La parte della linguistica che studia la connessione di unità minori a formare unità maggiori. In questo senso si parla anche di fonetica sintattica (o sandhi, con il termine della grammatica sanscrita) per indicare i fenomeni che risultano dall’accostamento dei suoni nella catena parlata.
La s. per eccellenza è considerata quella che studia la frase, come composta di parole. Questa definizione, che nasce dalla distinzione tradizionale della linguistica in fonetica (studio dei suoni), lessicologia (studio del vocabolario), morfologia (studio dei procedimenti flessivi e derivativi) e s., risalente attraverso formulazioni più o meno consimili all’antichità greco-latina, ha suscitato non poche perplessità nella moderna linguistica teorica. Un primo ordine di problemi nasce dalla scelta della ‘parola’ (termine tanto chiaro e accessibile nel senso comune quanto difficile da definire su basi rigorosamente scientifiche) come costituente sintattico minimo. Alcuni linguisti, per es., considerano come unità sintattiche indivisibili anche sequenze di due o più parole; altri, al contrario, individuano i costituenti minimi in segmenti di parole (radice, desinenza ecc.). Inoltre, a prescindere dal tipo di costituente minimo prescelto come punto di partenza per il modello di analisi in costituenti di maggiore complessità (parola, sintagma, proposizione, periodo ecc.), è indubbio che qualsiasi studio di rapporti sintattici impone una doppia considerazione delle connessioni: sul piano della forma (per es., la concordanza in genere e numero ecc.) e sul piano del contenuto (il ‘significato’ del rapporto, sovrapposto ai significati lessicali dei singoli elementi). Così in molti casi l’analisi sintattica è resa possibile dall’interpretazione del significato lessicale dei termini compresenti, o, viceversa, l’individuazione del senso esatto delle parole è subordinata a quella della loro funzione sintattica. Ma la distinzione più difficile da attuare su basi rigorose è quella tra morfologia e sintassi. Il problema è stato a lungo controverso tra i teorici e non si è giunti a una soluzione soddisfacente. Il tentativo di fondare la discriminazione sul fatto che la morfologia concernerebbe esclusivamente il piano della forma (secondo l’etimologia stessa del termine) e la s. quello del contenuto (il ‘significato’) è apparso illusorio in quanto entrambe in realtà operano tenendo conto dei due piani. Per questo oggi si tende spesso a riunire le due discipline in una sola, designata come morfosintassi.
Per i grammatici greci il termine σύνταξις indicava varie specie di ‘organizzazione’ linguistica: la composizione lessicale, i contrassegni morfologici dei collegamenti di parole, i valori sintattici dei casi, le reggenze dei verbi, il significato dei tempi verbali, la sequenza stessa del discorso, oltre all’organizzazione delle parole nella frase. Quest’ultima accezione compare dapprima in Crisippo e poi nel primo vero e proprio trattato di s. scritto da Apollonio Discolo (2° sec. d.C.). Le notevoli diversità sintattiche del latino rispetto al greco stimolarono i grammatici latini a dare un’elaborazione teorica ai fenomeni sintattici della loro lingua e le cognizioni da essi raggiunte (la messe più copiosa di informazioni si rinviene in Varrone e Quintiliano, e poi in Prisciano, Donato e altri) restarono patrimonio del Medioevo fino a che la filologia umanistica non riuscì a dare una descrizione più dettagliata della s. latina, soprattutto nella sua forma ciceroniana. Il Medioevo trascurò quasi del tutto la ricerca sintattica; tuttavia molti contributi alla semantica, con accenni importanti alla s., contenuti nelle grammatiche ‘speculative’ (quali il De modis significandi di Tommaso di Erfurt, 1350 ca.) sono stati rivalutati dagli studiosi della storia della linguistica.
L’anno 1660, con la pubblicazione della Grammaire générale et raisonnée di C. Lancelot e A. Arnaud (redatta nel convento di Port-Royal, da cui prese il nome), segna l’inizio del definitivo affermarsi della s. logicizzante, basata sul parallelismo logico-grammaticale. L’introduzione dei termini ‘soggetto’ e ‘predicato’ nella terminologia grammaticale risale appunto a quest’epoca (sebbene essi fossero già presenti in Boezio). Fino alla fine del 18° sec. lo studio della s. fu strettamente connesso con quello della logica; contribuirono allo sviluppo di tale tendenza pensatori come C. Wolf, A.F. Bernardi, J.S. Vater, G. Hermann.
I grammatici di questo periodo s’interessarono quasi esclusivamente delle lingue classiche e in particolare della lingua latina. La conoscenza di sempre più numerose lingue con strutture sintattiche peculiari portò successivamente alla detronizzazione delle categorie sintattiche del latino, che per lungo tempo erano servite per interpretare e descrivere s. di lingue diverse, spesso non senza far violenza al materiale d’indagine. La considerazione storica delle lingue orientò sempre più le ricerche verso la psicologia e la fisiologia piuttosto che verso la logica: si cercarono cioè i processi psicologici e fisiologici che sono alla base del funzionamento di una lingua e della sua evoluzione. L’orientamento psicologistico si affermò definitivamente con H. Steinthal, che applicò alla linguistica la psicologica herbartiana. Gli studi teorici di s. procedettero di pari passo con quelli pratici, storici e descrittivi. Contributi notevoli furono dati da A. Schleicher, F. Diez, F. Max Müller, W.D. Whitney e poi dai ‘neogrammatici’ (H. Osthoff, K. Brugmann, P. Wegener, e altri), che sulla scia del pensiero precedente ricercarono i fenomeni psichici sottostanti alle ‘leggi fonetiche’ e all’analogia, che consideravano come le due forze determinanti dell’evoluzione linguistica. Dal punto di vista teorico, di grande interesse sono gli studi di H. Paul, G. von der Gabelentz, B. Delbrück e J. Ries; di orientamento essenzialmente pratico sono le ricerche di A. Tobler e W. Meyer-Lübke.
La s. ottocentesca accentrò la sua attenzione sulla teoria della proposizione: parallelamente però venne elaborata una s. della proposizione complessa, cioè del ‘periodo’, che trattava della combinazione delle proposizioni all’interno delle frasi e della classificazione delle proposizioni in indipendenti, coordinate, subordinate. La s. dei primi decenni del Novecento seguì sostanzialmente gli indirizzi del periodo precedente. Importantissima, dal punto di vista teorico, l’eco suscitata all’inizio del secolo (1900) dalla Völkerpsychologie («Psicologia dei popoli») di W. Wundt, che rappresenta il primo tentativo di superamento della linguistica d’ispirazione herbartiana. Parallelamente si svolse il superamento (da H. Schuchardt, a K. Vossler) delle concezioni neogrammatiche, mentre proseguì intensa l’attività di ricerca concreta, particolarmente in Francia e in Germania.
F. de Saussure distinse l’asse paradigmatico in cui un elemento realizzato in una frase si oppone a tutti gli altri che avrebbero potuto essere scelti al suo posto, dall’asse sintagmatico in cui un termine realizzato in una frase contrasta con gli altri termini realizzati nella stessa, e coniò il termine sintagma. Una teoria della s. è elaborata dai suoi successori: H. Frei, a cui si deve il termine monema per indicare le entità significative minime, e altri strutturalisti di diverso orientamento (G. Guillaume, O. Jespersen, L. Tesnière). Dallo strutturalismo americano (in particolare con L. Bloomfield) era stato intanto elaborato un metodo di analisi sintattica, chiamato analisi in costituenti immediati, che opera la segmentazione della frase in base alle possibilità di sostituire i pezzi che la compongono con altri che diano sempre una frase grammaticale. Per i seguaci di Bloomfield la s. applicata a una serie di testi di una lingua doveva dare liste chiuse di tipo di frase e di elementi possibili nei vari contesti.
Da tale analisi prese l’avvio la riforma e la rivoluzione di N. Chomsky. Riforma, perché la grammatica generativa da lui ideata (➔ generativismo) comprende pur sempre come sua componente (sotto il nome di componente sintagmatica) una parte di analisi in costituenti immediati; rivoluzione, perché non si pretende più di applicare questo metodo a tutte le frasi di una lingua, ma solo ad alcuni tipi di frase più semplici, mentre per le altre è necessario dotare la s. di nuovi strumenti, e cioè le regole di trasformazione. Chomsky, considerando la creatività sintattica il carattere più importante di una lingua, elaborò la s. come il meccanismo capace di generare (cioè produrre, e anche riconoscere) l’infinità di frasi che compongono una lingua, utilizzando delle regole (regole di riscrittura) che consentano di passare da un livello di costituenti a un altro. Di questo procedimento un’immagine adeguata è quella di un diagramma ad albero rovesciato che abbia in alto, alla radice, il simbolo fondamentale e poi via via alle varie diramazioni quelli delle classi di costituenti (un tale grafo si chiama indicatore sintagmatico). L’analisi sintagmatica viene resa così da Chomsky generativa (e il tipo precedente viene detto allora tassonomico, di semplice catalogazione del dato), e poi formalizzata, cioè dotata di modelli matematici tratti dalla teoria algebrica delle grammatiche formali. Nella teoria di Chomsky dunque, detta anche trasformazionale, ai tipi di frasi semplici prodotti dagli indicatori sintagmatici si applicano regole speciali che li trasformano in altri tipi più complessi (e mostrano in questo stesso modo il legame tra tipi diversi). Le frasi attive, per es., sono prodotte dal componente sintagmatico, quelle passive risultano da queste con l’applicazione di una trasformazione. Chomsky diede la prima esposizione generale delle sue teorie nel 1957 con Syntactic structures, e una seconda concezione, assai diversa, nel 1965 con Aspects of the theory of syntax. Qui il componente sintagmatico non genera più direttamente alcun tipo di frase, ma solo ‘strutture profonde’, collegate dalle trasformazioni alle strutture superficiali emergenti.
Le evoluzioni recenti della teoria della s. sono dovute al diverso atteggiamento preso nei confronti della semantica. Per il primo Chomsky, la s. doveva essere formale, e cioè prescindere completamente dal significato delle entità manipolate, ma in seguito ha ammesso un componente interpretativo-semantico, una sorta di dizionario, che traduceva in concetti le espressioni presenti nella struttura profonda. Un’altra corrente (detta semantica generativa) vuole invece che la natura stessa della struttura profonda sia semantica, nel senso che rispecchierebbe l’organizzazione logico-psicologica dei processi cognitivi (➔ semantica). Nel 1934, con la Logische Syntax der Sprache, R. Carnap aveva proposto ai linguisti di costruire la teoria formale delle forme linguistiche di un linguaggio riferendosi non al significato ma alla specie e all’ordine dei suoi termini. Questa posizione fu ripresa nello stesso ambito filosofico da C. Morris, che con Foundations of the theory of signs (1938) distinse tre diversi punti di vista da cui considerare ogni linguaggio: il profilo sintattico (e cioè dei rapporti dei segni tra loro), quello semantico (dei rapporti dei segni con gli oggetti che designano), e quello pragmatico (della relazione dei segni con i soggetti che li usano). A queste posizioni si sono rifatte altre teorie sintattiche, fra cui va citata almeno quella delle grammatiche categoriali inaugurata da K. Ajdukiewicz. Le più recenti tendenze si indirizzano esplicitamente verso una s. semantica.
La fonetica sintattica riguarda quei fenomeni fonetici che avvengono non nell’interno di singole parole ma nell’incontro di parole diverse appartenenti a una stessa frase fonetica (cioè a una stessa frase non nel senso di proposizione grammaticale, ma nel senso di gruppo di parole pronunciate di seguito). L’incontro di parole diverse, intimamente congiunte per la pronuncia, può dar luogo a una modificazione sia della prima di esse (di solito, della sua sillaba finale) sia della seconda (di solito, della sua sillaba iniziale) sia di entrambe (➔ anche sandhi). La fonetica sintattica, ricchissima nei dialetti, nella maggior parte delle lingue di cultura si trova a essere limitata e come imbrigliata dall’ortografia, che tende a stabilire una forma unica per ciascuna parola indipendentemente dalle eventuali modificazioni di pronuncia dovute alla posizione nella frase. I principali fenomeni di fonetica sintattica dell’italiano si possono esaminare tenendo distinti i possibili incontri di parole secondo la natura dei suoni che vengono a trovarsi a contatto nella frase.
A una parola che finisce per vocale ne può seguire un’altra che comincia pure per vocale. Se entrambe le vocali portano l’accento tonico, si forma uno iato (es., vorrà essere); se lo porta solo l’iniziale della seconda parola, si può avere un dittongo ascendente o uno iato (es., vorranno essere); se lo porta solo la finale della prima parola, si può avere un dittongo discendente o uno iato (es., vorrà uscire); se entrambe le vocali sono atone, si forma un dittongo, per lo più ascendente (es., vorranno uscire). Nelle condizioni in cui si possono formare dittonghi ascendenti, si può avere, invece del dittongo, la caduta della vocale stessa: caduta che si qualifica come troncamento (e non si segna con l’apostrofo) quando la parola finisce per vocale + l, n, r + vocale (e quest’ultima può cadere anche davanti a consonante), si qualifica invece come elisione (e si segna con l’apostrofo) nei rimanenti casi. La caduta della vocale nella lingua scritta è obbligatoria solo in posizioni o locuzioni o parole determinate (per es., quell’oggetto, l’amico, signor Antonio, un’ora). La preposizione a e le congiunzioni e e o possono prendere un -d eufonico davanti a vocale (es., ad ognuno, ed insieme).
A una parola che finisce per vocale ne può seguire un’altra che comincia per consonante. In alcuni casi si può modificare la prima parola, in altri la seconda, più spesso nessuna delle due. Della prima parola si può avere il troncamento, se essa finisce per vocale + l, ll, n, nn, r + e, i, o; e il troncamento (che comporta l’eventuale scempiamento di ll, nn) è obbligatorio in determinati incontri (es., quel gatto, dottor Rossi, ben detto, buon giorno), facoltativo in altri (es., nobil guerriero, amor costante). Si troncano inoltre i sostantivi suora, frate, santo davanti a nomi di persona, l’aggettivo grande, l’avverbio ora e composti (per es., san Pietro, gran Dio). Più frequente è il caso che si modifichi, ma solo nella pronuncia (nella scrittura, limitatamente alle parole composte), la consonante iniziale della seconda parola. Questa consonante, che di seguito a una vocale è normalmente di grado tenue (fatta eccezione per l’-, n’-, š-, z-, ʒ-, che sono sempre di grado rafforzato, e per le iniziali di gruppi consonantici, che non siano quelli di muta più liquida, le quali sono sempre di grado medio), passa al grado rafforzato quando nella frase viene a trovarsi preceduta da determinate parole (es., cacciò via ‹kaččò vvìa›, sopra l’albero ‹sópra ll àlbero›): è questo il fenomeno del raddoppiamento, o rafforzamento, sintattico.
A una parola che finisce per consonante ne può seguire un’altra che comincia per vocale. È, in italiano, un caso eccezionale (es., gas asfissiante); le poche volte che si presenta, può dar luogo a un rafforzamento della consonante finale, a cui peraltro non sono soggette le sole parole italiane in consonante che siano d’uso comune, cioè le proclitiche con, in, non, per.
A una parola che finisce per consonante ne può seguire un’altra che comincia per consonante. È, anche questo, un caso eccezionale (es., gas liquido); non dà luogo, in generale, a modificazioni di pronuncia nell’una o nell’altra delle due parole.
Sono infine da considerare i riflessi che la posizione della parola nella frase può avere sull’accentazione e sulla sillabazione. Per quanto riguarda l’accentazione, gli accenti delle parole, se non c’è particolare motivo d’insistere su di esse, si possono indebolire fino a perdersi del tutto nel caso che si trovino a ridosso di un’altra sillaba più fortemente accentata. L’ortografia non tiene conto delle alterazioni d’accento dovute alla posizione della parola nella frase. La sillabazione negli incontri di parole segue le stesse regole di quella all’interno di parola; l’ortografia tiene conto di una sillabazione sintattica solo quando c’è un apostrofo (per es., u-n’altra, e invece un - altro).
In logica matematica, nello studio di una teoria formalizzata, la s. è quella parte della metateoria che studia le proprietà degli elementi del linguaggio oggetto, indipendentemente dal loro significato, cioè senza riferimento all’universo della teoria oggetto. Il linguaggio della s. (metalinguaggio sintattico) contiene tra i propri segni quelli che denotano gli elementi del linguaggio oggetto e non quelli che denotano gli elementi dell’universo della teoria oggetto.