Nelle religioni monoteistiche, essere supremo, concepito e spesso adorato universalmente come eterno, creatore e ordinatore dell’Universo. Nelle religioni politeistiche, ciascuno degli esseri venerati come superiori all’uomo, dotati di personalità e immortali.
La fantasia creatrice di miti tende a fissare in modo concreto e preciso i caratteri distintivi degli esseri superiori, che essa riconosce agenti nel mondo della natura e degli uomini, i quali a loro si rivolgono nel culto. Ogni divinità del vero e proprio politeismo (in ciò distinto dal polidemonismo) acquista una personalità mitica e culturale; gli dei costituiscono una società organizzata in modo affine a quella umana, con vincoli di parentela e di più o meno stretta dipendenza gerarchica. Anche nei casi in cui la rappresentazione è aniconica o l’immagine si distacca da quella della figura umana, le qualità psichiche e morali e le azioni attribuite agli dei sono umane. Ciò si verifica, entro certi limiti, anche presso il popolo ebraico, il cui monoteismo si distingue nettamente nell’ambito dell’antichità precristiana.
Il pensiero greco pone il problema dell’origine, della natura e del fine dell’Universo e dell’uomo e, nell’atto in cui li affronta con cosciente chiarezza e coerenza logica, formula anche, già con Eraclito e Senofane, la critica radicale della religione politeistica tradizionale; pur conoscendo varie forme di ateismo e di polemica antireligiosa (Diagora, Crizia, Teodoro di Cirene), elabora un’alta e complessa teologia con Platone (dottrina del Demiurgo) e con Aristotele (D. come motore immobile, attualità pienamente realizzata e «pensiero di pensiero»). Questa teologia filtrata attraverso il panteismo fatalistico dello stoicismo confluisce nel più vasto ambito della religiosità ellenistica, preparando così le vaste elaborazioni teologiche del neoplatonismo.
Le differenze tra l’atteggiamento puramente religioso e quello meramente filosofico si fanno evidenti quando si considerino tre problemi fondamentali: natura di D., suoi rapporti con il mondo, sua conoscibilità. Rispetto al primo, dal punto di vista del pensiero razionale, D. può essere concepito ontologicamente come principio supremo della realtà (e quindi o come puro essere o come causa trascendente del mondo o come causa prima e insieme finale dell’Universo), oppure dal punto di vista logico (quindi come principio supremo dell’ordine del mondo, della ragione nell’uomo, della corrispondenza tra il pensiero e le cose) o anche assiologicamente come valore assoluto; il sentimento religioso, invece, si rivolge in vari modi a D. come persona.
Il problema del rapporto di D. con il mondo comporta sostanzialmente tre soluzioni: quella dualistica, o teistica, che considera Dio come trascendente, distinto dal mondo finito; quella monistica o panteistica, che lo considera invece come immanente al mondo; quella naturalistica che, in nome dell’autosufficienza della realtà naturale, nega la necessità di ricorrere a D. per spiegare la natura.
A proposito del terzo problema, quello della conoscibilità di D., le due tesi estreme sono quella che si può chiamare intellettualistica (e in pari tempo ontologica), per cui D. è oggetto di un’apprensione immediata dell’intelletto, e quella agnostica o dell’inconoscibilità di D. per l’intelletto umano: onde le correnti fideistiche o pragmatistiche, e simili, che insistono tutte sul concetto di D., secondo l’espressione di B. Pascal, sensibile (cioè percettibile) «al cuore, non alla ragione». A tali correnti si collegano in qualche modo quelle che, sottolineando non solo la trascendenza di D., ma anche la sua alterità rispetto al mondo finito, sostengono che l’essenza e gli attributi di D. possono essere definiti solo negativamente (via negationis o anche teologia negativa o apofatica), ossia pensando e dicendo quello che non è. Si contrappone a essa l’altra tendenza che, senza negare la trascendenza di D., ritiene che di lui e dei suoi attributi l’uomo possa pensare e parlare positivamente (via affirmationis o anche teologia affermativa o catafatica), considerando in lui gli aspetti e le forme della vita umana, affermati in modo eminente (via eminentiae), che però resta non definibile. A queste due posizioni, che possono essere anche meramente intellettualistiche, corrispondono però anche atteggiamenti religiosi diversi, per cui l’uomo può sentire, di fronte a D., soprattutto la propria pochezza, o addirittura nullità, oppure avvertire in sé, nel più profondo dell’anima, un raggio della divina sapienza e virtù: quella illuminazione interiore che rende possibile ogni conoscenza, quindi anche quella di D.; conoscenza che i primi cristiani chiamavano teopoiesi, unione con lui.
Alle diverse posizioni accennate si collegano, nella storia della riflessione filosofica e teologica, varie prove dell’esistenza di D., strettamente connesse a presupposti logici-metafisici storicamente determinati. Esse si possono classificare come: a) prove tratte da un’esperienza personale diretta, meramente religiosa o anche razionalizzata (per es., l’argomento ideologico, connesso con la dottrina dell’illuminazione interiore, di s. Agostino), o dall’universalità dell’esperienza religiosa (argomento morale: consenso universale del genere umano, che non può ingannarsi nell’ammettere un Principio supremo); b) prove relative al momento etico dell’idea di D., in quanto, pur con atteggiamenti diversi, riconoscono tutte l’esigenza di affermare l’esistenza di una legge morale suprema e assoluta, e quindi un legislatore (argomento deontologico); c) prove relative al momento teoretico, tra cui il cosiddetto argomento ontologico o a priori, che afferma l’esistenza di D. essere implicita nell’idea di lui come perfezione suprema, la prova cosmologica, che afferma la necessità di una causa prima, e quella fisico-teologica, per cui l’ordine del mondo dimostra l’esistenza di una potenza ordinatrice assoluta e di un fine supremo. Tra questi ultimi due generi di prove, fondate sulla causalità, e cioè a posteriori, hanno avuto particolare fortuna le ‘cinque vie’ di s. Tommaso d’Aquino, che, in base ai principi della filosofia aristotelica, argomentava l’esistenza di Dio: a) dal movimento (inteso come passaggio dalla potenza all’atto), che esige – nell’ambito di una fisica e metafisica aristotelica – un Primo motore immobile; b) dalle svariate cause efficienti, in quanto la ‘catena delle cause’, secondo Aristotele, non può essere infinita ed esige quindi una Causa prima; c) dalla contingenza del mondo, in quanto, poiché ogni cosa in esso appare condizionata da altre, deve esistere un Essere che è invece incondizionato e assoluto, avendo in sé la causa del suo essere e dell’essere delle cose contingenti; d) dalla diversità dei gradi di perfezione delle cose, per cui deve esistere l’essere che raccoglie in sé la perfezione assoluta; e) dall’ordine e dal presupposto finalismo del mondo, che rinviano a una Intelligenza e a una Volontà trascendente.
Mentre nelle teologie di altre confessioni cristiane si osserva una notevole varietà, dovuta all’influsso esercitato su di esse dalle diverse posizioni filosofiche prevalse volta a volta nel corso della storia moderna, le cinque vie di s. Tommaso sono divenute classiche nella teologia cattolica, la quale, in sintesi, afferma: a) che l’esistenza di D. può essere razionalmente dimostrata per inferenza dall’osservazione del mondo creato; b) che la natura di D., personale e trascendente, resta incomprensibile alla mente umana la quale può tuttavia affermare di lui – via eminentiae – tutte le perfezioni. Circa la natura di D. (oltre il suo essere uno e trino conoscibile solo attraverso la Rivelazione) le opinioni dei teologi restano differenti.
Il cristianesimo ha elaborato una complessa iconografia relativa alla divinità, non solo per scene narrative ispirate alle Scritture ma anche per immagini allegoriche, simboliche e figurali in grado di tradurre principi e idee fondamentali della religione. Se D. come Verbo incarnato permetteva di superare il divieto biblico della sua raffigurazione (➔ Gesù Cristo), furono create anche immagini a significare la terza Persona della divinità (➔ Spirito Santo) e il dogma trinitario (➔ Trinità). Un’iconografia propria è relativa alla prima persona (D. Padre) al di fuori delle figurazioni trinitarie.
Nell’Antico Testamento ricorre spesso a significare la potenza divina l’espressione «la mano di D.» e il mondo paleocristiano e altomedievale, come già quello ebraico del 3° sec. (Dura Europos), usò quest’immagine per raffigurare la divinità in mosaici, sarcofagi, miniature (scene della Creazione, della vita dei patriarchi, Battesimo di Cristo, Ascensione, Pentecoste). Situata sempre al vertice della scena, la mano di D. fuoriesce da nuvole o dai cerchi dei cieli, benedicente o chiusa a tenere un rotolo o una corona. È presente in ambito carolingio e ottoniano sia in scene bibliche sia in raffigurazioni allegorico-simboliche degli imperatori.
Già dal 6° sec. (Genesi Cotton, British Library), nei cicli della Creazione appare l’immagine antropomorfa di D., in sembianze mature o giovanili, spesso con il nimbo crociato, evidente richiamo all’identità delle prime due persone della Trinità. Solo molto più tardi, dal 13° sec., cominciò ad affermarsi l’immagine di D. Padre come vegliardo con evidente riferimento all’immagine dell’Antiquus dierum della visione di Daniele.