dialettismi
Si definiscono dialettismi (o dialettalismi) parole (ma anche locuzioni, forme e costrutti) di origine dialettale inseriti in contesti di italiano. I dialettismi più numerosi (e più studiati) riguardano il lessico e sono costituiti da voci proprie di un dialetto (o di un’area dialettale più vasta) che nel passaggio all’italiano hanno generalmente subito un ➔ adattamento fonomorfologico, come i ➔ prestiti da lingue straniere; dati i rapporti tra i vari dialetti italiani e la lingua nazionale di matrice tosco-fiorentina, in questo caso si parla di prestito interno.
Secondo il GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso), le prime attestazioni di dialettismo e di dialettalismo risalgono, rispettivamente, al 1866 e al 1942; in realtà entrambi i termini rimontano al XIX secolo: grazie a Google Libri, infatti, le loro datazioni possono anticiparsi al 1838 e al 1863.
Il termine dialett(al)ismo ha (o piuttosto ha avuto) come sinonimi, almeno parziali, «solecismo da un lato e […] idiotismo, provincialismo e regionalismo dall’altro lato» (Telmon 20042a: 228; alla lista si può aggiungere localismo: Avolio 1994: 565). I vari termini, però, non sono perfettamente sovrapponibili e anzi è invalso l’uso di contrapporre i dialettismi ai ➔ regionalismi (Canepari 1990: 90-91; Telmon 20042b: 639): la provenienza dialettale è comune a entrambi, ma i secondi caratterizzano sul piano diatopico singole varietà regionali, mentre i primi sono entrati ormai nello standard o comunque nella competenza attiva anche di parlanti di regioni diverse da quella di origine del termine.
In questa chiave, dunque, i dialettismi vanno considerati lo stadio successivo dei regionalismi nell’evoluzione delle lingue. In realtà, la distinzione non è sempre pacifica: se certamente esistono dialettismi ormai privi di connotazioni regionali (come scoglio, parola di origine ligure, o vongola, di provenienza napoletana) o comunque sentiti a tutti gli effetti come parole italiane anche se i loro designata sono legati a specifiche realtà locali (è il caso della gondola veneziana), molte sono le voci di matrice dialettale che, pur essendo divenute panitaliane, conservano ancora qualche marca di regionalità (pensiamo a mafia, che può designare qualunque organizzazione criminale, visto che si parla della mafia russa o della mafia cinese, ma che pure resta legata alla Sicilia). Altri dialettismi, pur essendo entrati nella lingua, almeno per frequenza d’uso caratterizzano ancora un’area specifica (è il caso di molti romaneschismi che il cinema, la tv e gli altri media hanno diffuso un po’ in tutta Italia, da burino a piacione; ➔ Roma, italiano di).
La distinzione tra dialettismi e regionalismi è legata alle dinamiche dei rapporti tra lo standard e le diverse realtà regionali e, specialmente nel caso dei ➔ geosinonimi, la situazione risulta da tempo in movimento (De Felice 1977): infatti, se molte parole dialettali hanno ceduto alle corrispondenti italiane, ci sono anche voci dell’italiano tradizionale di base toscana in regresso e, corrispondentemente, voci di origine regionale in espansione: per es., il settentrionale anguria a spese del toscano e centrale cocomero, il meridionale cozze rispetto al toscano mitili, ecc. Anche nella prassi lessicografica si rilevano incertezze nel trattamento sia dei dialettismi – che, almeno in teoria, in un’ottica sincronica dovrebbero recare l’indicazione della loro origine solo nel campo dell’etimologia (cosa che non sempre avviene: D’Achille 2009) – sia dei regionalismi, per i quali le marche d’uso diatopiche (reg[ionale], dial[ettale], sett[entrionale], centr[ale], tosc[ano] centromerid[ionale], ecc.), diafasiche (colloq[uiale], gerg[ale], volg[are], ecc.) e diastratiche (pop[olare]) vengono spesso confuse (Batinti & Trenta Lucaroni 1997).
Sul versante dell’analisi dei testi letterari, infine, si indicano come dialettismi le voci di origine locale che singoli autori italiani (prosatori ma anche poeti) hanno inserito nei loro testi in lingua (➔ dialetto, usi letterari del), favorendone così l’ingresso nel lessico nazionale o almeno legittimandone la successiva registrazione lessicografica; soltanto per gli autori veristi di fine Ottocento si preferisce ricorrere al termine di regionalismo. Al di là delle etichette, sembra opportuno stabilire se la presenza dell’elemento locale è deliberata o no: infatti nella lingua letteraria (come del resto nell’italiano popolare) le voci di origine dialettale sono a volte motivate dal riferimento a designata tipici delle aree di provenienza degli scrittori o dell’ambientazione dei testi (come avviene, per es., per campiello «piazzetta di Venezia» in ➔ Carlo Goldoni), altre volte costituiscono «regionalismi inavvertiti» (Alfieri 1993), di cui lo scrittore (e, a fortiori, lo scrivente popolare) sembra non essere consapevole.
Il dialettismo, dunque, in un caso copre un «vuoto oggettivo», nell’altro un «vuoto soggettivo» (Cortelazzo 1972). Ci sono inoltre autori che attingono a diversi dialetti, e quindi accolgono dialettismi di varia provenienza (è il caso di ➔ Dante o di ➔ Carlo Emilio Gadda). Quando è usato consapevolmente, il dialettismo, almeno nei testi in prosa, viene spesso trattato come un forestierismo, evidenziato dalle virgolette o anche accompagnato da una glossa esplicativa che contiene in genere un riferimento a una precisa realtà geografica e al tempo stesso ne marca l’estraneità (D’Achille & Thornton 2005), come negli esempi seguenti: «per la via di terra o ‘fondamenta’, come a Vinegia dir si costuma» (Matteo Bandello, cit. in Bruni 2002: 92); «abbiamo fatto la ‘fuitina’, cioè la fuga d’amore come usa qui in Sicilia» («Gente», 1990, cit. in Bencini & Citernesi 1992: 151).
Data la non perfetta sovrapponibilità tra lingua letteraria e dialetti toscani, specialmente nel corso del Novecento si è parlato di dialettismi anche per voci del toscano vernacolare, per es. i senesismi-toscanismi attestati in Federigo Tozzi (come barbaiola «bavaglio», ciabare «parlare a voce alta», ecc.; Mengaldo 1994: 146-147).
Non è possibile quantificare con precisione i dialettismi entrati in italiano. È probabile che la componente di origine dialettale nel nostro lessico sia tuttora sottovalutata, anche perché l’individuazione di un dialettismo non è sempre facile, soprattutto per voci non legate a una specifica realtà geografica (a cui alludono in particolare le prime attestazioni e che è richiamata esplicitamente nei deonomastici, come per es. in molti nomi di vini) o che hanno carattere denotativo e non connotativo.
Come si è detto all’inizio, infatti, i dialettismi sono stati per lo più adattati sul piano fono-morfologico e quindi risultano riconoscibili solo nel caso dei mancati adattamenti (quasi tutti di datazione piuttosto recente), come il piemontese travet «impiegatuccio» (peraltro di origine letteraria e ormai sostituito da un altro deonomastico, fantozzi), il calabrese ’ndrangheta, il sardo pane carasau, ecc. Una certa riconoscibilità hanno anche i romaneschismi uscenti in -aro/-a, -arolo/-a e -arello/-a, suffissi oggi certamente più diffusi e produttivi dei corrispondenti toscani in -aio/-a, -ai(u)olo/-a e -erello/-a, ma usati anche per neoformazioni giornalistiche che non sempre si radicano nell’uso effettivo (Avolio 1994: 593-594; Giovanardi 2001), come avviene invece nel caso di cravattaro «strozzino», gattara «donna che accudisce i gatti randagi», comicarolo «attore comico», tintarella «abbronzatura», ecc. Anche l’origine non toscana ma emiliana dell’ocarina (letteralm. «ochetta») e quella napoletana dei fusilli sono riconoscibili per la particolare suffissazione.
La ricostruzione della trafila etimologica consente di stabilire l’origine dialettale di singole voci nei casi in cui gli esiti fonetici divergano da quelli toscani: è il caso di piccione (< lat. pipiōnem, con lo sviluppo meridionale -pj- > /tːʃ/), di rione (< lat. regiōnem, con -gi- > /j/, tratto proprio anche del romanesco antico; la voce è uno dei pochi dialettismi registrati fin dall’edizione del 1612 del Vocabolario della Crusca), di cengia (< lat. cĭngulam, con lo sviluppo altoitaliano -ngl> /ɳʤ/, da confrontare con l’allotropo toscano cinghia; ➔ allotropi), di ciao (dal veneziano s-ciao «schiavo», usato fin dal Settecento come forma di saluto: cfr. lo scambio di battute: «– Serva, signor suocero. – Schiavo, nuora, schiavo», ne La famiglia dell’antiquario di Goldoni, dove la forma appare italianizzata), ecc.
A volte, invece, è la semantica a provare la dialettalità di una voce: per es. l’origine veneziana di laguna (< lat. lacūnam) si rileva, più che nella sonorizzazione della velare intervocalica, nello slittamento semantico del termine, da «specchio d’acqua stagnante» dell’ital. antico a «specchio d’acqua litoraneo», documentato dal XV secolo proprio con riferimento a Venezia (Zolli 1986: 64).
Un altro modo di individuare i dialettismi consiste nel considerare se i più antichi esempi figurano in testi di scriventi non toscani oppure se sono preceduti da attestazioni (letterarie o anche lessicografiche) in un dialetto (dunque in veste non italianizzata). Ma queste condizioni non sono di per sé sufficienti: in particolare, la registrazione di voci proprie del parlato in un testo o in un dizionario dialettale prima della loro documentazione in italiano non implica necessariamente l’attribuzione dell’origine di quelle voci a quello specifico dialetto. Da un lato, infatti, i testi in dialetto hanno spesso un maggior contatto con l’oralità rispetto a quelli in lingua e documentano usi che sono in realtà panitaliani; dall’altro, quasi tutte le datazioni vanno considerate provvisorie. La precocità dell’attestazione può costituire un indizio da non trascurare, ma vanno ricercati anche i canali di trasmissione dal dialetto alla lingua. Tra l’altro, l’area di origine di un dialettismo e quella che è stata il tramite della sua diffusione in italiano non sempre coincidono.
L’ingresso di dialettismi in italiano si fece consistente solo dopo l’Unità; anche prima, però, non era mancato l’apporto delle regioni (o almeno di alcune di esse) alla costituzione del lessico nazionale. Migliorini (1960) segnala l’ingresso in italiano nel Cinquecento di voci come caldarroste (da Roma), regata (da Venezia) e carosello (da Napoli), e nel Settecento di calmiere e pellagra dall’area settentrionale, cocciuto, pupazzo e bocce da Roma, malocchio e iettatura da Napoli; si potrebbero aggiungere, tra le voci romane (o comunque irradiate da Roma) in epoca moderna spigola, maritozzo, falegname, tra le veneziane arsenale, zattera, branzino (geosinonimo di spigola, l’uno e l’altro prescritti ufficialmente nel 1983 al posto del ragno toscano e di altri nomi locali: Castellani, in Gli italiani scritti 1992: 142), ecc. Nel primo Ottocento «la penetrazione dei dialettismi è limitata sia quantitativamente sia qualitativamente [e] proviene quasi esclusivamente dalle regioni settentrionali» (Serianni 1989: 83, che cita, tra l’altro, il panettone milanese, la fedina penale del Lombardo-Veneto e le voci veneziane anagrafe, sopralluogo e grazie!).
La consistente crescita dei dialettismi dopo l’Unità e poi nel corso del Novecento si spiega con vari fattori: anzitutto i maggiori contatti tra le varie aree del paese e la conseguente diffusione in tutta Italia di ‘cose’ originariamente proprie della cultura materiale di aree specifiche. Una parte considerevole, e in continuo incremento, di dialettismi si registra infatti nell’ambito della gastronomia (➔ gastronomia, lingua della): basti citare gli agnolotti piemontesi, il pesto ligure, il risotto alla milanese, il tiramisù veneto, i tortellini bolognesi, i saltimbocca romani, la pizza e le sfogliatelle napoletane, la cassata siciliana, ecc.
Un certo peso nell’accoglimento delle parole dialettali va attribuito anche alla progressiva perdita di centralità della Toscana (come si è detto, molti dialettismi hanno scalzato, in tutto o in parte, le corrispondenti voci toscane, come il veneziano giocattolo rispetto a balocco, o il romano frocio rispetto a finocchio) e, quindi, alla maggiore apertura dell’italiano contemporaneo agli apporti regionali, e non solo a livello lessicale: si pensi a espressioni e modi di dire ormai panitaliani come battere la fiacca (dal Piemonte), farci la birra (da Roma), finire a tarallucci e vino (da Napoli). Naturalmente, l’ingresso dei dialettismi nell’italiano va inquadrato nei processi paralleli di italianizzazione dei dialetti e di costituzione delle varietà regionali (De Mauro 19702), che hanno fatto da tramite alla diffusione dei dialettismi. Va inoltre detto che, ancora in epoca postunitaria, anche in conseguenza dell’orientamento antidialettale della scuola italiana, la censura puristica nei confronti dei dialettismi (specie nel caso dei geosinonimi), è stata rilevante: i termini solecismo, idiotismo e provincialismo sopra ricordati sono propri appunto dell’ottica puristica (sebbene idiotismi sia usato anche per indicare le frasi idiomatiche).
Che l’apporto dei dialetti sia significativo anche nell’italiano contemporaneo è documentato dalla presenza di dialettismi anche tra i repertori di neologismi, nelle varie edizioni del Dizionario moderno di Alfredo Panzini, nelle Appendici di Bruno Migliorini, nei dizionari di parole nuove di fine Novecento (Avolio 1994: 589-595) e inizio Duemila, in cui si individuano anche voci italiane che hanno una provenienza regionale, ma non di necessità un antecedente dialettale. In anni più recenti una forte presenza di voci di origine dialettale è anche nel linguaggio dei giovani (basti pensare al romaneschismo fico). Risalgono ai dialetti anche titoli cinematografici, come Amarcord di Fellini (letteralm. «mi ricordo»; dal film la voce è passata a significare «rievocazione nostalgica»), e nomi di personaggi televisivi, dal pagliaccio Sbirulino al pupazzo Gabibbo.
Gli studi, non numerosi, dedicati specificamente ai dialettismi (Prati 1954; Zolli 1986; Avolio 1994; una sintesi in Aprile 2005: 113-122), li ordinano per area geografica (la suddivisione può scendere alle singole regioni) o per campi semantici. Se, come si è detto, un po’ tutte le regioni sono rappresentate (se pure non nella stessa misura) nella gastronomia (agli esempi sopra citati potremmo aggiungere, per completare o quasi il quadro regionale, i canederli trentini, il caciucco livornese, il ciauscolo marchigiano, gli arrosticini abruzzesi, le orecchiette pugliesi), in altri ambiti l’apporto delle singole zone è stato anche quantitativamente diverso.
È stato rilevato (Avolio 1994: 578) che le aree settentrionali hanno dato molte voci nel campo della morfologia del terreno, dell’ambiente e della meteorologia (brughiera, rugiada), della terminologia di arti e mestieri (capriata, filanda), dell’amministrazione (catasto, scartoffia), della vita militare (naia), mentre provengono soprattutto dal Centro-Sud voci espressive, spesso originarie degli ambienti della malavita (camorra, omertà, il più recente inciucio). Lo stesso Avolio (1994: 570-575) propone tra i criteri classificatori quello funzionale (basato essenzialmente sulla distinzione tra regionalismi e dialettismi), quello strutturale (relativo al grado e alle modalità di adattamento) e quello variazionale (che fa riferimento ai tradizionali assi di variazione).
Come avviene nei prestiti, i dialettismi sono prevalentemente nomi, ma non mancano gli aggettivi (il romanesco pacioso, il lombardo di origine spagnola malmostoso) e i verbi (il romanesco sgamare, il siciliano abbuffarsi). Una significativa presenza di voci di matrice regionale si individua anche tra le interiezioni (si pensi all’eu! che esprime meraviglia o incredulità, che rivela anche nella fonetica la propria origine settentrionale, o al romano e centrale boh!). Molto consistenti, come si è accennato, gli elementi dialettali nell’ambito della fraseologia (rilevanti sono le locuzioni dialettali che hanno valore sintattico o testuale, come il meridionale nel contempo).
Voci di origine dialettale figurano anche tra gli ➔ italianismi entrati in lingue straniere; specularmente, i dialetti non di rado hanno fatto da tramite all’ingresso in italiano di forestierismi (è il caso di cocchio, che rappresenta un adattamento ipercorretto del settentrionale còcio, dall’ungh. kocsi [ˈkoʧi] szekér «carro di Kocs»).
Finora si è parlato di lessico e, marginalmente, di fraseologia. In realtà, i dialetti e le varietà regionali hanno dato un certo apporto alla costituzione dell’italiano anche ad altri livelli di analisi. Naturalmente, in questo discorso vanno lasciati da parte i settentrionalismi di età preletteraria, come la sonorizzazione delle sorde intervocaliche (Castellani 2000) e i sicilianismi fonomorfologici rimasti a lungo nel linguaggio poetico (per es. forme come moro «muoio» e i condizionali in -ìa, come sarìa, avrìa «sarebbe, avrebbe», ecc.: Serianni 2001; ➔ Scuola poetica siciliana), per considerare invece i tratti non toscani entrati a partire dal Cinquecento.
Prima dell’Unità, elementi morfosintattici di matrice dialettale o regionale riuscirono a far breccia nell’italiano di base tosco-fiorentina quando la loro dialettalità o regionalità non venne avvertita: è il caso di forme meridionali come vonno «vogliono», diffusa nel linguaggio poetico sei-settecentesco (Serianni 1995), o del cosa (invece di che cosa) interrogativo, di origine settentrionale, poi generalizzatosi; è stata sostenuta, ma non comprovata, l’origine galloitalica della frase scissa (➔ scisse, frasi; Sornicola 1991: 52).
Diversa la situazione dall’Unità in poi, e soprattutto dal secondo dopoguerra, quando (anche grazie al cinema e alla televisione; ➔ cinema e lingua) si sono diffusi e sono entrati nel neostandard dialettismi morfosintattici di varia provenienza, che tendono a perdere la propria marcatezza diatopica: basti citare settentrionalismi come un attimino con valore avverbiale e piuttosto che nel senso di «oppure» (entrambi annoverati tra i plastismi da Castellani Pollidori 1995 e 2004) e l’interrogativa che + verbo + a fare? (ma io che lavoro a fare?), di matrice romana e meridionale (D’Achille 2001).
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