Dio
L'idea che D. ha di Dio riflette molte influenze convergenti, ma la sorgente immediata è un desiderio tenace di comprendere e valutare la realtà. Essa rappresenta le intuizioni più profonde di chi, coscientemente, fu al tempo stesso un figlio della tradizione giudaico-cristiana e un erede della filosofia greca e greco-araba, sicché studiarla significa studiare sia l'opera che il mondo di Dante. In questa voce, più che preoccuparci di distinguere i vari elementi che egli trasse dalla tradizione, indicheremo gli aspetti più personali e caratteristici della sua concezione di Dio. A tal fine sarà meglio considerare la sua dottrina in fieri e nelle due fasi più importanti rappresentate, la prima, soprattutto dal Convivio e la seconda dalla Commedia. Un sommario degli elementi di metafisica religiosa quali si possono rintracciare nelle opere in prosa, servirà come introduzione alla sintesi dottrinale più completa rappresentata dalla Commedia.
Vita Nuova; Convivio. - Nella Vita Nuova, Dio è visto solo in relazione a Beatrice, di cui egli, in quanto mirabile Trinitade, è il creatore immediato (XXIX 3); quindi lodare lei significa, implicitamente, lodare Dio (cfr. XXVI 10 4); la sua gentilezza e bellezza sono un evidente miracolo che riflette la divinità da cui derivano (cfr. XXVI 2 e 6 8 con XXIX 3). Va tuttavia notato che, una volta trasferita da terra in cielo, ella non ‛ mostra ' più cose divine, poiché il cielo è al di là dell'umana esperienza (XLI 6). Qui sono presenti, in germe, due contrastanti temi che saranno ampiamente sviluppati nelle opere più tarde: la quasi visibile presenza di Dio nella natura e, nello stesso tempo, la sua trascendenza rispetto alla conoscenza naturale. Ci sia concesso notare, inoltre, in vista di ulteriori sviluppi, che il Dio della Vita Nuova è sia segnore de la giustizia che sire de la cortesia (XXVIII 1, XLII 3; cfr. Pd VII 91-120). Non molto tempo dopo la morte di Beatrice, il poeta s'innamorò del suo secondo amore, la filosofia (Cv II II, XII, III I 1). Se questa fu una delle maggiori svolte della sua vita, tuttavia non cambiò le sue convinzioni più profonde. Nella poco rigorosa filosofia che ne risultò, e che fu espressa nel Convivio un decennio più tardi, sostanzialmente ritroviamo la stessa visione e mentalità della. Vita Nuova (com'è lecito aspettarci da Cv II XII 4). Ovviamente, i nuovi studi stimolarono le capacità critiche di D., rendendolo consapevole di problemi e difficoltà insite nelle idee tradizionali di Dio. In particolare, a giudicare dal Convivio, quelle riguardanti le relazioni tra Dio e mondo fisico, specialmente per quanto concerneva la conoscenza della materia da parte di Dio (IV I 8), e il come la sua attività causale si combinasse con le cause seconde naturali, in special modo nella produzione degli esseri umani (IV XXI; cfr. III VIII 2). Ciò nonostante l'impressione che ne risulta è soprattutto di continuità. La mente di D., pur assumendo un abito filosofico, non cessò mai di essere fondamentalmente contemplativa, piena di certezza e religiosa. Quanto alla trascendenza e all'esistenza di Dio, D. non mostrò mai il minimo dubbio. Ciò di cui era divenuto, con sempre maggiore intensità, consapevole e interessato era la capacità dell'intelletto umano di conoscere quello che le cose sono (IV XV 11); ciò che aveva ritenuto dall'adolescenza era quella capacità di meravigliarsi, quello stupore (IV XXV 5) che ora lo spingeva alla filosofia, verificando così il detto di Aristotele (Metaph. 12, 982b 10). Ormai la visibile maraviglia (III VII 16, XIV 12-15) è divenuta la filosofia, nei cui occhi dimora la verità (IV II 17), l'oggetto di un senso di vero ormai pienamente ridestato (II XII 6). E quel vero è, implicitamente, Dio stesso, poiché l'intelligibilità latente in ogni cosa ormai, per D., non è altro che la partecipazione di questa a un ordine globale; un ordine ancora misterioso nella sua totalità e che egli poteva affermare solo con quel desiderio di sapere che va al di là di ogni attuale conoscenza (III II 8-9, XI 3-6) e che, pur se determinato da una particolare soddisfazione intellettuale, trova la sua più profonda ragione nella gioia di vedere la verità come tale, in assoluto. In ciò sta l'appagamento dell'intelletto come tale, poiché 'l vero è lo bene de lo intelletto (II XIII 6; cfr. I I 1, IV XV 11). Alla luce di questa intuizione D. non solo non dubitò mai, ma anzi presuppose l'esistenza di una sapienza universale, di una filosofia che è massimamente... in Dio, in quella somma Deitade che sola [sé] compiutamente vede (II III 10, III XII 12).
Dio perciò è il sommo intelligibile (IV XXII 13) e, in certo senso, il termine del desiderio di tutte le creature dotate d'intelletto. Nel Convivio D. non tenta - come farà nel Paradiso - di definire il modo in cui un'intelligenza creata conosce finalmente D., se cioè mediante una visione diretta o una qualche teofania. Egli trae la sua conclusione soprattutto dal principio secondo cui ciascuna cosa massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni suo desiderio (III VI 7; cfr. I I 1, IV XXII passim). L'intelletto, quindi, desidera la visione più piena possibile della verità che in certo senso dev'essere visione di Dio; e, nel caso dell'intelletto umano, ciò implica un naturale desiderio di vivere oltre la morte (II VIII 11-12), in qúanto a D. parve chiaro che il nostro intelletto, per natura, desidera una realizzazione più completa di quella possibile in questa vita (IV XXII 13-15). Nel frattempo, già in questa vita, Dio ci trae verso di sé e verso l'eternità mediante il nostro naturale desiderio di verità, attraverso quella che può esser definita una sorta di assimilazione a Dio (III XIV 2-7). Con ciò siamo al tema, platonico in origine, della ‛ partecipazione '; l'idea cioè secondo cui delle cose tra loro separate sono intrinsecamente unite, in quanto partecipi di un principio più alto, e precisamente ‛ divino ', il quale tuttavia rimane distinto da tutte e da ciascuna, in un rapporto di trascendenza. Nel Convivio, specialmente nel III trattato, sebbene non la sottoponga a un esame critico, D. fa molto uso di questa idea: essa aveva il pregio di esprimere la sua visione poetica delle cose e di essere sostenuta da autorità venerande. I tre attributi di Dio cui più particolarmente si partecipa sono ‛ luce ', ‛ bontà ' e ‛ unità '. È appunto l'antica immagine della luce, quella che domina i due principali passi in cui la nozione di partecipazione è connessa direttamente con l'intelletto (III VII 2-5 e XIV 2-7). Anche se ambedue questi passi sono d'ispirazione neoplatonica (il primo fa esplicito riferimento al Liber de causis e a un'opera di Alberto Magno chiaramente nell'ambito di quella tradizione), è tuttavia opportuno rilevare alcune differenze. Nel primo passo il ‛ participatum ' è la bontade di Dio, cui le creature tanto più partecipano quanto più sono immateriali; ma il corrispondente concetto di ‛ forma ' rimane largamente implicito e l'accento cade invece sulla ‛ nobiltà ', una ‛ nobiltà ' che denota assenza di restrizione nell'essere e nell'attività; e ciò corrisponde a quella originale nozione di bontà, che D. solitamente associa alla pienezza o alla ricchezza di essere (per es. in IV IX 3; cfr. Pd XIX 50-51). Ciò nondimeno l'idea basilare è che a gradi di bontà corrispondono gradi d'intellettualità, come mostrano le parole conclusive del passo, a la prima simplicissima e nobilissima vertude, che sola è intellettuale, cioè Dio (III VII 5). Il che sostanzialmente è vero anche nel secondo passo (XIV 2-7); ma qui l'accento cade esplicitamente su Dio come potenza causale, come virtù, come lo primo agente che, causando le cose, perciò stesso le trae a sé quale termine del loro moto naturale: quel moto che, discendendo da Dio alle cose, è completato da un moto ascendente dalle cose a Dio. E con questo giungiamo al tema della partecipazione, in quanto partecipazione d'amore, e al principale testo in cui si trova esposto (III II 2-9).
L'amore costituisce un principio dinamico interno alla natura che tende a unire tra loro tutte le cose. Ma perché la natura è costituita in tal modo? Perché le cose amano per natura? La causa fondamentale è l'unità divina. Anche se gli effetti di questa sono molteplici, ciascuno di essi, proprio perché effetto di questa unità, ha affinità con essa. Orbene, l'unità in Dio, dice D. citando il De Causis, significa unione, naturale, con l'essere. Perciò ogni cosa, pur se per altri lati differente, desidera l'essere e conseguentemente tende a Dio, fonte dell'essere. E siccome questo è il suo più profondo desiderio, la conseguenza immediata è che ogni cosa creata prova un certo amore per le altre cose create, non in sé stesse e in quanto tali, ma perché spinta dal precedente impulso verso Dio (cfr. s. Tommaso Sum. theol. I 60 5). Ogni cosa, dunque, ama le altre cose in quanto queste, per mezzo della loro ‛ bontà ', le mostrano Dio. Quindi, nella misura in cui le cose sono consapevoli della ‛ bontà ', esse hanno una più grande capacità d'amare: quanto più una cosa è in alto nella scala dell'essere, tanto più ama naturalmente Dio (in quanto più consapevole della sua presenza nelle cose) e, inoltre, più ama naturalmente le creature (in quanto ‛ mostrano ' la presenza di Dio sia entro che mediante la loro ‛ bontà '). Sicché, l'universo dantesco è interamente governato dall'amore, in quanto l'unità della sua fonte ne costituisce la regola e la misura più profonda. E l'ordine dell'universo, nel suo aspetto dinamico, viene scandito secondo i modi e i gradi di questo amore. Solo alla luce di quest'ordine naturale noi potremo capire l'etica di D., in quanto denota un retto rapporto sia rispetto a Dio, sia rispetto alle creature. La regola naturale dirige l'amore in primo luogo a Dio e poi, nell'ordine dovuto, alle creature. L'amore così diretto è quella caritas seu recta dilectio, il cui contrario è la cupiditas (Mn I XI 13). Cupiditas (cupidigia, cupidità) è il termine generalmente più usato da D. per denotare la corruzione, sia rispetto a Dio che alle creature, di un siffatto ordine naturale fondato sull'amore.
Rispetto all'ordinamento politico temporale, la cupidigia tende direttamente alla distruzione della giustizia tra uomo e uomo (Mn I XI 6,11 e 14); rispetto all'ordine eterno e al rapporto tra uomo e Dio, ciò che essa corrompe è il desiderio assolutamente primordiale di Dio che la natura c'imprime nell'anima. Il che, se è implicito nel passo ora considerato, è esplicitamente affermato in Cv IV XII 13-17.
Una frase di quest'ultimo testo ci permette di scorgere quella concezione ‛ triadica ' del rapporto tra Dio e le creature, che costituisce la struttura basilare di tutta la concezione metafisica di D., non solo nel Convivio, ma in tutta la Commedia: lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio. E però che Dio è principio de le nostre anime e fattore di quelle simili a sé... essa anima ma simamente desidera di tornare a quello (§ 14). In questo passo D. fa riferimento alla dottrina biblica della imago Dei presente nell'uomo (Gen. 1, 27); ma è indubbio che in lui agiscono anche fonti neoplatoniche (quali il De Causis e Dionigi). Il neoplatonismo, da Plotino a Procle, era andato articolando la sua visione del movimento ciclico dell'essere nel senso che il Molteplice, pur emanando dall'Uno o Bene, ‛ permane ' in esso; e questa μονή (unità) si realizza come 464 (amore) presente in ogni cosa, così da completare il movimento di ‛ processione ', πρόοδος, con uno di ‛ ritorno ', ἐπιστροφή. Tali concetti passarono da Dionigi alla teologia scolastica, in quanto servivano a esprimere la dottrina secondo cui Dio è amore e l'uomo è fatto a sua immagine. Dio, dice l'Aquinate, è amore " essentialiter et causaliter ". Egli è amore della sua stessa bontà; per questo la sua immagine creata deve essere amore, amore di quella bontà: sicché essere creato significa, ipso facto, desiderare Dio. Quindi " quaedam circulatio apparet in amore, secundum quod est de bonum in bono "; in altre parole, " ex isto bono [Dio] emanavit in existentia, et iterum in existentibus participatus convertit se ad suum principium, quod est bonum " (s. Tommaso Expos. super Dionysium, De Divinis nominibus, IV lect. XI). Sostanzialmente, questa è anche la visione di D. che, abbozzata nel Convivio, giunse a un'espressione matura nella Commedia (v. specialmente Pd I 103-126, VII 142-144). Ma D. batté particolarmente su due aspetti: quanto all'atto creativo di Dio, sulla nozione di bontà (bonum est diffusivum sui); quanto al ‛ ritorno ' delle creature a Dio, sul principio che gli effetti assomigliano alle loro cause (omne agens agit sibi simile; cfr. Cv III II 5 e 8, XIV 2-3, IV X 8, Mn I VIII, Pd X 1-6).
Questo duplice risalto è caratteristico di tutta la speculazione dantesca su Dio; ma quando D. si volge a Dio ‛ concretamente ', allora potremmo definire il suo atteggiamento più caratteristico come un misto di umiltà e audacia intellettuale, che è implicito nella descrizione dello stupore di Cv IV XXV 5: stupore è uno stordimento d'animo per grandi e maravigliose cose vedere... che, in quanto paiono grandi, fanno reverente a sé quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di sapere di quelle. Questo approccio profondamente intellettuale a Dio permea tutta l'opera di D., e trova il suo punto culminante nella chiusa del Paradiso. Unico contrappeso a esso, specie nella Commedia, è costituito da un insistente riferimento al mistero di Dio (cfr. p. es. Pg III 34-39, Pd VII 58-60, XIII 130-142, XIX 40-63, XXI 91-99, XXXIII 67-75) o da un senso di personale indegnità morale (p. es. If I 1-60, Pg XXX 55-XXXI 90, XXXIII 67-90, Pd XXII 106-108). Lo ‛ stupore ' di D. (cioè di D. ‛ autore ') dinanzi a Dio non è suscitato - eccezion fatta per la fine del Paradiso - da un'esperienza di Dio ‛ in sé ', ma dai suoi effetti, e specialmente da certi tipici effetti, che sembrano mostrare in modo eccellente la sua grandezza e sapienza. Tali effetti sono la complessità psicofisica della natura umana (Cv III VIII 1-3, IV XXI 6), la convergenza tra storia sacra e storia profana (IV V 9; cfr. Pd VI 82-93, VII 112-114) e l'ordine cosmico (III V 22; cfr. Pd X 1-21, XVIII 109-111, XIX 40-45, XXXIII 85-93). In tutti questi passi del Convivio D. si richiama alla sapienza di Dio che è detta ineffabile (III V 22) e ineffabile e incomprensibile (IV V 9).
De Vulgari Eloquentia; Monarchia; Epistola V. - Nel De vulg. Eloq., tranne un vivido e suggestivo richiamo al dantesco senso della ‛ divinità ' nelle cose di I XVI 5, Dio è visto soltanto in relazione con l'uomo (al quale soli... datum fuit ut loqueretur, I IV 1). Dio creò il primo uomo capace di parlare - altrimenti ‛ uomo ' non sarebbe stato -, la cui prima parola, in quanto diretta all'Onniscente, non fu la trasmissione di un significato, ma un'espressione puramente ‛ lirica ', ut in explicatione tantae dotis gloriaretur ipse qui gratis dotaverat (I V 2; cfr. Pd XV 64-69, XVII 7-12). Peraltro, la prima parola fu El, " Dio ", e ciò per l'interessante ragione che essa doveva esprimere gioia (et ipse Deus totus sit gaudium, I IV 4). E questa è appunto una connessione caratteristica. Difatti, in quei passi della Commedia dove si tratta della creazione, l'accento batte su un rapporto di dipendenza fra la gioia di Dio, in quanto creatore in actu, e il naturale desiderio di felicità insito nella creatura umana (Pg XVI 88-90, XXV 70, Pd I 126, X 10-12). Infine Dio, in quanto autore della natura, è naturans (cfr. Mn II II 3), e la colpa di Babele consisté nel tentativo da parte dell'arte umana, che avrebbe dovuto seguire la natura, di superare l'arte divina di cui la stessa natura è seguace (VE I VII 4; cfr. If XI 103-105; Pd X 10-11).
Nella Monarchia, D. si occupa di Dio solo nel suo rapporto con la società civile o ecclesiastica. Ciascuno dei tre principali problemi sociali in essa sollevati viene risolto alla luce di un assioma sulla ‛ natura ' (I III passim, II II 1-6, III II 1-2); natura che può occasionalmente significare Dio (p. es. II II 2) ma che più tipicamente, nella Monarchia, denota l'ordine creato, o parte di esso, sia come ambito comprensivo dell'uomo sia come oggetto della sua conoscenza. Quindi, dal particolare punto di vista della Monarchia, Dio è auctor naturae, Deus naturans; tanto che la frase di I XIV 2 et cum... omne quod Deo et naturae displicet sit malum, potrebbe costituire l'epigrafe dell'opera. I due principali concetti concernenti Dio di cui si fa uso nel trattato, sono (libri I e II) che la natura ‛ riflette ' o ‛ imita ' Dio, e (libro III) che Dio è la fonte diretta della suprema autorità politica esistente sulla terra, cioè l'Imperatore. Il concetto della natura che ‛ imita ' o ‛ riflette ' Dio si suddivise poi, nel libro I, nei vari riflessi che la bonitas e l'unitas di Dio hanno nell'ordine cosmico e nella società umana; mentre l'idea che presiede al libro II è che la base naturale della giustizia, ius in rebus, è la manifestazione della volontà di Dio. Altri due temi importanti sono quelli del libero arbitrio e della Provvidenza divina: il primo (I XII) è posto in evidenza in modo da controbilanciare il generale risalto che nel libro I aveva il concetto dell'integrazione dell'uomo nell'ordine naturale, controllato da cause naturali (ma v. anche I I 1); il secondo tema, invece, quello della providentia illa inenarrabilis, pervade il libro II. Qui il preciso intento di D. è di mostrare il realizzarsi della volontà di Dio attraverso la storia di. Roma, intento che viene fuori energicamente anche nel grande capitolo conclusivo del libro III. Tema generale della Monarchia è quindi Dio, la Natura e l'Uomo: Dio opera attraverso la Natura; l'Uomo, nella sua accezione sociale e politica, è chiamato a conformarsi alla Natura e, quindi, al Deus naturans.
Tre di questi temi appaiono nella splendida prosa retorica dell'epistola v: quello dei poteri gemelli Petri Caesarisque discendenti ambedue dalla stessa bontà divina, Fons pietatis (§ 17; cfr. Mn II V 5): quello di una divina praedestinatio quale può facilmente scorgersi nella lunga storia di Roma che sfocia nella pace di Augusto e nell'incarnazione (§§ 23-27); e quello della predestinazione che, comunque, permette, anzi richiede, una libera volontà umana (§ 25).
Commedia. - Inferno. - Due sono i temi principali degni di nota: l'opposizione tra Dio e il male, e il male fatto dalle creature in quanto comporta tale opposizione. L'Inferno stesso è una creazione di Dio, in quanto Trinità di potenza e amore, mossa dalla giustizia a creare questo luogo che 'l mal de l'universo tutto insacca (VII 18, III 4-6). Dio infatti è l'avversario d'ogne male (II 16) e, più particolarmente, del male che corrompe la sua immagine nelle creature, cioè la ragione: Ma perché frode è de l'uom proprio male, / più spiace a Dio (XI 25-26). Nel corso del viaggio attraverso l'Inferno D. ci ricorda che esso è la manifestazione della giustizia (VII 19, XXIX 56) e della potenza divina (XXIV 119). Ovunque è presente l'idea che una creatura, nel peccare, si oppone a D., ma essa è esplicitamente affermata nel caso del peccato contro natura, dell'idolatria e della ribellione contro Dio. Essa, in ogni caso, sottintende sempre il generico concetto di malizia intesa come disposizione a fare ingiuria, cioè, in qualche modo, a violare questo o quell'aspetto o parte della realtà (XI 22-24, 31-33). La divinità come tale, comunque, non può essere colpita dall'ateismo o dalla bestemmia (cfr. XI 46-47); queste colpe sono soltanto vani sforzi, un danno che ricade sul peccatore (XIV 63-72, XXV 1-9, XXXIV 16 ss.). I peccati contro natura esprimono disprezzo per la sapienza e la bontà divina, in quanto riflesse immediatamente nella natura, e in quanto riflesse nelle arti umane che devono seguire la natura; quest'arte, infatti, a Dio quasi è nepote (XI 48-50, 97-111). L'idolatria è identificata in special modo con il peccato dei corruttori della Chiesa, i simoniaci (XIX 112-114). La bestemmia è strettamente associata all'orgoglio (XIV 64, XXV 14), poiché la bestemmia di fatto (cfr. Pg XXXIII 58-60) è ribellione contro Dio (VII 12, XXXI 91; cfr. Pd XIX 46; cfr. If XXXIV 35 alzò le ciglia). Nella Commedia possono distinguersi tre tipi di ribellione nata dall'orgoglio: quella del mondo pagano (che comprende i giganti) cui Dio fu mostrato come sommo Giove (XIV 51-60, XXXI passim; cfr. Pg XII 28-36); quella dei cristiani, nella figura di Vanni Fucci (XXV 1-18) e forse di Bonifacio VIII, con la sua superba febbre (XXVII 97); e quella degli angeli, rappresentata da Satana (XXXIV; cfr. VII 10-12). In generale il concetto dominante nell'Inferno è quello dell' ‛ opposizione ': opposizione di Dio contro il male, e dell'uomo, come male, contro Dio.
Purgatorio. - In questa cantica sono ancora presenti la colpa e la sofferenza, ma la colpa è espiata e purificata dalla sofferenza. Ciò, naturalmente, implica un rapporto completamente diverso tra il peccatore e Dio. Dio, in questo caso, risana l'uomo attivamente attraverso la disciplina della pena, in un'opera d'amore non meno che di giustizia (cfr. giustizia e pietà, XI 37; e cfr. X 108, XXI 65-66, con XIII 39, XIX 76-78, XXIII 73-75, XXVII 55-58). È soprattutto in quest'opera di risanamento attraverso la pena, che si attua la presenza di Dio nel Purgatorio. Anche se tale presenza è in gran parte implicita o nascosta nelle allusioni alla vita terrena di Cristo (v.), ciò non esclude che la cantica offra un insegnamento teologico su Dio creatore e fine ultimo dell'uomo, nel modo che segue:
a) Dio è presentato esplicitamente come creatore due volte (XVI 85-90 e XXV 67-75). Nel primo luogo, come causa della spontanea e ansiosa ricerca da parte della creatura umana di ciò che la trastulla, del piacere, della gioia, della felicità, proprio in quanto l'atto stesso della creazione fu un'espressione gioiosa dell'eterno amore di Dio (vv. 85-86, 89); nel secondo luogo, come causa che sopravviene - dopo che le cause ‛ naturali ', già create, hanno compiuto la loro opera (sovra tant'arte di natura) - a infondere direttamente l'anima razionale. Sicché, l'essere umano che ne risulta è un'unione misteriosa di tutte le forme di vita ai loro vari livelli (che vive e sente e sé in sé rigira), un unico composto di materia e spirito, nato per vivere sia nel tempo che nell'eternità (cfr. Mn III XV 3-6).
b) Questa natura umana, dunque, in quanto causata dalla Bontà, è buona; ma diversamente dal suo Fattore, non contiene in sé tutta la bontà che per natura desidera (XXVIII 91-92): di qui è spinta, sin dal suo primo ingresso nella vita, dal desiderio di un bene che dia un perfetto appagamento (XVII 127-128); bene che di fatto non può essere altro che Dio stesso. Tutto ciò è implicito nelle parole di Beatrice a D. di XXXI 22-24 (e cfr. XVII 133-135, dove il ben... che... fa l'uom felice è detto la buona essenza, d 'ogne ben frutto e radice), ma è esplicito nell'affermazione di XXI 1-3 La sete natural che mai non sazia / se non con l'acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia (cfr. Ioann. 4, 13-15). Ma, in genere, nel Purgatorio l'oggetto propriamente divino dell'umano desiderio è lasciato in ombra con semplici accenni quali XIV 148-150, XV 52-57, 67-68, XXVII 115-117, XXXI 127-129, 139-145, XXXII 73-78.
c) Un dato caratteristico del Purgatorio, è che il desiderio naturale di Dio è suscitato e alimentato da Dio stesso: egli - la cui natura è nell'amare (XVII 91-92) - ‛ corre ' incontro al desiderio delle sue creature: Quello infinito e ineffabil bene / che là sù è, così corre ad amore / com'a lucido corpo raggio vene. / Tanto si dà quanto trova d'ardore (XV 67-70; cfr. III 122-123, V 100-107, X 34-42, XV 131-132). Questo tema, inoltre, si fonde naturalmente con l'altro (così caratteristico del Purgatorio) della preghiera, del desiderio struggente e dell'attesa. Un tema, quest'ultimo, che vien fuori con pregnanza tutta particolare nell'inno serotino delle anime nella valletta (VIII 10-18), nella parafrasi del Pater noster (XI 1-24), nell'Agnus Dei degl'iracondi (XVI 19-21) e nella preghiera degli avari (XIX 73-75). Il reciproco rapporto tra i due moti dell'amore divino verso l'anima e dell'anima verso Dio, è brevemente spiegato in VI 34-42 (da confrontare con XXXI 37-42, ov'è detto della relazione tra pentimento e perdono).
d) Peraltro, se nel Purgatorio la beneficenza attiva e presente di Dio ha un forte rilievo, non mancano occasionali accenni alla sua misteriosa trascendenza rispetto alle creature. Tali accenni che anticipano un motivo ricorrente nel Paradiso, sono ravvisabili nell'improvvisa allusione alla Trinità e alla necessità di una certa umiltà da parte dell'uomo (III 34-39); nel risalto dato al nascosto consiglio di Dio in VI 121-123 (cfr. XXIX 120) e alla sua ineffabilità in XV 67; e, infine, nell'oscura affermazione sulla pianta che Dio solo a l'uso suo... creò santa (XXXIII 55-72); difatti, qualunque sia il suo più preciso significato, è certo che la pianta simboleggia una norma morale imposta alla vita umana e a cui l'uomo deve assolutamente conformarsi.
Paradiso. - Il Paradiso riassume e chiarifica tutte le idee di D. su Dio come creatore, motore e fine ultimo dell'universo.
Dio come creatore. - In principio Dio creò gli angeli, i corpi celesti e la materia informe, come d'arco tricordo tre saette (XXIX 22-36). Queste tre saette procedono da lui sanza mezzo; il che, fin da quel primo momento, non è vero per l'universo nel suo complesso, in quanto sin d'allora lo raggio e 'l moto dei corpi celesti, agendo sulla materia terrestre, trassero ininterrottamente alla vita le forme delle piante e degli animali (compreso il corpo umano). Tali forme risultano quindi prodotte da cause seconde, anche se queste ultime devono sempre derivare la propria efficacia dalla causa prima (VII 130-141, XIII 64-66; cfr. Ep XIII 53-57). Tutto il complesso della creazione mediata è un effetto dei cieli, gli organi del mondo (II 121-122; cfr. Mn II II 2-3) in quanto mossi e diretti dagli angeli e, in ultimo, da Dio (II 127-138, VIII 97-105, XIII 52-65, cfr. Ep XIII 56-81); D. tende a distinguere la creazione mediata da ciò che è creato sanza mezzo (e particolarmente dal mondo spirituale degli angeli e delle anime razionali), col riservare a quest'ultimo il termine di creato. Sicché, nel suo sistema, ciò che più propriamente è ‛ creato ' è lo spirito, mentre i prodotti delle cause seconde, della ‛ natura ', sono soltanto ‛ fatti '. Perciò l'intero complesso degli effetti della volontà di Dio ad extra è descritto come ciò ch'ella crïa o che natura face (III 87; cfr. VII 130-144). La produzione di questo complesso di effetti - creazione in senso lato - è descritta in quattro passi di rilievo (X 1-12, XIII 52-66, XIX 40-51, e XXIX 13-36). Nell'ultimo passo l'essenza della creazione in quanto tale, è definita come dono gratuito dell'essere, da null'altro dipendente che dal libero amore di Dio; perciò l'accento cade dapprima sull' ‛ aseitas ' di Dio, e poi sull'atto della sua volontà nel creare. Per contrasto, i passi dei canti X e XIII sottolineano l'elemento intellettuale: il mondo è un ordine che riflette il Verbo in quanto arte di Dio (X 1-12), ed emana dal Verbo come una graduale partecipazione, uno splendor... giù d'atto in atto, di quella viva luce (XIII 52-63). Il Verbo è posto nuovamente in risalto in XIX 40-51, ma in un senso opposto; non per affermare una partecipazione alla divinità del mondo creato, quanto piuttosto per affermare l'assoluta trascendenza di Dio: Dio, essendo infinito, non potrebbe manifestarsi nella creazione senza rimanere in infinito eccesso. In tal modo i quattro testi risultano complementari. Ma oltre la creazione di tutte le cose a D. interessa parimenti, se non più, di mostrare che ciò che caratterizza le creature spirituali è dovuto alla loro ‛ diretta ' derivazione, sanza mezzo, da Dio; il che risulta specialmente in VII 64-72, 127-144. Qui la creazione è vista come un'espressione della divina bontà, nel senso di un dono alle creature di qualità divine (bonum est diffusivum sui), quali l'immortalità e la libertà. Dono che potrebbe essere diminuito soltanto dalla mediazione delle cause seconde, qui escluse in via ipotetica. Il dono della libertà è messo in evidenza in altri luoghi (V 19-24; cfr. XXIX 15-18, Pg XVI 79-81). Diverso è il caso dell'attributo dell'immortalità: esso infatti cede il passo, nel disegno generale del Paradiso, al più dinamico tema, ovunque presente, del finalismo con cui la verità e il bene assoluto traggono a sé la creatura spirituale: derivando da Dio sanza mezzo, le potenze spirituali dell'intelletto e della volontà possono pervenire alla quiete solo in un contatto sanza mezzo con lui. E ciò avviene, sia in termini di bontà (ma vostra vita sanza mezzo spira / la somma beninanza, e la innamora / di sé sì che poi sempre la disira, VII 142-144; cfr. I 118-126, III 85-87, XXVI 16-18, XXXII 61-65, XXXIII 103-105), sia in termini di verità (Io veggio ben che già mai non si sazia / nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia, IV 124-126; cfr. I 7-8, V 7-12, XXVIII 107-108, XXX 100-102, XXXIII 44-54). Questo dell'intelletto e della volontà radicalmente orientati verso Dio è il tema di fondo del Paradiso.
Ciò nonostante Dio rimane ancora estremamente misterioso. Fonte degli attributi creati (citati a proposito del canto VII e ai quali si può aggiungere la giustizia, VI 88, XIX 88-90), egli è concepito come verità (XXXIII 54), come bontà (vv. 103-105), come unità (v. XV 76; cfr. XXVIII 41-42), come bellezza (XVIII 16, XX 77). Eppure tutta intera la creazione è appena l'orma della sua grandezza (I 106-107; cfr. XXIX 136-145) che da sola trascende in assoluto l'insieme dei vestigii della creazione (XIX 40-45; cfr. V 11) e dei concetti e linguaggi da lui creati (X 3, XXXIII 67-68). Tale misteriosa trascendenza di Dio D. suggerisce più oltre, e ampiamente, in due modi: in primo luogo, col perseguire e sviluppare quel tema (già notato a proposito del Purgatorio) dell'oscurità del consiglio divino, presupposto a ogni sua decisione (VII 95, XI 28-30, XX 118-120, 130-135, XXI 91-96, XXXIII 3); in secondo luogo, con espressioni iperboliche tendenti a mostrare la ‛ differenza ' tra il modo di essere divino (la profonda condizion divina, XXIV 142) e quello di ogni creatura: in questo senso Dio conosce in anticipo tutti i pensieri e gli eventi (XV 61-63, XVII 37-39, XXVI 103-108), e qualsiasi punto nel tempo e nello spazio, ogne ubi e ogne quando, è presente a lui e dentro di lui (XVII 17-18, XXIX 12, XXXIII 85-90, 109-110).
Dio come motore. - Questo tema è sempre talmente connesso a quello della creazione, che rimane poco da aggiungere a quanto già detto. Proprio perché Dio crea ogni cosa con amore, egli orienta tutta la creazione in segno lieto. Questo segno, questo compimento finale, differisce per ciascuna ‛ natura ', a seconda del posto che essa occupa nella scala dell'essere. Ogni ‛ natura ', quindi, e ogni cosa è sospinta da un istinto che in ultima analisi deriva da Dio (I 108-120). Istinto che è a un tempo ‛ impronta ' della bontà divina (VII 109; cfr. X 29) e attrazione del suo amore (III 85-87, XXXIII 145). Oltre a questo effetto naturale, e generale, dell'amore divino, consistente nel trarre a sé ogni cosa (cfr. XXVI 38-39), rimangono gli effetti soprannaturali. Questi ultimi possono venir riassunti nell'unione dell'umanità al Verbo nella persona di Cristo (VII 30-33), nel dono del lumen gloriae per la visione finale (XXX 52-54, 100-102) e il dono della grazia gratuita (XX 94-99, 118-129).
Dio come Fine. - Per questo aspetto sono da vedere le considerazioni fatte sotto il punto (a), ove si parla del tema del finalismo con cui la verità e il bene assoluto traggono a sé la creatura spirituale.
Bibl. - Manca uno studio organico e storicamente aggiornato sul pensiero teologico di Dante. Importanti contributi a tale sintesi si trovano nei tanti e nutritissimi saggi di B. Nardi, tra cui in particolare Studi di filosofia medievale, Roma 1960, e Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1967 (per gli altri contributi cfr. la lista completa degli Scritti di B. Nardi, a c. di T. Gregory e P. Mazzantini, in " L'Alighieri " IX [1968] fasc. 2, 39-58). Per la visione metafisico-religiosa nella tradizione neoplatonica, in senso lato, vedi E. Guidubaldi, Dante europeo, II, Firenze 1966 (Il Paradiso come universo di luce - La lezione platonico-bonaventuriana). Sempre utile, pur con l'impostazione tendenziosamente tomistica, il commento al Convivio di G. Busnelli, al quale va aggiunto (e non solo per la parte spettante al Convivio) Dante et la philosophie, di É. Gilson, Parigi 19532. Altri libri o articoli su vari punti dell'argomento: G. Marzot, Il linguaggio biblico nella D.C.,Pisa 1956; J.A. Mazzeo, Structure and thought in the Paradiso, Cornell Univ. Press 1958; R. Palgen, Ursprung und Aufbau der Komödie Dantes, Graz (Stiria) 1953; K. Foster, Dante's vision of God, in " Italian Studies " XIV (1959) 21-39; ID., The Mind in Love, in " Aquinas papers " XXV, Londra 1956; L.P. De Simone, Dante poeta della filosofia medievale, in " Sapienza " XVIII (1965) 4.
Il nome (nelle varie forme: ‛ Iddio ', ‛ Deo ', ‛ Die ') ricorre ancora in Vn XIX 8 23, 10 41, 11 46; If I 131, II 103, III 39, 63, 103, 108 e 122, IV 38, VII 19, VIII 60, XI 26, 31, 51, 74, 84 e 105, XIV 16 e 70, XIX 2, XX 19, XXIV 119, XXV 3 e 14; Pg II 29 e 123, III 126, IV 129, V 56 e 104, VI 42 e 93, VII 5, VIII 12 e 66, IX 104, X 108, XI 71 e 90, XIII 122, 124 e 146, XIV 79, XVI 18, 40, 123 e 141, XIX 76, 92 e 113, XXI 13 e 20, XXII 66, XXIII 81 e 91, XXVII 6 e 24, XXVIII 125, XXX 142, XXXIII 36, 44, 59 e 71; Pd I 105, II 29 e 42, IV 45, V 19, 27 e 28,VI 4, 23 e 111, VII 30, 47, 56, 91, 103, 115 e 119, VIII 90, IX 62 e 73, X 56 e 140, XII 17 e 132, XIII 33, XIV 89, XVI 143, XVII 33, XVIII 4, XX 110, 122 e 134, XXI 92 e 114, XXII 80, 83, e 95, XXIII 114 e 137, XXIV 4, 113 e 130, XXV 11, 63 e 90, XXVI 48, 56 e 109, XXVIII 24, 57 e 105, XXVIII 128, XXIX 21 e 77, XXX 97, 122 e 145, XXXI 107, XXXII 93 e 113, XXXIII 40; Cv I V 10, VIII 3, II III 11, IV 12 (due volte), V 2, 12 (due volte) e 17, XII 9, XIV 11 e 19, III II 7 (3 volte) e 17 (tre volte), IV 8, VI 5, 10 (due volte), 11, 12 e 13, VII 5 (due volte),e 17, VIII 2 (due volte), 15 e 22, XII 7 (due volte), 9, 11 e 14, XIII 2 e 7, XIV 3 e 4, XV 5, 6 e 10, IV Le dolci rime 120 (ripreso in XX 9 e 10) e 137, I 8, IV 9, 10 e 13 (due volte), V 3 (due volte), 5, 9, 10, 12, 17 e 20, VI 20, IX 2, 3 e 15 (due volte), XI 10, XII 14 e 17, XVI 1, XIX 7, XX 7 e 9, XXI 6, 11 e 12, XXII 11, 15 (due volte), 16 e 17, XXV 2 (due volte), XXVII 6, 9 (due volte) e 17 (due volte), XXVIII 2, 3, 5 (due volte), 7, 9, 10, 15, 17 (due volte) e 19 (due volte); Fiore I 11, XL 14, XLVII 9, LVII 7, LXII 6, LXVIII 5, XCIV 4, XCV 8, XCVI 2 e 5, XCVIII 9, XCIX 10, CX 4, CXIII 2, CXV 9, CXL 13, CXLIV 6, CLIII 12, CLIX 6, CLX 11, CLXIV 3, CLXX 6, CLXXVI 12, CXCIX 4; Detto 111, 139, 208, 252, 262, 364 (se Dio piace). L'espressione per Dio, di Pg XXIII 58, ricorre anche nel Fiore (XXII 2 e 12 [Per dio], XLIV 12, CXXXVIII 2, CCXVI 2, CCXXII 7, CCXXVII 1), dove sono inoltre da segnalare Per Dio merzè (CXXVII 9) e Dio merzè (XCVII 12; cfr. If II 91 I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, / che...) e nel Detto 106 e 326. La forma Deo è adoperata in Vn VII 4 11 e XXXVIII 2 e, in rima, in Pg XVI 108; Iddio in Cv II IV 15, VII 5, III II 4, IV 10, VI 5, XII 6, 8, 9 (due volte) e 11, XIII 10, XV 15 e 16, IV Le dolci rime 116 (ripreso in XX 6), V 9, 18 (due volte) e 19 (due volte), XIX 7, XX 3, XXI 10, XXII 13, XXIV 17, XXVIII 15; Pg XIII 117, Pd III 108, XX 138; Fiore LXVII 8, LXXXI 4, CII 12, CIX 6, CXIV 3, CXV 2, CC 5, CCIII 7; in LIII 3 e CCIV 5 ricorre l'espressione Iddio e tutti i Santi. Nella forma Die, in Fiore LXXX 4 né Die né Santi (che si ripete in CVII 4).
Con precisa allusione alle divinità pagane dell'Olimpo, anche nelle forme ‛ iddio ' ‛ deo ' ‛ die ' (e al plurale anche ‛ dii ', in rima), quasi sempre al plurale, in Cv II IV 6 Li gentili le chiamano Dei e Dee [con allusione alle Intelligenze... generatrici delle varie cose ed essempli, § 5 ]... e faceano loro grandissimi templi... sì come a Vulcano, lo quale dissero dio del fuoco; IV XV 8; IV 11 Virgilio nel primo de lo Eneida... dice, in persona di Dio parlando (si allude al discorso di Giove, in Aen. I 254 ss.); If I 72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi; XXXI 95, Pg XV 98, XXI 126, Pd I 69, Fiore CCXXI 3.
Altre volte vale invece più genericamente " divinità ": Vn II 8 Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di deo; Cv IV Le dolci rime 114 elli son quasi dei / quei c'han tal grazia fuor di tutti rei (ripreso in XX 3 e 4); If VII 87 questa [la Fortuna] persegue / suo regno come il loro li altri dèi; XIX 112 Fatto v'avete dio d'oro e d'argento; Fiore CCXXVII 5 (nella forma iddio). Per Pd V 123, Dì, dì / sicuramente, e credi come a dii, Scartazzini-Vandelli rimandano a s. Tommaso (Sum. theol. I 13 9c): " Est... communicabile hoc nomen Deus, non secundum suam totam significationem, sed secundum aliquid eius, per quandam similitudinem: ut dii dicantur, qui participant aliquid divinum per similitudinem, secundum illud: Ego dixi, dii estis [Ps. 81, 6] ". Cfr. anche Sum. theol. I 12 5c [ i beati] " efficiuntur deiformes, idest Deo similes ".
Frequentissima nel Fiore l'espressione Dio d'amor (o semplicemente Dio, ma con chiarissima allusione ad Amore: in V 11 nella forma Deo): I 1, II 4, VI 7, XIII 3 e 9, XXXVII 6, LXXVII 5, LXXVIII 1, LXXXI 1, LXXXV 13, CCI 2, CCVI 2, CCXVIII 9, CCXX 14, Detto 273. Anche nella forma Die: Fiore X 2, XV 12, XXXV 13, XXXVII 9, XLII 13, XLIX 10, LXXXIV 1, CIV 3, CXXVIII 7.