In linguistica, mezzo morfologico molto usato, che può consistere nella ripetizione della parola (it. piano piano), o in quella della radice più o meno mutilata (lat. mur-mur-are) o della prima consonante della radice più una vocale che può regolarsi o no su quella radicale (come nei perfetti: lat. ce-cin-i «cantai»). R. (o rafforzamento) sintattico Fenomeno di fonetica sintattica proprio della lingua italiana, per cui determinate consonanti iniziali di parola, quando nella frase vengono a trovarsi di seguito a determinate parole uscenti in vocale, passano al grado rafforzato, ossia si pronunciano come se fossero scritte doppie: per es., a me ‹a mmé›, come questo ‹kóme kku̯ésto›. L’ortografia moderna tiene conto del fenomeno solo quando le due parole si scrivono unite: per es., allato o a lato, affianco e a fianco. Le ragioni storiche del r. si possono ridurre a tre: a) le occlusive latine finali di parola sono cadute, ma le finali di proclitica hanno lasciato, quando si sono trovate all’interno di frase, quella stessa traccia che avrebbero lasciato all’interno di parola: si è avuto così a me ‹a mmé›, lat. ad me, come ammettere, dal lat. admittere; b) l’assimilazione della consonante caduta alla consonante iniziale seguente si è in seguito estesa per analogia ad altri casi in cui l’incontro delle consonanti avrebbe dovuto dare un risultato diverso: si è così avuto tre cani ‹tré kkàni›, lat. tres canes, di fronte a nasco, lat. nascor; c) il r. della consonante iniziale si è infine generalizzato in tutti i casi in cui la parola precedente finisca in vocale tonica, di qualsiasi origine, essendo brevi tutte le vocali finali italiane, toniche o atone, e non ammettendo l’italiano normale una sequenza di vocale tonica breve + consonante di grado tenue, nella fonetica della frase come in quella della parola isolata.
Quali parole in concreto vogliano il r. e quali no, si può esporre in poche regole: a) vogliono dopo di sé il r. tutte le parole terminanti con vocale che porta l’accento scritto (ché, ciò, dà, già, giù, là, né, canterò, città ecc.); quindi si pronuncia: già fatto ‹ǧa ffàtto›; giacché ci sei ‹ǧakké čči sèi›; b) vogliono dopo di sé il r. tutti i sostantivi, aggettivi e pronomi (forti) monosillabi uscenti in vocale semplice (es., gru, re; Bra, blu; le note musicali do, re, mi ecc.; le lettere a, bi, ci ecc.; i pronomi forti me, te, tu ); quindi si pronuncia: un bi corsivo ‹um bi kkorsìvo›; a me lo dici? ‹a mmé llo dìči›; c) vogliono dopo di loro il r. i seguenti bisillabi piani: come, contra (non contro), dove, ove, qualche, sopra. In questi casi però il r. viene meno tutte le volte che i bisillabi in questione non si appoggino nemmeno in parte, per il senso e soprattutto per l’accento, alla parola che li segue. In particolare, nessun bisillabo vuole il r. se è sostantivato; né lo vogliono contra e sopra usati come avverbi. Quindi si pronuncia: una sopra l’altra ‹ùna sópra ll àltra›, ma sopra c’era l’altra ‹sópra č èra l àltra›; d) vogliono dopo di sé il r. tutte le parole che producono il r. scritto quando entrano nella formazione di parole composte (per es., a, che, chi, da, do, fa, fra, ha, ma, no, qua, qui, sa ecc.; cfr. per es., le voci composte abbasso, chicchessia, davvero); e) la seconda persona dell’imperativo dei verbi andare, dare, dire, fare, e stare ha due forme: una tradizionale, va, dà, dì, fa, sta, che è identica alla terza persona dell’indicativo (salvo per dire) e vuole come questa il r., espresso anche dalla scrittura nella composizione con particelle enclitiche (es., vammi, dammi, dimmi, fammi, stammi); e una forma più moderna va’ o vai, da’ o dai, di’, fa’ o fai, sta’ o stai, che è identica alla seconda persona dell’indicativo (salvo per dire) e che, anche quando si presenta col dittongo ridotto a vocale semplice (com’è la regola, se non si trova in posizione isolata o finale di frase), non vuole il raddoppiamento. Quindi si pronuncia: va via ‹va vvìa› o va’ via ‹va vìa›; fa vedere ‹fa vvedére› o fa’ vedere ‹fa vedére›; f) quando si reduplica, non per ripeterlo ma solo per rafforzarlo, uno dei monosillabi che vorrebbero dopo di sé il r. sintattico, questo si fa di norma la seconda volta soltanto. Per es., giù giù per la china ‹ǧu ǧu pper la kìna›.
Il r. è sempre determinato, come regola generale, dalla parola che precede. Unica eccezione ammessa nella lingua letteraria: dio, dei, e per analogia dea, dee. L’eccezione è confermata per il sing. dio dalla scrittura di alcune parole composte (iradiddio, vivaddio), per il plur. dei da un fatto di sintassi (gli dei, con l’articolo gli che non si mette mai davanti a consonante di grado tenue). L’applicazione delle regole sul r. è sottoposta ad alcune condizioni generali: a) non sono soggette a r. quelle consonanti iniziali che sono sempre doppie quando si trovano tra vocali: z sorda, z sonora, gl(i), gn, sc(i): cfr. uno zio e tre zii; b) non sono soggette a r. quelle consonanti iniziali che sono seguite da altra consonante (eccettuato il caso dei gruppi p, b, f, v, t, d, c, g + l, r): cfr. pare strano e è strano; c) il r. può essere impedito: da una pausa; da un allungamento della vocale precedente (che può esser giustificato da ragioni stilistiche); da un forte dislivello di tono musicale. Tenuto conto di tutte queste condizioni, si può dire che, in pratica, per ogni caso di r. sintattico si hanno in media tre casi di incontro senza r. (e senza pausa) tra vocale finale e consonante iniziale di grado tenue.