democrazia
. Il termine è usato da D. una sola volta, nella forma latina democratìa, in un elenco tripartito di forme di governo degeneri: tunc enim solum politiae diriguntur obliquae - democratiae scilicet, oligarchiae atque tyrampnides - quae in servitutem cogunt genus humanum (Mn I XII 9). Ignaro del testo di Erodoto (che il Filelfo avrebbe poi recato da Costantinopoli a Venezia non prima del 1427), D. non menziona mai lo storico greco che aveva posto in bocca al persiano Otane (III 80) una lucida apologia del regime democratico, sottolineandone i pregi peculiari: eguaglianza rigorosa, sovranità popolare, sorteggio delle cariche, obbligo del rendiconto. La tradizione che D. raccoglie è invece quella aristotelica (Polit. 1279 b), secondo la quale il criterio decisivo per distinguere i regimi buoni da quelli cattivi consiste nel vedere se essi governino o meno a favore dei governati. La d., o governo della massa a vantaggio dei soli poveri, è la degenerazione della ‛ politia ' (governo della massa nell'interesse comune), così come la tirannide, o governo in favore del monarca, e l'oligarchia, o governo in favore dei ricchi, stanno in antitesi con le forme rette dai regimi monarchici o aristocratici. Mentre in antico s'identificava con il governo di tutti i cittadini atti a portare le armi (Polit. 1291 b, 1297 b), la d. s'è ridotta a sopraffazione da parte dei poveri, perché applica meccanicamente il principio maggioritario, senza temperare l'astratta uguaglianza con la considerazione del merito effettivo.
Intorno al 1265 questa dottrina viene recepita da s. Tommaso nel De Regimine principum (I II 6), dove la d. viene definita l'" iniquum regimen " dei molti, che con la forza opprimono i ricchi, in modo che il popolo diventa quasi un molteplice tiranno. Cinque anni dopo, nella Summa, l'Aquinate mostra di aver spezzato la simmetria dello schema e spoglia il termine da ogni connotazione negativa: ai gradi eminenti si sale nelle aristocrazie in base al valore, nelle oligarchie in base alle ricchezze, nelle d. " secundum libertatem " (II II 61 2); le leggi umane si caratterizzano formalmente in funzione del " regimen civitatis ", cioè del detentore della sovranità: nel regno si ha la " constitutio ", nell'aristocrazia il " senatusconsultus ", nell'oligarchia lo " ius praetorium ", mentre nella d. o " regimen populi " si ha il plebiscito; soltanto la tirannide si configura come la forma affatto corrotta e priva perciò di ogni legge (II II 95 4). Infine, nel caldeggiare la costituzione mista, s. Tommaso sottolinea che essa comprende il regno, perché uno vi primeggia, l'aristocrazia, perché molti vi hanno gradi secondo il valore, e la d. o " potestas populi ", perché tutti possono essere eletti alle cariche ed è il popolo che le conferisce (II II 105 1).
Sembra dunque che la fonte diretta di D. vada semmai ricercata nel De Regimine principum di Egidio Romano (v.), composto tra il 1277 e il '79, dove si legge questa definizione: " Si populus sic dominans non intendit bonum omnium secundum suum statum, sed vult tyrannizare et opprimere divites, est principatus perversus et in Graeco nomine dicitur democratia. Nos autem ipsum appellare possumus perversionem populi " (III II 2).
In realtà, D. attua in maniera inversa la riduzione tomistica e, invece di accentrare tutti i caratteri degeneri nella sola tirannide, attribuisce alla sola monarchia tutti quelli benefici: solo il monarca guida e stimola il cittadino a perseguire il bene, senza coartare la sua volontà e senza ridurlo in servitù, imponendogli con la forza (come fanno tutte le altre forme di reggimento) la volontà del dominante; l'obbligazione politica non instaura un vero rapporto di subordinazione e conferisce a chi governa solo una funzione paterna di amorosa tutela, additando e rendendo esplicita l'unica norma veramente cogente, che è quella universale della ragione. Di contro alla faziosa democratia stanno i populi libertatis zelatores, sempre di Mn I XII 9, cioè quanti hanno a cuore che il popolo non sia ridotto in schiavitù.