dialetti
L’esigenza di ordinare in base a precisi parametri il panorama delle parlate dialettali d’Italia è stata avvertita fin dagli albori della dialettologia scientifica, anche se i tentativi compiuti in tal senso hanno risposto solo in parte a due cruciali difficoltà: da un lato l’irriducibile arbitrarietà nella scelta dei tratti caratterizzanti i vari gruppi, dall’altro il ricorso a criteri diversi e spesso eterogenei.
Il primo ad avanzare (1882-1885) una circostanziata proposta di classificazione fu ➔ Graziadio Isaia Ascoli, il quale nella rivista «Archivio glottologico italiano» da lui stesso fondata elaborò una ripartizione in quattro gruppi, di natura tanto tipologica (sincronica) quanto diacronica. Il criterio di base era infatti la maggiore o minore distanza linguistica rispetto al toscano, considerato come il tipo dialettale meno distaccato dalla comune base latina. Abbiamo così:
(a) dialetti appartenenti a sistemi neolatini «non peculiari» all’Italia, perché, in gran parte, allora, fuori dai suoi confini (dialetti provenzali e franco-provenzali, dialetti ladini centrali e ladini orientali o friulani);
(b) dialetti che si distaccano dal sistema italiano vero e proprio, ma non entrano a far parte di alcun «sistema neolatino estraneo all’Italia» (dialetti gallo-italici – distinti in ligure, ‘pedemontano’, cioè piemontese, lombardo ed emiliano – e dialetti sardi);
(c) dialetti che «si scostano, più o meno, dal tipo schiettamente italiano o toscano, ma pur possono formare col toscano uno speciale sistema di dialetti neo-latini» (veneziano, corso, dialetti dell’Umbria, delle Marche e della provincia romana, dialetti di Sicilia e delle «provincie napolitane»);
(d) il toscano e il «linguaggio letterario degli Italiani».
Lo schizzo ascoliano, per precisione e sintesi, conserva ancora oggi gran parte della sua validità, anche se, inevitabilmente, mancano alcune questioni di dettaglio nonché i risultati che, di lì a qualche decennio, sarebbero stati raggiunti con l’analisi delle carte degli atlanti linguistici.
Nel 1924, sul primo numero della sua nuova rivista «L’Italia dialettale», Clemente Merlo propose uno schema classificatorio che, oltre a tener conto delle caratteristiche (soprattutto fonetiche) delle parlate delle varie zone, chiamava in causa il concetto di ➔ sostrato. Secondo Merlo, cioè, il principale fattore alla base dell’odierna ripartizione dialettale era l’influsso esercitato sul latino dalle lingue dell’Italia antica. I gruppi principali definiti dal Merlo sono quindi tre:
(a) dialetti settentrionali (di sostrato celtico), che includono i gallo-italici di Ascoli, più il veneziano;
(b) dialetti toscani (di sostrato etrusco);
(c) dialetti centro-meridionali (di sostrato italico o umbro-sannita).
A parte stanno i dialetti sardi, a sostrato mediterraneo, e quelli della Corsica, che lo stesso sostrato distanzia dai toscani; ai dialetti ladini (che includono i friulani), anch’essi gruppo a sé, Merlo associa il dalmatico dell’isola adriatica di Veglia, che ai tempi di Ascoli non era ancora stato descritto (e che è ormai estinto da oltre un secolo). E sono ancora i sostrati a spiegare le differenze fra il veneziano (a sostrato venetico) e il lombardo, fra il ligure (a sostrato antico ligure) e il piemontese, e fra il siciliano, il calabrese e il pugliese (a sostrato mediterraneo) e il resto del Mezzogiorno.
Questo schema aveva certamente un’impostazione a volte troppo rigida e meccanica e soffriva di alcune ingenuità, ma ha il merito di mettere a fuoco importanti elementi di continuità che nella classificazione ascoliana erano appena accennati. Da esso, inoltre, si ricava che possono essere fondatamente ricollegati al sostrato non solo singoli tratti fonetici, lessicali, ecc., ma anche fatti di altra natura, come i rapporti di tipo geolinguistico (➔ geografia linguistica) e, più precisamente, il fatto che, sotto forma di area dialettale, sussista un antico ‘spazio storico’.
E fu proprio la geolinguistica a offrire il criterio applicato da Gerhard Rohlfs, che, nel 1937, sfruttava appieno la sua lunga esperienza di raccoglitore per l’AIS (➔ atlanti linguistici) e l’analisi approfondita delle sue carte. Sulla base dei dati dell’AIS, Rohlfs individuava i due principali ‘spartiacque’ linguistici della penisola: la linea La Spezia-Rimini e la linea Roma-Ancona (➔ isoglossa; ➔ aree linguistiche; ➔ confine linguistico). Il primo di questi confini, la linea La Spezia-Rimini (che ai margini si spinge anche più a Sud), riunisce i limiti meridionali dei principali tratti linguistici dell’Italia del Nord (e del romanzo occidentale), separandola dalla Toscana; mentre nel secondo, la linea Roma-Ancona, confluiscono i limiti settentrionali dei tratti linguistici più tipici del Centro-Sud, che a sua volta viene così distinto dall’area toscana o toscanizzata (cfr. § 2).
Entrambi i confini non hanno solo valore linguistico, ma coincidono con fattori geografici e storici. La linea La Spezia-Rimini corrisponde alla catena dell’Appennino tosco-emiliano, che, essendo impervia nel suo tratto centrale, fu nella storia la frontiera settentrionale dell’Etruria verso i territori di etnia celtica del Nord Italia e, nella tarda antichità, quella fra l’Italia cosiddetta annonaria (con capitale Milano) e l’Italia suburbicaria (con capitale Roma). La stessa linea, nel medioevo, separava i territori bizantini dell’arcidiocesi di Ravenna da quelli dell’arcidiocesi di Roma. La linea Roma-Ancona, corrispondente per buona parte al corso laziale e umbro del Tevere, fu invece, nell’antichità, la frontiera fra Etruschi (a ovest) e Italici (a est) e, nel medioevo, fra il Patrimonium Petri e i territori longobardi.
L’adozione dell’italiano come riferimento, unico possibile criterio di distinzione fra il vasto insieme definito italo-romanzo e gli altri gruppi neolatini, è stato ripresa, nel 1975, da Giovan Battista Pellegrini, come base per la sua proposta di classificazione in cinque sistemi (italiano settentrionale, friulano o ladino-friulano, toscano o centrale, centro-meridionale, sardo), sulla quale oggi converge, pur con qualche differenza, la maggior parte degli studiosi (per approfondimenti e dettagli si rinvia alle voci sulle singole aree linguistiche).
Tutti i dialetti italo-romanzi sono definiti primari (➔ varietà), in quanto formatisi contemporaneamente a quello che poi sarebbe diventato l’➔italiano standard.
Comprende i dialetti parlati in tutto il Nord Italia (Piemonte centro-orientale, con i sette capoluoghi, Liguria, Lombardia, Trentino, Veneto, parte del Friuli e della Venezia Giulia, Emilia-Romagna), nonché nelle zone contigue delle Marche (fin circa a Fano e a Senigallia) e della Toscana (la Lunigiana, in provincia di Massa, parte della Garfagnana, in provincia di Lucca, e l’alta valle del Senio, in provincia di Firenze, tutte a Nord della La Spezia-Rimini) e, all’estero, in Francia (dialetti di tipo ligure di Mentone e del principato di Monaco), Svizzera (nel canton Ticino e in alcune valli grigionesi, linguisticamente lombarde), Slovenia e Croazia (fra le residue comunità italofone, di dialetto veneto-giuliano e istriano).
La più importante distinzione interna è quella fra dialetti del Nord-Ovest (➔ piemontesi, dialetti), chiamati galloitalici fin dall’Ottocento per via del sostrato celtico (cfr. § 2.2: Piemonte, Liguria, Lombardia e Ticino, Trentino occidentale, Emilia-Romagna, parte settentrionale delle Marche e della Toscana) e dialetti del Nord-Est (veneti e istriani o istrioti: Veneto, Trentino orientale, Venezia Giulia, Istria; ➔ veneti, dialetti; ➔ friulani, dialetti). I dialetti galloitalici delle Marche (Urbino, Pesaro, Fano) sono detti anche gallo-piceni (➔ umbro-marchigiani, dialetti).
I tratti più caratteristici di questo vasto insieme di parlate, che giungono verso Sud fino alla linea La Spezia-Carrara-Rimini-Fano (cfr. § 2.3), sono:
(a) il passaggio, fra vocali, di /-t-/ a /-d-/ (milanese [fraˈdɛl] «fratello», nel Veneto [maˈrido] «marito»), di /-p-/ a /-v-/, attraverso una fase /-b-/ (in Liguria [kaˈvɛli] «capelli», in Emilia [nəˈvoda] «nipote») e di /-k-/ a /-g-/ (in Lombardia [urˈtiga] «ortica», nel Veneto [ˈfigo] «fico»). È la nota sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche, detta anche lenizione. Non di rado /d/ e /g/ possono poi cadere ([maˈrio], [urˈtia], ecc.);
(b) la semplificazione (o scempiamento) delle consonanti doppie o intense: in Piemonte [ˈfjama] «fiamma», veronese [ˈspala] «spalla», ecc.;
(c) il cosiddetto «avanzamento» di /ʧ/ e /ʤ/, che diventano prima /ʦ/ e /ʣ/ e poi, spesso /s/ e /z/ (in Piemonte [ˈsiŋa] «cena», in Liguria [ˈzena] «Genova», nel Veneto [ˈsenere] «cenere»);
(d) il nesso -cl- diviene spesso /ʧ-/ e il corrispondente gl- passa a /ʤ-/ (palatalizzazione): «chiave» è [ʧaf] in Lombardia, [ʧav] a Torino e in Emilia, [ˈʧave] nel Veneto; a Milano, Torino e Genova [ˈʤaŋda] «ghianda», ecc.;
(e) l’uso di mi e ti come pronomi personali soggetto, a cui si aggiungono spesso dei pronomi clitici, cioè privi di accento: milanese [mi ˈgwardi] «io guardo», [ti te ˈgwardet] «tu guardi», [ly l ˈgwarda] «lui guarda», veneziano [mi gɔ ˈdito] «ho detto». La presenza di complessi sistemi di clitici soggetti, obbligatori o facoltativi a seconda della persona verbale, caratterizza gran parte dei dialetti settentrionali: torinese [a ˈvarda] «(lui) guarda», milanese [i ˈmaŋʤen] e veneziano [i ˈmaɲa] «(loro) mangiano».
Le differenze maggiori fra i dialetti galloitalici e quelli veneti sono le seguenti:
(a) la gran parte dei primi ha vocali di tipo ‘misto’ (anteriori arrotondate), come /y/ (identica alla u francese di lune «luna»: torinese [fys] «fuso», [myr] «muro») e /ø/ (come nel francese peu «poco»: milanese [føk] «fuoco», [øʧ] «occhio»), ignote ai secondi (veneziano [ˈmuro], [ˈfɔgo] «fuoco»);
(b) nei primi, tranne che in Liguria, è frequente la caduta delle vocali latine non accentate, finali e non, eccetto che per /-a/, con una vistosa riduzione del numero delle sillabe (in Lombardia [kaˈval] «cavallo», in Piemonte [dne] «denaro», in Emilia [tlɛr] «telaio», in Romagna [ˈdmeŋga] «domenica», ecc.): nei secondi, invece, esse resistono in varia misura: in veneziano, ad es., si ha la caduta solo dopo /n/ e /r/ ([kan] «cane», [ndar] «andare»), ma altrimenti [ˈgato] «gatto», [doˈmenega] «domenica»;
(c) elemento discriminante di un certo rilievo è rappresentato dalla palatalizzazione di /a/ tonica, evidente soprattutto in Piemonte (ad es., negli infiniti della coniugazione e in alcuni suffissi: [kanˈte] «cantare», [tle] «telaio») e in Emilia-Romagna (a Bologna si ha una netta /ɛ/, come in [sɛl] «sale», [aˈmɛr] «amaro»), ma ignota nel Veneto;
(d) anche il trattamento del nesso latino -ct- individua ulteriori sottodistinzioni: nel Piemonte centro-occidentale esso si sviluppa in /-jt/ ([fajt] «fatto» < factu(m), [lajt] «latte» < lacte(m)), nelle zone più orientali e in Lombardia diventa /ʧ/ ([faʧ], [laʧ]), ma nel Veneto /-tː-/ derivante dall’assimilazione regressiva di -ct- si semplifica, come le altre consonanti doppie, dando /-t-/ ([ˈfato] «fatto», [ˈlate] «latte»);
(e) i dialetti galloitalici (ma non il ligure) hanno la negazione postverbale: torinese [i ˈvardu nɛŋ] «non guardo», lombardo [el ˈmaŋʤa ˈmia (ˈmiŋga)] «non mangia»), mentre in veneto la particella negativa sta in posizione preverbale ([mi nɔ ˈmaɲo] «io non mangio».
Situato fra la linea La Spezia-Rimini e la linea Roma-Ancona, ne fanno parte i dialetti parlati in quasi tutta la Toscana (tranne che nelle zone linguisticamente settentrionali indicate al § 2.1) e nelle aree confinanti delle regioni vicine: l’Umbria nord-occidentale (Perugia, Gubbio, Orvieto), le Marche centrali (Fabriano, Ancona) e l’alto Lazio (Viterbo).
I dialetti della Toscana sono di solito distinti in quattro gruppi (➔ toscani, dialetti). La vicinanza strutturale con la lingua italiana è molto forte; molti tratti tipici toscani, ignoti alle altre aree, sono infatti passati all’italiano, e tra questi possiamo ricordare:
(a) il dittongamento di /ɛ/ accentata in /jɛ/ in sillaba libera (o dittongamento toscano): [ˈpjɛde], [ˈvjɛni], ma [ˈsɛtːe]; quello parallelo di /ɔ/ in /wɔ/ è ormai scomparso dall’uso regionale, pur restando ben vivo nella lingua comune (a Firenze, infatti, oggi si dice [ˈbɔno] «buono»);
(b) l’➔anafonesi, originariamente fiorentina, cioè la chiusura di /e/ in /i/ se seguita da /ʎː/ e /ɲː/ derivanti, rispettivamente, da -lj- e -nj- latini: [faˈmiʎːa] < famĭlia(m) (e non *[faˈmeʎːa]), [maˈliɲːa] (e non *[maˈleɲːa], come in altre regioni), ma [ˈleɲːo] «legno» < lĭgnu(m); oppure la chiusura di /e/ in /i/ e di /o/ in /u/, se seguite da nasale + /g/ o (più raramente) /k/ ([ˈliŋgwa] contrapposto a [ˈleŋgwa], e simili, del resto d’Italia);
(c) il passaggio di -rj- a /j/ ([forˈnajo] < fornariu(m)), che oppone la Toscana al resto d’Italia;
(d) il ➔ raddoppiamento sintattico ([a ˈkːasa] «a casa»), che la oppone, invece, ai dialetti settentrionali;
(e) la tripartizione dei dimostrativi e di alcuni avverbi di luogo (questo, codesto e quello; qui, costì e lì), che sconfina in Umbria e nel Lazio, ma è ormai uscito dall’uso nell’italiano anche scritto delle altre regioni.
Esistono, comunque, tratti solo toscani e non italiani, fra cui spiccano:
(f) la cosiddetta ➔ gorgia toscana, cioè la pronuncia spirante di /-k-/, /-t-/ e /-p-/ tra vocali (a Firenze [la ˈχaza] «la casa», [anˈdaθo] «andato», [ilˈluϕo] «il lupo»);
(g) la sostituzione della prima persona plurale del presente indicativo con il costrutto si + terza persona sing. (noi si va a Roma «andiamo a Roma»);
(h) le interrogative introdotte da o (o cche aspettano ad avanzare?).
Il romanesco moderno rappresenta l’originale esito di un processo di toscanizzazione piuttosto intenso, subito a partire dal Cinquecento da una varietà, quella romana medievale, che era molto vicina ai dialetti mediani (cfr. § 2.3), e che è comunque riuscita a trasmettere alcune delle sue caratteristiche di base ignote al toscano, ad es.: la mancata chiusura di /e/ prima dell’accento ([de ˈroma] «di Roma»); lo sviluppo di -rj- a /-r-/ ([karʦoˈlaro] «calzolaio»); le assimilazioni consonantiche progressive ([ˈmonːo] «mondo»; ➔ assimilazione; ➔ laziali, dialetti); la distinzione fra [kanˈtamo] «cantiamo», [veˈdemo] «vediamo» e [senˈtimo] «sentiamo».
Pellegrini (1977) non prende in considerazione la linea Roma-Ancona individuata dal Rohlfs e inserisce le parlate del sistema centrale esterne alla Toscana, ma poste a nord della linea stessa, fra i dialetti «mediani» (che così spazierebbero, nel loro complesso, dall’Umbria settentrionale fino al basso Lazio e all’Aquilano). A volte queste parlate vengono anche definite «dialetti mediani di transizione» (così in Sabatini 1997: 4), mentre Castellani li indica come «area mediana non metafonetica». Data però la rilevanza della linea in questione e dei fenomeni che la identificano – i quali rendono oggettivamente difficile procedere a un accorpamento fra varietà molto diverse fra loro – sembra più corretto, per evitare equivoci, attribuire la definizione di mediani esclusivamente ai dialetti che si trovano a sud di essa (cfr. § 2.3).
Si estende dalla linea Roma-Ancona fino alla Sicilia, e si può ripartire in tre aree: l’area mediana, che include il Lazio a est e a sud del corso del Tevere (da Amatrice e Rieti fino ad Anagni, Priverno e Sonnino), l’Umbria sud-orientale (con Foligno, Spoleto, Terni, Norcia), le Marche centro-meridionali (il Maceratese e le sezioni confinanti delle province di Ancona e Ascoli Piceno) e la parte settentrionale dell’Abruzzo aquilano (dall’Aquila ed Avezzano verso ovest e nord); l’area meridionale, detta anche altomeridionale o meridionale intermedia, che include tre regioni per intero (Molise, Campania, Basilicata), altre cinque in grande o in piccola parte: le Marche meridionali fra l’Aso e il Tronto (inclusa Ascoli Piceno), il Lazio meridionale un tempo campano (con Fondi, Gaeta, Sora, Cassino), quasi tutto l’Abruzzo (tranne le zone mediane dell’Aquilano), la Puglia centro-settentrionale, fino alla linea Taranto-Brindisi, la Calabria più settentrionale, fino alla linea Diamante-Cassano; l’area meridionale estrema, che comprende la Sicilia, gran parte della Calabria e il Salento (la Puglia a sud della linea Taranto-Brindisi) (➔ meridionali, dialetti).
I fenomeni comuni a questi dialetti che si arrestano, verso nord, alla linea Roma-Ancona sono:
(a) la metafonesi, cioè l’innalzamento delle vocali accentate /e/ e /o/, che diventano rispettivamente /i/ e /u/ per influsso delle vocali finali -i e -u latine originarie (a Napoli [aˈʧitə] «aceto», [ˈpilə] «pelo/-i», [ˈmunːə] «mondo», ecc.), e di /ɛ/ e /ɔ/, che invece, nelle stesse condizioni, possono dittongarsi (dittongamento napoletano: [ˈpjetːə] «petto, -i», [ˈdjendə] «denti», [ˈwosːə] «osso»; ➔ dittongo) oppure chiudersi in /e/ e /o/ (a L’Aquila [ˈpetːu], [ˈdendi], [ˈosːu]);
(b) il ➔ betacismo, cioè il doppio esito di /v-/ e /b-/ , che è /v-/ in posizione iniziale e tra vocali, /bː/ dopo consonante o in posizione di raddoppiamento sintattico: a Napoli [na ˈvɔtə] «una volta», ma [tre ˈbːɔtə] «tre volte», [ˈvatːərə] «battere, picchiare», ma [ʒbaˈtːutə] «sbattuto»;
(c) le assimilazioni consonantiche progressive dei nessi originari -nd-, -mb-, e spesso -ld- (nel Molise [ˈtunːə] per «tondo», [ˈɣamːə] per «gamba», [ˈkalːə] per «caldo»), che comunque includono tutto il Lazio settentrionale;
(d) la cosiddetta lenizione postnasale, cioè il passaggio dei suoni /-k-/, /-t-/, /-p-/ rispettivamente a /-g-/, /-b-/, /-d-/ dopo /-n-/ (un po’ ovunque [ˈbːangə] «banco», [ˈmondə] «monte», [ˈkambə] «campo», ecc.);
(e) il possessivo enclitico, cioè posposto e privo d’accento, con i nomi di parentela, soprattutto nelle prime due persone (a Norcia, ad es., si ha [ˈfijːimu] «mio figlio», [ˈfratetu] «tuo fratello»), anch’esso noto nell’alto Lazio e nelle parlate salentine, e, un tempo, anche a Roma e in Toscana;
(f) la conservazione, con ulteriori sviluppi, del ➔ neutro latino, mediante un particolare articolo determinativo usato con gruppi di nomi che non ammettono una forma plurale (e che spesso erano neutri già in latino), e poi con aggettivi e verbi sostantivati: napoletano [o ˈkːasə] «il formaggio» < caseum, [o ˈfːjerːə] «il ferro (metallo)» < ferrum (ma [o ˈfjerːə] «il ferro da stiro», maschile e pluralizzabile, senza raddoppiamento), reatino [lo ˈranu] «il grano» < granum, neutro, ma [lu ˈkane] «il cane», maschile, e poi [lo ˈbːelːu] «ciò che è bello», [lo kamˈpa] «il vivere», ecc.;
(g) l’uso di tenere per avere non ausiliare (in Sabina [ˈtɛngo tre ˈfːijːi] «ho tre figli»).
Le principali differenze fra area mediana e meridionale sono:
(a) il trattamento delle vocali finali non accentate; nella gran parte delle parlate meridionali queste passano alla cosiddetta e muta o indistinta /ə/ (napoletano [ˈadːʒə] «ho» < habeo, [ˈnirə] «nero» < nĭgru(m), [ˈsɛtːə] «sette» < septe(m), [ˈunːəʧə] «undici» < undeci(m), [ˈfemːənə] «femmina, donna» < femina(m)), sconosciuta a quelle mediane, che invece mantengono vocali simili a quelle standard e, spesso, anche la distinzione latina fra -o e -u (ad es., a Foligno [diˈʃɛnːo] «dicendo», ma [kaˈpilːu] «capello», a Rieti [ˈsatːʃo] «so», ma [ˈporku] «maiale», ecc.);
(b) gli sviluppi dei nessi latini pl- e fl-, che in area mediana diventano /pj-/ e /fj-/ come in italiano, ma che, in diversi dialetti meridionali, e anche meridionali estremi, si trasformano, rispettivamente, in /kj-/ e /ʃ-/ (/ʧ-/): a Castel di Sangro (L’Aquila) [ˈkjanə] «piano», [ˈʃatə] «fiato», catanese [ˈkjɔvi] «piove», [n ˈʃuri] «un fiore».
I dialetti meridionali estremi (➔ siciliani, calabresi e salentini, dialetti), invece, si differenziano, nel loro complesso, dal resto del sistema centro-meridionale per una serie di caratteristiche fra cui:
(a) un sistema vocalico tonico di soli cinque elementi /i/, /ɛ/, /a/, /ɔ/, /u/: [ˈfilu] «filo» < fīlu(m), come [ˈnivi] «neve» < nĭve(m) e come [ˈstiɖːa] «stella» < stēlla(m), ma [ˈbːɛɖːa] «bella» < bĕlla(m); [ˈluna] «luna» < lūna(m), come [ˈkruʧi] «croce» < crŭce(m) e [ˈsuli] «sole» < sōle(m); ma [ˈmɔrta] «morta» < mŏrtua(m);
(b) la presenza nella maggior parte dei dialetti di tre vocali finali (in Sicilia [ˈkɔri] «cuore», [ˈsatːʃu] «so», [ˈfimːina] «donna»);
(c) la pronuncia cacuminale (o retroflessa, cioè con la lingua puntata sul retro degli incisivi) di /-dː-/ derivante da -ll-, come in [ˈbːɛɖːu] «bello», [kaˈvaɖːu] «cavallo» (tale pronuncia, secondo alcuni molto antica, è nota anche alle varietà sarde e a parte di quelle corse e lunigianesi), e di nessi consonantici come /-tr-/ e /-str-/, che diventano, spesso, /-ʈɽ-/ e /-sʈɽ-/ ([paʈɽi] «padre», quasi [ˈpaʧi]);
(d) l’assenza della lenizione postnasale ([ˈsantu], [aŋˈkɔra], e non [ˈsandə], [aŋˈgɔrə]);
(e) la mancanza degli infiniti tronchi, assai diffusi, invece, nell’alto Mezzogiorno e fino alla Toscana ([kanˈtari] e non [kanˈta], [ˈdːiʧiri] e non [ˈdiʧe] «dire»);
(f) l’uso del passato remoto in luogo di quello prossimo, ancora più frequente di quanto non si osservi nell’alto Mezzogiorno.
La Sardegna viene suddivisa dagli specialisti in quattro aree linguistiche principali: campidanese, logudorese, gallurese, sassarese (le ultime due sono ritenute di tipo non sardo da molti studiosi; ➔ sardi, dialetti).
Sull’intera isola è presente un sistema di vocali accentate di tipo conservativo, in cui non si sono avute fusioni tra suoni vocalici originariamente diversi: [ˈfilu] «filo» < fīlu(m), come [ˈpilu] «pelo» < pĭlu(m); [ˈtɛla] «tela» < tēla(m), come [ˈbːɛɖːa] «bella» < bĕlla(m); [ˈmɔrta] «morta» < mŏrtua(m) come [ˈsɔle] «sole» < sōle(m); [ˈgula] «gola» < gŭla(m) come [ˈluna] «luna» < lūna(m).
Altri notevoli tratti arcaici – propri, però, soprattutto della Barbagia e del Logudoro – sono:
(a) la conservazione di /k/ e /g/ davanti a vocale anteriore: [ˈkentu] «cento», [ˈnuke] «noce», [ˈlɛgere] «leggere», a Nuoro [ˈpiske] «pesce», ecc.;
(b) lo sviluppo del nesso consonante + /l/ a consonante + /r/, tipico anche del campidanese (ˈ[framːa] «fiamma»);
(c) la conservazione delle consonanti finali, con -s che resta, come in latino, marca del neutro ([ˈtempus] «tempo») e dei plurali ([pɛjs] o [ˈpɛdes] «piedi», [ˈfeminas] «donne»; ma in gallurese e sassarese [ˈpedi], [ˈfemini]).
Sviluppi particolari del sardo sono invece:
(d) il passaggio dei nessi qu- e gu- a /bː/ ([ˈabːa] «acqua», [ˈlimba] «lingua»), che avvicina la Sardegna alla Romania;
(e) l’assimilazione del nesso latino -gn- in /-nː-/: [ˈlinːa] «legna» < ligna(m), [ˈmanːu] «grande» < magnu(m);
(f) gli articoli determinativi derivanti non da illu(m) e illa(m), bensì da ipsu(m) e ipsa(m): a Bitti (Nuoro), [su ˈmastru de ˈlinːa] «il falegname», [sa koberˈtura] «il tetto» (e, al plurale, [sos ˈtempos] «i tempi»; a Cagliari [is ˈtempus] «i tempi»); ecc.
Tra le parole latine che si sono conservate solo in Sardegna si ricordano [ˈakina] «uva», [ˈdɔmu] «casa», [ˈɛbːa] «cavalla» < equa(m), [ˈinteri] «frattanto» < interim, [ˈmanːu] «grande», [kojuˈare] «sposarsi» < coniugare, [imˈbɛnːere] «trovare» < invenire. Concordanze con la penisola iberica e anche con la Romania sono individuate da [ˈɛdu] «capretto» < haedus, [iˈskire] «sapere» < scire, [pregonˈtare] «domandare» < percontare.
Associato da alcuni studiosi – ma su ciò non c’è accordo – al romancio del cantone svizzero dei Grigioni, sotto l’etichetta comune di retoromanzo, esso si distingue per la conservazione di tratti che un tempo erano tipici anche di aree più o meno estese della restante Italia settentrionale, con cui, del resto, condivide tuttora alcuni fenomeni di rilievo (quali la sonorizzazione delle consonanti sorde fra vocali, la semplificazione delle consonanti doppie, la caduta delle vocali finali diverse da /-a/).
Le varietà ladine sono parlate in quattro valli dolomitiche intorno al gruppo del Sella (➔ ladina, comunità), anche se le loro caratteristiche sfumano all’interno di un territorio che include una parte del Trentino orientale e la regione veneta del Cadore. I dialetti friulani sono parlati in buona parte della regione Friuli (➔ friulani, dialetti).
La maggior parte delle varietà del sistema è oggi caratterizzata da:
(a) palatalizzazione dei nessi /ka-/ e /ga-/, che diventano (in accordo col francese antico, ma anche col veneto) /ʧa-/ e /ʤa-/] ([ˈʧar] «caro» e «carne», [ˈʤal] «gallo»);
(b) mantenimento di -s nella formazione dei plurali maschili (di nuovo come il francese e il veneto antichi: [ˈʧans] «cani», [ˈmurs] «muri»);
(c) conservazione del nesso di consonante + /l/ ([ˈblank] «bianco», [ˈklama] «chiama»), semplificato in /-l-/ all’interno di parola ([oˈrɛla] «orecchio» < auric(u)la(m), ecc.).
Le varietà friulane si caratterizzano anche per:
(d) la sopravvivenza della distinzione fra vocali lunghe e brevi, che produce un certo numero di coppie minime (➔ coppia minima) (come [lāt] «andato» e [lat] «latte», [pās] «pace» e [pas] «passo»)
(e) la dittongazione delle vocali accentate, in particolare di /ɛ/ e /ɔ/, con esiti vari (per es. [ˈbjel] «bello» e [ˈkwarp] «corpo»);
(f) i diminutivi in /-ut/ ([arbuˈlut] «alberello», [taˈjut] «taglietto» e anche «bicchiere di vino»);
(g) il passato prossimo bicomposto ([o aj vut vjoˈdut] letteralm. «io ho avuto visto», cioè «ho visto»).
Tipi lessicali caratteristici del Friuli sono, fra gli altri, [kaj] «lumaca», [frut] «bambino», [soˈreli] «sole» (derivato da soliculu(m), come il franc. soleil), [feveˈla] «parlare», [kuˈmɔ] «adesso».
La legge 482 del 1999 ha riconosciuto al sardo e al friulano lo status di lingue di minoranza, equiparandoli, cioè, alle ➔ minoranze linguistiche storiche.
Dal 1974 due istituti di indagine statistico-demoscopica, la Doxa e l’Istat, hanno condotto con una certa periodicità rilevamenti di interesse dialettologico, per valutare le percentuali di coloro che, in Italia, usano l’italiano e i vari dialetti (sia in ognuna delle venti regioni sia a livello nazionale, distinguendo poi gli usi fra le diverse fasce sociali e d’età e nelle situazioni più comuni: in famiglia, con amici, con estranei).
La percentuale di coloro che si dichiarano dialettofoni, cioè che affermano di usare il dialetto locale nelle diverse situazioni indicate, risulta in continuo calo: per quanto riguarda l’ambito d’uso domestico (certo quello più favorevole al mantenimento della dialettofonia), nel 1974 coloro che parlavano con tutti in familiari in dialetto erano, secondo la Doxa, il 51,3% (dunque la maggioranza assoluta), ma sono passati al 46,7% nel 1982, al 39,6% nel 1988, al 35,9% nel 1991 e al 33,9% nel 1996. Nello stesso arco di tempo, la percentuale di coloro che parlavano con tutti i familiari solo in italiano è cresciuta, ma in misura minore, dal 25% del 1974 al 33,7% del 1996, come, del resto, quella di coloro che parlavano con alcuni familiari in dialetto, con altri in italiano, aumentati dal 23,7% del 1974 al 32,4% del 1996. Un andamento simile mostrano le percentuali relative agli usi fuori casa: coloro che parlavano sempre o più spesso in dialetto erano il 42,3% nel 1974, ridotti al 28,2% nel 1996; la percentuale degli italofoni più o meno esclusivi o quasi è invece cresciuta dal 35,6 al 49,6%.
Tale contrazione generale della dialettofonia, però, quasi inaspettatamente, si attenua già a partire dal 1991, nello stesso periodo in cui si vede sempre più chiaramente che «al decremento della dialettofonia non corrisponde […] un incremento dell’italofonia altrettanto marcato» (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 30). Infatti c’è stato un contemporaneo, speculare incremento non dell’italofonia pura e semplice, ma soprattutto
dei casi di uso alternato […] e di parlato mistilingue italiano/dialetto. In effetti, usi di questo tipo possono essere attribuiti a pieno titolo a coloro che “parlano sia in dialetto che in italiano” (secondo la terminologia dell’istituto Doxa), categoria che ha avuto un incremento, appunto, del 10% circa (ivi).
Secondo l’Istat, poi, a livello nazionale, fra il 2000 e il 2006 vi sono stati soltanto assestamenti minimi: l’italofonia esclusiva in famiglia è passata dal 44,1% al 45,5%, con amici dal 48% al 48,9%, con estranei si è ormai stabilizzata (72,7% nel 2000, 72,8% nel 2006); la dialettofonia più o meno esclusiva risulta scesa, in famiglia, dal 19,1% al 16%, con amici dal 16% al 13,2%, con gli estranei dal 6,8% al 5,4%, ma l’uso alternato di italiano e dialetto si è mantenuto in famiglia sostanzialmente stabile (dal 32,9% al 32,5%) ed è anzi lievemente cresciuto per quanto riguarda le conversazioni con amici (dal 32,7% al 32,8%) e addirittura con gli estranei (dal 18,6 al 19%). Roccaforti della dialettofonia sono, sul piano geografico, le regioni del Nord-Est (in particolare il Veneto), seguite da quelle del Sud (soprattutto Calabria e Basilicata), mentre, relativamente alla condizione sociale e professionale, lo sono i pensionati, le casalinghe e gli operai rispetto a dirigenti, professionisti e lavoratori in proprio (➔ sociolinguistica).
La notevole ambiguità di formule come «sia italiano che dialetto» – assai comuni, come si è visto, nei rilevamenti statistici – è stata chiarita da Berruto (1995: 242-250), che ha proposto il termine dilalia per cogliere una precisazione importante rispetto al concetto, ampiamente usato, di diglossia (➔ bilinguismo e diglossia). La dilalia si differenzia dalla diglossia per l’estrema facilità con cui avviene il passaggio dall’uno all’altro idioma, sia all’interno della stessa interazione verbale, sia all’interno della stessa frase (➔ commutazione di codice), e tanto in contesti informali, quanto in quelli di media formalità. Non è difficile accorgersi che, nell’Italia di oggi, queste sono situazioni comuni, nelle quali si riconosce la maggior parte dei parlanti, e che emergono perfino in rete (➔ Internet, lingua di), anche e soprattutto nei siti e nei blog frequentati dai più giovani. Tutto ciò contribuisce a spiegare il sensibile rallentamento nell’abbandono dei dialetti registrato un po’ ovunque a partire dagli anni ’90 del Novecento.
Ad ogni modo, per cercare di capire meglio le motivazioni profonde per cui – contrariamente a quanto ancora si crede – molti dialetti non sono stati e non sono oggi in pericolo di estinzione, si può osservare che, come essi hanno potuto ‘farsi le ossa’ proprio grazie a una lunga, plurisecolare convivenza con almeno alcuni livelli di italiano (cfr. Avolio 2003: 43), così questi ultimi, più di recente, hanno paradossalmente difeso anche il dialetto. Anzi,
sono proprio coloro a cui il possesso della lingua ufficiale ha dato sicurezza, che […] gli hanno impedito di fare una brutta fine. […]. E oggi il dialetto non fa più paura a nessuno, o quasi. Anzi, in qualche modo affascina i giovani per la sua eccentricità. Certo, dall’avventura dello scontro con l’italiano è uscito un po’ ammaccato, un po’ (o forse troppo?) cambiato. Ma vivo (Marcato 2005: 41).
Ascoli, Graziadio Isaia (1882-1885), L’Italia dialettale, «Archivio glottologico italiano» 8, pp. 98-128.
Avolio, Francesco (2003), A quarant’anni dalla “Storia linguistica” di De Mauro. L’Italia del Novecento e il problema dell’italofonia, in Italiano. Strana lingua? Atti del convegno Sappada - Plodn (Belluno, 3-7 luglio 2002), a cura di G. Marcato, Padova, Unipress, pp. 37-44.
Berruto, Gaetano (1995), Fondamenti di sociolinguistica, Roma - Bari, Laterza.
Grassi, Corrado, Sobrero, Alberto A. & Telmon, Tullio (2003), Introduzione alla dialettologia italiana, Roma - Bari, Laterza.
Marcato, Gianna (2005), Fu così che tentammo di suicidare il dialetto. Confessioni di parlanti del Novecento veneto, in Ead. (a cura di), Lingue e dialetti nel Veneto. 3, Padova, Unipress, pp. 3-41.
Merlo, Clemente (1924), L’Italia dialettale, «L’Italia dialettale» 1, pp. 12-26.
Pellegrini, Giovanni Battista (1975), I cinque sistemi dell’italo-romanzo, in Id., Saggi di linguistica italiana. Storia, struttura, società, Torino, Boringhieri, pp. 55-87.
Pellegrini, Giovanni Battista (1977), Carta dei dialetti d’Italia, Pisa, Pacini.
Rohlfs, Gerhard (1937), La struttura linguistica dell’Italia, Leipzig, Keller (poi in Id., Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia, Firenze, Sansoni, 19902, pp. 6-25).
Sabatini, Francesco (1997), L’italiano: dalla letteratura alla nazione. Linee di storia linguistica italiana, Firenze, Accademia della Crusca.