DECRETO (lat. decretum; fr. décret; sp. decreio; ted. Verordnung; ingl. decree, order)
Una qualsiasi manifestazione di volontà di una autorità costituita, in materia giudiziaria, amministrativa o religiosa.
Cenni storici. - Nel diritto romano decretum principis è la sentenza dell'imperatore emanata in prima istanza o in grado d'appello, sentenza che, data la posizione acquistata dal principe già durante il periodo classico, può essere creatrice di un nuovo diritto desunto dalle norme vigenti mediante l'interpretazione. Tali decreta costituiscono uno dei tipi frequenti delle costituzioni imperiali. Decreta magistratuum sono ordinanze emesse dai magistrati, o di loro iniziativa in forza della loro potestà, o in seguito a invito del senato, p. es. in materia di ordinamenti provinciali, in questioni di confini, ecc. Una particolare importanza assumono i decreti dei pretori, ordinanze da questi emanate durante il processo sulla base della causae cognitio e obbligatorie per le parti quando siano emesse pubblicamente e solennemente pro tribunali. Decretum senatus è espressione impropria per designare il senatoconsulto. Decreta decurionum sono deliberazioni prese dal consiglio della città nei limiti della sua competenza e nelle forme prescritte dall'ordinamento cittadino, obbligatorie per tutti gli appartenenti alla città stessa. In questa forma sono di solito compiute le concessioni di onori a cittadini benemeriti. Decreta delle assemblee (concilia) provinciali sono deliberazioni di queste, frequenti per concessioni di onori, talora anche espressioni di lamentele contro i governatori; più tardi, a cominciare dal sec. IV, pareri o desiderî in ordine all'amministrazione della provincia. Decreta collegii sono deliberazioni delle corporazioni private, obbligatorie per gli appartenenti alla corporazione stessa. Decreta gentis sono deliberazioni della gens, che esercitano la loro efficacia morale sui membri di essa. Abbiamo poi i decreta dei collegi religiosi come: i decreta pontificum, pareri del collegio dei pontefici, emanati a richiesta del senato, del magistrato o di privati; i decreta dei decemviri o dei quindecemviri sacris faciundis, ai quali si chiedevano, in caso di pericolo, informazioni intorno alle prescrizioni degli oracoli sibillini; i decreta augurum, responsi del collegio degli auguri intorno alla conformità o regolarità degli atti dei magistrati nei riguardi degli auspicia.
Nel Medioevo la parola decreto non è cosi frequentemente usata come nell'età romana. Le ordinanze dei re franchi ai tempi merovingi si trovano designate nelle fonti con diversi nomi: auctoritas, edictum, praeceptum, praeceptio, ma anche decretum, decretio; sotto i Carolingi andò invece prevalendo la denominazione capitula, capitularia (v. capitolari). Le lettere che i papi erano venuti emanando di volta in volta, fin dai primi secoli, erano dette decretale, constitutum, auctoritas, decretalis epistola, più tardi decretalis (v. decretali). Alla vasta epitome del più antico diritto ecclesiastico composta da Graziano alla metà del sec. XII, fu dato dall'uso dei dottori il titolo di Decretum (v. graziano; v. anche decretisti; decretalisti). Anche le decisioni dei concilî furono dette decreti, e tale parola si ritrova ancora negli atti del Concilio di Trento. Parimenti furono dette declarationes e decreta le decisioni e le risoluzioni delle Congregazioni romane. Non pare quindi che il decreto, considerato dal lato puramente formale ed esterno di fonte obiettiva del diritto, presenti nel Medioevo il carattere tipico e singolare che aveva assunto invece nel diritto romano. La voce viene conservata, in parte o attraverso deformazioni, nel diritto della Chiesa senza assumere l'aspetto singolare di provvedimento emanante da particolari magistrature. Rimane sempre eguale la sua forma e cioè quella definita dalle fonti romane: decretum dicitur quod causa cognita statuitur.
Diritto vigente. - Si chiama decreto l'atto scritto formalmente, proprio del potere esecutivo, che concerne un caso singolo e concreto; tuttavia, secondo il nostro diritto positivo, anche le autorità giudiziarie emettono decreti, tanto in sede civile e commerciale, quanto in sede penale. In dottrina si parla talora di decreti-norme, riferendosi ai regolamenti; cioè ad atti formalmente amministrativi e sostanzialmente legislativi e tanto in essa, quanto nella vigente legislazione si parla di decreti-legge, riferendosi ad atti emanati dal governo ma normalmente riservati al potere legislativo. In queste espressioni la parola "decreto" sta a designare l'elemento formale dell'atto, in contrapposto all'elemento sostanziale indicato dall'altra parola unitavi. Di regola i decreti provengono da autorità non collegiali e riguardano momenti della cosiddetta amministrazione attiva; non mancano però decreti di autorità collegiali e che si riferiscono allo svolgimento di una funzione giurisdizionale.
I decreti di maggiore importanza sono emanati da autorità governative centrali. Decreti sono di frequente emessi anche da autorità governative locali, in specie dai prefetti, dagl'intendenti di finanza, dai governatori e dai commissarî regionali delle colonie; rari sono invece i decreti delle autorità appartenenti ad enti autarchici, perché ai provvedimenti delle autorità individuali che a questi sono oggi preposte è stato di regola conservato il tradizionale nome di "deliberazioni". Tutti i decreti reali sono sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti che esercita su essi un sindacato di legittimità, e alla stessa formalità, a scopo di controllo finanziario, sono sottoposti tutti i decreti con i quali si approvano contratti d'importo superiore alle lire ventimila, o si autorizzano spese superiori alle lire diecimila a carico dello stato, quando l'autorizzazione non sia contemporanea all'emissione dell'ordine di pagamento. Le modalità del procedimento costitutivo dei decreti variano secondo l'autorità emanante e secondo il contenuto, disponendo in proposito le norme nelle diverse materie.
Decreto-legge.
Con la parola decreto-legge s'intende comunemente nella dottrina italiana l'atto di competenza del potere legislativo emanato dall'esecutivo in casi di urgenza e necessità, con riserva di successiva presentazione al parlamento per essere convertito in legge, sia che la facoltà di emanare tali atti derivi da esplicita norma di legge, sia che manchi un tale fondamento. Va però avvertito che il requisito della presentazione al parlamento per la conversione in legge non è da tutti ritenuto essenziale alla nozione di decreto-legge. Alcuni autori poi estendono il concetto di decreto-legge anche agli atti emanati dal potere esecutivo con efficacia formale di legge in virtù di una delegazione legislativa nel senso tradizionale della parola e in particolare senza obbligo di conversione in legge, cioè ai decreti legislativi. Ma l'estensione del concetto è assolutamente arbitraria. Nella dottrina francese la parola décret-loi viene in modo particolare riferita agli atti di natura legislativa emanati dai governi di fatto che si sono avuti in Francia varie volte in occasione delle varie rivoluzioni. Nella dottrina tedesca la parola corrispondente è Notverordnung, che però letteralmente va tradotta con ordinanza di urgenza e viene spesso riferita a un concetto foggiato in conformità delle disposizioni che nelle costituzioni di parecchi stati tedeschi fin dai primi anni del secolo XIX regolano l'emanazione di questi atti. Nel diritto inglese una figura ravvicinabile a quella del decreto-legge italiano si poteva dire sconosciuta fino alla legge 29 ottobre 1920, che ha accordato con molte restrizioni al governo la facoltà di emanare in casi eccezionali provvedimenti normalmente di competenza del potere legislativo. In Italia la legge 31 gennaio 1926, n. 100, con disposizione di carattere generale (art. 3, n. 3) ha autorizzato il potere esecutivo a emanare decreti-legge.
Prima di questa legge il nostro diritto conosceva solo alcuni casi in cui in linea di eccezione era accordata tale facoltà, p. es. in materia di legislazione speciale sui terremoti (facoltà temporanea) e in materia doganale o di mononolio (quest'ultimo tipo di decreto, giustificato da ragioni fiscali o economiche che esigono l'attuazione immediata del provvedimento, è generalmente denominato decreto-catenaccio). Perciò si disputava vivamente sulla legittimità dell'emanazione di decreti-legge all'infuori di un'esplicita attribuzione di tale facoltà da parte del potere legislativo. Vi erano autori che in tale caso ritenevano i decreti-legge assolutamente illegali, cioè efficaci nell'ambito dell'amministrazione in virtù della subordinazione gerarchica che vincola i funzionarî al superiore, ma non nei confronti del cittadino. In particolare ritenevano che non potessero essere invocati davanti ai giudici, in quanto atti privi di valore che il giudice, per l'art. 4 della legge sul contenzioso amministrativo, chiamato ad applicare gli atti del potere esecutivo solo in quanto conformi alle leggi, non poteva applicare (Cammeo, Racioppi, Siotto Pintor). Di fronte a tale opinione si ponevano coloro che ne affermavano la legalità per lo più fondandosi sulla necessità considerata come fonte autonoma di diritto, indipendentemente da un riconoscimento da parte del legislatore (Romano). Altri ricorreva al concetto di stato di necessità per legittimare l'atto del governo (Ranelletti). Si trova anche in qualche autore un riferimento, per lo più in linea sussidiaria, alla consuetudine (Maiorana e più esplicitamente varie manifestazioni della giurisprudenza). Vi fu pure chi ricorse ai principî proprî del governo parlamentare sostenendo che si doveva vedere nella deliberazione del Consiglio dei ministri di emanare un decreto-legge, una forma indiretta di approvaziorie da parte delle camere e nell'intervento del re nell'emanazione del decreto un atto compiuto quale organo del legislativo (Tommasone). Fra queste due posizioni estreme molti avevano assunto una posizione intermedia, o ammettendo la legittimità dell'atto agli effetti interni, per dir così, ma non nei confronti della magistratura (Codacci-Pisanelli, Orlando), o ammettendo l'efficacia di tutti i decreti-legge, salvo quelli penali per la considerazione che il decreto-legge debba essere concepito come un atto emanato sotto condizione risolutiva e quindi sia inconcepibile infliggere una pena sotto condizione risolutiva (Mortara) e ammettendo la facoltà della autorità giudiziaria di sindacare l'urgenza e la necessità (varie manifestazioni giurisprudenziali e Mortara per i decreti-legge che non riteneva inammissibili). Tutte queste discussioni hanno in gran parte perduto ogni valore per il nostro diritto positivo dopo la legge citata del 1926, ma non integralmente perché per il fatto che la nuova legge accorda al potere esecutivo la facoltà di emanare decreti-legge non incondizionatamente ma solo con certi limiti, nel caso in cui un decreto-legge sia emanato fuori di quei limiti nasce ancora il problema dei decreti-legge emanati all'infuori di ogni autorizzazione del legislativo o addirittura in casi in cui la legge esplicitamente o implicitamente li vieta.
Venendo a considerare la legge del 31 gennaio 1926, n. 100, i principî fondamentali che occorre ricordare sono i seguenti: a) la facoltà del potere esecutivo di emanare in qualsiasi momento, anche a camere aperte, decreti-legge (decreti regi previa deliberazione del consiglio dei ministri), cioè aventi forza di leggi, "nei casi straordinarî" nei quali ragioni di urgente e assoluta necessità lo richiedano, cioè, come risulta dai lavori parlamentari e in particolare da alcune dichiarazioni del ministro Rocco (Camera, Leg. XXVII, p. 4392), nei casi in cui l'esistenza o i fini essenziali dello stato sarebbero compromessi se non si ricorresse a questa eccezionale forma di provvedimento; b) la presentazione dei decreti-legge perché siano convertiti alla Camera o al Senato entro un termine fissato dalla legge (terza seduta successiva alla pubblicazione); c) la decadenza del decreto-legge ex nunc, cioè con efficacia di legge per il periodo intermedio tra il momento dell'entrata in vigore e quello della decadenza e con la conseguenza del ritorno in vigore delle disposizioni abrogate col decreto-legge decaduto nei casi: 1. d'inosservanza del termine stabilito dalla legge per la presentazione alle camere; 2. di rifiuto di conversione (la decadenza in questo caso interviene dal giorno in cui è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, dietro comunicazione del presidente di quella camera che ha rifiutato la conversione, la notizia del rifiuto); 3. di mancata conversione in legge entro due anni dal momento della pubblicazione (la conversione si deve intendere avvenuta alla data della sanzione e promulgazione regia della legge di conversione). Questi tre casi sono esplicitamente previsti nella legge ma si deve ritenere, ragionando sulla base dei principî ispiratori dei casi previsti, che si abbia decadenza anche quando il disegno di conversione in legge del decreto sia ritirato dal governo; o il primo ministro, valendosi della facoltà di cui all'art. 6 della legge 24 dicembre 1925 n. 2263, si opponga a che la proposta di conversione in legge sui decreti-legge sia messa all'ordine del giorno; d) l'efficacia della modificazione di una singola disposizione dal giorno della pubblicazione della legge di conversione (se l'emendamento implica disapprovazione della disposizione emendata si deve ritenere che la parte emendata decada con l'approvazione dell'emendamento); e) mancanza di facoltà nella magistratura di sindacare l'urgenza e necessità che pongono in essere la condizione a cui è subordinata la facoltà del governo di emanare decreti-legge.
Si deve ritenere che non possa essere emanato un decreto-legge confermativo di un altro decreto-legge decaduto o di contenuto identico a un disegno di legge respinto da una delle due camere. La questione si pone naturalmente negli stessi termini in cui, prima della legge 31 gennaio 1926, n. 100, si poneva per i decreti-legge emanati senza autorizzazione del potere legislativo. Però ora la teoria che i decreti-legge emanati senza autorizzazione del potere legislativo siano atti illegittimi ha a proprio favore l'argomento che se non fosse così la legge del 1926 nella parte in cui pone dei limiti all'emanazione dei decreti-legge sarebbe senza senso. Nei lavori parlamentari (Senato, Leg. XXVII, pp. 3984 e 2999) si trova prevista l'ipotesi della rinnovazione di un decreto-legge decaduto per decorrimento del biennio dalla pubblicazione, e in tal caso si trova affermato il principio della legittimità della rinnovazione. Ma si tratta di affermazione formulata senza invocare alcun argomento di natura giuridica e che va ritenuta errata. Certamente poi non potrebbe essere invocata negli altri casi come quello di un decreto-legge decaduto per rifiuto di conversione da parte di una delle due camere. Si deve infine ritenere che i decreti-legge non possano mai avere l'efficacia di una legge di approvazione (per es., di trattati internazionali).
Bibl.: Per la bibliografia relativa alla questione dei decreti-legge prima della legge 31 gennaio 1926, v. l'accuratissimo elenco bibliografico contenuto nella relazione Codacci-Pisanelli al disegno di legge di conversione in legge di un blocco di decreti-legge (Camera, Leg. XXVII, doc. 26-A) e la biblografia contenuta in C. Saltelli, Poere esecutivo e norme giuridiche, Roma 1926, p. 47. Per gli autori citati nel testo quali principali esponenti delle varie teorie v. F. Cammeo, Della manifestazione della volontà dello stato, in Tratt. di diritto amm., di V. E. Orlando, Milano 1912-20, III, nn. 123, 124, 133; F. Racioppi e I. Brunelli, Commento allo statuto, Torino 1909, paragr. 147 a 160; M. Siotto Pintor nelle varie rassegne di dottrina italiana nel Jahrbuch des öffentlichen Rechts, 1908, 1910, 1922, 1923-24, 1927; e in nota a sentenza: Correnti di pensieri dottrinali, parlamentari e giurisprudenziali a proposito dei decreti-legge, in Foro ital., I (1923), col. 2; S. Romano, Sui decreti-legge., ecc., in Riv. di dir. pubbl., 1909, I, p. 251; O. Ranelletti, Lez. di dir. amministrativo, Napoli 1921, p. 47 seg.; A. Maiorana, Lo stato d'assedio, Catania 1894; E. Tommasone, In tema di decreti-legge, in Riv. di politica economica, 1922; A. Codacci-Pisanelli, Sull'ordinanza di urgenza, in Scritti di diritto pubblico, Città di Castello 1900, p. 77 segg.; V. E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, Firenze, 5ª ed., n. 300 segg.; id., Ancora dei decreti-legge, in Riv. di dir. pubblico 1925, I, p. 209 segg.; L. Mortara, Appendice 1ª alla 5ª ed. del 1° volume del Commentario del Codice e delle leggi di proc. civ.
Per la legge 31 gennaio 1926, n. 100, v., oltre ai lavori parlamentari (Legisl. XXVII, Camera, Doc. 543 e 543-A, seduta 20 giugno 1925; Senato, Doc. 272 e 272-A, sedute 12 e 14 dicembre 1925; per i precedenti: il progetto Scialoja approvato dal Senato, Legislatura XXVI, Senato, Doc. 345 e 345-A, sedute 28, 29-31 maggio, 14-15 giugno 1923; e il progetto Leicht cit. in relazione Barone per la Commissione dei 18, Roma 1925, p. 43); O. Ranelletti, La potestà legislativa del governo, in Riv. di dir. pubbl., 1926, I, p. 165; C. Saltelli, Pot. es., cit., Introduzione e parte 3ª, cap. 2°; B. Liuzzi, Le ordinanze di urgenza contemplate dall'art. 3 della legge 31 gennaio 1926, n. 100 (pubbl. del Foro amm., Roma 1928). Per la letteratura straniera v. i Trattati generali di diritto costituz. ed ammin. Per le monografie va segnalata la letteratura tedesca in special modo: J. Hatschek, Der Ursprung der Notverordnung, in Grünhut's Zeitschrift, XXVII (1900), p. 1; L. Spiegel, Die kaiserl. Verordnungen mit provisorischen Gesetzeskraft nach österreichischem Staatsrechte, Praga 1893; B. Arndt, Die Notverordnungen nach dem verfassungsrechte der modernen Staaten, vergleichend dargestellt, Berlino 1909.
Il decreto penale.
Il "decreto" (o "precetto" o "mandato") "penale" si può definire un giudizio penale senza istruttoria e senza dibattimento, una dichiarazione di condanna che è pronunciata inaudita parte. Esso si distacca recisamente dalla oblazione volontaria e dalla conciliazione amministrativa. Queste estinguono l'azione penale (il reato secondo la terminologia del nuovo codice penale) mediante il pagamento della somma dovuta a titolo di pena innanzi che il procedimento si inizi o si esaurisca, laddove il decreto importa l'esame delle prove e si conchiude con una condanna, e quindi richiede un procedimento vero e proprio. Perciò il decreto equivale a una sentenza di condanna, e poiché è emesso senza il necessario intervento dell'imputato, somiglia alla sentenza contumaciale, e solo ne differisce per la mancanza dell'oralità e della pubblicità. Il dibattimento e il contraddittorio si possono avere dopo emesso il decreto di condanna, quando il condannato vi faccia opposizione.
Nel diritto intermedio non mancano esempî di questo procedimento cosiddetto monitorio; ma ogni traccia di esso fu poi spazzata dalla riforma che, per la memoria degli abusi del processo inquisitorio, aveva affermato il principio che nessuna condanna potesse essere pronunziata se non in seguito a dibattimento. In Italia il procedimento per decreto fu ammesso per la prima volta, e in via eccezionale, nelle regioni colpite dal terremoto calabro-siculo del 1908 (art. 16, r. decr. 5 febbraio 1909, n. 37), mentre in varie legislazioni straniere esso era già entrato nel diritto processuale comune. Il codice austriaco l'ammetteva per tutte le contravvenzioni punibili con l'arresto fino a un mese e con una pena pecuniaria, quando il giudice stimasse di applicare l'arresto per non più di tre giorni o una multa di quindici fiorini. La Germania l'ammette con più larghezza per tutte le contravvenzioni e per i delitti punibili con prigione non superiore a tre mesi o con multa non superiore a seicento marchi. In Italia tra i primi a caldeggiare il sistema furono i positivisti Garofalo e Carelli. Un progetto Calenda, presentato al senato nel 1895, ammetteva il precetto penale anche per le contravvenzioni punite con l'arresto non oltre i cinque giorni. Lo ammise pure il progetto ministeriale Finocchiaro-Aprile del 1905 (articoli 318 a 325) e il progetto Orlando del 1909 che ne fece un caldo elogio, mettendo in luce come esso sia nell'interesse dell'imputato, il quale evita cosi le noie di un giudizio. Il decreto penale fu quindi accolto definitivamente nel codice di procedura penale del 1931 e disciplinato negli articoli 298 a 302, i quali ne attribuivano l'applicabilità al pretore nelle sole contravvenzioni di sua competenza, quand'egli riteneva di infliggere un'ammenda non superiore a lire 100. L'ottima prova che fece l'istituto valse a vincere le numerose ostilità che in un primo tempo si erano manifestate contro di essa, e ne agevolò una prudente estensione anche a procedimenti per delitti. La legge 3 aprile 1926, n. 563, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro stabilì, infatti, che per talune forme dei delitti di serrata e di sciopero si applicassero al procedimento le norme del codice di procedura penale sul decreto.
Il nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore il 1° luglio 1931, configura il giudizio per decreto negli articoli 506 e 510 stabilendo i seguenti principî fondamentali: a) il decreto è applicabile dal pretore quando si tratti di reati (delitti e contravvenzioni) punibili con pena pecuniaria (anche alternativa con quella detentiva) che il giudice ritenga d'infliggere in concreto in misura non superiore a lire 5000; b) l'applicazione, nei casi concreti, del procedimento per decreto è facoltativa, anche quando dalla legge sia stabilita, in astratto, la sola pena pecuniaria inferiore a lire 5000; a maggior ragione quando siano stabilite pene superiori o diverse, ché in tal caso è anzitutto rimesso alla coscienza del giudice determinare se la pena pecuniaria da applicare per il reato debba essere inferiore a lire 5000; c) il procedimento per decreto non è ammesso quando l'imputato sia delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero in tutti quei casi in cui può essere applicata una misura di sicurezza detentiva; d) poiché il decreto ha la sostanza di una sentenza di condanna, deve averne i requisiti formali (art. 507). Con esso il pretore applica la pena, pone a carico del condannato le spese del procedimento, ordina la confisca o la restituzione delle cose sequestrate. Nei casi preveduti dagli articoli 196 e 197 del codice penale dichiara la responsabilità della persona civilmente obbligata per l'ammenda. Può applicare al condannato i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario; e) col decreto non è invece consentito statuire sui danni derivanti da reato. Gl'interessi civili non sono pregiudicati dalla pronuncia del decreto, il quale, però, per espressa disposizione dell'art. 27 del codice di procedura penale, ha autorità di giudicato, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o per il risarcimento del danno, per quanto attiene alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità e alla responsabilità del condannato; f) copia del decreto, insieme col precetto di pagamento della pena e delle spese, è notificata al condannato e, se ne sia il caso, alla persona civilmente obbligata per l'ammenda, i quali possono, entro cinque giorni, proporre opposizione sotto forma di richiesta di dibattimento innanzi lo stesso pretore che ha pronunciato il decreto; g) tale opposizione, che costituisce una particolare forma di impugnazione, ha per effetto di porre nel nulla il decreto, onde, al dibattimento, il pretore, senza obbligo di giustificare il suo diverso avviso rispetto al decreto, può riformare in peius la precedente decisione e, quindi, infliggere una pena più grave (anche detentiva se essa era alternativa con quella pecuniaria), negare i benefici della sospensione condizionale e della non iscrizione nel certificato del casellario, e applicare misure di sicurezza; h) l'evidenza pratica del decreto penale posa sulla sua facile e pronta eseguibilità. Il decreto diventa esecutivo o per il decorso del termine di cinque giorni dalla notificazione senza che l'interessato (imputato o persona civilmente obbligata) abbia proposto opposizione, o per l'inammissibilità dell'opposizione riconosciuta, anche nel caso di rinuncia, con ordinanza del giudice, o per il fatto di non essersi l'opponente presentato, senza giustificare un legittimo impedimento, all'udienza fissata dal pretore a seguito dell'opposizione; i) contro il decreto, divenuto esecutivo per difetto di tempestiva opposizione o per riconosciuta inammissibilità di questa non è ammesso alcun altro mezzo d'impugnazione. Tuttavia il procuratore del re, al quale il decreto non deve essere notificato, se abbia comunque notizia che un decreto è stato pronunciato fuori dei casi consentiti dalla legge, inizia senz'altro l'azione penale. Il giudice con la sentenza dispone la revoca del decreto. Questa particolare facoltà revocatoria attribuita al procuratore del re nell'interesse della legge, non può essere esercitata se sia sopravvenuta una causa estintiva del reato.
Il r. decreto-legge 23 marzo 1923 n. 796 ha introdotto per le trasgressioni alle disposizioni tributarie il "decreto dell'intendente di finanza", mantenuto poi e più compiutamente disciplinato nella legge 7 gennaio 1929 n. 4, contenente norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie. Questa legge dispone che gl'intendenti di finanza, ai quali è attribuita la cognizione delle contravvenzioni prevedute nelle leggi finanziarie punibili con la sola pena dell'ammenda, pronunciano condanna con decreto motivato, che diviene esecutivo se contro di esso non è fatta opposizione entro quindici giorni dalla notificazione. In caso di tempestiva opposizione, gli atti sono trasmessi all'autorità giudiziaria ordinaria per il procedimento, e, se l'opponente si presenta al dibattimento, il decreto è revocato di diritto e il giudizio si svolge ex novo. L'articolo 44 della stessa legge stabilisce espressamente che il decreto di condanna dell'intendente di finanza è equiparato ad ogni effetto al decreto pronunciato dal pretore.
Bibl.: S. Longhi, L'Istituto del decreto penale, in Scuola positiva, XX (1910); id., Dell'istruzione, in Commento del codice di proc. pen., diretto dal Mortara, Torino, V, p. 840; E. Bortolotto, Condanna per decreto, in Riv. pen., XVII (1905), p. 37; B. Alimena, Sui princ. direttivi di un nuovo codice di proc. pen., in Giust. pen., VI, p. 1335; V. Lanza, Sist. di diritto process. pen. ital., II, Roma 1922, p. 96; I. Satta, Il decr. penale finanz., Roma 1924; V. Manzini, Trattato proc. penale, II, Torino 1925, p. 220; G. Massari, Lineam. del proc. penal. ital., Napoli 1929, p. 17; V. Manzini, Istit. di proc. pen., Torino 1931, p. 301.