corsi, dialetti
La Corsica, seconda isola del Tirreno per estensione (8569 kmq), è situata a nord della Sardegna a una distanza di sole 7 miglia (Bocche di Bonifacio). Dista dalla costa toscana circa 50 miglia, e le isole dell’Arcipelago Toscano costituiscono un ponte che ha favorito la continuità dei contatti fra il versante orientale dell’isola e il continente.
La popolazione, di circa 300.000 abitanti, si distribuisce senza rilevanti differenze numeriche, e con maggiore concentrazione nelle città principali, fra i due dipartimenti di Haute Corse con capoluogo Ajaccio e Corse du Sud con capoluogo Bastia. L’isola è prevalentemente montuosa e la principale dorsale, le cui vette superano i 2000 metri, corre da nord-est a sud-ovest dividendo il territorio nelle due subregioni nord-orientale e sud-occidentale, tradizionalmente denominate Corsica suprana o Cismònte («di qua dai monti») e Corsica suttana o Pumònte («di là dai monti»). La conformazione dell’isola è alla base dello sviluppo di una cultura agro-pastorale modernamente integrata dalle attività legate al turismo.
La storia dell’isola è altrettanto rilevante per l’assetto linguistico quanto la sua geografia. Il periodo in cui Pisa amministrò la Corsica per conto della Santa Sede, dal secolo XI al XIII, segnò la penetrazione del toscano, soprattutto nell’area settentrionale e orientale. Nel 1284, a seguito della sconfitta dei pisani da parte dei genovesi nella battaglia della Meloria, la Corsica entrò nella sfera di Genova. Non mancarono le rivolte nel lungo periodo genovese, che si concluse con la cessione dei diritti sull’isola alla Francia (trattato di Versailles, 1768) e la successiva integrazione nell’Impero nel 1789. Nella prima metà del secolo XVIII i corsi tentarono la via dell’autonomia: Pasquale Paoli, con una rivoluzione di netto stampo illuministico, governò l’isola come stato indipendente dal 1755 fino alla sconfitta nella battaglia di Pontenovo nel 1769. Paoli stabilì la capitale a Corte, dotò la ‘nazione’ di esercito e marineria, di una costituzione redatta in lingua italiana, istituì l’università con sede nella capitale. Col passaggio alla Francia, l’università venne chiusa e riaprì soltanto nel 1980.
Per il quadro linguistico è rilevante la relazione col toscano, poi con l’italiano, come lingua letteraria e come lingua per la comunicazione ufficiale (dall’amministrazione alla giustizia alla scuola) fino alla sostituzione col francese (Nesi 1993; Durand 2003: 42-43). Il processo di francesizzazione avanzò lentamente nel corso dell’Ottocento e coinvolse soprattutto l’italiano che per gli intellettuali corsi (ma non solo, si pensi a Niccolò Tommaseo), legati culturalmente all’Italia, si identificava con la ‘lingua materna’.
In realtà la relazione fra corso e italiano era la stessa che l’italiano aveva con i dialetti nelle altre regioni della penisola e nelle isole, dove la dialettofonia era generalizzata e la lingua, posseduta da una minoranza, era soprattutto d’uso scritto. Il corso era, dunque, lingua del parlato quotidiano, esposta per contatto all’influenza del toscano, poi e in misura minore del genovese, scritta (o meglio trascritta) per la prima volta nell’Ottocento quando l’attenzione alla cultura tradizionale portò alla pubblicazione di canti popolari. Scrive Durand (2003: 44): «I dialetti còrsi, che certamente rientravano nella comunione linguistica precorritrice della lingua italiana si distaccano progressivamente da tale comunione». Questa deriva ebbe come conseguenza l’allontanamento dalle innovazioni dell’italiano (Marchetti 1989) e più generalmente dall’uso di questa lingua.
Nelle parlate autoctone (a parte Bonifacio, colonia ligure, e Cargesi, colonia greca) Falcucci (1875), cui si deve la prima descrizione, individuò due raggruppamenti dialettali il cui confine corre lungo la catena montuosa da nord-ovest a sud-est, e che si estendono rispettivamente «al di qua da’ monti» o «banda di dentro» e «di là da’ monti» o «banda di fuori»; e denominò il primo gruppo cismontano e l’altro oltremontano (chiamato però dai corsi pumuntincu) (fig. 1). Sono usati anche gli aggettivi supranu e suttanu, anche se oggi si ricorre più spesso a cismuntincu e pumuntincu. Successivi studi di Guarnerio (legati ai dati forniti da Falcucci), e soprattutto di Bottiglioni, basati sulle indagini condotte per l’Atlante linguistico etnografico italiano della Corsica (ALEIC: cfr. Bottiglioni 1933-44), permisero una più definita distribuzione areale che colloca la varietà meridionale al di sotto della linea che da Calcatogghju, sul versante centro-occidentale, giunge a Sari di Portivechju, sul versante sud-orientale.
Il rigido quadro bipartito che individua l’area settentrionale come toscanizzata e quella meridionale come conservativa, legata al sistema sardo, viene rivisto grazie all’acquisizione di nuovi dati: prima le indagini per la Carta dei dialetti italiani, poi quelle del Nouvel atlas linguistique de la Corse (NALC) danno un’immagine più articolata della realtà linguistica dell’isola. Melillo (1977) propone una quadripartizione: la «zona propriamente toscanizzata» situata a nord-est, che comprende la penisola del Capicorsu, Bastia e il suo territorio, il litorale fino ad Aleria, zona che indubbiamente è stata nel tempo la più esposta ai contatti con la penisola; la «zona di compromesso» situata a nord-ovest, con i territori di Corti, Vicu e Calvi, essenzialmente montuosa e con litorale di più difficile approdo; la «zona conservativa» a sud della linea già tradizionalmente individuata; la «zona arcaica» all’estremo sud con Sartene e il suo territorio (fig. 2).
Il quadro appare oggi molto più mosso per un sostanziale cambiamento dell’approccio: l’interpretazione dei dati linguistici prende in considerazione non solo i contatti con l’esterno determinati dagli eventi storico-politici, ma anche l’assetto del territorio con le realtà microregionali legate all’antica divisione in pievi, gli spostamenti per la transumanza dalla montagna alle pianure costiere, l’immigrazione, anche stagionale (soprattutto dalla Toscana appenninica), la continuità dei rapporti con la Sardegna settentrionale. La più recente divisione areale si deve a Dalbera-Stefanaggi (2002), che si avvale di una serie di approfonditi studi, dedicati soprattutto agli aspetti fonetici, e fondati sul ricco materiale della Base de données langue Corse (BDLC). L’assetto del vocalismo, corroborato da altri fenomeni, permette di individuare quattro aree: l’area corso-gallurese; l’area taravese; l’area centro-settentrionale; l’area capocorsina.
L’area corso-gallurese unisce Corsica e Sardegna e comprende il sud della Corsica (regione del Sartenese) e il nord della Sardegna, essendo quello fra Gallura e Logudoro il solo confine netto (Dalbera-Stefanaggi 2002: 69). È caratterizzata da vocalismo tonico a cinque vocali, come nel sardo, risultato della perdita dell’opposizione quantitativa delle vocali latine omologhe, per cui: fīlu > filu, pĭlu > pilu, tēla > téla, pĕde > pédi, pāce > paci, măre > mari, nŏve > nóvi, flōre > flóri, fŭrnu > furru, mūlu > mulu. Le vocali chiuse si aprono in sillaba chiusa (ad es. pèttu, nòtte; ma non se seguite dagli esiti di -ll-: ad es. códdu «collo»), e davanti a nasale (ad es. catèna, vèntu, òmu, pònte). In sillaba chiusa da -r- la é diviene a (àrba «erba», fàrru «ferro»). Le vocali atone sono a, i, u e in posizione finale marcano la morfologia dei sostantivi: singolare femminile in -a (a dònna) e in -i (a mòrti «la morte»); singolare maschile in -u (u capu); maschile e femminile plurali in -i (i capi e i dònni).
L’area taravese è di transizione fra varietà meridionale e varietà nord-occidentale, e corrisponde all’incirca al bacino del fiume Taravu. Il vocalismo tonico è eptavocalico, con la seguente evoluzione dalla base latina: fīlu > filu, pĭlu > pèlu, tēla > téla, pĕde > pédi, pāce > paci, măre > mari, nŏve > nóvi, flōre > fióri, fŭrnu > fòrru, mūlu > mulu. Nell’apertura delle vocali chiuse si ha un trattamento analogo a quello dell’area corso-gallurese soltanto davanti a -n- e davanti a -r- (catèna, òmu, arba).
L’area centro-settentrionale, la più vasta, presenta un vocalismo tonico eptavocalico – di tipo toscano, ma con inversione degli esiti delle vocali aperte – caratterizzato da specificità sub-areali. Nei territori centro-occidentali si ha: fīlu > filu, pĭlu > pèlu, tēla > tèla, pĕde > pédi, nŏve > nóvi, flōre > fiòre, fŭrnu > fòrnu, mūlu > mulu. Soltanto la e chiusa si apre davanti a nasale (catèna), e passa ad a davanti a -r- (arba, farru). In questi ultimi casi è caratteristica dei territori nord-orientali la presenza di [æ] in luogo di è (cat[æ]na, f[æ]ru). Il vocalismo atono in genere presenta quattro vocali i, e, a, u.
L’area capocorsina era segnalata come portatrice di caratteri specifici già da Falcucci (1972: 573), parlante nativo proprio di quella varietà; studi recenti ne mettono in evidenza l’originalità. Anche se il vocalismo segue le condizioni dell’area centro-settentrionale, il caso di Morosiglia, sul versante nord-ovest della penisola, potrebbe rappresentare il relitto di una situazione un tempo più estesa (Dalbera-Stefanaggi 2002: 101). Qui in posizione tonica le vocali latine ĭ, ē ed ĕ si risolvono in é (per cui pélu, téla, péde), mentre ǔ, ō e ŏ si risolvono in ó (per cui fórnu, fióre, fógu). La é si apre davanti a -n- e -r- (bène «viene» ed èrba); tuttavia anche la a seguita da -r-, o in altri specifici contesti, passa a è (bèrba «barba», bèrca «barca» e brècciu «braccio»; quest’ultimo fenomeno si verifica anche nell’area nord-orientale) (fig. 3).
Per quanto riguarda il consonantismo, la distribuzione dei fenomeni segue andamenti non sempre coincidenti con la partizione fin qui seguita. Ad es., il passaggio di -ll-, e talora di -lj-, al suono cacuminale [ɖ], riscontrabile nel sardo e nei dialetti meridionali estremi d’Italia, è presente – seppure con varietà di realizzazioni – in tutta l’area meridionale dell’isola al di sotto dell’unica linea di divisione precocemente individuata (cfr. § 1): pé[ɖ]i «pelle», pa[ɖ]a «paglia». Seguono più o meno la stessa distribuzione l’esito -rr- da -rn-, per cui ai meridionali furru / fòrru «forno» e carri «carne» corrispondono i centro-settentrionali fòrnu, carne / chèrne; e il mantenimento della distinzione fra b e v in posizione iniziale, per cui si ha bónu e vinu contro bónu e binu (Dalbera-Stefanaggi 1991: §§ 246, 247). Tipica delle varietà centro-settentrionali del versante orientale è l’assimilazione di -ld- che passa a -ll- (callu «caldo»). Fatta eccezione per l’area meridionale, con gradi diversi e diversa distribuzione, si assiste all’indebolimento delle consonanti sorde e sonore in posizione intervocalica sia all’interno della parola che in fonosintassi. Prendendo ad es. solo alcune consonanti, si nota che nell’area centro-settentrionale è caratteristica la sonorizzazione: u gabu «il capo», u béde «il piede», a sèda [a ˈzεda] «la seta», a dèla «la tela», a nòge «la noce», u gélu «il cielo», u vógu «il fuoco», u góllu «il collo». Le consonanti sonore possono presentarsi come spiranti o cadere a seconda delle sub-varietà: a [β]òcca e a òcca «la bocca», u nó[ð]u e u nóu «il nodo».
Caratteri comuni alle due aree – considerati indicatori della cosiddetta corsité, dunque riconoscibili e riconosciuti come identificatori di lingua secondo Jean-Baptiste Marcellesi (ma cfr. Thiers 1993: 254-255) – pertengono sia al livello fonetico sia, soprattutto, a quello morfosintattico. La finale u del maschile singolare, per esempio, è diffusa in tutte le parlate corse, ed è un ‘elemento bandiera’, segnalato precocemente fin dai primi resoconti di viaggiatori (Nesi 2002: 961). Si accompagna alla tendenza generale a chiudere le vocali atone (nimìcu «nemico», curtellu «coltello»), o divenute tali per spostamento dell’accento (córciu «povero, meschino», curciaréllu «poveretto, meschinello»). Lasciando da parte l’antecedente base latina e considerando soltanto il risultato, sono presenti le occlusive dorso-palatali sorda e sonora rese in ortografia con chj [ɕ] e ghj [ɟ], e sempre intense se post-toniche: chjamà [ɕaˈma] «chiamare», ghjoculu [ˈɟogulu] «gioco», ochju [ˈoɕ:u] «occhio», piènghje [ˈpjεnɟe] «piangere», aghja [ˈaɟ:a] «aia» (Dalbera-Stefanaggi 1991: 204-205; Thiers 1993: 254; Durand 2003: 142-146).
L’infinito del verbo è ovunque apocopato, per cui avè, pudè, cantà; le aree settentrionale e meridionale divergono per la vocale finale: «leggere» è rispettivamente lége e légia; si ha ritrazione dell’accento come in parte «partire», dorme «dormire». La formazione del condizionale separa il nord (cantarebbe, sintesi di infinito + perfetto di avere), dal sud (cantarìa, sintesi di infinito + imperfetto di avere). L’articolo determinativo è generalmente uniforme sul territorio: davanti a consonante u per il maschile singolare, i per il plurale, a per il femminile singolare, e per il plurale; davanti a vocale l per tutti i generi e i numeri. Il capocorsino presenta lu, li, la, le (variante anche del corso letterario, su cui avrà influito il contatto nel tempo con l’italiano soprattutto come modello scritto). Le preposizioni articolate si presentano con e senza l: ad es., di lu e d’u «dello». Per quanto riguarda i pronomi soggetto, fatte salve le differenze vocaliche, la prima persona singolare – dal latino ĕgo – si realizza come eu, eju, eghju; la terza persona nei due generi e nei due numeri – dal dimostrativo latino ĭlle – si realizza ellu, elli, ella, elle, e con diverso esito fonetico in area meridionale, iddu, iddi, idda, iddi.
Nel sistema dei ➔ clitici si segnala la preferenza per l’ordine accusativo-dativo in posizione preverbale (lu mi dai «me lo dai»); in posizione postverbale la situazione è oggi più variabile (dallumi e dammilu «dammelo»: Durand 2003: 208); in area urbana, segnatamente Ajaccio, ti la dicu, dimmila (Dalbera-Stefanaggi 2002: 44). L’impersonale del verbo si realizza col pronome indefinito omu nell’area settentrionale (omu po dì «si può dire»; omu sa chi «si sa che»), con si nell’area meridionale (si po dì, si sa chi: cfr. Dalbera-Stefanaggi 2002: 43). Con i nomi di parentela si ha l’enclisi del possessivo, per cui babbitu «tuo padre», mammata «tua madre». L’oggetto diretto animato è ovunque introdotto dalla preposizione a: chjama à Marianghjula, chjama à calchissia «chiama qualcuno».
Per il lessico si segnala la presenza di ➔ geosinonimi che si spartiscono il territorio: il tipo lessicale latino cane occupa l’area settentrionale, e il prelatino ghjacaru, un tempo forse più diffuso, quella meridionale; maio, maiori «grande» si distribuisce nel centro-sud e in parte del nord, interrotto da grande; ai nord-occidentali caccaru «nonno», caccara «nonna», corrispondono i centrali babbònu, mammòna, e i sud-orientali misiau, minanna (Giacomo-Marcellesi 1978). Vengono ricondotte al periodo genovese le forme lavéllu «lavandino», baìna «ardesia», carrughju «vicolo»; si inseriscono in un’ampia area che include le isole dell’alto Tirreno, e variamente Provenza e Liguria, parole come tònde «tosare», travaghje «lavorare», murta / mòrtula «mirto»; fitonimi relativi a piante spontanee, come lamàghju «rovo» e murza «elicriso», coincidono con quelli delle isole toscane; frònda «foglia», véculu «culla», muchju «cisto» sono variamente condivisi con dialetti mediani e meridionali.
La toponomastica e le denominazioni del terreno testimoniano lo stadio prelatino: cala «spelonca», pènta «pendio scosceso», pentòne «grossa pietra, masso», ghjàrgalu «borro»; così come i fitonimi caracutu «pungitopo», talavéllu «asfodelo» e gli zoonimi muvra «muflone» e il già citato ghjacaru.
I fenomeni descritti permettono di inserire le varietà corse nella compagine dei dialetti italoromanzi, con i quali si accordano in modo vario. L’indubbia toscanizzazione dell’area settentrionale (ad es. nel vocalismo tonico) e la presenza di tratti coincidenti col toscano antico (ad es. l’impersonale con omo; pòltru «puledro») e anche marginale (ad es. l’enclisi del possessivo attestata in Garfagnana e all’Elba) sono stati determinanti per associare il corso al toscano nelle classificazioni e, in certo modo, per metterne in secondo piano l’originalità. Gli studiosi, tuttavia, hanno rilevato subito la continuità col sardo nell’area meridionale e ipotizzato una maggiore unità linguistica dell’isola precedente il periodo toscano, così come hanno individuato concordanze con i dialetti meridionali (ad es. la sonorizzazione delle consonanti sorde). Recentemente è stata avanzata l’ipotesi di un’area intertirrenica che accorperebbe le isole e l’Italia meridionale (Nesi 2002: 968-969; Durand 2003: 29-30).
È stata a lungo opinione corrente che in Corsica si parli italiano o che il corso stesso sia sostanzialmente italiano. Durante il fascismo, le rivendicazioni irredentiste, non prive di sostegno da parte degli stessi corsi, veicolarono un’immagine di italianità dell’isola che poggiava anche sull’identità linguistica.
Già negli anni ’20 del Novecento movimenti autonomisti prendevano le distanze dal francese, ma anche dall’italiano, per affermare l’autonomia del corso; ma è a partire dagli anni ’60 e ’70 che il discorso sull’identità pone al centro la lingua corsa e la sua standardizzazione, con i problemi che la varietà interna comporta, fino a posizioni che riconoscono e accettano la «multidialettalità nella codificazione» (Durand 2003: 82). Nella quotidianità, quando il parlante abbia a disposizione i due codici, corso e francese, si assiste a un cambio dall’uno all’altro (➔ bilinguismo e diglossia; ➔ commutazione di codice) dipendente dall’argomento e legato – seppure in modo non vincolante – alla classe generazionale (Grob 1987).
Non si hanno testimonianze antiche di corso se non per l’affiorare di tratti locali in scritture che gravitano prima in area pisana e poi genovese, e dunque volgari o italiane; e il problema della resa ortografica si pose in relazione all’interesse per i testi della tradizione orale. Poco prima della metà dell’Ottocento i canti popolari dell’isola furono raccolti e pubblicati da Salvatore Viale e da ➔ Niccolò Tommaseo; la grafia adottata era modellata su quella italiana. Si trattava soprattutto di vóceri e lamenti, canti d’accompagnamento al rito funebre improvvisati su canone. Tuttavia la tradizione isolana ha un repertorio più vasto e vivace, oggi riscoperto: in rima i chiama è risponde, le nanne e le filastrocche, in prosa le favole (fole) e i racconti arguti e scherzosi (gli stalbatoghji, da stalbà «accadere, succedere»).
A fine Ottocento iniziò un processo di affermazione del corso scritto al quale concorsero poeti e scrittori; in particolare si ricorda Santu Casanova, poeta, fondatore del primo giornale in corso «A Tramuntana», e Sebastianu Dalzeto, autore del romanzo Pesciu Anguilla (1930), ambientato a Bastia. Un altro momento significativo per la storia del corso è senz’altro il rinnovato impulso che la nuova generazione di scrittori e poeti, facenti capo alla rivista «U Rigiru», dà alla lingua nell’uso letterario, con gli scarti dalla norma che le sono propri.
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