettito, anche il potere di regolare alcune imposte. È il tema, soprattutto europeo, dell''armonizzazione' delle imposte sugli scambi ai fini del potenziamento di un mercato comune.
Questo processo di progressiva integrazione dei mercati porta con sé una diversa dislocazione dei poteri pubblici e del corrispondente potere d'imporre e modificare le imposte. Comporta, ad esempio, la rinuncia dei dodici governi che aderiscono al Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Economica Europea (che venne siglato a Roma il 25 marzo 1957 da un primo nucleo di sei Stati), a modificare le aliquote dell'IVA in direzione diversa da quella indicata dalla Comunità Europea. E questo è solo un aspetto del problema più generale, non ancora pienamente risolto, della sovranità fiscale degli Stati di oggi: ovvero, se una parte del potere di imperio in materia fiscale debba essere attribuita direttamente al Parlamento europeo, spogliando così i parlamenti nazionali di una parte del potere di operare, entro i propri confini, la desiderata ridistribuzione dei redditi e delle ricchezze.Ma, oltre alle merci, anche gli uomini e i capitali si muovono con sempre maggiore velocità: soprattutto questi ultimi, grazie all'assistenza di ben organizzati intermediari finanziari. Emerge dunque anche il tema, non ancora sufficientemente approfondito, dell''armonizzazione' della tassazione dei redditi personali e di quelli che provengono dai capitali che, ormai e in modo irreversibile, godono della piena e totale libertà di movimento dentro e fuori dagli Stati. Non a caso si discute con sempre maggior forza di tassazione dei redditi su 'base mondiale' o di 'globalizzazione' dei mercati e dei sistemi tributari; non a caso si invoca, da alcuni, un 'governo mondiale'. Ma, occorre chiedersi, tale governo avrà, o dovrebbe avere, anche i corrispondenti poteri fiscali?
Nelle pagine che precedono abbiamo fatto riferimento, con una certa frequenza, al soggetto passivo d'imposta, ovvero a colui che è chiamato dalla legge a pagare il tributo (contribuente di diritto). Ma non è detto che questi sia anche il soggetto che sopporta l'effettivo onere economico dell'imposta stessa (contribuente di fatto). Gli effetti economici delle imposte possono essere - e di norma sono - assai diversi dagli effetti giuridici indicati dal legislatore.
Per affrontare questo problema, nelle pagine che seguono non faremo più riferimento a esempi tratti dal passato lontano, limitandoci ad alcune considerazioni sugli effetti economici del fisco in un sistema economico qual è quello contemporaneo, caratterizzato dall'uso della moneta e dai mezzi sostitutivi della stessa (assegni, carte di credito, ecc.) e dalla progressiva crescita di spazi (come quello comunitario) senza frontiere interne, nei quali è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali (v. IMF, 1992). Ma tale sistema economico è anche caratterizzato dalla presenza dell'intervento pubblico nell'economia (si discute dunque del ruolo del fisco in una economia mista) oltre che dalla prevalenza di forme di mercato (di oligopolio) diverse dalla concorrenza (v. Sylos Labini, 1956), ove la speculazione, soprattutto quella finanziaria, gioca un ruolo assai importante nella mobilità dei capitali e nella ripartizione dei rischi futuri.
Infine va detto che il fisco a cui ora facciamo riferimento è un vero e proprio fisco di massa che, a differenza del passato, riguarda milioni e milioni di contribuenti (persone fisiche, imprese, persone giuridiche). Esso è costituito anche da una struttura organizzativa assai complessa, a sua volta assistita da potenti mezzi informatici tesi a far sì che la possibilità di sfuggire all'obbligo tributario sia sempre meno praticabile da parte dei contribuenti. È assai comune riscontrare nelle esperienze di molti Stati il fatto che a tal fine i contribuenti siano identificati, di norma, da un 'numero fiscale' da apporre su molti atti e documenti della loro vita e della loro attività economica.
Ma un fisco così strutturato apre un altro e nuovo problema di 'potere': quello di coloro che gestiscono una così grande banca dati e che, grazie agli strumenti informatici, potrebbero dialogare con altri 'poteri' che gestiscono altre banche dati costituite per altre finalità. Si pone dunque con forza ben maggiore rispetto al passato il problema del diritto alla riservatezza che i cittadini-contribuenti devono poter vedere garantito sulle informazioni comunicate al fisco.
Si prenda un caso assai semplice: quello dell'imposta sulla benzina. Poiché la domanda di tale bene non è molto sensibile alla variazione dei prezzi, è facile osservare che, nel breve periodo, ogni volta che i produttori o i distributori della benzina (contribuenti di diritto) sono chiamati dalla legge a pagare un maggior carico fiscale sulla produzione o sulla distribuzione della medesima si verifica anche, immediatamente, l'aumento del prezzo di tale bene, come si suole dire, 'alla pompa'. Sono dunque i consumatori di benzina a essere, nel breve periodo, i contribuenti di fatto. Si noti che lo stesso effetto si sarebbe verificato anche nel caso che il maggior carico fiscale fosse stato prelevato direttamente al momento dell'acquisto della benzina da parte dei consumatori finali della stessa: in questo caso i contribuenti di diritto coincidono con i contribuenti di fatto.
Nell'un caso come nell'altro sono dunque i consumatori di benzina quelli che, nel breve periodo, sopportano l'onere economico di tale prelievo fiscale, ancorché esso possa essere, in tutto o in parte, formalmente prelevato in una fase del processo produttivo e distributivo diversa da quella del consumo finale della benzina stessa. È questo un caso di 'traslazione in avanti' dell'imposta dai produttori e dai distributori (soggetti passivi) ai consumatori finali (soggetti che effettivamente sopportano l'onere dell'imposta), traslazione che si manifesta nel corrispondente aumento del prezzo finale di vendita. Nei bilanci economici dei consumatori non fa allora molta differenza il fatto che il legislatore indichi il produttore o il consumatore finale come soggetto passivo dell'imposta (contribuenti di diritto).
L'esempio appena riportato illustra anche il caso, assai frequente, di un mercato oligopolista (come quello petrolifero) sul quale operano poche grandi imprese dominanti (price-leaders) che adottano comportamenti collusivi; ovvero imprese che controllano il prezzo di vendita dei loro prodotti e che, dunque, riescono a 'trasferire in avanti', sui prezzi finali di vendita, non solo i costi di produzione, ma anche le imposte 'incorporate' nel processo produttivo e distributivo.
Esiste tuttavia anche il caso opposto, il caso, cioè, di mercati concorrenziali ove operano principalmente imprese price-takers. Si pensi ai mercati dei prodotti agricoli, dove prevale la concorrenza rispetto all'oligopolio e dove l'offerta dei prodotti è tendenzialmente rigida, almeno nel breve periodo. Le imprese agricole che operano su tali mercati, di norma e nel breve periodo, soltanto con grande difficoltà riescono ad adattare non solo l'offerta dei loro prodotti alla domanda, ma anche i loro prezzi di vendita ai loro costi di produzione; i grossisti, invece, riescono spesso a imporre ai piccoli proprietari terrieri i loro prezzi di acquisto. In questo contesto, ad esempio, un'imposta che la legge ponesse formalmente a carico dei commercianti all'ingrosso di prodotti alimentari potrebbe essere, nei fatti, 'trasferita all'indietro' sulle imprese agricole produttrici dei beni alimentari medesimi.
I due esempi appena riportati sono sufficientemente illustrativi di quanto prima detto: che, di norma, non vi è coincidenza tra coloro che la legge chiama a pagare le imposte e coloro che ne sopportano l'onere economico. Infatti, come si è visto, l'introduzione di nuove imposte, o la variazione di quelle esistenti, non lascia immutato il comportamento di coloro che, in base al diverso grado di monopolio di cui dispongono, operano sui diversi mercati di riferimento: ognuno cercherà di trasferire a carico di altri l'onere dell'imposta. Nel concreto, dunque, la misura della traslazione dell'imposta (in avanti o all'indietro) dipenderà sia dalla forma di mercato prevalente (concorrenziale, oligopolistico, monopolistico), sia dalla maggiore o minore elasticità della domanda e dell'offerta alla variazione delle imposte.
Si deve tuttavia ricordare che vi può essere anche il caso di chi riesce a 'fuggire' dall'imposta (dunque dal potere di imperio dello Stato o della comunità locale di appartenenza) trasferendo altrove il cespite tassato. Si prenda il caso dei capitali mobiliari (azioni, obbligazioni, depositi bancari, ecc.). Abbiamo già detto che le economie di oggi si caratterizzano per la presenza di legislazioni e di efficienti intermediari finanziari (le banche in primo luogo) che garantiscono la completa mobilità dei capitali dentro e fuori le frontiere nazionali: anche di quelli a breve termine. Può dunque avvenire che se il governo di un dato paese inasprisce il carico fiscale sui redditi o sullo stock dei capitali mobiliari convenga ai proprietari di tali beni trasferire in altro paese i beni medesimi. L'imposta viene sfuggita e il bilancio dello Stato non registra l'incasso corrispondente. I paradisi fiscali, dunque, altro non sono che Stati compiacenti che offrono la possibilità di sfuggire all'imperio delle legislazioni fiscali di altri Stati.
Considerazioni del tipo di quelle appena esposte sono alla base delle preoccupazioni dei governi e dei parlamenti nazionali che, per evitare effetti distorsivi e per tener conto di quanto avviene nelle economie sottostanti, devono continuamente riformare e ridisegnare i loro sistemi fiscali, principalmente nelle parti che riguardano la tassazione internazionale delle merci che si muovono dai paesi produttori a quelli consumatori. È significativa al riguardo l'esperienza della Comunità Economica Europea per la cui piena costituzione l'armonizzazione delle imposte indirette sugli scambi delle merci è sempre stata considerata una tappa indispensabile.
Per contrastare effetti distorsivi sui flussi commerciali, da tempo sono stati delineati alcuni principî in base ai quali disegnare i sistemi fiscali.Il principio di tassazione attualmente adottato negli scambi internazionali (raccomandato anche dal GATT, General Agreement on Tariffs and Trade) è il cosiddetto 'principio di destinazione'. La pratica applicazione di questo principio garantisce che il gettito dell'imposta (ad esempio quella sul valore aggiunto, IVA) che colpisce lo scambio della merce affluisca nel bilancio dello Stato ove avviene il consumo della merce medesima. Per effetto dell'accordo tra gli Stati ai fini dell'applicazione di tale principio, le esportazioni di beni e servizi sono considerate materia non imponibile. I beni importati, invece, sono tassati unicamente con l'aliquota del paese ove avviene il consumo. La soluzione descritta (definita abitualmente nei paesi di lingua anglosassone border tax adjustment) garantisce che il gettito di queste imposte affluisca al bilancio pubblico del paese ove viene effettuato il consumo e garantisce, solitamente, che tali imposte non inducano effetti distorsivi nei flussi di commercio internazionale. In questo modo l'imposta non è distorsiva in quanto, applicandosi la medesima aliquota, non modifica il prezzo relativo tra i beni prodotti internamente e quelli importati, rispetto a quanto avverrebbe in assenza di imposta.
Diversi sarebbero gli effetti se la tassazione avvenisse con l'adozione del cosiddetto 'principio di origine'. In questo caso i beni importati sarebbero tassati con l'aliquota del paese di produzione del bene: la merce porterebbe 'con sé' l'aliquota del paese in cui viene prodotta e il gettito verrebbe incassato nel paese di produzione. È vero però che l'applicazione di questo principio farebbe subire ai diversi Stati una seria limitazione alla propria politica fiscale - ovvero a quel potere d'imperio dello Stato che gli consente di governare i rapporti tra i propri cittadini-consumatori e il proprio bilancio pubblico -, oltre che far correre il grave rischio di non poter incassare tutto il gettito delle imposte sui consumi effettuati sul proprio territorio nazionale.
In un regime di piena liberalizzazione dei movimenti di capitali, di libertà degli intermediari finanziari e anche dell'offerta dei servizi finanziari di stabilirsi dentro e fuori le frontiere nazionali è ragionevole ritenere che il trattamento fiscale presente sulle diverse 'piazze finanziarie' possa concorrere non marginalmente ad attrarre quote crescenti di capitali e di risparmio finanziario. È altrettanto ovvio che, per agevolare il finanziamento degli investimenti delle proprie imprese e del proprio fabbisogno pubblico, ogni Stato cerchi di trattenere al proprio interno il risparmio accumulato.
A livello internazionale non vi è ancora un 'comune sentire' su come tassare i capitali e i loro redditi, anche al fine di evitare effetti distorsivi sui movimenti internazionali dei capitali. In tutti i paesi la legislazione è assai frammentata oltre che molto complessa, anche perché gli operatori interessati sono molteplici (famiglie, intermediari, società), così come molteplici sono i regimi fiscali (imposte sul reddito delle persone fisiche; imposte sul reddito delle persone giuridiche; imposte commisurate al patrimonio; imposte pagate per ritenuta alla fonte in via definitiva o in via di acconto), le modalità di accertamento e di riscossione e il tipo di reddito da capitale (dividendi, interessi, capital gains, royalties, ecc.).
A differenza di quanto abbiamo detto per i movimenti delle merci, per i movimenti internazionali dei capitali (molto più rapidi e improvvisi di quelli delle merci, anche perché assistiti da sofisticate tecniche informatiche capaci di spostare in pochi secondi - con semplici registrazioni contabili - masse enormi di capitali finanziari) non vige né il 'principio di residenza', né quello 'territoriale'. Con il primo si prevede che la tassazione avvenga nel solo paese di residenza del percettore secondo la legislazione vigente per i redditi interni, in applicazione anche del più generale principio di tassazione del reddito mondiale (worldwide principle). Con il secondo principio, invece, si prevede unicamente la tassazione nel paese ove il reddito è prodotto e quindi dove sono collocate le imprese o gli intermediari che distribuiscono le rendite finanziarie. Nei fatti i due principî tendono a sovrapporsi e a generare, così, gravi distorsioni nei movimenti internazionali dei capitali.
Per evitare questa doppia imposizione internazionale i diversi Stati adottano da lungo tempo una varietà di metodi. Tra questi il più diffuso è ancora quello della stipula di un trattato bilaterale (tra lo Stato A e lo Stato B) che prevede la concessione al contribuente di un credito per le imposte pagate all'estero. Ma poiché è frequente rilevare che ogni trattato bilaterale ha contenuti diversi dagli altri, ben si comprende come, anche tramite opportune triangolazioni tra gli Stati, sia assai elevato il numero dei regimi fiscali potenzialmente applicabili ai movimenti internazionali dei capitali.
L'artificiosa segmentazione dei mercati internazionali dei capitali trova dunque nella normativa fiscale una delle sue cause determinanti. Per rimediare a tale stato delle cose e per giungere a uniformare le convenzioni bilaterali, dal 1963 l'OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) si è applicata alla redazione di uno schema di convenzione (Model tax convention on income and capital) da sottoporre ai diversi governi nazionali affinché adottino convenzioni bilaterali il più possibile simili tra loro. L'ultimo schema di convenzione è stato approvato nel luglio del 1992 (v. OECD, 1992).
Tuttavia, in assenza di adeguati meccanismi che consentano di accertare i redditi esteri, vi è una evidente convenienza ad allocare il risparmio finanziario nei paesi ove più basse sono le ritenute fiscali. A ciò corrisponde un'analoga convenienza degli Stati a ridurre le ritenute su tali redditi al fine di attirare sulle proprie piazze finanziarie i risparmi formatisi in altri Stati e di evitare al contempo indesiderati deflussi di capitale. Ciò spiega la tendenza alla competizione fiscale che porta alla localizzazione del risparmio nei paesi fiscalmente più permissivi. Date però le oggettive esigenze di finanziamento dei bilanci pubblici, tale tendenza, portata all'estremo, determinerebbe una situazione socialmente inaccettabile, per cui sarebbero soltanto i redditi da lavoro dipendente a trovarsi nell'impossibilità di sfuggire all'imposizione.
Considerazioni di questo tipo portano ad auspicare che vengano rafforzati gli scambi di informazioni tra gli Stati al fine di dare piena applicazione al principio di residenza, ma ciò implica una qualche forma di collaborazione sovranazionale che non tutti gli Stati sono disposti ad accettare.
Altre ragioni militano tuttavia a favore del principio di residenza. Tra queste vi è il soddisfacimento di uno dei principî che dovrebbero guidare il disegno dei sistemi fiscali: quello della neutralità allocativa internazionale dei capitali. Infatti, con l'applicazione del principio di residenza non vengono alterate le condizioni di convenienza a investire, in quanto per l'investitore di ciascun paese il rendimento ottenuto all'interno o all'estero è tassato nello stesso modo e non vengono quindi stimolati movimenti di capitale attribuibili a ragioni fiscali. Le scelte tributarie di ciascuno Stato non influiscono dunque sulla localizzazione degli investimenti e dei capitali. Si realizza così la capital export neutrality che, inoltre, è compatibile con la tassazione di tipo personale che prevede che tutti i redditi dell'individuo siano ricompresi nell'imponibile della persona (comprehensive income taxation: v. Meade, 1978).
È però vero che con l'applicazione del principio di residenza i diversi risparmiatori residenti nei diversi paesi godranno di rendimenti netti differenti per il solo fatto di appartenere a uno Stato invece che a un altro (Stato di nascita, dunque, per la maggior parte dei cittadini). In tal modo viene violato un altro principio di neutralità nell'allocazione internazionale dei capitali (capital import neutrality), secondo il quale il rendimento netto dei capitali dovrebbe essere il medesimo indipendentemente dalla residenza del percettore. La piena armonizzazione delle legislazioni tributarie (per quel che riguarda non solo le aliquote, ma anche le basi imponibili e il metodo di accertamento) sarebbe dunque la via maestra per giungere al pieno soddisfacimento dei due principî di neutralità appena ricordati. In questo senso l'armonizzazione fiscale deve essere concepita al pari di un processo di progressivo aggiustamento dei sistemi fiscali dei diversi paesi per il perseguimento di un comune obiettivo politico: quello della piena libertà di movimento di uomini, merci, capitali e servizi.
Gli esempi precedentemente descritti illustrano dunque che vi sono degli effetti del fisco che si muovono nella direzione che va dalle imposte all'economia. Gli studi sia micro- che macroeconomici (sovente assistiti dall'ausilio di potenti modelli econometrici) indicano che l'aumento delle imposte tende o ad accrescere i prezzi finali di vendita dei prodotti e dei servizi (di norma tramite l'aumento delle imposte indirette che colpiscono i consumi) o a ridurre direttamente il reddito monetario delle famiglie (di norma tramite l'aumento delle imposte dirette che colpiscono i redditi). Nell'un caso come nell'altro le famiglie dovranno rivedere verso il basso le loro decisioni di consumo (per l'operare dell'effetto di reddito), a meno che non decidano di mantenere inalterati i loro consumi reali riducendo la parte del loro reddito monetario destinata ad accrescere lo stock del loro risparmio. Nell'un caso come nell'altro i consumi o i risparmi (o parte di questi e di quelli) della collettività nazionale colpita dall'aumento delle imposte non saranno più quelli della situazione che precede l'aumento delle imposte stesse.
Può tuttavia avvenire che le famiglie adottino comportamenti tesi a discriminare tra beni di consumo tassati e beni non tassati e che decidano di sostituire il consumo del bene tassato (ad esempio il consumo del caffè) con il consumo di altro bene non tassato (ad esempio con il consumo del tè). La modifica nella composizione finale dei consumi delle famiglie è dunque ciò che si chiama effetto di sostituzione dell'imposta.
Ma vi sono anche effetti che si muovono nella direzione che va dal sistema economico alle imposte e al bilancio pubblico. Si pensi al caso di un aumento generalizzato dei prezzi interni (ad esempio per effetto di una svalutazione della moneta nei confronti delle altre monete) o a quello di un aumento della massa dei redditi reali delle persone fisiche (ad esempio per effetto di un rinnovo contrattuale). Nell'un caso come nell'altro la massa imponibile delle imposte (redditi e consumi) tenderà ad accrescersi e, se le aliquote delle imposte sono mantenute invariate, per l'operare di questo effetto automatico il gettito che affluirà al bilancio dello Stato risulterà maggiore. Si potrà così ridurre il disavanzo pubblico o, alternativamente, finanziare altra spesa pubblica.
L'effetto automatico sul bilancio pubblico a cui abbiamo appena fatto riferimento va tenuto distinto dall'effetto discrezionale che si registra, sempre nel bilancio pubblico, ogni volta che il gettito aumenta in conseguenza di una decisione discrezionale delle autorità di governo di accrescere il carico fiscale sui contribuenti attraverso un aumento delle aliquote o delle basi imponibili.
È ovvio che nel concreto operare di un sistema economico e dei comportamenti dei contribuenti gli effetti appena enunciati tendono a essere tutti contemporaneamente presenti, sebbene in misura diversa. Così, ad esempio, un provvedimento discrezionale impostato dal governo che volesse accrescere, di un determinato ammontare, il gettito delle imposte su alcuni consumi delle famiglie, oltre ad avere effetti diretti (spesso di difficile osservazione e misurazione) sui livelli dei consumi e dei risparmi delle famiglie stesse, avrà anche effetti sulla composizione dei consumi. Ma poiché gli effetti diretti (di segno riduttivo) delle imposte sui consumi retroagiscono sul gettito delle imposte stesse, il gettito ipotizzato ex ante, che dovrebbe provenire da un incremento delle imposte, risulterà ex post di un ammontare inferiore: proprio per effetto dei minori consumi indotti dall'aumento delle imposte stesse.
Al limite si potrebbe immaginare l'introduzione o l'incremento di una imposta il cui gettito, ex post, fosse nullo. È quanto avverrebbe qualora una data attività potesse esistere soltanto per effetto dell'esenzione fiscale o fosse talmente elastica alla variazione del carico fiscale da scomparire per effetto di tale variazione. Il sottoporre a imposta tale attività (o accrescerne il carico tributario) farebbe scomparire (e casomai ricomparire all'estero) l'attività stessa e il gettito proveniente da essa non potrebbe, dunque, che essere pari a zero.
In conclusione, alcune delle considerazioni e delle osservazioni riportate nelle pagine precedenti consentono di sostenere che, di norma, il fisco genera inefficienze nel sistema economico, è troppo complicato per la comprensione dei contribuenti, non soddisfa i principî dell'equità verticale e orizzontale (per confronti internazionali v. OECD, 1987; v. IMF, 1992).
È però vero che ridisegnare e riformare i sistemi tributari vigenti al fine di accrescere la loro efficienza, semplicità ed equità richiede un consenso politico assai vasto, onde fugare il sospetto che, per tale via, vengano soddisfatti soltanto interessi di parte a scapito di interessi collettivi. In questa direzione, tuttavia, alcune 'convinzioni' sono oggi sufficientemente diffuse (v. Meade, 1978, p. 22): a) in una economia mista il sistema tributario deve consentire alle imprese private un'ampia operatività anche al fine di raggiungere i più elevati livelli di efficienza; b) il sistema fiscale deve realizzare quella ridistribuzione del reddito e della ricchezza che è, in quel dato momento storico, socialmente desiderabile.
Per quanto riguarda gli aspetti dell'efficienza, si può in via generale sostenere che si verifica una distorsione fiscale ogniqualvolta gli agenti economici reagiscono alle variazioni dei prezzi relativi indotte dalla tassazione. Come abbiamo mostrato nelle pagine precedenti, le imposte creano 'cunei fiscali' nei prezzi delle merci, dei servizi e dei fattori produttivi calcolati prima e dopo l'imposta stessa. Ma quando tali cunei sono (come di norma avviene) di dimensioni diverse, i prezzi relativi mutano e con questi mutano anche i comportamenti degli operatori economici.
È bensì vero che alcune di queste distorsioni possono essere desiderabili, come nel caso della tassazione delle attività inquinanti, quando si tenta con tale tassazione di far pagare a tutti coloro che inquinano l'ambiente l'intero costo sociale e non soltanto il costo di produzione dei prodotti inquinanti.
Molte distorsioni fiscali, tuttavia, non sono desiderabili: la domanda e l'offerta di fattori produttivi possono essere influenzate dalle imposte e ciò può portare all'adozione di tecniche produttive inefficienti e a ridurre la produzione complessiva che altrimenti si sarebbe avuta; la composizione della domanda dei consumi delle famiglie può essere influenzata dal livello e dal numero delle aliquote fiscali che gravano sui diversi beni di consumo e ciò può portare alla riduzione del benessere collettivo; la presenza di un prelievo obbligatorio (contributi sociali) a carico dei datori di lavoro inserisce un cuneo fiscale tra il costo del lavoro per l'impresa e il salario o lo stipendio ricevuto in busta paga dal lavoratore dipendente e spinge all'adozione di tecniche produttive che favoriscono l'uso di impianti e macchinari (capital intensive) invece di quelle che favoriscono l'occupazione di manodopera (labour intensive).In sintesi possiamo dire che in ogni sistema economico non vi è decisione importante adottata dagli agenti economici che non sia influenzata, in un modo o nell'altro, dal sistema delle imposte. Compito dei governi è dunque anche quello di disegnare i sistemi tributari in modo tale che essi non ostacolino l'efficiente allocazione delle risorse tra usi alternativi.
La semplicità amministrativa dovrebbe essere un'altra caratteristica di un buon sistema fiscale. Questo dovrebbe dunque essere facilmente comprensibile ai contribuenti e poco costoso dal punto di vista della sua amministrazione: sia quando è il singolo contribuente che deve procedere ai diversi adempimenti richiesti dall'amministrazione finanziaria, sia quando è l'amministrazione pubblica che deve procedere alla verifica delle dichiarazioni dei contribuenti e alla riscossione delle imposte.
È generalmente riconosciuto infatti che la complessità dei sistemi tributari è causa di diversi e gravosi costi. Sia costi diretti, come quelli sopportati da molti contribuenti che devono rivolgersi ad appositi professionisti per ricevere adeguata assistenza fiscale; sia costi indiretti, come quelli dovuti agli sforzi richiesti dal riordino artificioso dei propri affari per tener conto di tutte le particolari disposizioni contenute nella legislazione tributaria (tax planning), anche al fine di ridurre (tramite l'elusione della norma di legge) il proprio debito d'imposta. È poi facile sostenere che quanto più complicato è un sistema fiscale tanto maggiori diventano le difficoltà, per l'amministrazione finanziaria, di esercitare un efficiente controllo sugli adempimenti fiscali dei diversi contribuenti; corrispondentemente, diviene più facile l'evasione fiscale.Il raggiungimento dell'equità del sistema fiscale è compito non semplice per i legislatori dei diversi Stati. Con tale espressione si vuol dire che il fisco deve assicurare che il trattamento relativo dei diversi contribuenti sia equo: non dunque una equità assoluta, ma una equità relativa che risulta dal confronto tra ciò che paga un contribuente e ciò che paga un altro contribuente.
Assai acceso, e non soltanto da oggi, è il dibattito teorico sull'equità dei sistemi tributari. Alcuni sostengono che, poiché le imposte sono dovute per il finanziamento delle spese pubbliche, ogni cittadino dovrebbe contribuire in proporzione al beneficio che trae dai servizi pubblici. Si obietta che spesso si incorre nella impossibilità di determinare la dimensione del beneficio ricevuto dai singoli contribuenti. Ad esempio, qual è il beneficio che ogni individuo trae dalle spese per la difesa nazionale o per la giustizia? La questione, non ancora risolta dalla teoria, è se tale beneficio debba corrispondere al costo di erogazione del servizio stesso o se, invece, debba corrispondere a quanto ogni persona (dotata di un proprio reddito e di una propria scala di preferenze) sarebbe disposta a pagare per tale servizio collettivo. Anche per queste difficoltà l'applicazione del principio del beneficio può riguardare soltanto alcuni servizi pubblici i cui vantaggi siano direttamente misurabili presso gli utenti del servizio stesso e i cui costi siano direttamente ripartibili tra gli stessi.
La maggior parte degli studiosi sostiene invece che per realizzare l'equità del sistema fiscale le imposte debbano essere ripartite tra gli individui in base al principio della capacità contributiva. In altre parole, la distribuzione delle imposte tra gli individui deve rispettare almeno l'eguale trattamento degli eguali (equità orizzontale) e il diverso trattamento di soggetti in situazioni diverse (equità verticale). Si conviene anche che, in via di prima approssimazione, buoni indicatori della capacità contributiva di un individuo possono essere il reddito, il consumo e il patrimonio dello stesso.
Nella pratica il rispetto dell'equità orizzontale significa che, diversamente che in passato, non possono essere più ammesse, tra le altre, discriminazioni fiscali in base alla razza, al sesso, al colore della pelle, alla religione. Vuole anche dire, almeno in via di prima approssimazione, che coloro che godono dello stesso ammontare di reddito o dello stesso patrimonio dovrebbero pagare lo stesso ammontare di imposte.Ma come si pone il problema per quanto riguarda altri aspetti assai meno evidenti? Ad esempio, se a parità di reddito imponibile un contribuente è sposato e l'altro no, oppure un contribuente è più anziano dell'altro, si può con sicurezza affermare che violerebbe il principio dell'equità orizzontale un trattamento fiscale che agevolasse i primi contribuenti rispetto ai secondi al fine di favorire la formazione della famiglia e di tutelare la condizione degli anziani?
Anche nel caso dell'equità verticale i problemi da risolvere non sono da meno. Posto, infatti, che alcuni siano in grado di pagare ammontari di imposte maggiori di altri, quanto di più i primi dovrebbero pagare rispetto ai secondi?
Questi semplici interrogativi portano ad affermare che è assai difficile definire con precisione cosa sia equo e cosa non lo sia, in senso orizzontale e verticale, nel campo fiscale. Anche perché quando i temi dell'equità tornano a irrompere con forza in una disciplina come l'economia politica, assai più difficile diventa il compito dello studioso che deve destreggiarsi con i rapporti che intercorrono tra i sistemi economici e fiscali e la filosofia morale (v. Sen, 1987 e la bibliografia ivi riportata).
Non si può entrare qui in questo tipo di dibattito (v. Sen, 1982 e 1987). Più semplicemente si osserva che il disegno di un sistema tributario richiede, anche a fini di equità, che esso si confronti con grandezze osservabili e anche empiricamente rilevabili con una certa precisione. Il dibattito dovrebbe dunque tentare di offrire anche soluzioni empiriche ai problemi dell'equità. Le statistiche prodotte dai diversi servizi statistici operanti nei diversi Stati, insieme agli indicatori che esse consentono di elaborare, costituiscono dunque un ausilio indispensabile per poter disegnare un sistema tributario che sia il meno lontano possibile dagli ideali di equità contenuti in una teoria della giustizia sociale.
Infine, un ultimo richiamo. Tutti coloro che si sono cimentati con il disegno e con la riforma dei sistemi tributari sanno che il fisco altro non è che una faccia, tra le tante, del 'potere' di uno Stato, ancorché democratico, che nella migliore delle ipotesi tenta di mediare tra interessi corporativi contrapposti. I sistemi tributari che ognuno può osservare nel concreto non possono, pertanto, che essere assai distanti dal disegno che emerge dalla lettura dei tanti manuali in circolazione, nei quali troppo spesso si assume che le autorità che dispongono del potere di modificare le imposte siano interessate esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni collettivi e che abbiano come unica missione quella di rendere massimo il benessere sociale: sia, tanto per accennare a due casi estremi, che tale benessere risulti dalla somma delle utilità di tutti i membri della collettività (v. Bentham, 1789; v. Blaug, 1968², pp. 724 ss.), sia che esso rappresenti il benessere di coloro che stanno peggio rispetto agli altri membri della collettività (v. Rawls, 1971, tr. it., pp. 221 ss.; v. Sen, 1982, tr. it., pp. 337 ss.).
In conclusione va allora rammentato che lo studio di tali opere dovrebbe sempre essere accompagnato dal ricordo del grido di libertà (no taxation without representation) che unì i baroni in armi contro re Giovanni per strappargli la Magna Charta (1215) e che accompagnò anche l'inizio della guerra di indipendenza americana e l'opposizione di quel popolo a imposte ritenute ingiuste. Nel primo caso l'opposizione dei baroni fu il primo passo lungo la strada che portò poi a riservare ai parlamenti nazionali il compito di fissare e modificare le imposte (v. Trevelyan, 1942; tr. it., pp. 161-162). Nel secondo caso l'opposizione delle colonie americane sia allo Stamp act approvato dal Parlamento inglese nel 1765 - con cui si inasprivano le imposte di bollo su generi di consumo (ad esempio i giornali) e su molti atti (ad esempio le fatture e le polizze di assicurazione) -, sia ai successivi dazi all'importazione nelle colonie introdotti nel 1767 dal Cancelliere dello Scacchiere Charles Townshend fu uno dei primi passi verso la loro indipendenza e libertà. La reazione delle colonie americane (non rappresentate nel Parlamento di Londra) ebbe come epicentro Boston ove, nel febbraio del 1768, l'Assemblea del Massachusetts diramò un documento in cui si denunciava il fatto che le tasse all'importazione di merci nelle colonie americane deliberate dal Parlamento di Londra violavano il principio 'niente tasse senza rappresentanza'. Il successivo episodio del Boston tea party (16 dicembre 1773), che vide gettare nel porto di Boston le casse piene di tè provenienti dall'estero, fu il primo importante atto di violenza che diede avvio alla guerra di indipendenza americana (v. Morison e Commager, 1950, tr. it., pp. 208 ss.; v. Jones, 1983, tr. it., pp. 40-44). (V. anche Bilancio pubblico; Debito pubblico; Finanza pubblica; Politica economica e finanziaria; Reddito; Risparmio; Titoli di credito).
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di Adriano Di Pietro
1. Fisco e sistemi fiscali: le ragioni dell'integrazione e le difficoltà dell'attuazione
È naturale pensare che fisco e sistemi fiscali costituiscano, così come si propongono, concetti destinati a integrarsi anche da un punto di vista giuridico. La congiunzione che li lega dovrebbe impedire da un lato che le singole soluzioni tributarie rimangano orfane di principî generali, dall'altro che esse possano essere sottratte a ogni necessario richiamo all'unità dell'ordinamento o siano schiave di esigenze contingenti ed episodiche.
Il sistema fiscale dovrebbe quindi costituire la naturale collocazione delle singole soluzioni tributarie e dovrebbe garantire, in una giustificata aspirazione all'unità, il coordinamento delle scelte di diritto positivo e la coerenza con principî che preesistono a quelle stesse soluzioni fiscali che dovrebbero concorrere a ispirare. A una collocazione sistematica delle soluzioni tributarie spetterebbe quindi il compito di assicurare il rispetto sia dell'eguaglianza nel trattamento tributario, sia della trasparente e coerente partecipazione alle spese pubbliche, che rappresentano, insieme al consenso popolare al sacrificio fiscale, finalità costituzionalmente garantite.
L'insofferenza per una collocazione sistematica sembra invece caratterizzare l'evoluzione della fiscalità più recente. Questa infatti si arricchisce di diverse soluzioni impositive, coinvolge un numero sempre più ampio di soggetti, ma è anche costretta a piegarsi alle esigenze crescenti delle spese pubbliche; essa deve poter realizzare, accanto alla sua naturale vocazione finanziaria, obiettivi di politica economica - incentivare o disincentivare investimenti, consumi, risparmio - o addirittura garantire, tramite il ricorso a una forte progressività delle imposte, una funzione redistributiva della ricchezza.
Nei più recenti orientamenti fiscali si afferma infatti una crescente ispirazione alla contingenza finanziaria, con il risultato di una sempre più rapida dinamica impositiva. Questa mina la stabilità non solo delle tradizionali e consolidate ispirazioni sistematiche, ma anche di quelle esigenze di coerenza e di quel rispetto dei principî che sembravano, in passati ordinamenti e con altre situazioni di finanza pubblica, largamente riconosciuti e affermati.
Non si tratta più solo di un fenomeno tipicamente italiano. Il rapporto tra scelte fiscali e collocazione sistematica passa da una naturale integrazione a un conflitto continuo che è sempre più difficile temperare e che investe ormai, sia pur con varietà di accenti e con diverso grado di intensità, tutte le democrazie europee, come testimoniano le sempre più accentuate riforme fiscali o la rapidità con la quale si rinnovano le soluzioni tributarie nel vecchio continente. Instancabilmente e incessantemente si susseguono modifiche alla disciplina impositiva di singoli settori, da quello dei redditi, in particolare per quel che riguarda le società, a quello dei consumi o della produzione, come testimoniano ad esempio in Francia le sempre più frequenti incursioni in quel Code général des impôts che già manifestava un'indubbia ispirazione sistematica. Cambia anche l'atteggiamento nei confronti dei soggetti societari, il cui sviluppo viene fiscalmente incentivato in Francia e in Gran Bretagna. Cadono orientamenti di politica fiscale che sembravano ormai consolidati, come la tassazione dei capitali nella Repubblica Federale Tedesca. Si manifesta l'esigenza di rivedere di continuo il rapporto tra poteri di controllo e tutela dei contribuenti, incidendo ora sulle procedure, come di recente in Francia, ora sulla tutela processuale, come di recente in Germania. Si giunge addirittura a riesaminare in maniera esplicita e manifesta gli stessi principî della legislazione tributaria, come si verifica con la riforma della ley general tributaria in Spagna.
La difficoltà di reperire una collocazione coerente e organica per le soluzioni e le modifiche tributarie che si susseguono non incide sui caratteri formali dell'ordinamento. Indebolisce però, nella delicata fase di passaggio che va dalla previsione all'attuazione delle norme tributarie, quella sicurezza interpretativa e quella certezza dei rapporti giuridici che rappresentano un carattere sostanziale di ogni ordinamento tributario. La dinamica fiscale in tal modo rischia, proprio sul piano dell'effettività, di mancare quegli obiettivi ampi e diversificati che costituiscono la sua ricchezza e, al tempo stesso, la sua debolezza; rischia inoltre di privare la stessa fiscalità, oltre che della sicurezza e della certezza sopra richiamate, di quei caratteri qualificanti che ne hanno fatto, sotto il profilo storico e culturale, un patrimonio che non è possibile dissipare senza conseguenze. La difficoltà sistematica giunge così a mettere in discussione le radici stesse del consenso, rischia di alterare il rapporto tra unità e pluralità dei prelievi e di modificare la relazione tra scelte fiscali e responsabilità politiche, tra assetto tributario e forme di Stato, che qualifica invece tradizionalmente il rapporto tributario, anche al di fuori del mero dato giuridico e oltre ogni valutazione meramente tecnica delle soluzioni fiscali.In tale prospettiva viene quindi spontaneo domandarsi oggi, alle soglie del terzo millennio, se tale rapporto conflittuale tra soluzioni fiscali e assetto sistematico non metta in discussione gli stessi concetti, impedendo di conseguenza di attribuire loro una fondata efficacia e di raggiungere quella naturale integrazione che dovrebbe essere costituzionalmente garantita.
2. La 'sovranità' tributaria tra rappresentanza parlamentare e democrazia diretta
Il quadro finanziario definito dalla Carta costituzionale italiana è attualmente caratterizzato da una diffusa e riconosciuta prevalenza della sovranità parlamentare per le scelte di carattere tributario. Nell'affidare al Parlamento, tramite lo strumento giuridico della riserva di legge (art. 23 della Costituzione), la scelta di stabilire le forme del sacrificio e la misura della partecipazione finanziaria alle pubbliche spese non si intese però solo sottrarre al governo tale indispensabile giudizio sull'equilibrio finanziario. Si volle infatti rafforzare, nel lontano 1948, quel potere legislativo che doveva esprimere - sia pure indirettamente, tramite la rappresentanza parlamentare - il consenso al sacrificio tributario. Anche quando, in tempi successivi all'entrata in vigore della Costituzione, si ritenne di interpretare la riserva di legge non tanto come una forma di autoimposizione - che pur in via tortuosa valorizzasse il consenso popolare - quanto come l'occasione per una più ampia e matura partecipazione di tutte le componenti parlamentari - non solo della maggioranza di governo - a scelte, come quelle tributarie, che erano e rimangono indispensabili per l'esistenza e la funzionalità di uno Stato, si intese sempre valorizzare il ruolo parlamentare. Tale riaffermata centralità in materia tributaria confermava la sconfitta di ogni espressione di democrazia diretta, esprimeva motivi di diffusa apprensione per gli umori popolari circa le scelte impositive e manifestava una chiara diffidenza nei confronti della capacità di giudicare i limiti del sacrificio tributariamente imposto: si dubitava evidentemente della maturità del popolo, pur costituzionalmente sovrano, ritenendolo incline a sottrarsi a contingenze finanziarie eccessivamente sfavorevoli. Questa diffidenza trovò poi un formale riconoscimento nel divieto costituzionale di ricorrere al referendum abrogativo per le leggi tributarie (art. 75). Ancor oggi si esprime così un giudizio severo sulle dirette responsabilità popolari in materia tributaria, giudizio che non può essere temperato dalla possibilità di interpretare il divieto costituzionale come riferito alle sole leggi che riguardano il prelievo tributario e non anche a quelle relative alla sua attuazione. La diffidenza nei confronti del ricorso a forme di democrazia diretta in campo fiscale si attenua se si inquadra la centralità tributaria in una centralità parlamentare che riguardi l'intero settore finanziario. In tale più ampio quadro la decisione di affidare al giudizio esclusivo del Parlamento la scelta sulle forme d'imposizione apparirebbe coerente con la responsabilità che tale organo assume nel definire la manovra di finanza pubblica. Non possono infatti essere trascurate le scelte di affrancare la legge di bilancio dalla povertà formale nella quale era stata confinata (leggi del 5 agosto 1978, n. 468, e del 23 agosto 1988, n. 362), di introdurre strumenti di gestione della finanza pubblica che permettano al Parlamento di modificare leggi di spesa e di entrata (leggi di accompagnamento alla legge finanziaria), di definire preventivamente la manovra finanziaria (legge finanziaria), di assicurare alle scelte di bilancio un'opportuna prospettiva pluriennale (bilancio pluriennale), di garantire, infine, in maniera più rigorosa e fondata la copertura delle leggi di spesa.
Non si può negare che il Parlamento abbia assunto un ruolo centrale nelle scelte finanziarie. Mantenere e rafforzare la sovranità parlamentare in materia fiscale dovrebbe quindi servire a conferire alle scelte tributarie un carattere di coerenza finanziaria, a inserire le soluzioni impositive in un quadro di compatibilità finanziaria ed economica, e infine a evitare che il ricorso alle entrate tributarie possa essere indiscriminatamente usato per garantire la copertura di qualunque tipo di spesa pubblica.Il passaggio del ruolo del Parlamento dal mero controllo all'assunzione diretta di responsabilità sulle scelte finanziarie richiede inoltre che, proprio là dove si siano fatti prevalere obiettivi di rigore e di equilibrio finanziario, la scelta o l'aggravio delle forme di prelievo vadano considerati congiuntamente alla politica della spesa. In tale prospettiva la sede parlamentare è vista come l'unica nell'ambito della quale sia possibile compiere tale valutazione, assicurare alla scelta tributaria la coerenza con il quadro finanziario e fornire alle soluzioni fiscali prescelte un carattere organico e sistematico nell'ambito del quadro finanziario complessivo.Il timore, d'altra parte, è che la ricchezza della sovranità popolare in materia tributaria possa essere dispersa in valutazioni contingenti ed episodiche estranee a giudizi di coerenza finanziaria, di equilibrio complessivo del bilancio e di necessaria priorità sulle scelte di spesa.
Gli obiettivi sopra illustrati dovrebbero consentire di superare il carattere meramente formale del principio di legalità in materia finanziaria, secondo una soluzione che trova applicazione anche nel più circoscritto ambito tributario. Anche le scelte incidenti sulle entrate fiscali dovrebbero essere naturalmente coerenti con un quadro generale, ispirate a principî, e non in contrasto con altre e concorrenti soluzioni tributarie. La compiuta efficacia del principio di legalità dovrebbe manifestarsi nell'idoneità delle scelte fiscali a essere ricondotte a sistema. Tuttavia solo una stabilità politica e una solida maggioranza parlamentare possono costituire i naturali presupposti di tale garanzia sistematica. Presupposti che rischiano di disgregarsi - e con essi anche la finalità che intendono garantire - nel difficile confronto con la variabilità e la dispersione della rappresentanza politica, con la debolezza delle maggioranze parlamentari, con l'emergenza finanziaria, con la crescente sottrazione del governo dell'economia alle scelte degli Stati nazionali. Senza tale prezioso referente sistematico il principio di legalità in materia tributaria rischia di rimanere un presidio tutt'affatto formale della sovranità parlamentare, con il pericolo di rendere particolarmente difficile, se non impossibile, quella ponderazione delle scelte tributarie, quella coerenza tra prelievi fiscali e spese pubbliche, quell'equa ripartizione del carico tributario fra ambiti territoriali diversi che erano prerogative della sovranità parlamentare. Ed è questa una responsabilità da opporre alla mutevolezza degli umori popolari, ritenuti più sensibili alla tutela dell'integrità patrimoniale dei privati che alla realizzazione di interessi pubblici da finanziare con prelievi coattivi.
La centralità che viene così ad assumere il ruolo dell'organo parlamentare sulle soluzioni di ordine fiscale non comporta però necessariamente che all'organo rappresentativo venga riferita in via esclusiva ogni scelta in materia tributaria.
La presenza di una riserva di legge costituzionale (art. 23), considerata come relativa, offre al potere esecutivo la possibilità di intervenire per regolare o per integrare le scelte tributarie, sempre nei limiti posti dalla norma primaria. In tal caso gli strumenti regolamentari possono essere utilizzati dal governo, dal singolo ministro delle Finanze, dai consigli regionali, provinciali, comunali, secondo un'ampia articolazione di organi ai quali è attribuito un potere esecutivo o rappresentativo. L'esercizio del potere regolamentare viene così a coinvolgere l'intero ordinamento fiscale e quindi potrà riferirsi non solo ai tributi statali, ma anche a quelli regionali, provinciali e comunali.
Tali interventi, legittimati dalla riserva di legge relativa, non dovrebbero però essere tali da alterare la centralità parlamentare. Questa non dovrebbe infatti essere indebolita dal riconoscimento dei settori in cui il potere regolamentare è legittimato a intervenire: il ruolo parlamentare dovrebbe rimanere ben saldo nella scelta delle soluzioni impositive, mentre quello governativo, ministeriale, regionale o locale dovrebbe essere esercitato nei limiti stabiliti dalla norma primaria. Limiti che non dovrebbero superare, per quanto concerne la disciplina del tributo, l'entità del prelievo - venendo così a incidere sull'aliquota - o permettere che vengano autonomamente previste delle esenzioni fiscali o, per quanto riguarda l'aspetto applicativo, consentire alle norme regolamentari di regolare i poteri di controllo dell'amministrazione finanziaria.
Lo sforzo compiuto in Italia negli anni settanta con la trasformazione radicale dell'ordinamento tributario aveva certo contribuito a limitare le forme d'intervento regolamentare che avevano caratterizzato in misura massiccia la precedente esperienza. L'accentramento statale nel settore tributario che ne seguì sottrasse agli enti locali i poteri di regolamentazione cui avevano largamente fatto ricorso, grazie anche alla moltiplicazione dei tributi locali e alla genericità dei caratteri costitutivi delle diverse forme di prelievo. L'introduzione dell'imposta sul valore aggiunto comportò una più rigorosa e, in alcuni casi, eccessiva regolamentazione, necessaria tuttavia per garantire una completa e corretta applicazione dei principî contenuti nelle direttive comunitarie: ciò concorreva a differenziare l'imposta sul valore aggiunto dall'imposta generale sull'entrata, caratterizzata invece da una disciplina generica.
L'attuazione della riforma tributaria e un'esperienza ormai ventennale hanno messo tuttavia in evidenza un progressivo indebolimento del rigore con il quale si era voluta affermare la centralità parlamentare. Il riconoscimento di una più ampia autonomia impositiva degli enti locali, che ha caratterizzato le più recenti e attuali scelte legislative, ha comportato una crescente affermazione di quel settore di normazione integrativa - non solo regolamentare - che è destinato probabilmente a essere ulteriormente valorizzato nella prospettiva di una trasformazione regionalistica del nostro Stato.
D'altra parte, la progressiva moltiplicazione delle forme di prelievo fiscale e la loro ampia diffusione nei vari settori produttivi e nelle diverse classi sociali, in altre parole la trasformazione del prelievo tributario in fenomeno di massa, hanno determinato un sempre più deciso coinvolgimento del governo o del ministro delle Finanze.
L'ispirazione apparentemente tecnica dell'intervento sembra salvaguardare la sicurezza della centralità parlamentare nelle scelte impositive. Un obiettivo e, allo stesso tempo, una sicurezza che però non è facile continuare a garantire quando si assiste a una ininterrotta moltiplicazione delle forme d'intervento a livello regolamentare, cui corrisponde una progressiva abdicazione del Parlamento ai criteri e ai principî cui dovrebbero ispirarsi le scelte regolamentari. Il principio di legalità assume un profilo meramente formale quando, ad esempio, consente al ministro delle Finanze di disciplinare i regimi fiscali IVA, di determinare gli elementi indispensabili per l'imponibile delle imposte sui redditi, di regolare l'esercizio dei poteri di accertamento (facendo un più ampio ricorso a presunzioni che ottengono, in tal modo, un supporto legale che non avrebbero altrimenti avuto) o, infine, di determinare il contenuto delle dichiarazioni compiendo così scelte interpretative destinate a incidere sulla misura e sull'ambito del prelievo e non più, semplicemente, sulle modalità della sua applicazione.
3. Unità e pluralità delle forme di prelievo fiscale
La varietà delle forme nelle quali può attuarsi il prelievo fiscale consente di meglio articolare le forme della partecipazione alle spese pubbliche, di garantire un più coerente rapporto tra i servizi assicurati e il prelievo richiesto, di evitare situazioni di indebito arricchimento e di imporre una 'remunerazione' del vantaggio che può conseguire il contribuente per l'utilizzo in via esclusiva di beni demaniali. Si afferma così, nella teoria tributaria italiana, una diffusa esigenza di adeguare la struttura del prelievo a quei principî del sacrificio o del beneficio, del divieto di arricchimento o della corrispettività che dovrebbero ispirare le diverse caratterizzazioni giuridiche del rapporto tributario.
Certo, nella costante ricerca di un'adeguata soluzione formale per la molteplicità di strumenti con i quali ottenere la partecipazione tributaria alle pubbliche spese, l'esperienza italiana appare piuttosto originale nel quadro dell'intera cultura finanziaria europea. La moltiplicazione delle forme di prelievo è estranea alla cultura anglosassone, che valorizza il fenomeno tributario in maniera ampia e generale. Con la tax non si distingue tra principio del sacrificio e principio del beneficio che ancora ispirano, nella teoria italiana, le tradizionali forme dell'imposta e della tassa. La ricerca di soluzioni giuridiche differenziate si afferma invece nell'esperienza francese, ma con una tale lievità di caratteri giuridici da sembrare inconsistente. Si preferisce invece affidare questa stessa ricerca alla legge nell'esperienza spagnola, dove lo strumento normativo della ley general tributaria è in grado di offrire all'interprete una diversificazione sicura e giuridicamente ricca delle varie forme di prelievo. Si tratta di una scelta che manifesta però al tempo stesso un'oggettiva e perdurante difficoltà di raggiungere quella collocazione sistematica che le interpretazioni giurisprudenziale e dottrinale non erano state in grado di assicurare in maniera stabile e persuasiva.
Il fenomeno tributario italiano è attualmente caratterizzato da una varietà di prelievi coattivi che, se arricchiscono continuamente tale dinamico settore, rendono però progressivamente più difficile una sua più precisa e giuridicamente qualificata definizione. La frontiera che dovrebbe dividere le prestazioni fiscali da altre prestazioni di ordine coattivo subisce continue modifiche variamente ispirate. Si va dalla moltiplicazione di quei bisogni che devono essere necessariamente finanziati alla progressiva trasformazione degli interessi da privati a pubblici o viceversa, fino alla moltiplicazione delle forme d'intervento pubblico in settori, come quelli previdenziale, sanitario ed economico, che il modello di Stato liberale - ormai decisamente abbandonato - aveva rifiutato, il modello di Stato sociale aveva ampiamente dilatato, e il modello di Stato neoliberista che tende ad affermarsi attualmente non riesce a ricollocare.
Il ricorso, sempre più massiccio, al finanziamento pubblico per garantire la copertura del costo dei servizi pubblici e per assicurare la soddisfazione dei bisogni diffusi nella collettività non avviene infatti secondo criteri e canoni che possono definirsi coerenti e omogenei. L'imposta e la tassa ancora appaiono, sotto il profilo giuridico, come la naturale formalizzazione di quei principî, rispettivamente del sacrificio e del beneficio, cui da secoli gli studiosi della teoria finanziaria riconducevano i rapporti finanziari tra Stati e contribuenti. Nella dinamica di tali rapporti si è assistito in questi anni a una moltiplicazione delle forme di contribuzione che, pur caratterizzate dall'identico elemento della coattività, non possono essere ricondotte a quella comune funzione di finanziamento che tradizionalmente qualifica in maniera originaria la prestazione tributaria.
Da un lato, infatti, l'espansione urbanistica e la tutela ambientale hanno portato il legislatore a immaginare forme di contribuzione tese a evitare un indebito arricchimento o ad assicurare una forma di risarcimento del danno ambientale che, sintetizzata nel principio 'chi inquina paga', aveva e continua ad avere un sicuro riconoscimento nelle direttive della Comunità Economica Europea. Dall'altro, il sempre più elevato grado di utilizzazione dei beni pubblici e la crescente diffusione di servizi assicurati alla collettività da un ente pubblico (trasporti, erogazione di energia, ecc.) rendevano difficile valorizzare in via esclusiva il carattere corrispettivo della prestazione, svalutando la mancanza assoluta di autonomia da parte dell'utilizzatore-contribuente. In questo caso la coattività non è stata utilizzata per tracciare un sicuro confine tra prestazioni meramente patrimoniali e tariffe pubbliche, da un lato, e prestazioni tributarie dall'altro, ma per dare origine, secondo un ossequio più formale che sostanziale alla riserva di legge costituzionalmente garantita, a una categoria di prestazioni definite come imposte che trova, appunto, nella coattività il proprio elemento di unificazione e nel consenso parlamentare il proprio fondamento, grazie alla garanzia costituzionale della riserva di legge.Infine, il passaggio da un sistema di finanza previdenziale - caratterizzata da un rapporto di tipo assicurativo che leghi enti e beneficiari nel rigido riconoscimento delle prestazioni solo agli assistiti - a un sistema di finanza della sicurezza sociale - caratterizzata dalla necessaria presenza di enti pubblici che garantiscano l'erogazione dei servizi di previdenza e di assistenza in maniera ampia e generalizzata, anche al di fuori di un rigido rapporto di prestazione-controprestazione - non attribuisce integralmente alle finanze statali la responsabilità finanziaria della gestione. Sono rimaste infatti, e si sono moltiplicate, forme di contribuzione obbligatoria a carico dei datori di lavoro e dei contribuenti, le quali hanno assunto le forme più diverse e sono state graduate in maniera differenziata (dai contributi sugli stipendi e sulle pensioni, che hanno gravato in maniera diversa su prestatori di lavoro e pensionati, alle cosiddette tasse sulla salute o per il medico di famiglia, destinate poi a essere sostituite da altra forma di prelievo).Il ricorso sempre più frequente a forme di contribuzione obbligatoria, o di prestazione imposta, diversamente ispirate ha certamente moltiplicato le occasioni di prelievo coattivo e ha reso sempre più diffusa nella popolazione una responsabilità finanziaria che in precedenza risultava ben individuata e circoscritta ad alcuni settori di essa. Tale varietà di soluzioni non ha trovato però riscontro adeguato nelle categorie giuridiche nelle quali tradizionalmente s'inquadrano le prestazioni tributarie; anzi, ha messo in evidenza la sostanziale incapacità delle categorie dell'imposta, della tassa, del contributo e del canone di fornire un adeguato supporto giuridico alle scelte con le quali sono assicurate pubbliche entrate a fronte di situazioni e di servizi legati alle pubbliche attività o all'utilizzazione esclusiva di beni pubblici.
La debolezza delle categorie tributarie tradizionali, messa in tal modo in evidenza, ha finito poi con l'influire anche sulla più precisa definizione dell'ambito dell'intervento finanziario e quindi sulla stessa qualificazione del settore fiscale.
Sotto la sollecitazione di crescenti e variegate forme di prestazioni coattive o imposte, il tributo come categoria unitaria ha dimostrato la propria incapacità di fornire una risposta giuridicamente fondata. I tradizionali caratteri della coattività e della funzione di finanziamento si sono dimostrati insufficienti, da un lato a delimitare il settore tributario rispetto a quello delle entrate patrimoniali e delle tariffe, dall'altro a distinguere l'area fiscale dall'area che, con esplicito riconoscimento di una debolezza che caratterizza la categoria utilizzata, viene definita della parafiscalità.Per la sua inadeguatezza a garantire all'esterno una propria fondata e sufficiente delimitazione giuridica, il concetto di tributo ha peraltro confermato la sua incapacità di esprimere in maniera compiuta e unitaria la varietà di quelle prestazioni coattive con funzioni di finanziamento che vengono tradizionalmente comprese nell'ambito delle entrate tributarie. La debolezza di un'unitaria vocazione tributaria non permette non solo di definire le frontiere giuridiche con altre prestazioni di carattere coattivo, ma neppure di verificare efficacemente la rispondenza costituzionale delle soluzioni tributarie unitariamente considerate. Rischiano pertanto di rimanere senza risposta gli interrogativi sull'ambito tributario della riserva di legge, sui limiti imposti all'esercizio della sovranità popolare attraverso il referendum abrogativo, sull'efficacia del divieto di inserire iniziative tributarie nella legge di bilancio, sulla possibilità di definire in maniera giuridicamente precisa quel complesso di disposizioni - caratterizzate, anche se solo in via di principio, da una comune ispirazione alla progressività - che, per il suo carattere unitario e per l'interno coordinamento e collegamento, viene definito 'sistema tributario'.
L'affermazione e il consolidamento degli Stati nazionali furono accompagnati dal ricorso al potere d'imposizione. Il sacrificio coattivamente imposto diventa indispensabile per assicurare il funzionamento e lo sviluppo di ogni nascente organizzazione statale, nonché per garantire la realizzazione di quelle funzioni pubbliche che assumeranno una sempre maggiore consistenza nel più recente passaggio dallo Stato liberale a quello sociale. L'affermazione degli Stati nazionali riposa infatti sulla consolidata convinzione che non possa esistere sovranità senza imposizione, così come non si può ipotizzare imposizione senza sovranità. Si tratta però di una corrispondenza che non caratterizza più un modello unitario di Stato. Essa si indebolisce infatti di fronte al proliferare di Stati che, pur se di limitata estensione territoriale, furono e sono beneficiati da un forte aumento di entrate non tributarie che derivano dall'utilizzo economico di risorse naturali (petrolio, gas, metalli preziosi o rari) o dalla concentrazione di capitali finanziari attirati anche dalla mancanza di forme d'imposizione, soprattutto diretta.
Quella medesima corrispondenza fra sovranità e prelievo tributario si dissolve poi di fronte all'affermarsi di organismi sovranazionali dotati di potere d'imposizione pur senza avere una sovranità corrispondente a quella degli Stati che ne fanno parte. Se però negli Stati senza fiscalità il fenomeno sopra descritto è destinato a non espandersi o a diminuire - a seconda degli orientamenti dell'economia o della finanza mondiali, o della forza contrattuale che Stati di limitata estensione territoriale possono vantare nei confronti degli Stati confinanti o nel cui territorio sono inseriti - per le organizzazioni sovranazionali invece lo stesso fenomeno è destinato sicuramente a perdurare, e probabilmente a svilupparsi in diretto rapporto con il consolidarsi dei rapporti economici fra economie integrate e con la creazione di mercati comuni o unici, nella prospettiva di una più efficace e significativa integrazione politica tra gli Stati membri.
Con l'indubbia espansione conosciuta in questi anni, l'affermazione della fiscalità sovranazionale ha contribuito a far escludere l'idea che il potere d'imposizione debba essere necessariamente ed esclusivamente accompagnato dalla sovranità territoriale. L'affermazione della fiscalità sovranazionale non è tuttavia in grado di alterare o addirittura dissolvere il consolidato rapporto tra sovranità e fiscalità e con esso la naturale e conseguente incidenza sull'ambito territoriale.
Il territorio esprime quindi ancora l'ambito in cui si manifesta in via esclusiva la sovranità tributaria e, al tempo stesso, il limite che incontra la naturale espansione del potere impositivo statale. Si può ancora affidare al territorio il delicato compito di esprimere la massima espansione del potere impositivo, garantendo un diretto rapporto con le fattispecie impositive. Il radicamento territoriale di queste ha infatti costituito un sicuro indice di imponibilità quando si è trattato di ricorrere largamente a imposte sugli scambi, sulla produzione, sui consumi, o di privilegiare forme d'imposizione collegate al carattere oggettivo della ricchezza, prescindendo quindi da ogni valorizzazione del soggetto titolare, percettore o beneficiario che fosse.
Tali aspetti soggettivi hanno invece sollecitato una più diffusa attenzione per l'imposizione di carattere personale, in coerenza con l'affermarsi di una crescente sensibilità sociale per i criteri che presiedono al prelievo fiscale e alla ripartizione del relativo sacrificio. Infatti la scelta di differenziare la partecipazione alle pubbliche spese in ragione del complesso delle ricchezze - poco importa se reddituali o patrimoniali - e non dei singoli cespiti è apparsa, fin dal Settecento, come una più efficace traduzione del principio di eguaglianza.In tempi più recenti poi, come quelli del secondo dopoguerra, l'ampia mobilizzazione della ricchezza, insieme alla facile ricerca di insediamenti produttivi e alle crescenti integrazioni dei mercati, ha reso più difficile ricondurre nell'ambito territoriale fattispecie imponibili di incerta collocazione territoriale, espressione di ricchezze che trovavano nel regime fiscale, più o meno favorevole, l'occasione per una rapida quanto mutevole scelta di allocazione.
Così, oltre alla conferma di più diffuse esigenze di eguaglianza fiscale, si è manifestato il rischio che l'elemento territoriale, sul quale riposava l'identificazione oggettiva delle fattispecie, potesse perdere progressivamente importanza. La reazione degli Stati è stata quella di ricorrere in maniera più frequente all'elemento soggettivo, così da determinare la propria sovranità tributaria con riferimento alla collocazione territoriale del titolare della ricchezza e non a quella del bene. Si è in questo modo creata una tendenza a personalizzare il prelievo fiscale, prima, e ad affermare il principio della tassazione dell'utile o del bene a livello mondiale, poi, che ha esposto il soggetto residente all'imposizione su redditi o su beni che si trovino fuori del territorio nazionale. Con tali scelte si è cercato di affermare un ambito sempre più esteso di sovranità, che superava la classica e tradizionale delimitazione territoriale.
Tuttavia la scelta dei singoli Stati di adottare, con la valorizzazione dell'elemento soggettivo, propri criteri con i quali affermare territorialmente la sovranità tributaria ha comportato e comporta il rischio di un conflitto che coinvolge direttamente il contribuente. Infatti l'affermazione della piena sovranità, se da un lato consente ai singoli Stati di richiedere l'imposta, nell'applicazione di un principio di imposizione personale, dall'altro espone il contribuente al rischio di un aggravio fiscale dovuto alla concorrenza di un'imposizione basata sulla residenza con un'altra fondata sulla collocazione del bene, sulla produzione della ricchezza o sullo svolgimento di un'attività. Il divieto della doppia imposizione non costituisce ancora un principio immanente al diritto tributario internazionale, non possiede una forza tale da imporsi alle scelte degli Stati, limitandone la sovranità. Gli Stati rimangono infatti liberi di apprezzare autonomamente il pregiudizio economico e la violazione del principio di eguaglianza che la doppia imposizione comporta, e di introdurre quindi nel proprio ordinamento misure volte a impedirne o attenuarne gli effetti pregiudizievoli. Alternativamente gli Stati possono decidere di ricorrere all'accordo, alla convenzione, al trattato, al fine di risolvere i conflitti di sovranità territoriale. Gli Stati forniscono così una risposta giuridicamente efficace a quella naturale esigenza di giusta ripartizione del concorso alle pubbliche spese che si manifesta in questo caso come limite all'affermazione esclusiva della sovranità statale sul proprio territorio.
Sotto il profilo formale il territorio definisce tradizionalmente l'ambito di efficacia delle fonti normative in materia tributaria. Le norme fiscali vengono così accomunate, in un'unitaria visione dell'ordinamento giuridico, alle altre norme giuridiche attraverso le quali viene posto un vincolo, riconosciuto o tutelato un interesse, regolata una funzione amministrativa o comminata una sanzione. L'efficacia del potere d'imposizione si riferisce pertanto, nell'ambito territoriale, al fenomeno tributario nel suo complesso, senza distinguere norme sostanziali e norme strumentali. Se nei confronti delle prime, che regolano appunto l'introduzione e l'applicazione di un tributo, il territorio assicura - come si è detto - un necessario collegamento materiale con le fattispecie imponibili, per le seconde, che disciplinano le attività di accertamento e il ricorso ai relativi poteri di controllo, il territorio rappresenta un limite all'esercizio di quelle facoltà e di quei poteri che vengono normativamente attribuiti all'amministrazione finanziaria o agli uffici delle amministrazioni locali, poteri che attualmente si arrestano alle frontiere, non potendo essere esercitati nei confronti di soggetti non residenti, estranei alle fattispecie impositive, o di soggetti residenti che si trovino all'estero.
Sotto il profilo sostanziale il territorio può costituire un carattere qualificante delle fattispecie impositive, in maniera tale che la mancanza di un collegamento, non importa se oggettivo o soggettivo, con l'ambito territoriale - che come si è visto costituisce il tradizionale settore di efficacia delle norme tributarie sostanziali e strumentali - comporti l'inapplicabilità dell'imposta secondo una logica di esclusione e non di esenzione.
La forma di organizzazione statale concorre a influenzare in maniera determinante anche la scelta fra accentramento o decentramento del prelievo fiscale. Se infatti l'imposizione di tributi è un modo con il quale si afferma la sovranità statale, l'abbandono della centralità tributaria non può però essere inteso come un attentato alla sovranità statale, così come il decentramento amministrativo e normativo non può essere considerato come un attentato all'unità nazionale.
La ricerca di forme di autonomia impositiva decentrata appare giustificata in presenza di una diversa articolazione dello Stato, secondo scelte attualmente comuni a tutti gli Stati membri dell'Unione europea, anche se con una diversificazione di poteri e di organismi. Senza giungere alla previsione di uno Stato federale, è sufficiente ricordare la presenza diffusa di enti corrispondenti in linea di massima alle nostre regioni, comuni e provincie, come le communidades autonomas e i départements. A tutti questi organismi le Costituzioni europee, compresa quella italiana, riconoscono un'autonomia impositiva che diventa in questo modo espressione diretta della partecipazione democratica alla vita dello Stato e necessario presupposto per la piena realizzazione di quelle funzioni amministrative e normative che rendono efficace la scelta decentrata. Si tratta di elementi strutturali e funzionali che differenziano in maniera sostanziale le regioni, le provincie e i comuni dai semplici organi locali dello Stato centrale, i quali invece sono solo autorizzati a esercitare un potere pubblico a essi delegato. Questo potere, sul quale essi non sono minimamente in grado di influire, li distingue dall'organo centrale soltanto in ragione dell'ambito territoriale più circoscritto nel quale sono autorizzati a esercitarlo.La diversa articolazione amministrativa e politica dello Stato tende quindi a valorizzare un rapporto diretto tra amministratori e amministrati, oltre che a sollecitare un'efficace partecipazione degli amministrati e a giustificare un controllo sulle scelte politiche e amministrative compiute dall'organismo autonomo al quale non può di conseguenza rimanere estraneo il diverso assetto finanziario.
Non basta però prevedere un'articolazione territoriale come quella degli Stati europei - così come non basta riconoscere un'autonomia amministrativa, o addirittura normativa, a enti locali - per riuscire a imporre un tipo di soluzione finanziaria.Il grado di autonomia impositiva che s'intende riservare agli enti locali esprime, ancora una volta, un giudizio politico, non costituisce la necessaria affermazione di principî giuridicamente fondati. Non s'incontrano ostacoli di carattere giuridico, né si creano, allo stato attuale, dubbi di legittimità costituzionale, se si ritiene di affidare integralmente il finanziamento degli enti locali a forme di finanza derivata. Si può così continuare a consentire ad alcuni enti, come le regioni a statuto speciale e, in qualche misura, quelle a statuto ordinario, di partecipare al gettito di tributi che lo Stato centrale, dopo aver scelto e disciplinato, continua ad applicare e a riscuotere. Si poteva ancora caratterizzare la finanza delle provincie e dei comuni, come accadeva fino a pochi anni fa, con un ampio complesso di mezzi finanziari che lo Stato trasferiva annualmente. Anche se veniva stabilito normativamente un vincolo oggettivo con la scelta dei relativi criteri, rimaneva allo Stato un'ampia autonomia nel determinare la quantità da suddividere tra i vari enti locali: una scelta finanziaria che, anche se non insensibile agli aspetti funzionali e organizzativi degli enti locali e delle regioni, appariva pur sempre affidata a un giudizio largamente politico. Maggiore è infatti il sacrificio dell'autonomia impositiva degli enti locali - quando questa è limitata alla sola gestione di mezzi finanziari che non sono né scelti né applicati dagli enti stessi -, minore la responsabilità degli amministratori locali, e maggiore invece il rischio che il potere spettante agli amministrati di giudicare le scelte relative alla ripartizione dei carichi fiscali e all'utilizzazione dei mezzi coattivamente acquisiti si dissolva in un ampio e indifferenziato novero di autonomie finanziarie e provochi di conseguenza l'indebolimento di ogni esigenza di trasparenza.
Il progressivo abbandono di quella 'deresponsabilità' tributaria che aveva caratterizzato fino a pochi anni orsono la finanza di provincie e comuni, e il rinnovato interesse per forme di autonomia impositiva regionale hanno recentemente segnato per l'Italia un'importante inversione di tendenza. Benché, ancora una volta, la principale ispirazione vada riconosciuta nella difficoltà della finanza statale di legare i diversi finanziamenti a forme e tipologie di servizi la cui scelta continua a essere compiuta dagli enti beneficiari, la progressiva crescita dell'autonomia impositiva esprime anche un diverso apprezzamento politico. In questo modo viene positivamente valorizzata la responsabilità politica diretta degli amministratori pubblici. Questi dovranno essere in grado di rendere conto della quantità di mezzi finanziari che riescono ad assicurare, di garantire una coerenza tra la misura del prelievo da essi stabilita - nell'ambito dei maggiori spazi di autonomia normativamente riconosciuti - e quantità e qualità dei servizi assicurati, di dimostrare, infine, il grado di efficienza amministrativa nel controllo e nell'accertamento tributari. Con il progressivo aumento dell'autonomia impositiva si valorizza quindi l'autonomia amministrativa e politica che, nell'articolazione statuale, spetta agli enti decentrati. L'imposizione fiscale decentrata è così volta a ricercare nel consenso politico una connotazione di democrazia che proprio nella più ampia diffusione dell'imposizione fiscale trova l'espressione della propria maggiore forza. La ricerca di un maggiore decentramento tributario, grazie a una progressiva crescita dell'autonomia impositiva, intende quindi opporsi alla forza esclusiva dell'autorità statale che trovava, e in larga parte trova ancora, nella centralità e nell'unità del prelievo fiscale gli strumenti per affermare la propria sovranità anche in materia tributaria.Il consenso al prelievo fiscale, un'auspicata coerenza delle scelte impositive e della misura del carico fiscale con la quantità e la qualità delle funzioni pubbliche riconosciute o attribuite agli enti locali, il controllo sull'utilizzo dei mezzi finanziari direttamente acquisiti dai contribuenti locali sono tutti elementi che accompagnano un decentramento finanziario coerente con quello politico e amministrativo. Questi obiettivi però possono essere efficacemente perseguiti solo se e quando si sia assicurata la trasparenza del processo di formazione degli obiettivi politici e della destinazione e degli impieghi dei mezzi finanziari; quando la scelta delle forme impositive non imponga all'amministrazione locale eccessive difficoltà di applicazione e di controllo rendendo defatigante e incerta la riscossione dei tributi a causa delle incertezze applicative e della conseguente litigiosità; quando, infine, l'efficienza amministrativa garantisca, con un efficace controllo, l'eguale applicazione dei tributi nei confronti di tutte le categorie di contribuenti.
Consenso politico al prelievo tributario, trasparenza nelle scelte di politica fiscale e nella spesa, controllo sull'utilizzazione dei mezzi finanziari appaiono così, oggi, i nuovi principî cui ispirare la scelta tributaria e il modo di articolare nell'ambito territoriale il prelievo fiscale, una volta che sia stata abbandonata, insieme alla sovranità, la rigidità del modello monolitico basato sull'unità e centralità del prelievo fiscale.
Rimane ormai solo il richiamo costituzionale dell'art. 53, secondo comma, a evocare la presenza di un sistema fiscale all'interno dell'ordinamento italiano. Quando infatti il costituente ha voluto valorizzare, con tale disposizione, la funzione redistributiva del prelievo fiscale per mezzo della progressività, ha poi voluto assicurare a tale funzione una forza intrinseca e un'efficacia generalizzata che potevano derivarle solo dalla comune ispirazione al sistema tributario.
Già nel lontano 1948 affermare che il sistema tributario è ispirato al principio della progressività significava ricondurre le scelte di diritto tributario positivo a un comune disegno razionale. Significava affermare che la distribuzione del carico fiscale tra le diverse categorie di contribuenti doveva essere effettuata secondo criteri che privilegiassero il principio di eguaglianza rispetto a quello di rapida e facile esazione. Significava, infine, valorizzare l'elemento della trasparenza per permettere ai contribuenti di controllare l'efficacia delle scelte tributarie sulle situazioni delle rispettive ricchezze: elemento, questo, necessario da un lato per verificare la diversa incidenza economica delle soluzioni fiscali, dall'altro per richiamare alla responsabilità delle scelte finanziarie i rappresentanti parlamentari che le avessero autorizzate. Solo una visione sistematica avrebbe potuto garantire il necessario equilibrio tra l'imposizione diretta e quella indiretta ed evitare che, con l'occasione offerta dallo scambio di beni e servizi e dal tributo incorporato nel prezzo, si privilegiasse l'imposizione sugli scambi e sui consumi. Il pericolo quindi, al di fuori di ogni visione sistematica, stava nel fatto di perpetuare o incentivare fenomeni di illusione finanziaria, trascurando la diversa incidenza che le suddette forme d'imposizione potevano avere sulle diverse, ineguali situazioni di ricchezza.
Con la sua naturale aspirazione all'unità il ricorso a un sistema tributario garantiva la presenza di principî giuridici cui avrebbero dovuto ispirarsi le scelte politiche e gli obiettivi economici, assicurando la preminenza della razionalità sull'opportunità politica e garantendo, al tempo stesso, una sorta di difesa dalle sollecitazioni provenienti dalle contingenze economiche. Era quindi naturale che il passaggio verso la formalizzazione giuridica di quelle scelte potesse, o addirittura dovesse, avvenire nell'ispirazione di quei principî di eguaglianza, coerenza e coordinamento che sono i caratteri che segnano il passaggio da un ordinamento a un sistema tributario.
Questo trova però la propria forza nella stabilità e la propria stabilità nella forza, esprimendo esso stesso un concetto di continuità e di conservazione. La pienezza della sovranità statale, che si afferma con la necessaria ed esclusiva responsabilità parlamentare delle scelte di carattere tributario, richiede garanzie territoriali nazionali e un forte accentramento interno, proprio quei caratteri cioè che sono stati largamente discussi nelle più recenti evoluzioni della fiscalità nazionale, non solo italiana. La coerenza delle soluzioni tributarie viene quindi fortemente indebolita proprio dalla dinamica delle soluzioni tributarie stesse, che però a sua volta esprime la difficoltà di padroneggiare il tributo come strumento di politica economica e di sottrarsi al condizionamento della spesa pubblica. In altre parole, il sistema fiscale, naturale espressione di stabilità politica e di saldezza governativa, si trova costretto a cedere di fronte ai rapidi mutamenti degli Stati sovrani, che da un lato subiscono in misura crescente l'espansione tributaria di organismi sovranazionali, dall'altro sono sempre più sollecitati da tendenze autonomistiche, le quali trovano nella maggiore autonomia impositiva un indispensabile supporto. I già minacciati equilibri parlamentari sono poi sempre più esposti all'emergenza finanziaria e alla progressiva trasformazione di massa del fenomeno tributario. La reazione parlamentare è quella di moltiplicare le forme di prelievo e modificare di continuo le scelte fiscali compiute, con l'inevitabile conseguenza di abbandonare ogni prospettiva di una unitaria definizione delle forme di prelievo e di manifestare - con il ricorso sempre più frequente a una legislazione che privilegi la singola soluzione tributaria e la specifica applicazione - una crescente sfiducia in una normazione astratta e generale e nei principî che questa naturalmente sottende. Di fronte a tali massicci mutamenti dei caratteri della fiscalità contemporanea è difficile immaginare che la dinamica tributaria possa trovare, anche negli anni futuri, tranquillità e coerenza nella tradizionale collocazione sistematica.
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