DIONISIO Trace (Διονύσιος Θρᾷξ, Dionysius Thrax)
Originario della Tracia, allievo di Aristarco in Alessandria, fiorito sin oltre la seconda metà del sec. II a. C., fu maestro a Rodi di Tirannione il Vecchio, che sì lunga azione personale esercitò in Roma, e forse anche di Elio Stilone, il maestro di Varrone e di Cicerone. Autorevolissimo fra gli aristarchei, tenne il campo dopo la morte del maestro. Sulle orme di Aristarco, infatti, ma con assoluta indipendenza di giudizio e di lavoro, si occupò molto di Omero, sembra in articoli e commenti, portando tanta passione ed evidenza nell'esegesi omerica da foggiare in Rodi un modello della coppa di Nestore secondo l'Iliade, XI, 632-35 (Ateneo, XI, 489 a). Fu infatti incisore, oltre che filologo, e pittore e retore. Un commentatore racconta ch'egli ritrasse in pittura il suo maestro Aristarco, con la figura (o maschera?) della tragedia sul petto, per significare la profonda conoscenza che egli ne aveva come filologo. Forse D. diresse solo l'opera di un pittore, come può aver diretto quella d'un toreuta per ricostruire la tazza di Nestore.
Ma l'opera a cui rimase legato per sempre il suo nome è la Grammatica, dal titolo incerto, ma che in ogni modo non era Τέχνη, come porta qualche manoscritto e la tradizione comune, in quanto τέχνη essa non vuol essere, ma ἐμπειρια: onde le critiche che le furono mosse. Libro breve e semplicissimo di fattura, e scolasticamente schematico, offre per la prima volta al mondo occidentale un'esposizione sistematica dell'organamento del linguaggio, compendiando tutto il sapere via via acquisito dalle scuole filosofiche, particolarmente dalla stoica, e dagli alessandrini, e rimane il fondamento d'ogni costruzione grammaticale posteriore attraverso i secoli. Adottato in Grecia nelle scuole fino al sec. XIII, variamente commentato dai dotti, penetrato in Roma con grandi maestri quali Varrone e Palemone, e quindi rimasto cardine della grammatica scolastica, tradotto e rielaborato nel sec. V nelle lingue armena e siriaca, sopravvive al Medioevo, ed è col Crisolora, col Gaza, col Lascaris il germe d'ogni grammatica moderna.
La linea sua è questa: definizione della grammatica; poi su su dagli elementi primi del linguaggio ai più alti fino a culminare nelle parti del discorso; vitia e virtutes orationis, ch'erano nella Τέχνη stoica e di là saranno fin da principio nella romana, qui mancano. L'influsso stoico però anche su Dionisio è evidente già nell'idea madre di delineare e raccogliere in un sistema le categorie più semplici della grammatica e del dire, nonché nella graduale linea costruttiva, e poi in partizioni, definizioni, terminologie speciali, per esempio quelle dei casi. Ma gli elementi stoici sono rielaborati insieme con gli alessandrini; e così la definizione della grammatica come filologia in senso lato e la sua suddivisione in sei parti, cioè, oltre che il leggere con retta pronunzia (1, ἀνάγνωσις), l'esegesi dei testi nelle immagini poetiche (2), nelle parole e nelle cose (3), l'etimologia (4), l'analogia o paradigmi della flessione (5), la critica (6), poggia sostanzialmente sulla concezione degli alessandrini, dove la lingua è considerata sotto il punto di vista dell'esegesi testuale, non a sé: onde poi l'essenza della grammatica di Dionisio non risponde alla sua definizione e ripartizione che in misura minima: il che non sarà più in posteriori sistemi costruttivi della grammatica, pur non giungendo mai gli antichi a intendere grammatica nel senso nostro di pura teoria della lingua, e limitandola di fatto a ciò solo molto tardi, già sulle soglie del Medioevo. Lo spirito alessandrino di codeste premesse si rivela subito in un particolare: l'analogia assunta a elemento costitutivo della grammatica, quale sussidio manifestamente per la critica del testo e per l'esegesi. E da Aristarco deriva la dottrina delle otto parti del discorso; dalla filologia in genere, varî sviluppi ulteriori rispetto allo stoicismo delle categorie e dei termini grammaticali. La flessione propriamente detta e la sintassi non sono in Dionisio. L'opera ci è giunta con additamenti già molto antichi e noti ai grammatici romani: gli scoliasti ci conservano l'originale più breve. Di mettere in dubbio l'autenticità del libro così come c'è rimasto, non v'è ragione.
Bibl.: Le poche notizie biografiche (in Suida, sotto la voce D. e sotto Τυραννίων, e in altri) sono vagliate criticamente da M. Schmid, in Philologus, VII (1852), p. 360 segg.; VIII (1853), pp. 231 segg., 510 segg., dove si trovano pure raccolti i frammenti. Cfr. anche A. Hillscher, in Jahrbücher für Philologie, Suppl. XVIII (1891), p. 360 seg.; G. Funaioli, Gammaticae Romanae fragmenta, Lipsia 1907, p. xii; K. Barwick, Reminius Palaemon, Lipsia 1922, pp. 90 segg., 215 segg.; si aggiunga H. Steinthal, Geschichte der Sprachwissenschaft, II, Berlino 1891, p. 189 segg. - Manoscritti più autorevoli: Monacense gr. 310, sec. X: Leidense Voss. gr. 76, sec. XI; Grottaferratense, secoli XI-XII: accanto, le traduzioni antiche. - Edizione principe di J.A. Fabricius, Bibliotheca graeca, VII (1715), p. 26 segg., da un codice Vaticano; quindi J. Bekker, in Anecdota graeca, Berlino 1816, p. 629 segg., con scolî. Ottima l'edizione di G. Uhlig (Lipsia 1883), basata sulla tradizione più antica. Supplementi in P. Egenolff, in Bursians Jahresbericht, XLVI (1886), p. 116 segg. Gli scoliasti, editi per la prima volta in ampia misura da J.-B.-C. Villoison, in Anecdota graeca, Venezia 1781, II, p. 101 segg.; poi al completo a A. Hilgard, Lipsia 1901. Si veda U. v. Wilamowitz, in Hermes, XXXVII (1902), p. 321 e in genere L. Cohn, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 977 segg. Per l'opera di D. nelle arti figurative, cfr. B. Sauer, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, IX, Lipsia 1913, p. 318; E. Pfuhl, Malerei und Zeichnung d. Griechen, Monaco 1923, II, p. 828.