Decadentismo
sommario: 1. Termini del decadentismo. 2. Diverse fasi del decadentismo? 3. Estensione della parola ai tempi moderni. 4. La nevrosi. 5. Precursori. 6. Flaubert, Gautier, Baudelaire. 7. Poe, Dostoevskij. 8. Precursori inglesi: Swinburne, Rossetti. 9. Pater. 10. Burne-Jones. 11. Moreau e Huysmans. 12. À rebours. 13. Barbey d'Aurevilly e Villiers de l'Isle-Adam. 14. Péladan e Bourges. 15. Il romanzo russo. 16. Strindberg. 17. Il clima simbolista. 18. Bisanzio. 19. Pittori decadenti e simbolisti. 20. Tematica simbolista. 21. Rops, Rollinat, Rodenbach. 22. Beardsley, Wilde. 23. Diffusione del decadentismo anglo-francese. 24. Il decadentismo italiano. 25. Influsso francese in Italia: Oriani, Boito, Camerana. 26. Poeti minori simbolisti e liberty in Italia. 27. D'Annunzio. 28. Pascoli. □ Bibliografia.
1. Termini del decadentismo
Quando cominci e quando finisca uno stile è uno dei problemi più dibattuti tra gli storici della letteratura e dell'arte: la divisione dei periodi, si potrebbe dire dantescamente, ‟uno la fugge e altro la coarta". Per E. D'Ors il barocco era categoria universale, per G. Briganti il termine conveniva solo a una generazione, ‛romantico' è una connotazione che si è applicata ai più svariati periodi: per H. J. C. Grierson le tragedie d'Euripide e i dialoghi di Platone potevan così qualificarsi (v. Praz, 19664, Introduzione). Il manierismo, periodo inserito tra il Rinascimento e il barocco dagli storici dell'arte del nostro secolo, si è poi dilatato al punto che Gustav René Hocke l'ha visto dappertutto (G. R. Hocke, Die Welt als Labyrinth, Manier und Manie in der europäischen Kunst; Beiträge zur Ikonographie und Formgeschichte der europäischen Kunst von 1590 bis 1650 und der Gegenwart, Hamburg 1957; e Manierismus in der Literatur, Sprach-Alchimie und esoterische Kombinationskunst, Hamburg 1959).
Più recentemente è stata la volta del decadentismo. Forse il primo a estenderne i confini è stato W. Binni, che nel 1936 con La poetica del decadentismo distinse il ‟decadentismo" dalla ‟decadenza del romanticismo", e vi scorse una decantazione del peso morto delle convenzioni tardo-romantiche, per cui acquisterebbe il suo valore positivo nel raffinamento di una poetica simbolista; così l'Alcyone di D'Annunzio sarebbe il libro di lui ‟meno decadente se intendiamo con decadentismo malattia e perversione, e il più decadente se si significa con decadentismo la nuova poetica come ricerca della musica". Se per Binni il decadentismo si decantava in questo processo di morte e trasfigurazione (morte d'una tematica decadente e rinascita come nuova musicalità), per E. Gioanola (v., 1972) il termine viene esteso addirittura a tutta la letteratura moderna ‟per la mancanza di un termine ugualmente valido ad indicare la letteratura e l'arte del nostro tempo, visto che lo si usa, in senso negativo magari, per designare l'opera di un Pavese o persino di un Pasolini", sforzandosi tuttavia a ‟trasformare", come aveva fatto il Binni, ‟il termine in senso positivo, contro le limitazioni idealistiche e marxistiche", distinguendo tra uomo ‟decadente" e uomo ‟decaduto", cioè ‟tra la fase estetistica e la fase esistenziale" (parole di una comunicazione manoscritta del Gioanola). Così tutti i movimenti artistici degli ultimi decenni rientrerebbero sotto codesta denominazione: cubismo, espressionismo, surrealismo, esistenzialismo; Kandinskij, Hemingway, Kierkegaard, Kafka, Joyce, ecc. E certamente se si prendono in considerazione le tendenze dell'arte moderna, specialmente dopo gli anni sessanta del Novecento, il termine ‛decadenza' viene spontaneamente alle labbra (O. Dorfles, Dal significato alle scelte, Torino 1973, e i contributi del Dorfies stesso e di G. C. Argan a ‟I problemi di Ulisse", Dove va l'arte, novembre 1973); così l'‛arte concettuale' possiede elementi d'indubbia natura esibizionistica, sadomasochistica, manifestazioni d'ingenui rituali basati su deviazioni libidiche, sebbene pel Dorfles quel movimento artistico (o pseudo-artistico) costituisca ‟un fattore di ‛disturbo' nel cammino ordinato e logico degli eventi e delle azioni umane; un disturbo che proprio per la sua illogicità, la sua imprevedibilità, la sua assurdità magari - costituisce una delle poche riserve e delle poche risorse a cui possa ancorarsi il pensiero libero dell'uomo". Si tratta in ogni modo di uno ‟slittare verso un genere di attività rivolta più all'argomentazione e all'indagine mentale che alla mera sensibilità epidermica e alla ricerca formale": un'eclissi dell'arte che può far pensare all'eclissi della forma drammatica nel Medioevo, quando, perdutosi il concetto di dramma, si chiamava commedia un discorso da un pulpito, accompagnato da gesticolazione di mimi.
2. Diverse fasi del decadentismo?
Il Gioanola articola così le diverse fasi del decadentismo: ‟In un primo momento, quello più o meno ‛estetico', il decadentismo propone l'arte come forma privilegiata di conoscenza nei confronti di qualsiasi altra forma gnoseologica. Nella difesa dell'autonomia del fatto artistico, il decadentismo arriva al rifiuto totale di ogni concezione mimetica [...]. Su questa strada si arriva a limiti di astrattizzazione completa. [...] La disgregazione della personalità classica, intesa come equilibrio di doti sensitive morali ed intellettuali, ha portato a un diffuso aumento della temperatura emotiva e ad una specie di ‛scoppio' della sensualità: naturalmente qui si intende ‛sensualità' in senso larghissimo (è quasi lo stesso che ‛inconscio') come complesso di pulsioni istintive che si affermano autonome al di là delle costrizioni moralistiche e intellettualistiche, oppure entrano in conflitto con esse" (lettera del Gioanola all'Autore). Il decadentismo è visto dal Gioanola non tanto da un'angolazione anglo-francese quanto da una mitteleuropea: ‟Forse è stato proprio il filone ebraico e mitteleuropeo a provocare una svolta decisiva negli sviluppi del decadentismo, contribuendo a spogliare l'angoscia da ogni compiacimento estetistico e da superuomo e a rivelarla nella sua nuda esistenzialità". Dunque Freud, Kafka, Musil sono gli eroi del ‛decadentismo' del Gioanola, che coincide con la ‛contestazione'. Il ‛decadentismo' ha posto fine all'immagine umanistica dell'uomo: ‟l'uomo diventa nella spogliazione di tutti i tradizionali attributi il vero punto di resistenza contro ogni tipo di sopraffazione" (v. Gioanola, 1972, p. 151).
3. Estensione della parola ai tempi moderni
Questo è il decadentismo interpretato alla luce degli interessi e dei problemi d'oggi. Così D'Annunzio e i poeti nuovi antidannunziani son convogliati nella stessa categoria storica, paradosso simile a quello del Binni citato sopra, e del resto il Gioanola l'avverte: ‟Se si pensa al percorso del decadentismo italiano, è fin troppo facile cogliere il salto qualitativo che esiste tra D'Annunzio e la lirica nuova: si può dire che la poesia più recente nasca proprio da un antidannunzianesimo programmatico, all'insegna della poesia come testimonianza nuda ed essenziale della condizione umana: la poesia diventa approdo espressivo del ‛male di vivere' e il poeta essenzialmente un ‛uomo di pena"' (v. Gioanola, 1972, p. 152). L'accento è dunque sull'angoscia, su quella che W. H. Auden ha chiamato l'‟età dell'ansia". ‟Tale è la situazione radicale dell'artista moderno - scrive il Gioanola sulle orme di Heidegger -: ha dichiarato il fallimento di tutto ciò che fa parte del mondo degli enti che gli preesistono (linguaggio e ideologie), e vuol render conto soltanto della propria totale sradicatezza, dolorosa ma feconda perché rituffata attraverso il suo concreto esserci nelle sorgenti dell'essere" (ibid., p. 153).
4. La nevrosi
Certo i primi sintomi di questo processo si possono ritrovare nella fin de siècle, e nei movimenti di rivolta contro l'establishment inglese fin da verso il 1875, e come di questi the naughty nineties (gli scapigliati anni novanta) non sono che un aspetto, così il decadentismo non è se mai che un aspetto dell'incipiente età dell'ansia, con l'irrequietezza che si manifesta in Inghilterra con l'insistenza della qualifica di new data a vari movimenti; ma all'epoca dei decadenti il verbo di Freud non era ancora risuonato, Kierkegaard non era ancora entrato nella cultura europea in genere, Kafka, Heidegger e tutti i più tipici esponenti dell'età dell'ansia non erano di scena, e nella tematica dei decadenti veri e propri è facile scoprire cascami della mensa romantica, mentre ci vuole non poco sforzo per trovarvi i germi di quello che il Gioanola intende per decadentismo. ‟La grande ‛malattia' decadente è la nevrosi, cioè il perturbamento della sfera emotiva fino ai limiti del patologico [...]. Decadentismo dunque come decadenza, come moderno barocco, come corruzione del romanticismo? Ma è un giudizio insostenibile [...]. Certo il decadentismo non è un'età di valori, non ci sono proposte positive e costruttive: il suo fondamento è il rifiuto, la protesta, la dissacrazione. Ma la sua mira è l'autenticità, la rivelazione, al di là di tutte le sovrastrutture culturali, moralistiche, intellettualistiche, mitologiche, tutte più o meno ipocritamente consolatorie, del volto vero dell'uomo, quello della nostra epoca, almeno, così minacciato nella sua integrità e originalità esistenziale da tutte le spinte alienanti della così detta ‛civiltà"' (v. Gioanola, 1972, p. 40). È questo appunto. il ‟povero, confuso, esasperato animale mondano" (‟the poor muddled maddened mundane animal") di The age of anxiety di Auden, che altra prospettiva non ha che di far fronte a ‟un altro lungo giorno di servitù alla malevola autorità e al cieco caso". Ma qui siamo in un altro clima da quello del vero e proprio decadentismo, che va storicamente collocato nei limiti della sua parabola. Non resta che risalire alle origini della qualifica ‛decadente' per accorgersi quanto arbitraria sia l'appropriazione di questa parola a designare quell'‛età dell'ansia' e della contestazione che è quella a cui effettivamente pensa il Gioanola.
5. Precursori
Da circa il 1880 fino al principio del nostro secolo il mondo letterario si polarizzò intorno al concetto di decadenza. Anziché percorrere a ritroso il processo storico e proiettare sul decadentismo i caratteri di un'età posteriore, conviene se mai risalire ai precursori di quel movimento, e ne troviamo soprattutto in Inghilterra e in Francia: a Théophile Gautier, fondatore dell'estetismo esotico, esaltatore del tipo della donna fatale, Cleopatra, che combinava con lo sfondo dell'Oriente favoloso il gusto del piacere nella pena, cioè dell'algolagnia, che era come nell'aria del periodo romantico, quel tipo che poi, verso la fine del secolo, troverà l'incarnazione perfetta in Erodiade.
6. Flaubert, Gautier, Baudelaire
Converrà rileggere certe pagine di Novembre, dell'Éducation sentimentale, della Tentation de saint-Antoine, di Salammbô di Flaubert, idoleggiatore del mondo antico interpretato come intriso di crudeltà, di voluttà e di morte, un'interpretazione fissata una volta per tutte da Gautier in un famoso passo di Mademoiselle de Maupin (1835, p. 154) messo in bocca al personaggio di d'Albert: ‟Sono preso da quella malattia che coglie i popoli e gli uomini potenti nella loro vecchiaia: l'impossibile. Tutto quello che posso fare non ha per me la minima attrattiva. Tiberio, Caligola, Nerone, grandi romani dell'impero, voi che siete stati compresi così male e che la canea dei retori perseguita con i suoi latrati, io soffro del vostro male e vi compiango con quel che mi resta di pietà! Io pure vorrei costruire un ponte sul mare e pavimentare i flutti; io ho sognato di bruciare città per illuminare le mie feste; io ho desiderato di essere donna per conoscere delle nuove voluttà. La tua Domus Aurea, o Nerone, non è che una stalla fangosa in confronto al palazzo che io mi sono costruito; il mio guardaroba è meglio provvisto del tuo, o Eliogabalo, e ben altrimenti splendido. I miei circhi sono più ruggenti e più insanguinati dei vostri, i miei profumi più acuti e più penetranti, i miei schiavi più numerosi e di più belle fattezze; anch'io ho aggiogato al mio cocchio delle cortigiane nude, io ho camminato sopra gli uomini con un calcagno altrettanto sprezzante del vostro. Colossi del mondo antico, sotto le mie deboli costole batte un cuore altrettanto grande del vostro e al vostro posto quello che voi avete fatto l'avrei fatto anch'io e forse di più. Quante Babeli io ho accumulato le une sulle altre per toccare il cielo, schiaffeggiare le stelle e di là sputare sulla creazione! Perché dunque non sono Iddio, dal momento che non posso essere uomo? Oh! Credo che ci vorrà un vuoto di centomila secoli per riposarmi della fatica di questi venti anni di vita".
‟Nous sommes des dieux", dichiaravano i personaggi dei romanzi del marchese di Sade, i cui scritti, soprattutto Justine, ou les malheurs de la vertu, e Juliette, ou les prospérités du vice (1791 e 1796 rispettivamente, edizione definitiva e completa 1797), sebbene relegati nell'‛inferno' delle biblioteche, ebbero circolazione clandestina negli ambienti letterari romantici in Francia, e influirono notevolmente su una concezione della bellezza triste che venne imponendosi nel corso dell'Ottocento fino a trovare la sua formula perfetta nelle Fleurs du Mal (1857) di Baudelaire nonché nelle sue opere in prosa: ‟la mélancolie, toujours inséparable du sentiment du beau". Ben lo vide Victor Hugo, che nel 1859 scrisse al poeta: "Vous dotez le ciel de l'art d'on ne sait quel rayon macabre. Vous créez un frisson nouveau". Dirà il Baudelaire stesso di essersi scelta una provincia inesplorata, di aver voluto ‟extraire la beauté du mal". Dal Sade riprese l'idea sulla crudeltà fondamentale della natura, e disse anche: ‟La volupté unique et supréme de l'amour gît dans la certitude de faire le mal".
7. Poe, Dostoevskij
Nel Poe, Baudelaire scoprì un'anima gemella: anche il Poe aveva detto in alcuni suoi versi giovanili: ‟I could not love except where Death / Was mingling his with Beauty's breath" [‟Io non riuscivo ad amare che laddove la Morte mescolava il suo fiato con quello della Bellezza"].
E in The black cat aveva parlato di quel demone della perversità, in un passo che il Baudelaire doveva citare per disteso in un saggio sullo scrittore americano per la ‟Revue de Paris" (marzo-aprile 1852), quel demone della perversità che ritroveremo in Le mauvais vitrier e nel Dostoevskij delle Memorie del sottosuolo. Nel 1856 il Baudelaire inviava una copia della sua versione delle Histoires extraordinaires del Poe a Eugène Delacroix, che commentava così nel suo diario: ‟Baudelaire dit dans sa préface que je rappelle en peinture ce sentiment d'idéal, si singulier et si plaisant dans le terrible. Il a raison". Quel pittore ‛cannibale', ‛molochista', ‛dolorista' che fu il Delacroix, instancabilmente curioso di stragi, d'incendi, di rapine; illustratore delle scene più cupe del Faust di Goethe e dei poemi più satanici del suo idolatrato Byron, quell'innamorato di felinità (quanti sono i suoi studi di belve azzannanti?) e dei paesi violenti e calorosi, la Spagna, l'Africa, quell'esaltatore dell'azione frenetica, fu lapidariamente definito in un verso dei Phares nelle Fleurs du Mal: ‟Delacroix, lac de sang hanté de mauvais anges".
‟Baudelaire en vers et Flaubert en prose", dirà J. Péladan nel 1885: sono essi due facce d'una stessa erma piantata nel mezzo dell'Ottocento, tra romanticismo e decadentismo, tra l'epoca dell'uomo fatale e quella della donna fatale, tra l'epoca di Delacroix e quella di G. Moreau. Infine tra le figure minori che precorsero il decadentismo in Francia bisogna ricordare P. Borel ‛le lycanthrope', che nel suo Champavert, contes immoraux (1833) e nel romanzo Madame Putiphar (1839) rivela un compiacimento negli spettacoli crudeli d'impronta chiaramente sadica; e il Comte de Lautréamont (pseudonimo di I. Ducasse) che nei Chants de Maldoror (scritti nel 1868) impegnò il suo ‛genio' ‟à peindre les délices de la cruauté".
8. Precursori inglesi: Swinburne, Rossetti
Non fu però in Francia, ma in Inghilterra, che trovò la sua più completa formula uno dei motivi più insistiti della tematica decadente, quello della donna fatale. E ciò avvenne grazie alla speciale sensibilità di quel parziale discepolo del Gautier e del Baudelaire che fu A. Ch. Swinburne. L'uomo, nell'opera di questo poeta, aspira ad essere ‟the powerless victim of the furious rage of a beautiful woman" [‟la vittima impotente della furiosa rabbia d'una donna bella"]; il suo atteggiamento è passivo, il suo amore è martirio, il suo piacere è pena. Quanto alla donna, sia essa Fredegond o Lucrezia Borgia, Rosamond o Maria Stuarda, è sempre lo stesso tipo di bellezza scostumata, imperiosa e crudele. Certo nella concezione swinburniana della donna influì non poco l'esempio dei preraffaelliti, W. Morris delle poesie giovanili (Early poems) e D. G. Rossetti. Nel Rossetti troviamo una preferenza spiccata per ciò che è triste e crudele: il suo Medioevo è una leggenda di sangue; accanto alle sue Beate Beatrici (il cui tipo si ritroverà determinante per l'iconografia dell'art nouveau o stile liberty) figurano maliose creature malefiche; e la concezione medievale del 'martirio d'amore', illustrata com'è in sonetti come quelli di Willowwood, giunge molto vicino all'algolagnia. Il tipo di bellezza idoleggiato da Rossetti è bellezza dolorosa, squisitamente romantica; un alone spettrale sembra irradiarsi dalle sue figure, come intorno a certi aspetti della sua vita, primo tra tutti quello del suo matrimonio che par tolto di peso dalle novelle del Poe. Influsso del delittuoso Rinascimento dei drammaturghi elisabettiani, influsso del cruento Medioevo dei preraffaelliti, e, poco dopo, quello dell'orgiastica antichità di un Gautier e della torva modernità di un Baudelaire, infine l'Ate delle tragedie greche, l'implacabile dottrina del Vecchio Testamento e il truce edonismo nichilista di un Sade: tutte fonti che poterono agevolmente confluire insieme e trovare un letto naturale in un animo predisposto come quello del Swinburne.
Quanto all'influsso della concezione swinburniana della donna fatale sulla letteratura inglese, l'importanza di opere come Poems and ballads (1866, con poesie come Dolores, Nostra Signora dello Spasimo dei Sensi, che è tutta una litania di profanazione sadica, Anactoria, The masque of Queen Bersabe - ove l'eterno femminino crudele è impersonato nel corteo delle lussuriose regine orientali dai nomi strani e preziosi, Herodias, Aholibah, Cleopatra, Abihail, Azubah, Ahinoam, Atarah, Semiramis -, Laus Veneris) o come i drammi Chastelard (1865) e Atalanta in Calydon (1863- 1864, pubbl. 1865) non è forse così notevole come quella di una pagina di prosa nelle Notes on designs of the old masters in Florence, note prese in occasione del soggiorno nel 1864 a Firenze e pubblicate nella ‟Fortnightly reyiew" del luglio 1868, quindi negli Essays and studies (1875). Parla di alcuni studi di teste muliebri di Michelangelo (o piuttosto di scuola michelangiolesca) che il Swinburne interpreta nei termini della donna fatale e crudele di Théophile Gautier: ‟Ma in una testa isolata v'è più attrattiva tragica [...]: una testa di donna [...] bella al di là del desiderio e crudele al di là d'ogni parola; pallida d'orgoglio e stanca di malfare; un silenzioso corruccio contro Iddio e gli uomini arde, bianco e represso, nel suo chiaro viso [...]. Tutti i suoi ornamenti sembrano partecipare della natura fatale della donna, inesplicabilmente; recare su di essi il marchio d'una bellezza pur mo' uscita dall'inferno [...]. I suoi occhi sono pieni d'una fiera e impassibile libidine d'oro e di sangue; i suoi capelli, fitti e crespi, sembrano pronti a separarsi vibrando e a snodarsi in serpenti [...]. La sua bocca è più crudele di quella d'una tigre, più fredda di quella d'un serpente, e bella come quella di nessuna donna. Ella è più letale di Venere incarnata [...] poiché anche sulla terra possono per lei trovarsi parecchi nomi: Lamia ritrasformata, investita ora d'una più piena bellezza, ma svestita d'ogni altro attributo femminile che non sia proprio del serpente [...] o la persiana Amestri [...] o Cleopatra, non morta ma conversa in serpe al morso del serpe; o quella regina dell'Estremo Oriente che col suo sposo segnava ogni giorno che passava con l'invenzione di qualche nuova e meravigliosa crudeltà [...]". Qualcosa però, appena accennato in questo passo del Swinburne, restava da aggiungere a questo tipo di bellezza, qualcosa a cui aveva alluso Gautier in Études de mains: ‟On voit tout cela dans les lignes / De cette paume..." (Impéria), ‟Tous les vices avec leurs griffes / Ont, dans les plis de cette peau, / Tracé d'affreux hiéroglyphes..." (Lacenaire).
9. Pater
Fu W. Pater a fare la grande scoperta, a leggere la storia della donna fatale nel già celebre sorriso della Gioconda, ‟l'impenetrabile sorriso, sempre animato da alcunché di sinistro, che alia su tutta l'opera di Leonardo". Anticipato da un passo del Ruskin su Piazza San Marco di Venezia, del novembre 1849 (J. Ruskin, Diaries, vol. II, Oxford 1958, pp. 453-454), il celebre passo del Pater si trova nel suo studio su Leonardo: ‟La presenza che in tal modo sorse sì stranamente accanto alle acque è espressiva di ciò che nel corso di mill'anni gli uomini eran venuti a desiderare. Suo è il capo sul quale ‛si sono scontrati gli ultimi termini de' secoli' (I Ai Corinzi, X, 11) e le palpebre sono un poco stanche. È una bellezza che procede dall'interno e s'imprime sulla carne - il deposito, cellula per cellula, di strani pensieri, di fantastiche divagazioni e di passioni squisite. Ponetela per un attimo accanto a una di quelle candide iddie greche o delle belle donne dell'antichità: oh, come resterebbero esse turbate da questa bellezza, in cui s'è trasfusa l'anima con tutte le sue malattie! Tutti i pensieri e tutta l'esperienza del mondo han lasciato là il loro segno e la loro impronta per quanto han potere di affinare e rendere espressiva la forma esteriore: l'animalismo della Grecia, la lussuria di Roma, il misticismo del Medioevo con la sua ambizione spirituale e i suoi amori ideali, il ritorno del mondo pagano, i peccati dei Borgia. Ella è più vetusta delle rocce tra le quali siede; come il vampiro fu più volte morta ed ha appreso i segreti della tomba; ed è discesa in profondi mari e ne serba attorno a sé la luce crepuscolare; trafficò strani tessuti con mercanti d'Oriente; e, come Leda, fu madre di Elena di Troia; e, come Sant'Anna, fu madre di Maria; e tutto questo non è stato per lei che suono di lire e di flauti, e vive solamente nella delicatezza con la quale ha modellato i mutevoli lineamenti, e colorato le palpebre e le mani. L'immaginazione d'una perpetua vita, che aduni insieme migliaia di esperienze, è di antica data; e la filosofia moderna ha concepito l'idea dell'umanità come soggetta all'influsso di tutti i modi di pensiero e di vita. Certamente Monna Lisa potrebbe esser considerata come l'incarnazione di quell'antica fantasia, e il simbolo dell'idea moderna".
L'aria di famiglia di questo ritratto con quelli delle donne fatali del Gautier, del Flaubert e del Swinburne colpisce a prima vista. La pagina del Pater rese il tipo di donna fatale (con prospettiva spaziale e temporale e sorriso alla Gioconda) così popolare, che negli anni intorno all'ottanta fu di moda in certi ambienti parigini, tra le allumeuses, affettare l'enigmatico sorriso. Se ne trovano echi in letteratura, tra l'altro nel poemetto The sphinx del Wilde. Fu il D'Annunzio a presentare ai lettori italiani (nel ‟Mattino" del 18-1-1893, poi nel Poema paradisiaco lo stesso anno) la donna fatale adunante in sé tutta l'esperienza sensuale del mondo, reincarnazione di Elena e di Saffo: Pamphila.
Tra i primi saggi del Pater, uno su Aesthetic poetry (1868) prende le mosse dalla poesia di W. Morris per indulgere a un'atmosfera di serra ove ‟come in un'aria medicata, si espandono fiori esotici di sentimento, tra gente d'una bellezza remota e insolita, sonnambulica, fragile, androgina, quasi trasparente contro la luce"; da questi accenni manifestamente decadentistici il Pater si ritrasse, e il saggio fu soppresso dopo l'edizione 1889 delle Appreciations in cui apparve in volume. Simile esitazione per la conclusione degli Studies in the history of the Renaissance, che nel 1873 raccolse gli studi apparsi negli anni precedenti, dal 1867 in poi. Le frasi di cui molti, tra cui il Pater stesso, avevano preso ombra eran quelle che dovevan costituire il manifesto del decadentismo inglese: ‟Arder sempre di questa salda fiamma gemmea, mantener quest'estasi, è il successo nella vita [...]. Mentre tutto si scioglie sotto i nostri piedi, ben possiamo cercar di afferrare qualunque passione squisita, qualunque contributo alla conoscenza che collo schiarirsi d'un orizzonte sembri metter lo spirito in libertà per un momento, o qualunque eccitazione dei sensi, strane tinte, strani colori, e odori curiosi, o opera di mano d'artista, o il volto della persona amica" (W. Pater; tr. it. in: Il Rinascimento, a cura di M. Praz, Napoli 1965, p. 215).
In Marius the Epicurean (1885) il Pater arginava, componeva la tendenza decadente nelle linee d'un classicismo ascetico, la cui formula aveva trovato in Winckelmann. Il Pater ha rispecchiato la sua vita d'intellettuale contemplativo, spesa tra le cose belle e le delicate emozioni, e consumatasi a poco a poco per una malattia misteriosa, precocemente, soprattutto nel suo maggiore romanzo e negli Imaginary portraits (1887), profili di squisiti adolescenti meditativi le cui vite sembrano appassire e tragicamente concludersi come quelle di delicati fiori di serra. Marius, Flavian, Watteau, duke Carl of Rosenmold, ambigue anime androgine, son già aperte a tutti gl'influssi di quella decadenza che doveva divenire il clima letterario dell'Europa alla fine del secolo. Il duca di Rosenmold è un sensuale dilettante al modo di Luigi II di Baviera e del fittizio Des Esseintes del Huysmans.
10. Burne-Jones
Espressione della corrente estetica di cui s'era fatto portavoce il Pater fu il pittore E. Burne-Jones. La caratteristica di languore, di sonnolenza che si nota nei quadri di A. Moore come in quelli di Burne-Jones e di Leighton (il cui Flaming June è un esempio cospicuo) va messa in rapporto coi saggi di W. Pater su Botticelli (1870) e sulla scuola di Giorgione (1877). In quest'ultimo il Pater affermava che ‟tutte le arti aspirano costantemente alla condizione della musica", e vedeva questo principio realizzato nei quadri di Giorgione e della sua scuola, evocanti scene di parco, presenza di acque, fresco suono di fontane che si mescola alla musica della zampogna, atmosfera da cui ogni impurità è stata rimossa. Ma soprattutto l'interpretazione delle figure di Botticelli fu determinante: ‟Uomini e donne nella loro condizione mista ed incerta, rivestiti talvolta d'un carattere di vaghezza e d'energia dalle passioni, ma perpetuamente rattristati dall'ombra che su loro scende dalle grandi cose dalle quali si ritraggono" (W. Pater; tr. it. in: Il Rinascimento, a cura di M. Praz, Napoli 1965, p. 67). Ora le parole che J. A. Symonds scriveva nel 1873 a proposito di Pater: ‟C'è un sentore di morte che non si spiccica da quest'uomo, che rende la sua musica (ma mio Dio, quant'essa è dolce!) alquanto languida e malsana" sembrerebbero potersi applicare ai quadri di Burne-Jones, anch'egli poeta di anime stanche e di luoghi incantevoli velati di tristezza, che solo avrebbe saputo darci il perfetto ritratto della figura splendida, fredda ed enigmatica di Cornelio in Marius the Epicurean, Apollo del Belvedere travestito da San Giorgio. L'insistenza di Burne-Jones su questo motivo di languore era tale da colpire anche i contemporanei, che notarono qualcosa di morboso in quei quadri con effeminati giovani e giovinette simili a loro come gocce d'acqua, e sia gli uni che le altre consumati da misteriosi mali. Figure di un Botticelli visto con gli occhi di W. Pater (creature dolci e melanconiche piegate dal rimpianto d'un mondo perduto), e di un Michelangelo devirilizzato e devitalizzato. Come il critico francese R. de la Sizeranne notò in un saggio della fine del secolo in La peinture anglaise contemporaine (Burne-Jones giunse alla fama internazionale con l'esposizione alla Grosvenor Gallery a Londra nel 1877), i cavalieri di questo pittore, vestiti d'armature come di foglie di carciofo, s'avanzano con graziose mossette alquanto impacciate, quasi temessero d'esser contaminati dalle cose circostanti, stanchi della loro forza, imbarazzati dalla loro statura, quasi vergognosi della loro bellezza; son costruiti come colonne ma si piegano come giunchi, tali giovani divinità che per la prima volta si recano nel mondo: sono anime stupefatte d'essere prigioniere in un corpo. Il suo Perseo, tra le spire del mostro, ha l'aria d'un giardiniere indolente che munito di cesoie s'arrampica su un albero da frutto; le sue figure non sono immerse nell'aria, ma in un vuoto pneumatico, sono atteggiate secondo un'etichetta immutabile. Il suo mondo, ha osservato D. Cecil (in Visionary and dreamer, Princeton 1969), è un never never land creato pel suo proprio diletto. Quasi si direbbe che il pittore avesse fiutato nell'aria i tempi che erano sotto il segno dell'androgino.
11. Moreau e Huysmans
Ma è soprattutto in G. Moreau, grazie anche ad alcune pagine interpretative di À rebours di J. K. Huysmans, che il decadentismo vide uno e forse il più significativo dei suoi maestri. In Moreau l'esotismo lussurioso e sanguinario dei romantici si raggela in una sterile contemplazione; impotenza e feticismo sembrano sottesi ai principî estetici del pittore: il principio della bella Inerzia, e l'altro della Ricchezza necessaria. La sua Salomè che, carica di gioielli sulle nude carni, s'arresta in un passo di danza, atterrita dall'apparizione della testa mozza del Battista incorniciata da una duplice aureola, rappresenta una tal confluenza di motivi decadenti, che Huysmans poteva scrivere: ‟Risalendo alle fonti etnografiche, alle origini delle mitologie, di cui egli raccostava e risolveva i sanguinosi enigmi, riunendo, fondendo in una sola le leggende sorte nell'Estremo Oriente e metamorfosate dalle credenze degli altri popoli, egli giustificava così le sue fusioni architettoniche, i suoi amalgami lussuosi e inattesi di stoffe, le sue ieratiche e sinistre allegorie affinate dalle inquiete perspicuità d'un nervosismo tutto moderno; e restava per sempre doloroso, ossessionato dai simboli delle perversità e degli amori sovrumani, degli stupri divini consumati senza abbandoni e senza speranze" (cap. V). Delacroix era stato un pittore focoso e drammatico, Moreau si studiò di essere gelido e statico; l'uno dipinse gesti, l'altro atteggiamenti. Essi rappresentano assai bene l'atmosfera morale dei due periodi in cui fiorirono: il romanticismo con la sua foga d'azione frenetica, il decadentismo con la sua languida e sterile contemplazione. La tematica è press'a poco la stessa, esotismo lussurioso e sanguinario. Ma il Delacroix ci vive dentro, il Moreau la idoleggia dal di fuori, onde il primo è pittore, il secondo nelle grandi composizioni scade al decorativismo. Credeva il Moreau di seguire l'insegnamento di Michelangelo per la bella Inerzia, e dei primitivi fiamminghi, renani, umbri e veneti per la decorazione ridondante, e credeva anche di attuare quell'arte pura formulata da Baudelaire, cioè la bella Inerzia sarebbe stata conforme a questo concetto: ‟La passion est chose naturelle trop naturelle même, pour ne pas introduire un ton blessant, discordant, dans le domaine de la Beauté pure; trop familière et trop violente pour ne pas scandaliser les purs Désirs, les gracieuses Mélancolies et les nobles Désespoirs qui habitent les régions surnaturelles de la Poésie" (Ch. Baudelaire, L'art romantique, Paris s.d., p. 168). Sulle orme della musica wagneriana, allora ispiratrice di artisti e scrittori, il Moreau costruì i suoi quadri come poemi sinfonici, gravandoli di accessori significativi in cui il tema principale fosse echeggiato, e il soggetto rendesse fino all'ultima stilla il suo succo simbolico.
Ma se estetica baudelairiana e musica wagneriana sono le premesse teoriche della pittura del Moreau, è evidente tuttavia che le teorie non sarebbero bastate di per sé a dare a quella pittura certi caratteri peculiari, dal momento che esse potevano essere e furono infatti addotte a sostegno di concezioni ben diverse. Nel Moreau le figure sono ambigue, quasi non si distingue al primo momento chi di due amanti sia l'uomo e chi la donna, tutti i personaggi son stretti da sottili vincoli di parentela come nella Lesbia Brandon, il romanzo swinburniano d'argomento lesbico: gli amanti son come consanguinei, i fratelli son come amanti, gli uomini han volti virginali, le vergini volti d'efebo, i simboli del Bene e del Male s'allacciano e si confondono equivocamente. Non v'è contrasto alcuno d'età, di sesso, di tipi: il senso segreto di questa pittura è l'incesto, la figura esaltata è l'androgino, e l'ultima parola è sterilità. Ed è proprio in tale pittura, insieme asessuata e lasciva, che si espresse a meraviglia lo spirito del decadentismo. Non per nulla lo scopritore del Moreau fu l'Huysmans, il creatore del personaggio di Des Esseintes, che s'immagina possieda i due capolavori del Moreau, il quadro a olio Salomé e l'acquarello L'apparition, entrambi esposti al Salon del 1876 che segnò il successo del pittore a quel modo che l'esposizione preraffaellita del 1856 l'aveva segnato per D. G. Rossetti. Il tema della bellezza satanica nei miti primitivi è trattato dal Moreau nei quadri del ciclo della Sfinge: da quello che fu il successo del Salon del 1864, ove la crudele belva dal volto di femmina imperiosa pianta gli artigli sul petto del languido efebo Edipo, all'acquerello esposto nel 1886 nelle Gallerie Goupil, Le Sphinx vainqueur, ove la Sfinge domina un promontorio irto di cadaveri sanguinanti; lo tratterà nella Hélène esposta al Salon del 1880, ove la donna fatale sfolgorante di gemme incede con andatura catalettica tra i morenti. Ma Salomè, Elena e la Sfinge non sono le sole incarnazioni dell'eterno femminino crudele nell'opera del Moreau, la cui delectatio morosa in motivi di sensualità atroce e di bellezza dolente ci è attestata dalle innumerevoli tele che coprono le pareti del museo che il pittore lasciò allo Stato. Ma, ha osservato D. Grojnowski in un articolo apparso nella rivista ‟Critique" del marzo 1963 (Le mystère de Gustave Moreau), se le grandi composizioni del Moreau deludono, essendovi l'ispirazione soffocata da un'esecuzione troppo carica d'intenzioni, ‟al contrario, una moltitudine di schizzi, di quadri non finiti, d'acquerelli, di piccoli paesaggi, incantano pel loro lirismo. Soltanto questo aspetto della sua opera, oggi, tocca sul vivo la nostra sensibilità".
Si è insomma tentato un ricupero del Moreau ricercandone l'espressione più alta in una sensualità non più calata e appesantita in immagini stereotipe, bellâtres, femelles et androgynes, ma divenuta ritmo e musica stessa del pensiero. Ricupero parallelo a quello che si è tentato in Italia per il D'Annunzio, ricercando l'artista dell'esplorazione d'ombra nel Notturno e nel Libro segreto, e lasciando da parte il ceroplasta delle Fedre, delle Basiliole, dei Corrado Brando, dei Ruggero Flamma, museo Grévin di tediosi fantasmi. Così in Francia si cerca di relegare nello sfondo quell'aspetto del Moreau in cui per una trentina d'anni, press'a poco tra il 1880 e il 1910 (si osservi la coincidenza con le date dannunziane), i contemporanei si specchiarono ritrovandovi un'immagine particolarmente conforme alla loro sensibilità.
12. À rebours
À rebours è il libro cardinale del decadentismo, nel quale tutta la fenomenologia di codesto stato d'animo è illustrata fin nei minimi particolari in un personaggio esemplare, Des Esseintes. ‟Tutti i romanzi che ho scritto dopo - osservava l'autore - son contenuti in germe in questo libro". E non solo i suoi romanzi, ma tutte le prose decadenti, da J. Lorrain a Remy de Gourmont al Wilde al D'Annunzio, son potenzialmente contenute in À rebours, il cui protagonista, del resto, è un lontano discendente del melanconico Usher del Poe, come dal Poe della Philosophy of furniture deriva la descrizione dell'ambiente. Entusiasmo pei fiori mostruosi e le piante tropicali, per le forme convulse, insomma per la bellezza medusea, offuscata dalla morte o dalla melanconia, nelle sue espressioni più paradossali, tutto questo l'Huysmans rende con la minuzia d'un pittore olandese di nature morte, ma non scopre per primo: il merito della scoperta - se merito vuol chiamarsi - spetta al Baudelaire e al Flaubert. Lo stesso dicasi circa l'entusiasmo per la bassa latinità, e in genere circa l'attrazione per le cose corrotte e impure, negli uomini, nelle opere, nelle cose.
Anche Zola aveva detto (Mes haines, p. 66) fin dal 1866: ‟Mon goût, si l'on veut, est dépravé. J'aime les ragoûts littéraires fortement épicés, les oeuvres de décadence où une sorte de sensibilité maladive remplace la santé plantureuse des époques classiques". All'Huysmans piace la lingua latina della decadenza per il suo gusto deliquescente, gli piacciono i paesaggi gualciti da qualche brutale violenza: la banlieue che pare che ‟relève toujours d'un mal épuisant qui la mine, et que son côté populaire s'atténue et s'effile dans une attitude alanguie, dans une mine dolente" (Pages retrouvées, p. 182). Le pagine più notevoli che l'Huysmans abbia scritto a questo proposito si trovano nel saggio su La Bièvre (1898), dove nella contaminazione del fiumicello inquinato dall'industria l'autore vede la tortura della ninfa, e descrive con compiacimento sadico la sua agonia. Ma l'onore d'aver scoperto quest'angolo faisandé spetta a Edmond e Jules de Goncourt. In Manette Salomon (1867) il pittore Crescent s'ispira al ‟rachitisme mélancolique de ces prés rapés et jaunis par place". In Là-bas (1891) l'Huysmans esplora le province più tenebrose e remote del satanismo e del sadismo (‟les là-bas, si loin dans les vieux âges!"), la vita del Des Esseintes medievale, il mostro Gilles de Rais, e le messe nere moderne che rinnovano i fasti del sabba.
13. Barbey d'Aurevilly e Villiers de l'Isle-Adam
Barbey d'Aurevilly, un altro ‛santo padre' del decadentismo, a cavallo di due generazioni, la frenetica del 1830 e la decadente del 1880, che Des Esseintes classifica subito dopo il marchese di Sade, intreccia voluttà e orrore in flessuosi amplessi per tutte le sei novelle di Les diaboliques (scritte tra il 1871 e il 1872). Questo scrittore offre una delle più evidenti illustrazioni della stretta parentela tra il romanticismo ‛frenetico' del 1830 e il decadentismo. Si era da giovane ispirato ai poemetti di Byron: ‟C'est dans Byron que j'ai appris à lire littérairement. Ses poèmes sont la premiere guirlande de roses noires qui ait tourné autour de mon adolescence, et qui en ait fait le thyrse de bacchante qu'elle a été", scriveva nel 1875, e Les diaboliques erano state anticipate nel racconto giovanile Le cachet d'onyx (1831) che ritorna in uno dei sei racconti (À un dîner d'athées: il suggellamento a ceralacca rovente delle pudende di Rosalba la Pudica); in un altro, Le rideau cramoisi, è ripreso il motivo della Vénus d'Ille (1837) di P. Mérimée, della statua che diventa donna fatale: nel racconto di d'Aurevilly è la sfinge d'un letto Impero che si metamorfosa in una fanciulla taciturna e passionale, che preda un giovane ufficiale napoleonico come la bronzea statua di Mérimée, trasformata in donna, preda l'incauto giovane che le ha posto l'anello al dito.
La combinazione dell'ingegnosità speculativa di Poe col romanticismo frenetico francese induce Villiers de l'Isle-Adam, anch'egli vago di mostruosità sessuali e di orrori sadici, a invenzioni macchinose come quella di Claire Lenoir (apparsa in rivista nel 1867 e poi in volume nel 1887 col titolo Tribulat Bonhomet) ove Bonhomet, introducendo delle mostruose sonde nelle pupille di Claire defunta, scorge distintamente riflesso come in una lastra fotografica il quadro del marito (reincarnato vampiricamente in un pirata della Polinesia, un Ottysor-vampire) in atto di brandire la testa tronca dell'amante, mentre accompagna il gesto con un inaudibile canto di guerra. I suoi Contes cruels (1883) mostrano in sostanza uno sfruttamento degli stessi motivi trattati da Pétrus Borel nei Contes immoraux (1833).
14. Péladan e Bourges
L'ideale androginico era l'ossessione di tutto il decadentismo, non solo del 'mago' J. Péladan (che per rendere misteriosofico il suo nome si ricordò di Mérodack Baladan re di Babilonia [in Isaia XXXIX], e si autodenominò Sâr Mérodack J. Péladan), autore di un'epopea, anzi etopea romanzesca, La décadence latine, éthopée (1884 ss.) - centone di motivi decadenti -, e promotore di esposizioni di pittori simbolisti.
Péladan chiamerà l'aspirazione a un aldilà ‟la foia dell'ideale" (mon rut de l'idéal), e troverà, insieme agli altri decadenti, in Wagner la perfetta incarnazione dei propri slanci ‟mistici". L'infatuazione per Wagner (‟Le dieu Richard Wagner irradiant un sacre", dirà Mallarmé nel suo Hommage) fu consacrata con la fondazione nel 1885 della ‟Revue Wagnérienne", ma presso molti si trattò di un culto ambiguo: di quella musica li avvinceva soprattutto il sensualismo. Nella Victoire du mari del Péladan, ad esempio, durante l'esecuzione del Tristano e Isotta a Bayreuth i due amanti Adar e Izel, stregati dalla ‛satanica' musica di Wagner, si abbandonano a eccessi erotici. ‟Jusqu'à Bayreuth, la volupté était leur recherche, depuis le sort jeté par l'oeuvre de Wagner, les spasmes ne servaient plus que de moyens è leur plaisir; le but c'était l'ivresse de la mort" (p. 98). Pel Péladan ‟une Wagnérerie" è press'a poco un sinonimo del sabba. ‟Ce finale inouï, où le rut de la chair se mêle au rut de l'ame, où l'ithyfallie domine le désespoir; cette provocation à la mort et ces malédictions au soleil faisaient entrevoir au penseur le grand mystère de la seconde mort". Un'altra opera che illustra il gusto wagneriano della fine del secolo è La lueur sur le cime di J. Vontade (pseudonimo di Madame Bulteau, amica di P. J. Toulet e dell'archeologo G. Boni) del 1904; un tale Albert Marlette pretende che ‟lorsqu'il écoute le grand duo du second acte du Tristan [il] éprouve d'une façon complete tous les agréments de l'amour". Tra le opere più caratteristiche di questo periodo va ricordato il romanzo di É. Bourges che appunto prende il titolo dall'opera wagneriana, Le crépuscule des Dieux (scritto tra il 1877 e il 1882, pubblicato nel 1884): narra la vicenda di una famiglia ducale tedesca, in parte ispirandosi a dati forniti dalla realtà (la figura di Carlo Federico Augusto Guglielmo duca di Brunswick-Luneburg, 1804-1873), in parte colorendo con tinte desunte dalle Diaboliques del d'Aurevilly e dalle tragedie elisabettiane, specialmente da 'Tis pity she's a whore di J. Ford, per la passione incestuosa di Ulric e Christiane, inebriati dalla musica di Wagner.
E l'Anello del Nibelungo fornisce il motivo centrale di Axël di Villiers de l'Isle-Adam (1890), un poema drammatico in prosa che da R. Lalou è stato definito ‟il Faust della fin de siècle", ove la tematica decadente si decanta in simbolismo. Il protagonista, il conte Axël di Auersburg, è ancora un giovane del tipo dell'Usher di Poe, dal ‟pallore quasi radioso", e dall'‟espressione che il pensiero rendeva misteriosa", dedito allo studio dell'alchimia e preparato alla rivelazione dei misteri ultimi da un adepto dell'ordine rosacruciano, Maître Janus. Appartiene a quest'ordine anche Sara, giovane nobildonna francese fuggita dal convento, che è al corrente del tesoro nascosto nei sotterranei del castello di Axël, il quale però non vuole impossessarsene, disprezzando la vita attiva, mondana, in nome d'una vita di solitaria contemplazione. Quando Sara discende per la scala dei sotterranei del castello, come non pensare alla sepolta viva Lady Madeline Usher del Poe? Quando Sara identifica il teschio araldico che, premuto tra le occhiaie, aprirà il ripostiglio del tesoro, come non pensare al The gold bug del Poe? Ma Axël cerca di convincere Sara a rinunziarvi: ‟La qualità delle nostre speranze non si concede più alla terra [...]. Noi abbiamo distrutto, nei nostri strani cuori, l'amore alla vita - ed è nella REALTÀ invero che noi stessi siamo divenuti le nostre anime. Consentire, dopo questo, a vivere, non sarebbe che un sacrilegio contro noi stessi. Vivere? I nostri servi lo faranno in vece nostra" (Villiers de l'Isle-Adam, Axël, Paris s.d., p. 259). Infine Axël riesce a persuadere Sara: insieme bevono, come Tristano e Isotta, alla stessa coppa, ma è una coppa di veleno, e la loro estasi è l'estasi della morte. Come il Marius del romanzo del Pater, gli eroi dei simbolisti provano l'ebbrezza dell'evasione nel sostituire al mondo esteriore degli altri un mondo interiore affine ai loro desideri. Echi dell'idealismo di Axël si troveranno negli Owen Aherne e nei Michael Robartes di W. B. Yeats, con le loro torri solitarie e le loro mistiche stanze, la loro dedizione alle scienze occulte, e in Monsieur Teste di Paul Valéry, che si concentra esclusivamente, come in un sotterraneo, sui processi del pensiero puro.
15. Il romanzo russo
Poe aveva insinuato fisime metafisiche nell'amore; l'influsso del romanzo russo, divulgato in Francia dal visconte E. M. de Vogüé (Le roman russe, Paris 1885) non fece che rincarare la dose, e uno strano amore asessuato e libidinoso come quello descritto in Monsieur Vénus di Rachilde (1884) divenne l'ossessione dell'epoca: domina nei quadri del Moreau, nei romanzi del Péladan, in libri come Valbert di T. de Wyzewa (1893), il cui protagonista odia i bisogni violenti e tenta l'esperienza impossibile d'un matrimonio volontariamente bianco, - è insomma un po' dappertutto. Nei romanzi del Dostoevskij i Francesi ritrovavano o credevano ritrovare il sadismo divenuto più mistico e sottile. Nei Karamazov Dmitrij dice che è pronto a sposare Grusěnka, se essa lo vuole: quando verranno gli amanti di lei, lui si ritirerà nella stanza accanto, lustrerà loro le scarpe, accudirà al samovar, farà il facchino. Codesta situazione sarà ripresa da scrittori occidentali sulle orme del romanzo russo, per esempio da F. Wedekind in Die Büchse der Pandora, atto III, da D'Annunzio in Giovanni Episcopo. Il sadismo non sarà più limitato alla grossolanità delle torture fisiche, dovrà penetrare come una carie in tutte le manifestazioni morali (quale delle diaboliche del d'Aurevilly era arrivata alla perfezione di Nastas′ja Filippovna che nella tormentosa coscienza del suo disonore sentiva una gioia orribile, antinaturale?). E trovavano in quei romanzi anche la sete dell'impossibile, l'impotenza elevata ad estasi mistica (in Myškin, il protagonista dell'Idiota).
Nel Sade e nei sadici del romanticismo frenetico vediamo insidiare e distruggere l'integrità del corpo, in Dostoevskij si ha l'impressione - per adoperare una frase dalle Memorie del sottosuolo - di ‟intimità dell'anima brutalmente e prepotentemente violata". Il Dostoevskij del resto non aveva fatto che approfondire certi motivi del romanticismo frenetico francese, e il metodo di monologo appassionato della Confession d'un enfant du siècle del Musset, e il fatto di essere a tal segno un ritardatario rispetto al romanticismo del 1830 lo rese, per una curiosa combinazione, di grande attualità pei decadenti della fine del secolo che rinnovavano il gusto frenetico (in un certo senso il suo è un caso simile a quello, di più modeste proporzioni, di Barbey d'Aurevilly). Il rapporto dei sessi, nei romanzi del Dostoevskij, è sovente lo stesso che presso i decadenti: l'uomo ridotto a far la parte di donna; la donna, per contro, volitiva e dominatrice: donna fatale. Nastas′ja Filippovna, nell'Idiota, Grusěnka nei Fratelli Kamarazov, Natal′ja Vasil′jevna nell'Eterno marito...
16. Strindberg
Solo in parte è attinente ai modi di sensibilità e di gusto del decadentismo l'opera di J. A. Strindberg, i cui accenti, occasionalmente sadici (per es. nella Signorina Giulia, 1888, in Simún, 1890, in La moglie del nobile Bengt, ecc.), non sono l'accento più saliente del complesso quadro di esasperata, personalissima rivolta sessuale e sociale che caratterizza quest'autore. Gli orrori da lui descritti in drammi e romanzi come La sonata degli spettri, Bandiere nere, possono far pensare ai Contes immoraux di P. Borel; la figura della donna in Padre, in Le plaidoyer d'un fou può sembrarci affine alla donna fatale dei decadenti; e le angosce e ricerche magiche dello Strindberg (che credette nella missione profetica di Péladan!) possono sembrarci possedere un'aria di famiglia con quelle dell'Huysmans, ma altra è l'atmosfera, altro il ‛tempo' dello Strindberg da quello dei decadenti. Vittima di un processo schizofrenico di tipo paranoico, lo Strindberg offre a ogni modo un soggetto che si presta alla psicanalisi.
17. Il clima simbolista
Strindberg era però affascinato dai quadri di O. Redon, ma con Redon il decadentismo è già trapassato in simbolismo. Nel simbolismo fin de siècle il nudo si esibisce dappertutto, e non tanto riguarda i seni femminili (come nel pieno romanticismo: si veda Venere e Psiche di G. Courbet), ma soprattutto le parti basse: ‟L'or du ventre sonne la fanfare de l'inassouvissement" (E. Verhaeren). Queste e i volti psichedelici. La bestia umana - sfinge, chimera - e l'ectoplasma: ‟félin ailé gynocéphale". Anche in Böcklin, il più sano degli artisti decadenti, la sirena non termina in pesce, ma nell'odore di stalla degli zoccoli. Forse il wagneriano Axël di Villiers de l'Isle-Adam e quel crepuscolo degli dei che è il quadro Les chimères di Moreau son le opere che meglio riassumono il clima simbolista, ma la musica di Debussy portò alla perfezione ciò che la pittura si era sforzata di esprimere. Tutte le tentazioni del romanticismo si dan convegno in quel sabba di religioni che è Les chimères.
18. Bisanzio
Moreau è affascinato da Erodiade, altri dalle basilisse decapitate, poiché l'epoca del passato nella quale piacque a molti artisti della fin de siècle d'identificarsi fu il lungo crepuscolo bizantino, tenebrosa abside balenante d'oro matto e di sanguigna porpora, da cui occhieggiavano enigmatiche figure, barbariche e insieme raffinate, colle loro dilatate pupille nevrasteniche. Nella prima parte dell'Ottocento s'eran rievocate con nostalgia le orge imperiali dell'Oriente e di Roma, dominate da qualche sovrumana figura di mostro, un Sardanapalo, una Semiramide, una Cleopatra, un Nerone, un Eliogabalo; sullo scorcio del secolo anche quell'elemento virile della personalità sembra scomparso, l'epoca bizantina è un'epoca d'anonima corruzione, senza nulla d'eroico. Sì e no si staccano dal fondo uniforme una Teodora, una Irene, statiche personificazioni della libidine femminile di dominio. Meduse e piovre, gigli e cigni. Un torbido pittore cattolico olandese, J. Th. Toorop, trasforma il libertinaggio in liberty. Sotto l'influsso delle angolose marionette del teatro giavanese delle ombre, J. Th. Toorop nelle Tre fidanzate (1893) stilizza un misterioso mondo d'immagini beatifiche e perverse che mandava in estasi un decadente come J. Lorrain (Monsieur de Phocas, 1901): ‟Et la fiancée de l'Enfer, avee ses deux serpents se tordant sur ses tempes et retenant son voile, a le masque le plus attirant, les yeux les plus profonds, le sourire le plus vertigineux qu'on puisse voir. Si elle existait, comme j'aimerais cette femme!". La stilizzazione liberty del Toorop a cui non è senza qualche affinità quella di A. Wildt (cfr. Disegni di Adolfo Wildt 1868-1931, Milano 1972 e il catalogo-mostra dell'esposizione Wildt, Galleria Narciso, Torino, 21 nov.-22 dic. 1973) - giunge al massimo nel Canto delle stagioni (disegno, 1893). G. Klimt crea un autentico neobizantinismo mosaicale. Il sorriso, se mai c'è, è sphinxial. Beardsley e Laforgue riscattano questo mondo deliquescente con l'ironia.
19. Pittori decadenti e simbolisti
Sì, ‟le rose morte si sfogliano ai piedi d'una sfinge", ammette Ph. Jullian (Les symbolistes) (e cadaveri come foglie morte ai piedi della Sfinge di Toorop - disegno del 1892-1897 -, oltre a una coppia di cigni e a un pavone), e ci sono foreste nei quadri dei simbolisti, gigli (anche neri), gladioli, pavoni, uccelli azzurri, liocorni, grifi, chimere, sirene, e soprattutto sfingi, un'intera araldica che stampiglia quei prodotti del simbolismo come marchi di fabbrica. Ma c'è dell'altro. Intanto una distinzione non facile a stabilire tra decadenti e simbolisti, a cui dà poco aiuto il sapere che i primi si riunivano a Montmartre e i secondi alla Rive Gauche. Non tutti i decadenti sono simbolisti, né tutti i simbolisti adottano la tematica dei decadenti. I decadenti guardavano a Bisanzio, ma una composizione così chiaramente bizantina come la Déploration du Christ di Ch. Filiger (c. 1893) è simbolista sì (fa pensare anche a Rouault), ma non potrebbe dirsi decadente.
D'altronde se La forêt des rêves di Georges de Feure è, al dire del Jullian, ‟un perfetto esempio del simbolismo nero sotto l'influsso di Sade", allora anche la Pluie d'été, litografia di E. van Offel, è suscettibile della stessa definizione, ché in entrambe queste opere, nonostante i titoli innocui, riconosciamo la medesima figura di donna crocifissa, avvinta da liane nel primo caso, carica di catene dissimulate come gioielli nel secondo, che rimandano a una delle illustrazioni dei romanzi di Sade. E qui il simbolismo è solo patina di una tematica decadente. Il loro giardino delle fate era il giardino di Kundry nel Parsifal, e l'‟ô ces voix d'enfants chantant dans la coupole" (Verlaine) aveva risvolti omosessuali. Bisanzio non significava solo sensualità languida ed esasperata, ‟toutes les splendeurs violentes du Bas Empire" (Verlaine), significava pure stilizzazione; attraverso la stilizzazione i simbolisti arrivarono all'armonia e alla musica. E tutto questo era stato per lei come il suono di lire e di flauti", aveva detto W. Pater della Gioconda. Si partì da Baudelaire per arrivare a Mallarmé. Nel primo numero della ‛'Revue blanche" (fondata a Bruxelles nel 1889) M. Maeterlinck, l'altro grande ispiratore dei simbolisti (soprattutto i drammi La princesse Maleine, 1889, e Les sept princesses, 1891: il Maeterlinck divenne famoso dopo un articolo di O. Mirbeau sul ‟Figaro" del 24 agosto 1890: da quei drammi O. Wilde deriverà l'infantile cicaleccio col quale i personaggi della sua Salomé rendono fiabesco l'Oriente lussurioso della Tentation del Flaubert), scriveva: ‟Il simbolo è l'allegoria organica e interiore; mette radici nelle tenebre". Le piante simboliste non si tendevano verso il sole, ma verso le tenebre. Onde la voga dell'occultismo, E. Lévy e E. Swedenborg, e l'effimera ascesa d'una figura mediocre come quella di Sâr Péladan.
In una pagina di quel delirante romanzo del simbolista russo A. Belyj, Kotik Letaev (in veste italiana a cura di S. Vitale, Milano 1973) leggiamo dello spazzacamino: ‟Dev'essere lui che strisciando tutto curvo nei tubi mi ha tirato fuori dal buio e mi ha salvato dal fuoco". I simbolisti cercarono uno spazzacamino che li salvasse dall'inferno di Sade, dall'‟écroulement dans les flammes des races épuisées" (Verlaine): si provarono ad affamare il corpo per far sbocciare il fiore dell'Anima. Le loro donne estenuate, spettrali, sì, ma ‟oh quelle mani, Anima, quelle dita"! D'Annunzio non poteva rinunziare al contatto con la carne, nè lo poterono i simbolisti, fosse magari carne cadaverica.
20. Tematica simbolista
Le mani fanno gesti. La tematica simbolista è una tematica di gesti. ‟J'ai pris de la pluie dans mes mains tendues" (F. Viélé-Griffin). Le persone di Puvis de Chavannes fanno gesti. La famosa Espérance (1871: il suo volto sognante addirittura prelude a quello estatico della Bella Mendicante adorata da re Kophetua nel quadro di Burne-Jones, 1884) presenta un ramoscello; ne Le pigeon voyageur dello stesso pittore francese la figura femminile gestisce come una creatura di D. G. Rossetti; la scena della grande allegoria Inter artes et naturam s'immagina silenziosa, animata soltanto da un linguaggio di gesti; e braccia rassegnate dicono tutta la miserabile vita di Le pauvre pêcheur, il quadro che doveva ispirare Picasso del periodo blu. In Rodin gli arti e gli atti sono più importanti dei volti. Il titolo dell'Annonce faite à Marie di Claudel designa un gesto. La Duse domina coi suoi gesti la scena e il comportamento delle anime elette. Né Puvis né Rodin sono decadenti, ma avviano il simbolismo all'art nouveau. Decadente è G. Moreau per la sua tematica sadica e misteriosofica, ma anch'egli pratica il simbolismo dei gesti. Il suo Jason et Médée culmina in un gesto, e così la sua celeberrima Salomé, cerniera tra decadentismo e simbolismo. I gesti son lenti, ieratici, solennemente composti: vedi la tranquilla Péri che il grifone domato porta a passeggio in cielo (la Péri ‟doma i grifoni e si nutre del profumo dei fiori"; durante lo spettacolo del Cantico dei Cantici di N. Roinard si vaporizzarono profumi sulla platea); vedi il gesto éploré di Deianira rapita e il simile atteggiamento d'Orfeo alla tomba di Euridice. Anche il fluire dei fiumi è un gesto: ‟l'eau pâle qui s'allonge en chemins de silence". Il gesto porta a un'arte calligrafica, lo stile liberty.
L'aveva previsto A. Séon che per primo (1891) formulò le direttive dottrinali del simbolismo: ‟entraîner sa composition dans une ossature d'arabesques décoratives": in questo senso Toorop è esemplare. Le composizioni cloisonnées di Gauguin e di Rouault son surrogati dei mosaici di Bisanzio. I due poli del simbolismo sono questo staccato stile calligrafico, e il ‟flou qui exprime l'âme", l'evanescente, di un Redon, di un Carrière (influssi inglesi nel primo, Burne-Jones e K. Greenaway, nel secondo J. A. Whistler); la mimica delle mani e il volto circonfuso di sogno, la verità dell'anima che traspare come ‟des beaux yeux derriere des voiles" (Verlaine, Art poétique, in Jadis et naguère, 1884).
21. Rops, Rollinat, Rodenbach
F. Rops, accanto a G. Moreau, è l'altro artista che ai contemporanei parve eminentemente rappresentativo del decadentismo, sebbene oggi nei mediocri disegni del Rops non riusciamo più a vedere quella terribilità che vi si vide allora. Nel saggio sul Rops, in Certains, Huysmans arrivava a vedere in lui addirittura il contraltare di H. Memling: ‟M. Félicien Rops, con un'anima di primitivo a rovescio, ha compiuto l'opera inversa di Memlinc [sic]; ha penetrato, riassunto il satanismo in ammirevoli incisioni che sono come invenzioni, come simboli, come arte incisiva e nervosa, feroce e nauseata, veramente unica [...]. In una parola, egli ha celebrato quello spirito della Lussuria, che è il Satanismo, ha dipinto pagine inimitabili, il soprannaturale della perversità, l'aldilà del Male" (J. K. Huysmans, Félicien Rops, in Certains, saggio ristampato in ‟La Plume", 15 giugno 1896). Anche pel Rops, l'antecedente letterario lo troviamo in Flaubert. Ché tutta l'arte del belga sembra intesa a rappresentare quella figura di Lussuria-Morte così descritta nella Tentation: ‟Egli vede in mezzo alle tenebre una specie di mostro dinanzi a sé. È una testa di morto con una corona di rose. Essa domina un busto di donna di un candore madreperlaceo. Sotto, un sudario punteggiato di stelle d'oro fa come una coda; - e tutto il corpo ondula come un verme gigantesco che si tenesse dritto".
Rops tradotto in versi dà M. Rollinat, un Baudelaire immiserito, diventato metodico nella sua collezione d'orrori. Come ben ha detto Ch. Maurras (Rollinat ou le macabre incongru, in ‟Gazette de France", 1 nov. 1903, edito in volume in Barbarie et poésie, Paris 1925), ‟où Baudelaire écrit vampire, Rollinat met sangsue". Ma il fondo dell'ispirazione è sempre quello: la donna-vampiro e la voluttà masochista della vittima. Quante ‟succions convulsives", quante Mademoiselle Pieuvre e Mademoiselle Squelette e Madame Vampire, e putrefazioni, e brividi, e profanazioni nelle Névroses di Rollinat (1883)! Il Rollinat vede la vita come un'acquaforte macabra del Rops, A. Samain la vede come un languido décor del Moreau. Nel Samain troviamo i soliti motivi: Salomè, Elena, l'ermafrodito (i cui occhi sono, come era di prammatica presso i decadenti, verdi), l'amore lesbico, la messa nera (‟le Bouc noir passe au fond des ténèbres malsaines"), le litanie della Lussuria.
Un altro motivo decadente, quello delle chiome femminili sciolte, che in Rossetti assunse le proporzioni di un marcato feticismo, contribuì al grande successo del romanzo Bruges la morte (1892) di G. Rodenbach (il protagonista conserva la treccia color d'ambra della defunta sposa come una reliquia in un'urna di cristallo; trova una donna che somiglia alla morta, e la fa sua amante, e poi la strangola quando essa - una donna volgare - per gioco s'avvolge intorno al collo a mo' di boa quel cimelio che ‟profanato era diventato strumento di morte"). Il romanzo, apprezzato anche dal Maeterlinck, fece di Bruges una delle città sante del decadentismo, pel suo silenzio, le sue architetture che trasportavano l'anima in età lontane, e i canali su cui lentamente navigavano i cigni. La veduta della città fa da sfondo al ben noto ritratto di Rodenbach di L. Lévy-Dhurmer. Un'altra città a cui i decadenti conferirono simile ruolo di ‟sarcofago [...] immerso nella penombra [...] avviluppato nel mistero" (con parole di J. Karásek, Král Rudolf, 1916) fu Praga.
22. Beardsley, Wilde
L'unico artista che possa stare accanto al Moreau come rappresentativo del decadentismo non è Rops, ma l'inglese A. Beardsley che, oltre che artista grafico di primo ordine, fu anche scrittore non mediocre: il succo del decadentismo inglese, più che in poeti minori come A. Symons, R. Le Gallienne, L. Johnson, E. Dowson, può trovarsi nella romantic novel del Beardsley, Under the hill (pubblicata in parte in ‟The Savoy magazine", e in volume postumo nel 1904), ove lo stile prezioso arieggiante quello dell'Hypnerotomachia (dalle cui famose illustrazioni il Beardsley deriva pei suoi disegni non solo motivi ornamentali, ma addirittura suggerimenti di tecnica) si sveltisce di mosse settecentesche e di voluttuosi francesismi: uno stile faisandé secondo l'estetica di Des Esseintes. In Under the hill lo squisito Abbè Fanfreluche, il Polifilo di questa tenue avventura, entra nella misteriosa collina ove dimora Elena, ed ivi è convitato a un'orgia magnifica. Ma il classico del decadentismo in Inghilterra è The picture of Dorian Gray di Oscar Wilde (dapprima pubblicato nel ‟Lippincott's monthly magazine" del luglio 1890), ove il protagonista, depravato dalla lettura di libri francesi, professa i principî dell'edonismo pagano del d'Albert di Mademoiselle de Maupin di Gautier, raffinandoli con le più recenti ricette di Des Esseintes. La spaventosa idea dello sdoppiamento del protagonista era tolta dal Poe (William Wilson) e dallo Stevenson (The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, e Markheini); dato il mimetismo del Wilde, la sua opera è meno caratteristica di quel che si pensi a tutta prima, meno caratteristica in ogni caso di Monsieur de Phocas di J. Lorrain che, con tutti i suoi orpelli decadenti e il monotono ansimare delle patetiche interiezioni (quanti ‟Oh!" in questo romanzo! un vezzo che il Lorrain aveva derivato dallo Zola), testimonia d'uno stato d'animo profondamente intorbidato e angosciato.
Ma tutto quel mondo di fiori esotici, di orchidee (il Firbank paragona se stesso a uno ‟sporco fior di lillà di rarità ineffabile"), di preziosità, di esotismi, di delicate empietà, di glauche ambiguità, che riesce così stucchevole nelle pagine del Lorrain e di tanti altri decadenti, si anima in capriccio, in balletto nei brevi romanzi di R. Firbank, scritti tra le due guerre, fiore tardivo, guaime della prima messe decadente. In Firbank sembrano spesso echeggiare le battute epigrammatiche delle commedie di Oscar Wilde e le perverse eleganze di A. Beardsley.
23. Diffusione del decadentismo anglo-francese
Il decadentismo di marca anglo-francese s'irradiò sul resto dell'Europa, combinandosi con altri influssi soprattutto in letteratura, mentre in arte conservò un aspetto più omogeneo per la predilezione di certi motivi decadenti (si veda ad esempio La Sfinge e Eva di F. von Stuck, un pittore che ha qualche affinità con F. Khnopff; la Diana degli Efesii e gli schiavi di A. Sartorio che richiama I proci di Moreau e Gli ultimi giorni di Babilonia di G. Rochegrosse, ecc.). Influsso di Nietzsche in Germania, dove si combinò con quello di Mallarmé in Stefan George; in Russia, dove si combinò con quelli di Wilde e di Maeterlinck in A. Belyj; in Italia, dove lasciò una forte impronta su D'Annunzio. Ma sia per la Germania, dove fu portavoce del movimento la rivista ‟Pan", che per la Russia, si trattò piuttosto di simbolismo, con forte colorazione mistico-religiosa specialmente in Russia (V. I. Ivanov, il teorico del simbolismo russo, V. S. Solov′êv). Del resto l'autodesignazione che si diedero di ‛decadenti' D. S. Merežkovskij e V. J. Brjusov negli anni novanta, al principio del movimento, è molto approssimativa, e K. D. Bal′mont non è che un eclettico. Vero e proprio decadente è però in Germania H. von Hofmannsthal, molto vicino a Wilde e D'Annunzio nelle opere giovanili. Quanto a Th. Mann, egli può dirsi uno psicologo del decadentismo piuttosto che un decadente vero e proprio. Per il mondo ispano-americano si fa soprattutto il nome di R. Dario.
È tuttavia uno scrittore russo, il romanziere e poeta F. K. Sologub, l'autore del Demone meschino, che in due strofette famose della lirica Scherzando con l'Amor leggero ha espresso, per mezzo di assonanze e allitterazioni, i languidi arabeschi della pittura di Khnopff, Toorop, Klimt (si ripensi a quelle parole di Séon: ‟entraîner sa composition dans une ossature d'arabesques"). La traduzione italiana dà solo il senso di queste due strofe: ‟E due profondi calici di vetro delicatamente tintinnante tu accostasti a una lucente tazza, e versasti una soave spuma. Versasti, versasti, versasti, agistasti due cristalli scarlatti, più bianca d'un giglio, più rossa d'un rubino, tu eri bianca e cremisi".
24. Il decadentismo italiano
Quanto all'Italia, come l'asino che porta vino ma beve acqua, ha fornito nei secoli una facile e bella vigna ai letterati e artisti stranieri in cerca di motivi sensazionali e decadenti, senza poi offrire esempi, se non marginali, di sensazionalismo e di decadentismo nella propria arte o nella propria letteratura, a meno di non voler chiamare decadenti certe tele di scuola lombarda del Seicento rappresentanti morbose estasi o agonie di suicidi (Morazzone, Dal Cairo). Mentre ‟il tenebroso palazzo italiano", per dirla con le parole di V. Lee (nel saggio The Italy of Elizabethan dramatists nel volume Euphorion, London 1885), ‟con le sue inferriate che impedivan la fuga, i suoi tappeti che attutivano il rumore dei passi, i suoi trabocchetti che si spalancavano all'improvviso, i suoi arazzi che servivan di nascondiglio ai sicari, le sue ghirlande di fiori avvelenati" offriva lo sfondo favorito dei drammaturghi dell'epoca di Elisabetta e di Giacomo I, gl'Italiani ‟di rado o mai dipingevano l'orrore, o la morte, o azioni abominevoli", quasi che ‟il senso della tragedia mancasse ai gai e leggeri contemporanei dell'Ariosto": con la sola eccezione dei drammaturghi senechiani, Giraldi Cintio, Sperone Speroni, le cui cruente tragedie, se pure avevano quel travolgente effetto sul pubblico che Giraldi Cintio pretende nel suo Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie, non costituiscono certamente una parte viva e vitale della tradizione letteraria italiana.
D'altronde certe opere d'arte italiane, come la Gioconda di Leonardo, alcuni disegni di teste femminili attribuiti a Michelangelo, come s'è visto, e perfino un ritratto di giovinetta di Bartolomeo Veneto e un'innocente sacra conversazione attribuita al quattrocentista Bianchi Ferrari (ma di A. Araldi), hanno offerto lo spunto di morbose e sinistre divagazioni a certi decadenti stranieri (Huysmans in questi ultimi due casi), senza che mai ad alcun italiano, dinanzi a quelle opere d'arte, venisse in mente neanche un lieve sospetto della loro supposta perversità. Si pensi ad esempio che Angelo Conti, l'esteta che il D'Annunzio ritrasse nel Daniele Glauro del Fuoco, pur conoscendo così bene le opere di Pater da ispirarsene per il suo saggio su Giorgione, fissò, sulle orme del Pater, la sua attenzione sul sorriso della Gioconda per non cavarne niente di più morboso di questo: ‟È l'immagine d'un sorriso che trascende ogni altra espressione del sorriso umano. È un movimento, è una luce che dalle labbra e dagli occhi della donna passa nel paese in un serpeggiamento di fiumi e si allarga e l'invade tutto intero e diventa il riso della natura. Il miracolo d'un accordo perfetto dell'uomo con le cose è compiuto" (A. Conti, Giorgione, Firenze 1894, p. 48).
S'ha da trovare la spiegazione di questo curioso fenomeno in una osservazione di F. Brie (v., 1920) che ‟in Italia l'ingenuo atteggiamento del carattere nazionale di fronte alla vita e al mondo dei sensi non era proclive al sorgere di tendenze come l'ennui e l'esotismo", o non si deve anche aggiungere che ogni curiosità per lo stravagantemente fantastico, pel bizzarro, pel macabro, che pur esistette in Italia prima del Rinascimento (si pensi ai Trionfi della Morte di Pisa e di Palermo, agl'impiccati del Pisanello e, esempio supremo, alla Divina commedia), si venne estinguendo soprattutto da quando attecchì in Italia l'influsso del neoplatonismo, che spinse a ignorare deliberatamente tutto quell'aspetto della vita che sta sotto il segno del men bello e dell'irregolare (ecco perché singolarità come i ‛mostri' di Bomarzo non ebbero alcuna eco tra noi e dovevano essere scoperte dopo secoli, e da stranieri), e a mirare sempre all'ideale e all'universale, sia nell'espressione della serenità (Raffaello), che in quella della lotta e del dolore (Michelangelo)? Quanta fantasia c'è nella vita italiana d'ogni giorno (in confronto all'uniforme monotonia dei paesi del Nord) e come se ne sono ispirati gli stranieri, dagli elisabettiani a Stendhal a Browning a D. H. Lawrence! Se ne sentono altrettanto scossi i nostri letterati? L'impressione generale che si ricava dalla lettura dei Promessi sposi è in qualche modo simile a quella che si ricava dalle Chroniques italiennes? Le immagini serene vincono là su quelle macabre e sinistre; qui, è vero il contrario.
Sicché parlando di decadentismo italiano non ci aspetteremo d'imbatterci in nulla di veramente spontaneo, sentito, genuino; ma bensì in echi, riflessi e scimmieggiamenti di mode d'oltralpe, interpretate di solito con spirito provinciale, con esuberanza spesso, ma senza molta raffinatezza, non eccettuato lo stesso D'Annunzio, massima espressione del nostro decadentismo e riepilogatore, e in un certo senso divulgatore, dei motivi del decadentismo europeo. Pel decadentismo insomma si ripete quel che era accaduto pel romanticismo, che in Italia significò soprattutto l'adozione di una tematica diversa da quella mitologica. Le tendenze vive della letteratura italiana, da quando questa ebbe una ripresa dopo la frattura al principio dell'Ottocento, erano altrove.
25. Influsso francese in Italia: Oriani, Boito, Camerana
Il principale influsso straniero in Italia durante l'Ottocento fu francese e i primi a echeggiare motivi decadenti d'oltralpe furono due romagnoli, il forlivese O. Guerrini, che lesse Baudelaire con spirito Biedermeier, e non vi colse che qualche motivo superficiale, e il faentino A. Oriani, che si mise sulle orme di Gautier. Basta confrontare il paradiso artificiale di Elisa di Monero in Al di là (1877) o un interno descritto in No (1881) con l'Eldorado di Fortunio del Gautier, o le massime di Ottone di Banzole, come: ‟Sono un pagano io [...] dei tempi di Alcibiade e di Aspasia", e certe frasi di Ida in No: ‟Vi sono ancora dei gladiatori, vedrai come muoiono le vergini" con quelle di d'Albert in Mademoiselle de Maupin (‟Je suis un homme des temps homériques...", ecc.). Anche Flaubert è echeggiato dall'Oriani: ‟Adulterio! Scrivo questa armoniosa parola, che mi accarezza l'orecchio come una musica altra volta intensamente gustata. Se ti dicessi, Anselmo, che questa è per me la forma sublime dell'amore? Paradosso? No, tutto al più errore, perché io credo a quello che dico. Amo l'adulterio..." (Al di là). Già in Novembre Flaubert aveva detto: ‟Il y eut dès lors pour moi un mot qui sembla beau entre les mots humains: adultère, une douceur exquise piane vaguement sur lui, une magie singulière l'embaume... [le jeune homme] y trouve une poésie suprême, mêlée de malédiction et de volupté". In Oriani si colgono talora accenti che sembrano preludere a certa retorica dannunziana, per es. in No: ‟La sua voce piena di sonorità lontane aveva degli stridori di vento e degli echi cavernosi" (A. Oriani, Opera omnia, Bologna 1934, p. 379). Le descrizioni che troviamo in Oriani di voluttuosi interni, con specchi, profumi, fiori, e di provocanti abbigliamenti femminili, fatte con goffa mano sui modelli francesi, illustrano assai bene il carattere provinciale di questa letteratura decadente, che si abbassa al livello del gusto dei postriboli di lusso, come se ne poteva vedere a Bologna ancora mezzo secolo fa.
Cadenze decadenti di riflesso, orrori di seconda mano, si possono anche cogliere nel Nerone di A. Boito (1901), in certi versi flaubertiani di G. Camerana. Nell'opera del Boito, Asteria, ‟la martire del senso [...] colei che sogna come ineffabile voluttà morire sbranata dal mostro", dice: ‟L'orror m'attira / come un amante [...] e nell'estasi vivo / de' violenti sogni [...] ebbra di pianto". Pel Camerana, basta vedere il saggio di Benedetto Croce (v., 1929, vol. I, pp. 279-280) che scrive: ‟Il Camerana è attratto da questi spettacoli, e li ama perché ne ha orrore, li assapora con voluttà dolorosa. Anche la figura di donna, che appare nei suoi versi, è fatta come quei paesaggi. È la donna dalle chiome e gli occhi neri, pallida, misteriosa, forse delittuosa, ecc.". E cita tra l'altro i versi: ‟Costei è il nero fatto carne viva / per l'alta ebbrezza nostra ed il tormento [...] / Chi sei / tu fatta d'ombra e fatta di velluto / come una bara?", ed altri ispirati dal Flaubert, nei quali ‟si può osservare ancora una volta il passaggio da certe forme del romanticismo al decadentismo, nel quale l'erotico si muta nel selvaggio e nel crudele, la bellezza nel sensualmente tormentoso".
26. Poeti minori simbolisti e liberty in Italia
Ma, come si è detto, tra noi la torbida tematica straniera o s'ispessisce fino a diventare caricatura, come nell'Oriani, o si stempera in blandi luoghi comuni d'un romanticismo edulcorato, Biedermeier, come in E. Nencioni che tessendo ingenue variazioni su motivi del Swinburne nella Rapsodia lirica (pubblicata nella rivista decadente italiana ‟Il convito" dell'aprile-giugno 1896), dopo aver passato in rassegna le perverse donne fatali dell'Inglese, si trova su terreno più familiare evocando ‟i neri orientali occhi di fata" della sua amata, sul cui capo immagina, preraffaellescamente, di veder aleggiare gli angeli, mentre sotto i piedi di lei palpitano le stelle. Ogni tematica ridotta al luogo comune, al cliché, è intollerabile: questo è vero pei petrarchisti del Cinquecento come pei marinisti del Seicento e pei byroniani del principio e i decadenti e simbolisti della fine del secolo scorso. Per questi ultimi, i tre volumetti di Poeti simbolisti e liberty in Italia (a cura di G. Viazzi e V. Scheiwiller, Milano 1967-1972) offrono una illustrazione capillare, estesa a poeti minori e minimi tra la fine dell'Ottocento e il principio del Novecento, poiché il movimento decadente, anche per il pesante influsso dannunziano, si estese tra noi oltre ai limiti della sua voga oltr'alpe.
Non fa meraviglia che, dopo certi notori sonetti dannunziani sulla fellatio, R. Canudo (1887-1923) scrivesse Sonetti fallici all'Androgine (in ‟Poesia", 1906-1907, I, n. 9-12; con arditezze del genere di ‟Se dall'ardente stelo della Vita / balza la calda opale in te che fremi"), né che, sulle orme di M. Rollinat, F. de Maria (1883-1954) si sentisse incoraggiato a scrivere versi sentimentali a una giovane sifilitica (Dame Vérole, in ‟Poesia", 1908, IV, n. 10). Leggendo L'eletta di L. Donati (dalle Ballate d'amore e di dolore, Milano 1897: ‟e un grande olir dai pori ella effondea"), o la Sestina della vergine morta di T. Marrone (Cesellature, Trapani 1899), o Tabernacoli d'oro alza la sera di A. Onofri (Vincere il drago, Torino 1928), o O profili diafani squisiti di R. Quaglino (I Modi. Anime e simboli, Milano 1896), o ‟Ne l'antico giardino abandonato / ove fioriscon selve di rosai / taciono le fontane" di G. Rino (L'estuario delle ombre, Messina 1907), o Tra le rose di Remigio Zena (pseud. di G. Invrea, 1850-1917; da Olympia, Milano 1905: ‟Rose, Voi non sapete quante volte / sognài [sic] che piovevano dal ciel le / rose, a nembi, a ghirlande! Rose belle, / deh piovete dal ciel, roride e folte!"), o La demoniaca ancora del Rino (‟rise d'un riso perfido nivale / e ne l'iride sua selvaggia e impura / parvero i veli d'un gran sogno astrale"), o, sempre del Rino, l'eco dannunziana: ‟Ella conobbe tutto il Male e il Bene", e il cliché (che ricorda i famosi versi di Sologub citati sopra): ‟Porgi le labbra al mio Veleno chiaro / che brilla in tazze fine di smeraldo", o La sfinge muta (1907) di A. Rubino, o La Signora de l'ombra e del silenzio di U. Soffiotti (da Allegoria della vendemmia, Messina 1902), o Spirituali amori di G. Vannicola (Da un velo, Roma 1906), leggendo queste e simili tarde riverberazioni periferiche di una maniera che fiorì tra la Senna e la Schelda negli anni novanta del secolo scorso (già nel 1897, avverte Ph. Jullian, il simbolismo era caduto nel ridicolo lassù), non si possono prendere molto sul serio neanche le fonti prime di questa corrente.
Le involontarie parodie sono più micidiali di quelle deliberate: il fuoco e il gelo del Petrarca è esautorato dai suoi innumerevoli epigoni, e l'eroe fatale di Byron si liquefà come un fantoccio di neve al calore dei suoi entusiasti seguaci calabresi. Effettivamente di decadentismo italiano non sarebbe il caso di parlare in sede di vera e propria critica letteraria, ma se mai di storia del costume, non fosse per il caso di Gabriele D'Annunzio.
27. D'Annunzio
Il D'Annunzio presenta il fenomeno d'un figlio di razza semibarbara (il ‟remoto e inculto" Abruzzo, una regione d'Italia che ancora partecipava d'una vita istintiva e primordiale alla fine del secolo scorso) che, venuto a contatto con una civiltà più che matura, l'europea della fin de siècle, se l'assimilò rapidamente e sommariamente, con le inevitabili dissonanze derivanti da questo processo d'adattazione imperfetta (G. A. Borgese parla d'‟una barbarie gravata ed oppressa di cultura"). Di sotto la vernice, lo ‟spirito crudo" di tanto in tanto traspare. Onde il suo duplice aspetto, che potrebbe altrimenti meravigliare, di decadente ed esteta e di combattente ardito fino alla temerarietà: il carattere primitivo, fermo, contaminò d'una certa rozzezza la figura dell'esteta, la cultura decadente contaminò d'altronde d'un certo istrionismo la figura dell'uomo d'azione: una mancanza di misura e di gusto impedì a quest'uomo straordinariamente dotato di giungere alla vera grandezza.
Anche per D'Annunzio, tuttavia, va osservato che più che di poetica del decadentismo in senso lato (che comprende sì una preferenza per certi motivi, ma soprattutto, come ha notato W. Binni - v., 1936, p. 28 - ‟un approfondimento del mondo e dell'io fino alla scoperta d'un regno metempirico e metaspirituale", culminante nella ‟ricerca della musica come mezzo di conoscenza sopralogica, mistica") si dovrebbe parlare di tematica del decadentismo. Ai raffinamenti più carichi di sviluppi del decadentismo straniero (e in questo caso straniero vale quasi esclusivamente francese), quali apparivano in Rimbaud, Lautréamont, Mallarmé, il D'Annunzio rimase cieco e sordo come press'a poco i rozzi sperimentatori in quel senso che l'avevano preceduto in Italia, quali gli ‛scapigliati' milanesi: fu sensibile alla facile musicalità di H. de Régnier e di Swinburne, non a quella più complessa di Mallarmé (nota giustamente il Binni che D'Annunzio conobbe e cercò più i decadenti francesi veri e propri che non i simbolisti), non cercò di quintessenziare e dissolvere la materia verbale, anzi ne accentuò la carnalità, sicché la tematica sensuale, anziché alleggerirsi in lui (come nella Hérodiade e nell'Aprés-midi d'un faune), stagnò troppo spesso in abbagliante mosaico. Così, come s'è detto, si ripeté in Italia pel decadentismo quel che era già accaduto pel romanticismo: ci si fermò allo stadio dell'ingenua appropriazione d'una tematica, provincialmente (per citare ancora il Binni: ‟confermeremo come il D'Annunzio sia restato sempre essenzialmente un provinciale, anche se europeizzato; ché la sua poetica, pur aiutata nel suo sviluppo da quelle straniere, in realtà manca di ciò che costituisce la profondità e la caratteristica teorica di quelle [...] ché essa mantiene un tono di maggiore ingenuità, di persuasione pratica che la fa confinare con una sincera retorica"; v. Binni, 1936, p. 62).
Quanto alla tematica, a dare alla donna fatale dannunziana un colorito decisamente sadico fu determinante l'influsso dei Poems and ballads del Swinburne, che il poeta italiano conobbe nella versione francese di G. Mourey (1891), ma il sadismo dannunziano, acquisito di seconda mano (diversa, come ha osservato C. Salinari, è la sensualità giovanile del poeta), non ha né la coerenza né la capacità di autoironia che possiede nel Swinburne; prima di leggere le poesie dell'Inglese, D'Annunzio poteva, per bocca di Andrea Sperelli, rabbrividire agli ‟orrori del libertinaggio inglese" di cui aveva letto nella ‟Pall Mall gazette" e nel Journal dei Goncourt; molto più tardi, dopo aver ampiamente utilizzato passi swinburniani nelle sue opere, e rivaleggiato col poeta inglese in evocazioni di sensualità morbosa, poteva nella Leda senza cigno (1912) scostarsi come da cosa affatto aliena da uno spettacolo di ‟sensualità ignominiosa" simile a quello offerto dal marchese di Mount Edgcumbe a Andrea Sperelli. Sicché può pensarsi che anche questo motivo supremamente decadente s'acclimatasse in D'Annunzio per un processo di superfetazione retorica, coincidendo con l'avvento d'un'altra figura decadente nella tematica dannunziana, quella del Superuomo. Così il Salinari si rappresenta il processo che avrebbe avuto luogo nel poeta dopo il momento di sensualità stanca e viziata (che comprende l'Intermezzo, la Chimera, e via via le altre opere fino all'Innocente e al Poema paradisiaco): ‟A questo secondo periodo succede quello del Superuomo, quando a contrasto con la volontà di potenza del soggetto (sia che si esplichi nella politica, nell'arte o in altri campi) c'è la femmina con la sua lussuria e la sua attrazione invincibile.
Di qui due processi psicologici concomitanti: da una parte la riduzione della donna a pura animalità, a Superfemmina come è stato detto, accentuando in tal modo la sua capacità di presa sui sensi dell'uomo e di seduzione (‛Teresa Raffo non m'era parsa mai desiderabile come ora che non potevo disgiungerla da una immagine fallica, da una sozzura'), dall'altra, a contrasto, l'ostilità che sorge all'interno dell'attrazione, la necessità di sopprimere la donna per liberarsi dal suo dominio, e quindi una nuova fonte di lussuria ancora più torbida ed acre" (v. Salinari, 1960, p. 73).
Mentre l'influsso del D'Annunzio sul costume italiano è stato enorme (da innocenti estetismi come i motti con cui molti letterati italiani dell'epoca solevano decorare la loro carta da lettere, i loro appartamenti, ecc., fino alla deliberata maschera ‛eroica' imposta dal fascismo alle manifestazioni della vita pubblica di tutto un popolo), il suo apporto effettivo alla tradizione letteraria italiana appare assai limitato, per non dire modesto (se ne è visto qualche esempio sopra), ai critici degli anni sessanta. Se ancora nel 1936 il Binni parlava dell'Alcione come di ‟grande poesia", pur trovando che ‟nei confronti dei poeti nuovi e del decadentismo più sottile, manca in questa poetica un valore di suggestione" (v. Binni, 1936, p. 92), il Salinari nel 1960, senz'ombra d'ironia per il Vate che in modo così ingombrante accentuò nella sua vita l'affermazione di sé, trovava che ‟si toccano le cime più alte dell'opera dannunziana quando il tema della sconfitta si spiega in tutta la sua terribile consapevolezza: ne Il compagno dagli occhi senza cigli e nelle pagine del Notturno dedicate alla madre moribonda [...]. Questo è il D'Annunzio che ci rimane. Fra le rovine di un immenso edificio fondato sulla sabbia, il filo di autenticità risulta sottilissimo. E il suo motivo vero è la sconfitta. Questo e non altro sopravvive di un'avventura letteraria (e non solo letteraria!) che è stata, forse, la più prestigiosa del nostro secolo" (v. Salinari, 1960, pp. 104-105). A tale conclusione vien fatto di pensare all'Ariosto che esaltò d'Ippolito d'Este, neo-eletto vescovo di Ferrara, quella virtù che l'illustre prelato possedeva meno di ogni altra, la castità.
E a documentare il cambiamento del gusto, basti osservare che il compilatore della scelta di poesie e di prose poetiche di D'Annunzio vivente, R. Ducci (Milano 1973), ha escluso dall'antologia ‟alcune liriche spesso ritenute fra le più alte, come La pioggia nel pineto e La morte del cervo" per la ‟valutazione negativa di un certo puccinianesimo nella prima, e nella seconda della notevole dose di grandiloquenza", ed ha tentato la ‟delicata operazione" di ‟sceverare il D'Annunzio artista dal D'Annunzio artefice e anche grandissimo artefice" (un tipo di delicata operazione che, praticata su larga scala, ridurrebbe a un deserto l'Olimpo letterario e artistico).
28. Pascoli
Sin qui la posizione del decadentismo italiano nel seno del decadentismo europeo pare chiaramente accertabile. Ma che pensare della posizione di Giovanni Pascoli, che pure figura nelle storie letterarie come una delle principali dramatis personae del decadentismo italiano, anzi quella più feconda di ulteriori sviluppi, ché a lui si riattaccano i crepuscolari, e verso di lui, e non certo verso D'Annunzio, vanno le simpatie, quando ce ne sono, dei poeti intorno al 1970?
Screditata oramai la colta, ma poco pertinente dissertazione di A. Galletti sulla genealogia allogena della poesia del Pascoli (La poesia e l'arte di Giovanni Pascoli, Roma 1918), si ritiene codesta poesia un prodotto autoctono, ma decadente come?
A tutta prima si penserebbe che una tale classificazione poggi sui Poemi conviviali o su carmi latini quali Crepereia Tryphaena, la saffica ispirata dalla scoperta, a Roma, d'un sarcofago col cadavere d'una fanciulla dalla lunga capigliatura: l'alessandrinismo, l'estenuato languore di molte di queste poesie possono far pensare a quel lene crepuscolo degli dei che sono gli Idyls of the King del Tennyson che, se non è un decadente, talora dà l'impressione di preludere al decadentismo. Ma il Pascoli non è ritenuto decadente per la sua poesia colta quanto proprio per la parte più spontanea della sua produzione: ‟Solo il Pascoli riesce in quegli anni in Italia a svolgere fino in fondo una sua originale esperienza di poeta decadente; e la svolge inconsapevolmente, per un bisogno irresistibile della sua indole, per una via tutta sua e con poverissimi sussidi culturali, anzi in contrasto quasi dovunque con le premesse della sua cultura letteraria, umanistica e provinciale, e talora con le sue stesse intenzioni umane ed artistiche" (N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, vol. III, Firenze 1973, p. 357). Il Binni trova caratteristiche decadenti in Pascoli nella sua ricerca del vocabolo raro, della parola poco nota, del dialettalismo; nel principio centrale della sua poetica, che è irrigidimento schematico della sua sensibilità: ingrandire il piccolo, impiccolire il grande (‟cosa di più tipicamente decadente, anticlassico?"). Ma tutto ciò persuade poco, ché tali caratteristiche possono trovarsi in scrittori che nessuno penserebbe di chiamar decadenti (anche W. M. Thackeray, per esempio, mirava a ingrandire il piccolo e ad impiccolire il grande, e se c'è scrittore lontano dalla decadenza è proprio codesto romanziere). E se pel Binni la risoluzione in musica è la tendenza più cospicua del decadentismo, egli deve pur riconoscere che ‟si deve negare nel Pascoli una ricerca di pura musica e di puro simbolismo", e il senso di mistero a cui egli accenna è ben diverso da quello genuinamente decadente di un Maeterlinck. Nota il Binni come in Digitale purpurea ‟le mosse, lo slancio artefatto, l'accentuazione di innocenza e l'accenno morboso, il clima tra virginale e corrotto, lo spazieggiamento eccessivo siano gli stessi che nel Poema paradisiaco", e G. Getto (v., 1957) ritiene la stessa poesia ‟il fiore forse più corrotto fra quanti, dopo i fiori di Carducci [...] o dopo i fiori stessi di D'Annunzio, produsse, dai semi dei fiori del male, il nostro decadentismo".
Ma bastano una o due poesie (nel secondo volume dei Poeti simbolisti e liberty in Italia è incluso, dai Primi poemetti, Il transito, cioè la morte del cigno; ma allora dev'esser detta simbolista e liberty anche la poesia The dying swan sullo stesso tema, non meno, anzi forse più languorosa di quella italiana, del Tennyson, pubblicata in Poems, chiefly lyrical nel 1830)? Non basta un cigno a far decadenza più di quanto basti una rondine a far primavera: bastano una o due poesie per classificare un autore? Né dal riepilogo che dà il Salinari delle caratteristiche della poesia pascoliana rileviamo dati che collimino in qualche modo con quelli universalmente riconosciuti come decadentistici, eppure quel critico chiama il mito pascoliano del ‛fanciullino' ‟la prima scoperta decadente dell'infanzia della nostra letteratura".
Se si vuole dunque qualificare il Pascoli come decadente, bisognerà pensare a un diverso decadentismo da quello di cui ci siamo occupati sinora, un decadentismo che con la poetica e con la tematica del decadentismo di marca straniera (anglo-francese) ha ben poco in comune. Abbiamo poco fa parlato di Thackeray, che avrebbe potuto sottoscrivere questo passo del Fanciullino: ‟Queste piccole cose sono la poesia, solo queste; le grandi sono sovente vampate di retorica, che è una bella, bellissima arte, ma non è poesia". Il Pascoli sottolinea fino all'esasperazione e al bamboleggiamento la bellezza delle cose umili, ‟le minime nappine, color gridellino, della pimpinella, sul greppo", e il Salinari chiama ‟piccolo-borghese la sua poetica dell'oggetto e delle piccole cose". Pel Pascoli la poesia ‟parla ora a questo ora a quello, qua asciuga una lagrima, là aggiunge un sorriso, con delicata modestia, come una silenziosa benefattrice", e nella lirica che apre i Canti di Castelvecchio e che fu scritta quasi contemporaneamente al Fanciullino usa per la poesia il simbolo della lampada che arde soave e consola il viandante che trita ‟piangendo nel cuore, la pallida via della vita". Pensiamo ai Tears, idle tears tennysoniani leggendo: ‟suono di chiesa, suono di chiostro, / suono di casa, suono di culla, / suono di mamma, suono del nostro / dolce e passato pianger di nulla".
Tutto ciò ci riconduce inevitabilmente alla letteratura borghese dell'Ottocento, al periodo Biedermeier. Il decadentismo del Pascoli va appunto messo in rapporto con codesto periodo, e non, come il decadentismo di marca franco-inglese e dannunziana, col romanticismo vero e proprio. E come i decadenti di quest'ultima specie portano al parossismo e alla risoluzione i temi romantici, così il Pascoli spinge all'estremo, a una deliquescenza decadentistica, la tematica Biedermeier. Il suo blando decadentismo può davvero dirsi di marca italiana, perché l'Italia, che non ebbe il romanticismo vero e proprio, ebbe però una fiorente letteratura Biedermeier che coprì la più gran parte dell'Ottocento. Se quello di D'Annunzio è il decadentismo degli alberi d'alto fusto, quella del Pascoli è la macerazione delle felci, del sottobosco.
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