Abstract
Viene esaminata la dichiarazione tributaria delle imposte periodiche, dei redditi e sul valore aggiunto, in particolare in ordine alla funzione, alla natura giuridica, agli effetti e all’emendabilità.
Nell’ambito della disciplina che caratterizzava il sistema impositivo anteriormente la riforma degli anni Settanta, la dichiarazione tributaria era istituto ancillare rispetto all’accertamento dell’amministrazione finanziaria, il quale era il mezzo giuridico necessario ai fini del sorgere dell’obbligazione tributaria: gli adempimenti del contribuente erano funzionali esclusivamente ad una più corretta rappresentazione delle situazioni fiscalmente rilevanti negli atti accertativi, mezzi necessari del prelievo.
La dichiarazione, pertanto, era considerata atto obbligato di collaborazione, il quale veniva poi necessariamente “verificato” dal fisco nell’ambito della funzione impositiva (Magnani, C., Dichiarazione tributaria, in Dir. prat. trib., 1988, I, 35 ss.): l’atto del contribuente poteva acquisire significato autonomo solo qualora “l’imposizione”, pur prevista dalla norma, non fosse stata in concreto estrinsecata.
La riforma degli anni Settanta modifica sensibilmente il sistema di attuazione del prelievo: la diffusione dei tributi periodici alla massa dei consociati, infatti, impone nuove regole. Si afferma così non solo la cd. autoliquidazione del dovuto in base alla dichiarazione da parte dello stesso contribuente, ma anche la stessa mera eventualità dell’avviso di accertamento, il quale da atto imprescindibile della funzione impositiva, abbraccia la più limitata funzione di controllo del corretto operato degli obblighi dei contribuenti (Fantozzi, A., I rapporti tra fisco e contribuente nella nuova prospettiva dell’accertamento tributario, in Riv. dir. fin., 1984, I, 231 ss.).
Sotto altro profilo, va osservato come non vi sia una normativa unitaria della dichiarazione tributaria, emergendo una varietà di discipline in dipendenza dei vari tributi, dovendo correlarsi ai diversi presupposti e alle diverse basi imponibili. Solo dal punto di vista formale dell’atto (vizi, termini, ecc.) vi è stato un tentativo uniformizzante: presupposti dell’obbligo dichiarativo e relativo contenuto rimangono prerogativa della disciplina delle singole imposte, in specie periodiche.
Infatti, è proprio con riferimento a queste che la dichiarazione assume un significato particolarmente rilevante, anche se si rinviene in relazione ad altri tributi, pur senza dimenticare che, restando un mero strumento attuativo, il legislatore ne può prescindere, scegliendo tecniche applicative diverse.
Oggi la dichiarazione è mezzo potenzialmente esclusivo ai fini della fisiologia attuativa dei grandi tributi periodici. Tale esito, almeno per le imposte sui redditi, è stato raggiunto senza modifiche del corpus normativo che disciplina l’atto: sono mutati il sistema e la posizione della dichiarazione al suo interno.
Il dato è significativo, in quanto l’analisi della disciplina degli artt. 1 ss. del d.P.R. 29.9.1973, n. 600 non appare discostarsi dalle più risalenti ricostruzioni e si caratterizza ancora per una funzione servente all’agire accertativo (Magnani, C., Dichiarazione, cit., 42 ss.), nel senso che l’assenza di dichiarazione o la sua grave infedeltà consentono l’esercizio di poteri di accertamento autoritativi, maggiormente incisivi e meno garantisti (La Rosa, S., Accertamento tributario, in Boll. trib., 1986, 1545).
Simile disciplina, tutta orientata alla conoscenza dell’amministrazione finanziaria, si rinviene anche indagando i presupposti dell’obbligo dichiarativo, i quali (infatti) prescindono dall’esistenza di un’imposta o addirittura di una base imponibile, come per i redditi soggetti alle scritture contabili (e ad analoghe conclusioni si giunge anche per l’IVA e, oggi, per l’IRAP): lo stesso contenuto dell’atto si caratterizza non in termini di risultato (base imponibile o imposta che sia), ma con riguardo ai singoli elementi positivi o negativi che concorrono a determinarlo, espressi in via tendenzialmente analitica (Nussi, M., La dichiarazione tributaria, Torino, 2008, 40 ss.).
Sembra imprescindibile, pertanto, connotare la dichiarazione tributaria quale atto funzionale alla conoscenza dell’amministrazione finanziaria: si spiega, quindi, come la dottrina abbia sempre privilegiato la qualificazione di manifestazione di “scienza”; taluno, valorizzando la complessa ricostruzione giuridica dei fatti da esporre nell’atto, ha preferito caratterizzare la dichiarazione in chiave di “giudizio” (soprattutto Lupi, R., Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, 342 ss., ma vedi Nussi, M., La dichiarazione, cit., 109 ss.).
Sulla base delle considerazioni effettuate, la dichiarazione tributaria assume senz’altro la qualificazione di mero atto (obbligato di verità), attuando una fattispecie legale volta alla conoscenza delle situazioni fiscalmente rilevanti da parte dell’amministrazione finanziaria. In questo contesto, la funzione di conoscenza verrà assolta, e quindi la fattispecie legale informativa sarà realizzata, solo in presenza di corrispondenza tra il dichiarato e il reale.
Giova osservare, comunque, come la normativa della dichiarazione, in specie quella sui redditi, abbia ampliato nel tempo il contenuto dell’atto, oggi comprensivo di molteplici contenuti: si pensi da un lato alla disciplina delle deduzioni, delle detrazioni, dei crediti d’imposta, istituti che (sia pure in via puramente eventuale) agiscono a valle dell’imponibile o dello stesso tributo lordo, e, d’altro lato alle opzioni circa possibili regimi speciali, contabili o inerenti alla stessa determinazione dell’imposta. Tali opzioni, di regola, devono essere effettuate in sede di dichiarazione tributaria, dei redditi o IVA che sia, qualificando in modo autonomo quella parte dell’atto, che evidentemente esprime una manifestazione non di mera scienza, ma di volontà. A mio avviso, nonostante dottrina e giurisprudenza siano diversamente orientate, poiché il dichiarante si limita a scegliere tra due o più opzioni legislativamente definite, la volontà manifestata è di natura non negoziale, integrandosi in tal modo, anche per questa parte della dichiarazione, la natura di mero atto (Nussi, M., op. cit., 118 ss.).
Peraltro, proprio la normativa dell’atto appare carente: ad esempio, la disciplina dei vizi (dapprima situata nel d.P.R. n. 600/1973 e poi confermata nell’ambito del d.P.R. 22.7.1998, n. 322) trascura del tutto ipotesi quali l’assenza di capacità o di volontà, pur sempre necessarie per il perfezionamento della fattispecie dichiarativa. La carenza assoluta di volontà implicherebbe (e, nonostante il silenzio legis, implica) l’inesistenza della dichiarazione, sebbene sia stato sostenuto che il contribuente non abbia interesse ad eccepirla per le deteriori conseguenze (Magnani, C., La dichiarazione annuale, cit., 19). L’attenzione del legislatore si incentra solo sui vizi che incidono sul difetto di conoscenza da parte dell’amministrazione finanziaria, ad esempio in caso di decorso dei termini di presentazione o di predisposizione dell’atto secondo modelli documentali non approvati dall’amministrazione finanziaria: la sanzione, di nullità o di equiparazione ad omissione dell’atto, incide sui poteri di accertamento, che, come già osservato supra, divengono assai più significativi e penetranti in assenza di dichiarazione.
Considerazioni autonome, ma sostanzialmente analoghe nelle conclusioni, possono effettuarsi anche in ordine all’imposta sul valore aggiunto: la relativa dichiarazione è tradizionalmente qualificata come “riepilogativa” di adempimenti precedenti (connessi alla registrazione delle singole operazioni rilevanti ai fini del tributo e alle conseguenti liquidazioni mensili o trimestrali). A mio parere, quest’ultima disciplina non si limita a sancire l’obbligo di dichiarare (in ottica sintetica) l’ammontare delle operazioni rappresentate documentalmente tramite le fatture (o altri mezzi alternativi) e poi liquidate per masse, ma estende il contenuto da esporre all’ammontare di ogni altra operazione pur non espressa nei precedenti adempimenti. La dichiarazione, anche in questo caso, è di verità e di scienza, non potendosi comunque limitare ad un mero riepilogo.
Stante la particolare strutturazione dell’imposta, la dichiarazione è anche “luogo” di esercizio delle detrazioni (pur se la giurisprudenza ormai ritiene che, in difetto dell’indicazione nell’atto, ed in attuazione del principio di neutralità, sia ammissibile anche la via dell’istanza di rimborso): ai sensi dell’art. 19, d.P.R. 26.10.1972, n. 633, il contribuente sceglie il “tempo”, il periodo, in cui esercitare il proprio diritto alla detrazione, sia pure entro le limitate alternative concesse dal legislatore. Si è in presenza, allora, di una determinazione minore che non innova la realtà giuridica preesistente, ma la specifica, con il conseguente inquadramento tra le dichiarazioni di volontà non negoziali.
La dichiarazione IVA, pertanto, assume una natura proteiforme, in dipendenza dei diversi contenuti che la caratterizzano, sia pure tutti funzionalizzati a disciplinare la massa delle operazioni fiscalmente rilevanti effettuate dal soggetto passivo: atto di scienza per quanto concerne l’ammontare delle operazioni imponibili, ma anche atto non negoziale di volontà, per ciò che riguarda l’esercizio delle detrazioni. Resta comunque confermata la natura di mero atto della dichiarazione, che pare ancora funzionalizzato alla conoscenza dell’amministrazione finanziaria (Nussi, M., op. cit., 78 ss.).
Benché l’atto dichiarativo, essendo meramente funzionale alla conoscenza amministrativa in chiave di controllo, non sia strutturalmente idoneo a costituire l’obbligazione tributaria, deve osservarsi come la dichiarazione implichi l’obbligo di versare le imposte “dovute” in base ad essa: pertanto, come del resto sostenuto anche da coloro che ne valorizzano la collocazione quale atto nelle fattispecie obbligatorie, è titolo per la riscossione a prescindere dalla realtà del contenuto esposto nell’atto.
Da un lato l’effetto dell’atto, informativo, avverrà se e in quanto gli elementi dichiarati dal contribuente siano veri, ma simile corrispondenza non è necessaria affinché si realizzi l’autonoma fattispecie della riscossione, ove la dichiarazione è normativamente considerata come mero fatto (Tesauro, F., Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975, 175), perfezionando così l’obbligo di versamento a prescindere da una componente indispensabile per il prodursi della fattispecie disciplinata dall’atto. Emerge, quindi, sia a livello strutturale sia a livello funzionale, una qualificazione normativa della dichiarazione autonoma rispetto a quella propria della disciplina dell’atto.
Del resto, la liquidazione della dichiarazione, prevista dall’art. 36 bis, d.P.R. n. 600/1973, è l’unica attività giuridicamente necessitata effettuata dall’amministrazione finanziaria: il rilievo è significativo, non solo in quanto si correla perfettamente con l’obbligatorietà della dichiarazione, ma soprattutto poiché è proprio in dipendenza di tale agire che il risultato in termini d’imposta assume rilievo giuridico.
La procedura, infatti, automatizzata ex lege, riguarda tutte le dichiarazioni presentate e consente al fisco di determinare l’imposta dovuta in base al dichiarato a prescindere dall’esistenza del presupposto: il risultato corrisponde al dovuto, e va confrontato con quanto il contribuente ha versato (in base alle variegate autonome fattispecie della riscossione dei ccdd. acconti e saldi), anteriormente alla presentazione della dichiarazione. Da simile confronto, potrebbe emergere un’ulteriore riscossione della differenza, ovvero una perfetta rispondenza tra dovuto e versato, ovvero una posizione attiva del dichiarante nei confronti del fisco.
L’automatismo della liquidazione officiosa impedisce ogni forma di controllo in ordine alla veridicità del dichiarato: non vi è dubbio, quindi, che la dichiarazione realizzi un effetto legale quale mero fatto, a prescindere dall’esistenza del parametro sostanziale di riferimento del tributo, ossia il presupposto, il quale appare del tutto estraneo agli elementi della relativa fattispecie.
L’aver estraniato il presupposto dalla fattispecie obbligatoria, che diviene (secondo lo schema norma-fatto-effetto) caratterizzata esclusivamente dalla dichiarazione, non deve sorprendere né allarmare.
La logica del sistema fiscale di massa implica fattispecie obbligatorie semplici: ancorare l’obbligazione tributaria al dichiarato piuttosto che all’effettivo verificarsi del presupposto d’imposta, quindi, è anche operazione di pragmatismo. Del resto, è dato di comune esperienza che il contribuente, con comportamento autoresponsabile, dichiari fatti reali, giustificando così la valutazione normativa prevedente l’effetto: la conoscenza trasmessa all’amministrazione, in ossequio ad esigenze pubblicistiche di buon andamento di quest’ultima, è formalisticamente reputata veridica ai fini degli obblighi di versamento (Nussi, M., op. cit., 167 ss.).
Per altro profilo, la valutazione di costituzionalità di una disciplina che, ai fini dell’obbligo di versamento, prescinde dall’effettiva esistenza del presupposto d’imposta, per limitarsi al dichiarato in quanto tale, va compiuta esclusivamente in base al regime dei rimedi in ordine agli errori operati dal contribuente in sede di dichiarazione. Rimedi i quali, ovviamente, debbono rapportarsi all’an e al quantum del presupposto, che riacquista in tal modo pieno significato funzionale. L’assenza di rimedi implicherebbe l’irrazionalità del sistema, se non anche la diretta violazione del principio di capacità contributiva (per la rilevanza del principio di capacità contributiva anche ai fini ricostruttivi della dichiarazione tributaria, si veda Moschetti, F., Emendabilità della dichiarazione tributaria, tra esigenze di “stabilità” del rapporto e primato dell’obbligazione dovuta per legge, in Rass. trib., 2001, 1149 ss.).
Analoga ricostruzione può essere proposta anche in relazione all’imposta sul valore aggiunto, nonostante la particolarissima struttura del tributo, connotato da una fase disciplinante la singola operazione imponibile ed una seconda regolamentante le conseguenze effettuali connesse alla massa di operazioni realizzate.
Nonostante alcune infelici formulazioni normative, l’ammontare dichiarato, sia quello relativo alle operazioni imponibili sia quello proprio delle detrazioni, assume efficacia solo in quanto vero ai fini dell’accertamento amministrativo, ma – in base ad autonoma qualificazione normativa – realizza una fattispecie obbligatoria a prescindere dalla realtà dei dati esposti. Non a caso, sussiste una disciplina della “liquidazione dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione” (art. 54 bis d.P.R. 26.10.1972, n. 633), con caratteristiche e funzioni assai vicine a quelle rilevate a proposito dell’art. 36 bis d.P.R. n. 600/1973.
Gli obblighi di versamento, o la stessa utilizzabilità delle eccedenze, che si perfezionano anteriormente la dichiarazione annuale sono meramente provvisori e rispondono ad una logica di progressivo avvicinamento al risultato (unitario) di periodo. L’esito è analogo a quello relativo ai versamenti diretti, precedenti la presentazione della dichiarazione, previsti ai fini delle imposte sui redditi: l’eccedenza può essere “utilizzata” al fine di estinguere altre situazioni soggettive, ma se in seguito alla dichiarazione annuale emerge un debito, il contribuente avrà commesso una violazione di legge e verrà sanzionato. Chi ritiene che le situazioni soggettive si cristallizzino già a fine periodo, a prescindere dalla dichiarazione annuale, reputa coerentemente che, in ipotesi di eccedenza di detrazioni rispetto al versato, il credito esista già, salvo doverlo sottoporre alla condizione risolutiva di un eventuale diverso esito della dichiarazione (Basilavecchia, M., Situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo. Dalla detrazione al rimborso nell’imposta sul valore aggiunto, ed. provv., Pescara, 2000, 134, tramite ricostruzione analoga a quella osservata supra, par. 1, con riferimento al sistema previgente, a proposito degli effetti della dichiarazione nelle more della sua necessaria verifica in sede di accertamento). Svalutando la dichiarazione, l’obbligazione sorgerebbe già a fine periodo, cosicché l’eventuale importo già versato dovrebbe essere satisfattivo per l’amministrazione finanziaria: l’esito mi pare incompatibile con le eventuali diverse risultanze della dichiarazione ed i relativi effetti legislativamente previsti.
L’aver individuato la natura della dichiarazione quale atto giuridico (salva l’autonoma rilevanza di mero fatto ai fini degli obblighi di versamento) non è operazione meramente astratta, in quanto incide in modo rilevante sulla possibilità di correzione degli elementi erroneamente indicati. L’emendabilità riguarda sia gli errori implicanti evasione d’imposta, sia quelli comportanti un versamento maggiore rispetto al parametro dato dall’an e dal quantum del presupposto del tributo.
In relazione ai primi, è previsto il potere di accertamento dell’amministrazione finanziaria, in relazione ai secondi, invece, va osservato come per lungo tempo il legislatore non si sia preoccupato di disciplinare un rimedio espresso, lasciando all’interprete la soluzione del problema: non a caso, la giurisprudenza degli anni Novanta non ha saputo addivenire ad una soluzione univoca, fluttuando tra posizioni rigoriste e altre assai più liberali (Nussi, M., Disorientamenti giurisprudenziali in tema di rimborsi da errata dichiarazione dei redditi, in Rass. trib., 1998, 24 ss.), salvo poi giungere non senza fatica all’approdo della piena rimborsabilità delle somme versate in dipendenza di errori nella dichiarazione tributaria (Cass., S.U., 25.10.2002, n. 15063, in Riv. dir. trib., 2003, II, 84 ss.). In sostanza, in assenza di una disciplina specifica, l’emendabilità della dichiarazione doveva percorrere la via della richiesta di rimborso del contribuente, con i relativi termini decadenziali di presentazione.
Il legislatore è rimasto per lungo tempo inerte, almeno sino alla modifica dell’art. 9, d.P.R. n. 600/1973, apportata dall’art. 14, l. 29.12.1990, n. 408, che introduceva la cd. dichiarazione integrativa, concepita soprattutto come una sorta di ravvedimento operoso del contribuente, il quale, stimolato da una riduzione delle sanzioni, poteva correggere l’atto originario entro termini decadenziali, eliminando l’evasione e versando il maggior tributo. Simile normativa avrebbe potuto essere interpretata anche in chiave di rettifica “in diminuzione” dell’imponibile e dell’imposta dichiarati (Sammartino, S., La dichiarazione d’imposta, in Trattato di diritto tributario, a cura di A. Amatucci, III ed., Padova, 1994, 39): tale esito non solo non ha avuto un’eco di consensi in dottrina (Moschetti, F., Emendabilità della dichiarazione, cit.,1172 ss.), ma non ha neppure trovato applicazione nella prassi, anche per la manifesta contraria interpretazione dell’amministrazione finanziaria.
La normativa è poi modificata tramite l’art. 2, co. 8, d.P.R. 22.7.1998, n. 322, con un intervento che, anche in seguito alla quasi coeva riforma del sistema delle sanzioni tributarie, ove la figura del ravvedimento operoso è autonomamente disciplinata (art. 13 d.lgs. 18.12.1997, n. 472), affranca l’istituto della dichiarazione integrativa da ogni relazione con i citati profili sanzionatori, legittimandolo sino al termine di decadenza previsto per gli accertamenti dell’amministrazione finanziaria. Di fronte ai persistenti dubbi interpretativi, il percorso normativo si esaurisce nel 2001, allorquando nel citato art. 2 è aggiunto il comma 8 bis, che da un lato riduce (correlandolo a quello della dichiarazione del periodo d’imposta successivo) il termine per poter presentare una dichiarazione integrativa con esito diminutivo dell’imponibile o dell’imposta (entro il termine di presentazione di quella del periodo successivo), e dall’altro delimita l’efficacia dell’atto, idoneo non già ad implicare il rimborso d’ufficio dell’eventuale maggiore somma versata, ma ad applicare la disciplina della cd. compensazione ai sensi dell’art. 17 d.lgs. 9.7.1997, n. 241.
La previsione di un contrarius actus appare in sintonia con le esposte osservazioni in punto natura, qualificazione ed effetti della dichiarazione tributaria. Ai fini dell’incidenza dell’atto sui poteri di accertamento, l’amministrazione, in presenza di più dichiarazioni, avrà una conoscenza maggiore; ai fini della fattispecie obbligatoria, invece, la denuncia integrativa, sostitutiva dell’originaria, è elemento sufficiente a perfezionare una fattispecie modificativa, in aumento o in diminuzione, dell’eventuale quantum originariamente dovuto in base alla dichiarazione (Nussi, M., La dichiarazione, cit., 256 ss., 271 in particolare).
A livello sistematico, va ribadito come la normativa attuale, pur considerando liberamente emendabile la dichiarazione tributaria, ne esclude effetti di rimborso officioso in relazione a quella con risultato in diminuzione, consentendo (a prescindere dalla veridicità della correzione eseguita) l’utilizzazione dell’eccedenza, emergente ex lege dalla liquidazione dell’atto, solo in funzione estintiva di altri debiti tributari (e previdenziali). L’autoriduzione dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione (integrativa) incide poi sull’agire amministrativo, nel senso che in sede di accertamento il fisco determinerà l’eventuale maggior imponibile e la correlativa maggiore imposta in base al risultato emendato, piuttosto che a quello originario, con i conseguenti riflessi anche sanzionatori.
Sotto altro profilo, l’implicito divieto di rimborso officioso lascia aperta la problematica in ordine alla possibilità di utilizzare, in concorso con la dichiarazione integrativa, la tradizionale procedura di rimborso ad istanza di parte, un tempo applicata in assenza di rimedi espressi: tale istanza, del resto, non sortisce effetti obbligatori automatici, ma implica la previa valutazione dell’amministrazione finanziaria circa l’asserito errore del contribuente, da verificare tramite il controllo della fondatezza della domanda rispetto all’effettività del presupposto impositivo, così come disciplinato dalle regole della base imponibile. La dottrina si è da subito orientata a risolverlo in chiave liberale, mentre la stessa giurisprudenza di legittimità ha atteso prima di affermarlo esplicitamente, seguita dalla presa d’atto dell’Agenzia delle Entrate (Risol. 2.12.2008, n. 459), dapprima orientata in senso decisamente negativo.
L’ufficio finanziario, quindi, stimolato da apposita istanza di rimborso, sarà vincolato a statuire sulla richiesta valorizzando l’atto dichiarativo solo se conforme al presupposto.
Il sistema, così delineato, appare del tutto razionale: per esigenze di semplificazione, la fattispecie obbligatoria è concretata dalla sola dichiarazione e le modifiche a tale fattispecie derivano da un ulteriore comportamento del contribuente che modifica quello originario, entro termini limitati in caso di esito per lui vantaggioso. Al di fuori di tale meccanismo di sostituzione tra atti, residua l’intervento dell’amministrazione finanziaria, la quale può agire, a seconda delle circostanze e pur sempre sulla base di una dichiarazione del contribuente, tramite un avviso di accertamento in rettifica ovvero, valorizzando la propria funzione latamente giustiziale (Allorio, E., Diritto processuale tributario, V ed., Torino, 1969, 19 ss.), tramite il rimborso su istanza di parte.
Recentemente, tramite la Circ. 24/09/2013, n. 31/E, l’Agenzia delle Entrate è intervenuta con un’innovativa interpretazione che, sebbene espressamente limitata alla correzione degli errori in bilancio, in particolare quelli correlati all’imputazione temporale delle componenti reddituali, appare foriera di assumere valenza più generale. In sintesi, si consente al dichiarante di correggere tali errori ricostruendo «tutte le annualità d’imposta interessate … risalendo fino all’ultima annualità d’imposta dichiarata … emendabile ai sensi del citato art. 2, comma 8-bis». In tal modo, il contribuente presenta una serie di dichiarazioni integrative sino quella in relazione alla quale può utilizzare la cd. compensazione, “eludendo” così il limite normativamente previsto. A fronte di ragionevoli esigenze di semplicità e di contrasto a fenomeni di doppia imposizione, il contrappeso interpretativo consiste nel far decorrere i termini di decadenza per l’accertamento dalla “presentazione della dichiarazione integrativa”, sia pure solo “in relazione e nei limiti degli elementi rigenerati”. A mio avviso, la soluzione adottata dall’Agenzia delle Entrate è apprezzabile negli intenti, ma appare estranea alle previsioni stabilite dal diritto positivo, tanto più qualora il “creativo” iter, volto a presentare dichiarazione a “cascata”, nasconda implicitamente una procedura obbligata che sancirebbe l’inammissibilità dell’autonomo rimedio dell’istanza di rimborso.
Le situazioni in cui il soggetto passivo può far valere errori commessi in sede di redazione della propria dichiarazione tributaria sono molteplici e si collegano in particolare alle difese da contrapporre agli atti amministrativi in cui si concretano eventuali pretese autoritative dell’amministrazione finanziaria.
Invero, nell’emettere un avviso di accertamento, l’amministrazione assume a fondamento della legittimità del suo operato tutte le informazioni in suo possesso, dovendo determinare in modo vincolato l’imponibile reale, senza poter operare in questo ambito scelte discrezionali. Cosicché, al fine di elidere gli effetti dell’avviso di accertamento eventualmente ricevuto, strutturalmente connotato da un imponibile maggiore rispetto al dichiarato, il contribuente ben potrà difendersi facendo valere ogni proprio errore commesso in dichiarazione al fine di controbilanciare il quantum accertato, sino a "eliderlo" (cfr. Cass., 13.4.2012, n. 5852; Nussi, M., La dichiarazione, cit., 285 ss.). Peraltro, l’errore che implichi anche una restituzione nei confronti del dichiarante, decorso il termine per la presentazione di una dichiarazione con esito in diminuzione, potrà essere fatto valere solo in presenza di previa istanza amministrativa e con domanda giudiziale autonoma.
La giurisprudenza di legittimità estende la rettificabilità degli errori della dichiarazione anche in sede di impugnazione del ruolo emesso in seguito a liquidazione o di controllo formale della dichiarazione (cfr. Cass., 12.11.2011, n. 26512, con nota critica di M. Nussi, L’emendabilità degli errori della dichiarazione in sede di impugnativa del ruolo tra esigenze sostanziali e pericolose implicazioni sostanziali, in Riv. giur. trib., 2012, 304 ss.; Cass., 25.7.2012, n. 13104), anche per un’assecondabile esigenza “pratica” volta ad evitare azioni di rimborso successive.
In simile contesto, tuttavia, dovrebbe essere abbandonato un vecchio consolidato orientamento della Suprema Corte, in base al quale la definitività del ruolo comporta l’irripetibilità del versato e, conseguentemente, la preclusione di ogni ulteriore forma di emendabilità della dichiarazione (orientamento consolidatosi tramite Cass., S.U., 9.6.1989, n. 2786, e ancor oggi dominante). Tuttavia, come sembra ora propendere la stessa Cassazione, se l’errore del contribuente non è in realtà “vizio proprio” del ruolo (ai sensi della delimitazione dei motivi di ricorso previsti dalla legge processuale tributaria), allora dovrebbe conseguirne almeno la mera facoltà, piuttosto che l’onere, di eccepire l’errore dichiarativo in sede di relativo ricorso, delineando così una sorta di tutela anticipata, ma non esclusiva (per approfondimenti, Nussi, M., L’emendabilità, cit., 304 ss.).
Insomma, la preclusione conseguente all’omessa impugnazione del ruolo non può derivare da un titolo di prelievo, la dichiarazione, ormai “provvisorio”: simile preclusione può derivare esclusivamente dalla definitività della fattispecie sostanziale sottostante, e se questa è modificabile, emendabile, come la dichiarazione tributaria, il ruolo segue le sorti del titolo sostanziale da cui deriva.
Art. 1, 2, 4, d.P.R. 29.9.1973, n. 600; art. 2 d.P.R. 29.9.1973, n. 602; art. 2 d.P.R. 22.7.1998, n. 322.
Batistoni Ferrara, F., La dichiarazione nel sistema dell’accertamento tributario, Pisa, 1979; Magnani, C., La dichiarazione annuale dei redditi, Padova, 1974; Magnani, C., Dichiarazione tributaria, in Dir. prat. trib., 1988, I, 30 ss.; Moschetti, F., Emendabilità della dichiarazione tributaria, tra esigenze di “stabilità” del rapporto e primato dell’obbligazione dovuta per legge, in Rass. trib., 2001, 1149 ss.; Nussi, M., La dichiarazione tributaria, Torino, 2008; Sammartino, S., La dichiarazione d’imposta, in Trattato di diritto tributario, a cura di A. Amatucci, III, Padova, 1994; Tesauro, F., Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975.