Deci
«I dua Deci», Publio Decio Mure e il figlio omonimo, sono citati in coppia da M. in Discorsi III i 28, accanto ad altri personaggi dell’antica Roma, come eroi le cui azioni straordinarie, inducendo all’imitazione, favorivano quel periodico ‘ritorno’ alla virtù delle origini che è indispensabile alla durata di un corpo politico. Decio padre, console nel 340 a.C., è ricordato con il collega Tito Manlio Torquato in Discorsi II xvi 2, 5 e 8 per la vittoria campale, alle falde del Vesuvio, sui Latini. Qui M. (che cita esplicitamente Livio VIII vi-x) accenna alla morte volontaria di Decio, immolatosi per propiziare gli dei inferi, come gesto in grado di rinvigorire l’«ostinazione» dei soldati, necessaria alla vittoria. Egli è anche ricordato (tribuno militare nella seconda guerra sannitica) come esperto conoscitore di «siti» in Discorsi III xxxix 13-17: con trascrizione di passi liviani (VII xxxiv), M. fa riferimento alla vincente risoluzione di Decio di occupare il colle soprastante l’accampamento nemico, mettendo in salvo l’esercito romano (il collegamento tra la scelta tattica e la conoscenza del ‘sito’ è del tutto machiavelliano).
Decio figlio, console durante la terza guerra sannitica, è ricordato in Discorsi III xlv per la battaglia di Sentino (oggi nelle Marche) nel 295 a.C. (cfr. Livio X xxvii-xxix). M. soltanto allude al gesto compiuto da Decio a imitazione del padre («sacrificò se stesso per le romane legioni»): qui il personaggio è menzionato come esempio di un modo di procedere in battaglia (attaccare subito il nemico) messo a confronto con la più efficace tattica dell’altro console, Quinto Fabio Massimo Rulliano, che passò al contrattacco solo in un secondo momento, ottenendo la vittoria. Il parallelo Fabio-Decio è ricordato anche in Arte della guerra IV 107 (la cui fonte è sempre Livio e non, come accade spesso, gli Strategemata di Sesto Giulio Frontino, che in II i 8 non nomina Decio).